Autore: Antonio Brusa

Introduzione

Troppo spesso, quando si parla di “memoria collettiva”, si accetta il gioco asfittico imposto dalla politica e del talk show. Ci sfugge la storia complessa di questo costrutto. Ci sfugge la sua geografia, altrettanto complessa. Questa nostra incapacità ci impedisce di cogliere la portata dell’immane conflitto memoriale che l’avvento della globalizzazione ha scatenato nel mondo: il nostro rapporto con la modernità. Di noi uomini e donne del XXI secolo, occidentali e no. Dentro questa grande contesa, si situano i conflitti e i problemi memoriali locali (come quello italiano) e circoscritti, come quello che ci pone di fronte ai fatti tragici della Seconda guerra mondiale. Questo conflitto, lo anticipava negli anni ’70 Jacques Le Goff, richiede allo storico un nuovo impegno, volto alla democratizzazione di una “memoria collettiva”, sulla quale in troppi, oggi, mettono le mani. In questo processo di democratizzazione della memoria sta, a mio modo di vedere, il contributo più importante che la storia può dare all’educazione alla cittadinanza. (Ringrazio Isral, Istituto storico della Resistenza di Alessandria, per aver concesso la ripubblicazione di questo articolo, originariamente in L. Ziruolo (a cura di), I luoghi, la storia, la memoria, Alessandria 2007)


Memorie ad alta voce

All’uscita del campo di Mauthausen, con lo sguardo ancora oppresso dal granito di quella fortezza-prigione, entriamo nel “giardino delle memorie”, dove si innalzano ventuno monumenti, in ricordo delle vittime di altrettante nazionalità. Qui si vedono le architetture del mondo comunista, della Bulgaria, dell’Unione sovietica o dell’Ungheria, che, sul solco del realismo eroico, trasformano  il dolore nell’esaltazione della vittoria sul nazismo. Altre opere, invece, come quelle della Germania Orientale, dell’Ucraina o della Slovenia, sollecitano la compassione per le vittime. Molti sono i  monumenti aniconici, che sembrano dichiarare l’indicibilità dei sentimenti: il muro, per l’Italia, la Jugoslavia o i Sinti e i Rom; la colonna o la stele per la Cecoslovacchia, la Grecia, la Francia; la tomba, per la Polonia e l’Olanda.1

monumento agli ebrei ungheresi 

monumento alle vittime italiane 

monumento alle vittime ceche               

 

In questo campo del ricordo ci aggiriamo, ancora al principio del nostro ventunesimo secolo, mentre la voglia di studiare e di capire (e il mestiere inguaribile dello storico) prendono di forza il sopravvento. Trent’anni fa, quando il memoriale fu completato, questa era la gamma del rammemorare: dal silenzio dell’indicibile al trionfo della rivincita. Era un gradiente, declinato nei modi propri di ciascuna nazione. Infatti, non c’è soltanto la reminiscenza del passato nel memoriale di Mauthausen. C’è anche la geografia dell’Europa, prima della caduta del Muro di Berlino. Essa è leggibile, come è ovvio, nel nome nazionale, ma si mostra chiaramente nella concezione stessa del monumento. Dal realismo sovietico fino alla razionalità tedesco-occidentale, dalla colonna greca fino alla menorah stilizzata, riconosciamo i marchi identitari delle ventuno nazioni che proclamano, con questo memoriale, la loro sopravvivenza allo sterminio.

 
Memorie in silenzio

Nel 1986 venne inaugurato a Hamburg-Harburg, nel nord della Germania, il monumento Contro il fascismo, ideato da Esther Shalev-Gerz e Jochen Gerz. Chi oggi lo vuol visitare, troverà al suo posto solo una lapide con una scritta. Venti anni fa, invece, il monumento era un imponente pilastro quadrangolare, rivestito di lastre di piombo, alto 12 metri. Accanto vi era uno stilo con cui si poteva scrivere sul metallo, in modo indelebile, mentre un cartello in sette lingue invitava i cittadini a incidere i loro pensieri sul fascismo. Man mano che le pareti del pilastro si riempivano di scritte, il monumento si immergeva. Nel 1993 è scomparso del tutto, e la lapide, che ne segnala l’interramento, dice: “… perché nel tempo niente potrà alzarsi al nostro posto contro l’ingiustizia”.2

monumento Contro il fascismo...prima e...                                                             ...dopo


Chi oggi visita Contro il fascismo, viene sommerso da pensieri e da sentimenti, diversi da quelli che si provano al memoriale di Mauthausen. Riflette, innanzitutto, sul fatto che c’è una memoria che si coltiva nel pudore e, dunque, è antagonista della pubblica ostentazione; sul fatto che la memoria  è personale, implica il coinvolgimento individuale, e non può essere sostituita dalla pietra: per quanto questa sia una metafora efficacissima di eternità e coerenza, mentre la nostra capacità di ricordare è inevitabilmente frammentaria e caduca. E’ costretto a considerare che la memoria cambia nel tempo e che, perciò, non possiamo che erigere monumenti all’oblio.3


La memoria non è un soggetto reale

Questi due esempi di commemorazione monumentale ci mostrano, più che due diverse accezioni di memoria, due universi memoriali, due linguaggi o due modi di pensare così lontani fra di loro, che potrebbero appartenere a epoche o a società diverse. Ce lo conferma Joël Landau, nel racconto della sua esperienza di studioso. Al principio, spiega, quando aveva cominciato i suoi studi sulla memoria, gli sembrava che questa fosse un soggetto. Un qualcosa di unico, individuabile: e quindi, da preservare, custodire, oltre che da studiare. C’erano, allora, gli studi di Maurice Halbwachs, il collega di Marc Bloch, precursore di tutti i lavori sulla memoria collettiva, e due ipotesi sulla sua natura: che questa fosse una sorta di sostanza superindividuale; oppure che fosse un corredo di conoscenze condivise, possedute, cioè, contemporaneamente da più individui.

Entrambe erano due ipotesi “realistiche”; entrambe sono state smentite dalle ricerche successive. Infatti, numerosi studi empirici hanno mostrato che nei grandi gruppi nazionali è molto difficile trovare conoscenze realmente condivise (come accade invece nei piccoli gruppi e nelle famiglie). Dal canto loro, le ricerche neuro-psicologiche e filosofiche hanno messo in chiaro che le memorie sono soltanto individuali. “Ogni spirito/cervello è unico – conclude la sua rassegna Landau – e i nostri stati mentali sono incommensurabili”.


La metafora della “memoria collettiva”

Ma un tale chiarimento non è riuscito a scalfire l’importanza sociale della “memoria collettiva”. Anzi, l’idea che questa esista realmente è diventata così solida e diffusa, da dar luogo ai recenti “conflitti di memoria”: contese politiche, culturali, a volte militari, scatenate in nome di un ricordo, che si vuole comune.
Quando noi parliamo di “memoria collettiva”, prosegue lo studioso, indichiamo “quell’insieme di pratiche, di discorsi, di supporti memoriali” che, rammentando eventi del passato, aiutano un gruppo a costituirsi. I monumenti, che abbiamo ricordato sopra, appartengono esattamente a questi “supporti memoriali”. Capiamo, ora con lucidità, il portato critico dell’installazione dei Gerz. Intendiamo la consonanza fra quel pilastro che scompare, e il fatto che per la storiografia e per le scienze sociali odierne il termine “memoria collettiva” altro non sia che una metafora.

Il punto è che, mentre gli studiosi compivano il loro percorso di revisione,  questa metafora si è ontologizzata. In altri termini: nessuno, quando la usa, si accorge della sua natura analitica (una metafora è un costrutto intellettuale che serve per determinati scopi, scientifici o poetici). Si è convinti, invece, che si tratti di un soggetto reale.  Questo fenomeno crea per l’Università e la Scuola, i centri produttivi di sapere e di formazione, una situazione paradossale e nuova, generata dal fatto che la società sembra spingere studiosi e professori ad abbandonare le conquiste critiche, e a tornare al  modello iniziale della memoria, quello che Henry Moniot definisce, con ironia, “angelico”.4


Lo “stereotipo colto” della memoria collettiva

Ma c’è un’ulteriore ironia, per quanto di sapore diverso, nell’evoluzione di questo concetto e nella conseguente impasse delle strutture pubbliche del sapere. La memoria collettiva, infatti, non è il frutto spontaneo di una società dalla cultura approssimativa. Al contrario, è un prodotto raffinato, nato e coltivato negli strati intellettuali delle nostre società. E’ un esempio splendido di quegli “stereotipi colti”, che caratterizzano il discorso pubblico della storia.5 Ne possiamo seguire l’evoluzione nella ricostruzione, analitica e straordinariamente erudita, che ne ha fatto Michael Kammen. E’ il caso degli Stati Uniti, quello che presenta. Come abbiamo avuto modo di constatare negli ultimi tempi, e non solo in Italia, un caso che siamo obbligati a considerare paradigmatico.6 Da James Fenimore Cooper a Saul Bellow, lo studioso convoca l’intera letteratura americana; mostra come, insieme con i più celebri scrittori e poeti, anche storici, politici, gli 8200 musei nazionali,  e naturalmente Hollywood - la crema della cultura americana, infine – tutti abbiano collaborato alla nascita dell’idea di memoria storica, e all’elaborazione concreta di una memoria storica nazionale.


Le ragioni che portano alla nascita della memoria collettiva

Questo processo secolare conduce ai nostri giorni ad un rapporto, fra società e storia, che è necessario tenere presente, per capire la portata sociale e politica del fenomeno. Kammen ne sintetizza i motivi. Vale la pena tenere a mente il suo schema, perché fa risaltare il valore inequivocabile della posta in gioco:

  • l’interesse pubblico verso il passato cresce in modo impetuoso e continuo
  • abbiamo costruito una memoria selettiva del sapere storico accumulato
  • il passato può essere mobilizzato per scopi partigiani
  • il passato può essere commercializzato per sviluppare il turismo e le attività collegate
  • si invoca il passato sia da parte di chi resiste al cambiamento, sia per promuovere innovazioni
  • la storia è un ingrediente fondamentale per definire identità nazionali, di gruppo e individuali
  • il passato e le sue testimonianze possono dare un piacere estetico e non utilitaristico
  • gli individui e i gruppi minoritari (religiosi, etnici, sociali, nazionali) a vocazione tradizionalista, sollecitano la formazione di un senso del passato condiviso.7


La centralità politica della memoria collettiva

Un processo di elaborazione paradigmatico: sboccia come patriottico e, dopo un lungo itinerario anche di laicizzazione, ritorna, negli ultimi decenni del secolo scorso, ad un nuovo patriottismo. Siamo agli inizi degli anni ’70. Kammen cita alcuni numeri speciali di “Time” e “Newsweek”, che fecero epoca e crearono un linguaggio, che abbiamo talmente introiettato, che lo consideriamo familiare: The mining of nostalgia e Exploring American Past.8 Nasceva il turismo storico; i movimenti identitaristi si diffondevano  anche in Europa; termini come “eredità”, “radici”, “identità” entravano nei discorsi, pubblici e quotidiani. “Memoria” iniziava a diventare una parola strategica, nella riflessione e nella politica.

Se ne rendeva pienamente conto Jacques Le Goff, quando ne redasse per l’Enciclopedia Einaudi la voce, giustamente diventata celebre fra gli studiosi:”Impadronirsi della memoria e dell’oblio è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degli individui che hanno dominato e dominano le società storiche”. Era il 1979. E in quel tempo lo storico ricavava dalla sua pur dura analisi una ragione di impegno, dalla quale ci si poteva aprire ad un certo ottimismo. Così, infatti, concludeva: “Spetta ai professionisti scienziati della memoria, agli antropologi, agli storici, ai giornalisti, ai sociologi, fare della lotta per la democratizzazione della memoria sociale uno degli imperativi prioritari della loro oggettività scientifica” 9.


Gli storici perdono la guerra della memoria

Eric Hobsbawm, Perry Anderson e Pierre Nora dimostrano, in modo emblematico, l’impegno che la storiografia ha profuso in questa direzione. Il primo, sul finire degli anni ’70, promosse un convegno per denunciare, attraverso il disvelamento dei miti tradizionali, il tentativo moderno di reinventarli. Il secondo mostrò come il processo di nation building, messo a punto in Europa nel XIX secolo, era stato abbondantemente esportato in tutto il mondo, e aveva dispiegato ovunque l’identico apparato di uso della storia, di costruzione di memorie collettive e così via. Il terzo, infine, dette vita ad una titanica impresa, in sette volumi, per censire i dispositivi di memoria francesi (monumenti, libri, feste, ecc), imitata in vari paesi, fra i quali l’Italia.10  “L’invenzione della tradizione”, “le comunità immaginate” e “i luoghi di memoria”, più che titoli di libri di successo, si sono configurati come autentici programmi di ricerca, che hanno mobilitato una parte importante della comunità storica internazionale. Talmente noti che sono essi stessi diventati dei modi di dire. Nicholas Pethes e Jens Ruchatz hanno sistematizzato l’imponente produzione scientifica su questi argomenti, in un dizionario sulla memoria, di rara utilità11. Il concetto “memoria” vi è articolato e scomposto in circa cinquecento lemmi, per analizzare i quali si richiede il contributo di un gran numero di scienze: sociali, psicologiche, filosofiche, letterarie, della comunicazione e neurobiologiche.

 

E’ stata una specie di Guerra dei Trent’anni, quella ingaggiata fra storia e memoria, a partire dalla metà degli anni ’70, in un periodo ricco di studi e di innovazioni, che Christian Amalvi chiama, con una qualche dose di ironia, “i Trenta Gloriosi degli storici”.12 Un impegno, tuttavia, che non è stato del tutto efficace, se l’idea essenzializzata di memoria continua a imperversare, nei talk show, nell’uso politico della storia, in quelle contese etno-culturali che ormai fanno parte del dire quotidiano. E’ come se il concetto fosse sfuggito di mano, e vivesse di una vita propria, ormai incontrollabile: lo confessava qualche anno or sono lo stesso Pierre Nora.13 E David Glassberg aumenta il nostro sconforto, quando rileva - in un suo studio sull’impatto della storiografia nella costituzione della memoria pubblica americana -  “l’enorme distanza che esiste fra storici e pubblico”.14


L’impossibile spartizione del passato

Ma altre considerazioni vanno fatte, per comprendere appieno la portata di questo fenomeno. Il complesso delle ricerche (e dei monumenti) che abbiamo osservato, infatti, si concentra sul rapporto fra una comunità e la sua (più o meno pretesa) memoria collettiva. Non tiene conto del quadro complessivo, di un mondo cioè nel quale ogni comunità nazionale inventa una propria memoria. Questa attività ha alcuni esiti abnormi. Da una parte, immagina (o rende legittimo) che gli stati possano esercitare sul passato un’azione di “definizione territoriale”: stabilire che cosa appartenga a questi o a quello è un’operazione impossibile e in se stessa ridicola, se applicata ad un soggetto così impalpabile come “il tempo che è trascorso”. Ma è esattamente ciò che si fa – e con grande dedizione - in libri di testo, in programmi di studio, o nelle discussioni sulle “eredità” e sui “patrimoni”, che trascorrono dai media ai parlamenti alle case editrici, ma non di rado anche alle cattedre universitarie e scolastiche. Dall’altra, si cerca di ottenere alcune ricadute politiche molto concrete da questo “bottino”, come rivendicazioni, risarcimenti o revisioni di trattati. La politica internazionale, non più soltanto quella delle educazioni nazionali, è entrata finalmente nel gioco, rendendolo, come si può immaginare, pesantissimo, perché rischia di intrappolare la storia nei complicatissimi e duri codici dei rapporti fra gli stati.15

Dal canto loro, gli apparati nazionali (le università e le scuole) si sono rapidamente adeguati a questa mondializzazione della storia nazionale: non tutti gli storici e i professori di storia, dobbiamo ammetterlo, sono apparsi sensibili al richiamo di J. Le Goff. Sono nate, così, in diverse parti del mondo, repliche locali dell’eurocentrismo ottocentesco. L’afrocentrismo o l’indocentrismo sono le prospettive più note, nel dibattito storiografico internazionale16. Ma scorrendo l’Atlas des Atlas, una rassegna dei modi adottati localmente, per guardare al mondo, si scopre che dal Perù al Belgio alla Cina, molti sono i pretendenti al ruolo strategico dell’ombelico17. E’ un’epidemia di onfalismo, che deforma da una parte la geografia, dall’altra la storia, e si riversa per intero nelle scuole di ogni paese18. Il gioco dell’oppressore e della vittima, sul quale in Europa si è costruita la fierezza di appartenere alla propria comunità nazionale, ora si è allargato a dismisura. Il conflitto di memoria non ha più come oggetto i conti che gli europei odierni devono chiudere con la propria storia (i vincitori e i vinti). Ha come proscenio il mondo, e come trama la storia dell’umanità.


Il conflitto mondiale della memoria

In questa dilatazione dello sfondo, si impone, in un’agenda di discussione ormai mondiale, un conflitto di memoria fondamentale, nel quale i termini e i protagonisti dei conflitti di memoria “tradizionali” tendono a rifondersi e cambiare. La nuova posta in ballo è la modernità, cioè il senso stesso del periodo che noi stiamo vivendo. Qual è il suo valore? Se essa è positiva, chi ne è il vero autore?  E chi ha diritto a goderne i frutti? E se, invece, è negativa, chi ne è responsabile e in che modo deve ripagare i torti commessi? Chi, infine, ha diritto a definire i caratteri di questa modernità? Questo modo di guardare al passato tende a internazionalizzare i sentimenti della rivalsa (il risarcimento della vittima) o della difesa a oltranza dei propri privilegi (le sacrosante conquiste del passato). Ha creato un clima insostenibile e pericoloso. Scrive Nira Wickramasinghe, professoressa di storia all’Università di Colombo, nello Sri Lanka: “Vorrei vedere un giorno una scrittura della storia che non sia né la biografia di una nazione, né una critica del moderno”.19


L’Italia

Un recente pamphlet di Stefano Pivato ci permette di focalizzare il nostro sguardo sui fatti italiani.20 Lo storico vi rappresenta un quadro impietoso, nel quale politici e giornalisti si impegnano in un saccheggio del passato, irrispettoso di un qualsiasi riscontro scientifico; e con altrettanta foga si industriano nella modellazione di una memoria collettiva, che a loro giudizio dovrebbe essere molto malleabile. Sfugge allo studioso, tuttavia, un elemento che renderebbe ancora più tragica la situazione: il fatto che l’Italia è probabilmente l’unico paese al mondo nel quale i cittadini non hanno mai studiato la storia del dopoguerra. Sono vissuti, potremmo dire, soltanto della loro memoria. Hanno avuto come interlocutori, per confrontarla e costruirsene una ragione critica, soltanto i gestori pubblici della memoria (i media e la politica). Sono stati privati del confronto con la storia21 e costretti in un ring asfittico, nel quale il dibattito politico nazionale dettava anche l’agenda dei problemi interpretativi.

Quando nel 1996, l’allora ministro Berlinguer stabilì che i programmi di storia dovessero riservare l’ultimo anno di studi al Novecento, e quindi rese possibile, per la prima volta, lo studio degli ultimi decenni, si trattò di una riforma fondamentale, non solo per la didattica, ma anche per l’educazione civile nazionale. Se servirà, lo sarà per le generazioni che prossimamente voteranno o prenderanno le redini di questo paese. Ma sicuramente, bisognerà riprendere in attenta considerazione quanto scriveva ancora Le Goff: “Occorre far sì che nasca un’autentica storia contemporanea, una storia del presente … che la si faccia finita con una storia che poggi su una separazione netta fra passato e presente … proprio nel momento in cui il presente muta natura”.22


Memoria collettiva: una questione didattica socialmente viva

In effetti, è proprio ciò che è accaduto e che abbiamo cercato di descrivere,sia pur rapidamente: la memoria storica ha cambiato natura, nel nostro presente. E’ diventata un tema caldissimo, della vita sociale complessiva, in tutte le sue dimensioni, dal locale al globale. E’ diventata, quella che Charles Heimberg chiama una “questione socialmente viva”.23 Pezzi di storia o di storiografia che diventano oggetto di dibattito sociale, e che, proprio per questo si presentano al docente come occasioni straordinarie per insegnare una disciplina, che tende ad apparire fredda e vecchia, agli occhi degli allievi. La memoria storica, questione oggi socialmente viva, è un possibile splendido tema di indagine scolastica: permette di discutere stereotipi, false conoscenze, modalità di uso sociale della storia. Permette di cominciare a costruire, con i ragazzi, non soltanto una conoscenza storica, ma anche una iniziale consapevolezza storiografica.

Forse è questo, che possiamo aggiungere, a distanza di tempo, all’invito di Le Goff. Che non siano soltanto gli storici a svolgere una battaglia, che gli anni recenti hanno rivelato impari; ma che si diffonda un gusto per la storia, una capacità di giudizio diffusa, tale che renda un po’ più difficile e penoso l’abuso della storia e la manipolazione delle memorie.

 

Note

 

1. http://www.mauthausen-memorial.at/index_open.php. Sulla rielaborazione del ricordo nel “giardino delle memorie” di Mauthausen, si veda J. Jacob, From the Profane to the Sacred: Ritual and Mourning at Sites of Terror and Violence, in “Journal for the scientific Study of religion”, 43, 3, 2004, pp. 3111-315. Negli ultimi anni si sono moltiplicate gli studi sui memoriali. Una recente rassegna critica è T. Cole, Scales of Memory, Layers of Memory: recent Works on Memory of the II War and the Holocaust, in “Journal of Contemporary History”, 37, 1, 2002, pp. 129-138.

2. http://www.shalev-gerz.net/FR/oeuvres/mahnmal.html

3. E. Shalev-Gerz, Le mouvement perpétuel de la mémoire, in Travail de mémoire. 1914-1998. Une nécessité dans un siècle de violence, a cura di J.-P. Bacot, Autrément, Paris 1999, pp. 24 ss

4. J. Landau, Conflits de mémoire: pertinence d’une métaphore?, in Conflits de mémoire, a cura di V. Bonnet, Karthala, Paris 2004, pp. 21 ss.; H. Moniot, L’enseignememt de l’histoire. Le ménage de la connaissance et de la connivence, in L’histoire en partage. Usages et mises en discours du passé,, a cura di B. Jewsiewski e J. Létourneau, l’Harmattan, Paris 1996, pp. 205-232, 223 ss.

5. A. Brusa, Davide e il Neandertal. Gli stereotipi colti sulla preistoria, in Evoluzione, preistoria dell’uomo e società contemporanea, a cura di L. Sarti e M. Tarantini, Carocci, Roma 2007, pp. 45-73, 48; Id., Un récueil des stéréotypes autour du Moyen Age, in “Le cartable de Clio”, 4, 2004, pp. 119-129, 119 s.

6. M. Kammen, Mystic chords of Memory. The Transformation of Tradition in American Culture, Vintage Books, New York 1993.

7. Ibidem, p. 10, con qualche adattamento mio. Il numero dei musei, a p. 635. In particolare, sul coinvolgimento dei musei americani in questo uso pubblico della storia: S. A. Crane, Memory distorsion and History in the Museum, in “History and Theory”, 36, 4, 1997, pp. 44-63.

8. Ibidem, pp, 619 ss.

9.  J. Le Goff, Memoria, in Enciclopedia Einaudi, vol. 8, Torino 1979, pp. 1068-1109, 1070 e 1105.

10. E. Hobsbawm, T. Ranger, L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 2002 (ma prima edizione 1979); P. Anderson, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, , Manifestolibri, Roma 1996 (ma prima edizione 1983); P. Nora, Les lieux de mémoire, Gallimard, Paris 1984. Per l’Italia, il riferimento è a M. Isnenghi, I luoghi della memoria, Laterza, Bari-Roma 1998.

11. Dizionario della memoria e del ricordo, a cura di N. Pethes e J. Ruchatz, Bruno Mondadori, Milano 2002.

12. Ch. Amalvi, 1975-2005 Les «Trente Glorieuses » des historiens ?, in Id., (a cura di) Les lieux de l’histoire, Armand Colin, Paris 2005, pp. 371-394, 378 ss.

13. P. Nora, La France est malade de sa mémoire, in “Le monde 2”, 105, 2002, pp. 20-27, 26.

14. D. Glassberg, Sense of History: The Place of the Past in American Life, University of Massachusetts Press, Amherst 2001, p. XIII.

15.G. Noiriel, Sur la” crise” de l’histoire, Gallimard, Paris 2005.

16. A. Brusa, L. Cajani, Africa y la historia mundial : las dificultades historiograficas de una adecuada contextualizaciòn, in « Didactica de las ciencias experimentales y sociales », 19, 2005, pp. 3-18 ; F.-X. Favelle Aymar, J.-P. Chrétien, Cl.-H. Perrot, Afrocentrismes. L’histoire des Africains entre Egipte et Amérique, Karthala, Paris 2000 ; P. Heers, Shades of Orientalism : Paradoxes and problems in Indian Historiography, in « History and Theory », 42, 2003, pp. 169-195; E. Vickers, Introduction: History and Identity in East Asia, in “International Journal of Educational Research”, 37, 2002, pp. 537-544.

17. L’Atlas des Atlas, numero speciale del “Courrier International”, marzo-aprile-maggio, 2005.

18. T. Morris-Suzuki, Global Memories, National Accounts : Nationalism and the rethinking of History, in www.nuim.ie/staff/dpringle/igu_wpm/morris.pdf.

19. N. Wickramasinghe, L’histoire en dehors de la nation, in Mamadou Diouf, l’Historiographie indienne en débat. Colonialisme, nationalisme et sociétés postcoloniales, Karthala-Sephis, Paris1999, pp. 419-432, 432.

20.  S. Pivato, Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita publica italiana, Laterza, Bari 2007.

21. Per apprezzare le differenze fra storia e memoria si studi lo splendido schema di Ch. Heimberg, Histoire, historiographie, histoire enseignée, in Insegnare Storia, a cura di Paolo Gheda, Libreria Stampatori, Torino 2007, pp.25-82, 54.

22.  J. Le Goff, Passato/presente, in Enciclopedia Einaudi, 10, Torino1980, pp. 496-511, 510 s.

23. Ch. Heimberg, Le questioni socialmente vive, in “Mundus”, 1, 2008, in corso di stampa.

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