connected history

  • Mediterraneo. Una storia da condividere


     


    La scrittura in comune, da parte di un gruppo di storici e studiosi di didattica della storia, provenienti da otto paesi del Nord e del Sud del Mediterraneo, ha portato alla creazione di Méditerranée. Une histoire à partager /Mediterraneo. Una storia da condividere (edito da Bayard, Parigi).
    Questo progetto è centrato su una scala radicalmente nuova, quella mediterranea. Si propone come complemento per gli insegnanti, che troppo spesso hanno materiali e programmi rinchiusi nella scala nazionale. Tiene conto delle evoluzioni recenti della disciplina storica e in particolare della storia mondiale e della connected history.
    Il volume si compone di cinque capitoli, dalla preistoria alla primavera araba. Ogni capitolo presenta una contestualizzazione storica e studi di caso selezionati in modo da rispettare l’equilibrio geografico tra le diverse sponde del Mediterraneo. Gli studi di caso sono strutturati intorno ad un testo introduttivo, che presenta il problema e il contesto storico e un corpus di documenti di vario tipo. Attraverso il racconto, i documenti e le carte, i quindici autori - storici ed educatori provenienti da Marocco, Tunisia, Francia, Italia, Portogallo, Grecia, Libano ed Egitto,  coordinati da Mostafa Hassani Idrissi, docente di didattica della storia all'Università Mohammed V di Rabat -ripercorrono la nascita di un soggetto storico, il Mediterraneo, esplorandone i diversi periodi di tensione e di cooperazione, isolazionismo e apertura, tradizionalismo e modernità.
    Accompagnato da un sito internet, questo progetto viene presentato a Marsiglia il 2 e il 3 dicembre, alla presenza di ministri, autorità regionali e cittadine e di un nutrito gruppo di storici e studiosi dell’area mediterranea. Ad esso seguirà un piano di formazione, che inizierà il giorno successivo con un corso tenuto- fra gli altri - da due degli autori dell’opera, Didier Cariou e Antonio Brusa.

  • Un “Nobel” per la storia. Serge Gruzinski e la ricerca di una nuova storia da insegnare nel XXI secolo

    Autore: Antonio Brusa


    Un premio Nobel per la storia? Non c’è, e si dice che Fernand Braudel ne avesse qualche disappunto. Quest’anno -2015- però, il Comitato Internazionale di Scienze Storiche (CISH) ha provato a rimediare. Ha istituito, infatti, una “specie di premio Nobel”, come scrive il suo segretario Robert  Frank, che viene consegnato a Jinan, in Cina. Ad esserne insignito è uno storico francese, Serge Gruzinski.

    Il vero Nobel è frutto dei guadagni di Nobelius, ottenuti con la produzione della dinamite. Questo, di storia, è finanziato da Jaeger-Lecoultre, nota industria svizzera di orologi di lusso. La cerimonia si tiene il 26 agosto, durante il XXII Convegno Internazionaledel Comitato: una manifestazione che si celebra ogni cinque anni, alla quale partecipano centinaia di storici, provenienti da ogni parte del mondo. Una sorta di conclave planetario della storia, e, perciò, un’investitura di grande rilievo per Gruzinski.

     

    Chi è Serge Gruzinski

    Fra gli storici francesi, Serge Gruzinski è meno noto al grande pubblico di Le Goff o Duby o dello stesso Braudel. Specchio della sua fama è la voce laconica di Wikipedia (quella italiana come quella francese). E’, invece, conosciutissimo e apprezzato fra gli specialisti, soprattutto tra i colleghi di storia moderna, dal momento che il centro del suo interesse è costituito dall’insieme dei problemi legati alla conquista europea dell’America.  Fra le sue opere, un testo di riferimento è Les Quatre parties  du monde. Histoire d'une mondialisation (Paris, La Martinière, 2004). Questo testo non è stato tradotto in italiano, come molti suoi lavori.  Fra le sue traduzioni, sono ancora acquistabili online un vecchio libro del 1991: La guerra delle immagini. Da Cristoforo Colombo a Blade Runner (SugarCo), il cui titolo fotografa alcuni tratti fondamentali della sua storiografia, come l’attenzione al tempo presente, alle immagini e alla cultura di massa; e Gli Aztechi. Il tragico destino di un popolo, del 1994, pubblicato congiuntamente da “L’Unità” e Electa.

     

    “Le quattro parti del mondo, che sostengono la volta celeste”, è il titolo della scultura di una fontana, realizzata da J.B. Carpeaux nel 1874. Le quattro parti sono i quattro continenti. La catena spezzata al piede dell’Africa, calpestata dall’America, simboleggia la fine della schiavitù


    In rete circola un suo articolo sulleorigini iberiche della mondializzazione, nel quale, oltre a raccontare la vicenda della costruzione della monarchia spagnola, Gruzinski spiega il modello della Connected History, proponendolo come realistica via di fuga dall’etnocentrismo. Egli, infatti, sostiene che non è possibile scrivere una storia se non da un punto di vista individuato, e quindi locale. Di conseguenza, non si può evitare un certo etnocentrismo, ma solo attenuarlo, mettendo in evidenza le connessioni tra il luogo del quale si fa la storia e gli ampi spazi del mondo. Questi intrecci fra “locale e globale” rivelano una “storia meticcia”, la cui scoperta è obiettivo primario dello studioso. Certamente, di meticciato possiamo parlare fin dai tempi più antichi del processo di ominazione. Tuttavia c’ è un “oggetto meticcio” che va privilegiato dal ricercatore, perché è il momento storico preciso, situato fra i secoli XV e XVI, dal quale prende avvio la modernità, “l’espressione di una creazione umana sorta alla confluenza dei mondi europei e delle società asiatiche, africane e americane”. Con queste parole, lo storico presentò la mostra Planète Métisse, che diresse presso il Museo del Quai Branly, a Parigi nel 2009.

    Non affronto qui il dibattito che si è acceso, negli ultimi due decenni, all’interno della vasta famiglia delle Storie mondiali (rimando per questo alla bibliografia in calce). Qui, metto in rilievo l’aspetto del suo lavoro che interessa particolarmente HL: lo stretto rapporto che lo storico instaura tra la sua ricerca e l’insegnamento scolastico, fra la storia e l’uso che la società fa di questa scienza. Mi servo di un suo libro recente, L’histoire, pour quoi faire? (Fayard, 2012). Ne riporto brani, e ne sintetizzo i ragionamenti.

     

    Il quadro mondiale

    “Da una ventina di anni a questa parte, dice lo storico, la mondializzazione, la rivoluzione digitale, lo sgretolamento della supremazia dell’Occidente, il risveglio dei mondi islamici, il ritorno della Cina, l’affermazione dei grandi paesi emergenti modificano irrimediabilmente i nostri orizzonti. E non va trascurato il fatto che, più vicino a noi, si stanno ridefinendo le popolazioni europee, come si osserva nelle campagne dell’Italia settentrionale e delle città olandesi, come nei quartieri un tempo proletari di Roubaix-Tourcoing” (p. 14).

    A partire da questa premessa, lo storico è obbligato alla domanda blochiana: “a cosa serve la storia, in un mondo così modificato? Infatti, di fronte a queste nuove circostanze, le scienze umane, esattamente come l’Europa, non sono proprio invecchiate bene. Questo vale per la sociologia, l’antropologia, la stessa geografia. E la storia fa parte egualmente di questa schiera. Nel momento in cui la mondializzazione si accelera, che cosa fare di questa disciplina, accusata – spesso a ragione – di ricondurre tutto all’Europa e al suo passato? La voce dell’Occidente avrà ancora una qualche vocazione all’universalità?”

    La risposta è alquanto deludente. “In molti paesi, la storia sembra fare un passo indietro. Si pensi alla Francia, dove circola ancora un “romanzo nazionale”, intriso di nostalgie conservatrici, che serve solo a confortare i sentimenti della specificità francese e dell’appartenenza. Si pensi all’arretramento delle storie regionali spagnole. All’abbandono del bilinguismo da parte dei belgi. A Barcellona, come a Valencia, uno storico francese può essere rimproverato di usare la lingua castigliana; a Anversa si preferisce che si comunichi in spagnolo, piuttosto che usare il francese, una lingua peraltro parlata ancora da una metà dei belgi” (pp. 15-16).

    Accanto alla mondializzazione, ecco l’esplosione dei media e di quello che ormai chiamiamo l’uso pubblico della storia. Ecco “le differenti forme di passato che la mondializzazione delle industrie culturali e la velocità dei loro strumenti di diffusione, iniettano, ininterrottamente, nelle nostre società. Fuori dell’aula e delle università, a lato di blog specializzati (…) si diffondono immagini e grandi racconti, che ignorano spesso gli ambienti accademici e che si sforzano di rispondere alle sfide, reali o immaginarie, di un universo che si globalizza”

    In questa nuova situazione, i gestori pubblici della cultura non brillano per capacità innovative. Un esempio di rilievo è costituito dalla politica culturale cinese, che lo storico esamina a partire dalla sfilata inaugurale delle Olimpiadi del 2008. In questa, il regista Zhang Yimou rielaborò e in funzione sinocentrica gli stilemi tipici dell’Orientalismo (la saggezza cinese o la sua tecnologia). Quindi riutilizzò degli stereotipi che già erano stati diffusi nel mondo dall’Occidente, rovesciandone il significato. Un’operazione culturale intelligente e di grande impatto. La Cina, inoltre, crea a getto continuo nuovi eroi dal doppio risvolto (locale e mondiale),come l’ammiraglio Zheng He, proposto all’umanità come colui che nel XV secolo tentò di connettere pacificamente il mondo, al contrario dei quasi contemporanei avventurieri iberici, violenti e conquistatori.

    Un altro esempio significativo di questo uso globalizzato del passato è costituito dalla ritrascrizione che i manga giapponesi fanno della storia europea, riversata nelle platee mondiali con significati del tutto nuovi. E’ emblematico il caso di Thermae Romae, il manga di Mari Yamazaki (2008), poi diventato fiction televisiva. In questa storia, le “due civiltà antiche che più hanno amato i bagni”, entrano in connessione vicendevole mediante canali misteriosi, attraverso i quali dal Giappone passò a Roma tutto ciò che la fece grande nel secondo secolo, al tempo di Adriano.

    “Roma non è più a Roma”, conclude lo storico, e avverte: “E’ in atto una sorta di “guerra dei passati”che si affrontano su scala planetaria sotto i nostri occhi e spesso a nostra insaputa” (p. 59).

     


    Un passato violento

    Questa guerra si combatte senza esclusione di colpi. Ciò appare plasticamente nei giochi a ispirazione storica che dominano il mercato, a partire da Civilization, uno dei primi, lanciato nel 1991 da Sid Meier. “Non ha nulla del gioco innocente e neutrale. La sua dinamica riposa interamente su una serie di cliché che cancellano le specificità storiche e distillano delle ideologie a dominanza conservatrice e occidentalocentrica: l’opposizione dei barbari contro la civiltà, il potere non condiviso dei leaders, la superiorità del più forte sul debole, invariabilmente destinato all’annientamento (…). Un solo obbiettivo per i giocatori: dominare il mondo”.

    Gli insegnanti vedono in questi strumenti “l’avvento di un nuovo modo di espressione storica, che sfrutta le tecnologie più avanzate e rompe con la passività del lettore del libro”. Ma, spesso, non si rendono conto che questi strumenti veicolano idee desuete e concetti francamente reazionari.

    Certamente, prosegue Gruzinski, nulla vieta che questi strumenti diventino strade per diffondere buone conoscenze, che spingano ad una corretta riflessione storica. Ma occorrerebbe che gli storici imparassero a dominarli, mentre la loro tendenza è quella di non occuparsi della produzione storica di massa. Quindi, per il momento, occorre partire dal presupposto che il grado di fascinazione della “storia ludica”, e quindi dell’immagine del passato che questa contribuisce a creare, è estremamente superiore a qualsiasi altro mezzo di comunicazione a disposizione degli storici (pp. 92 ss).


    Il mondo a scuola

    L’analisi locale non da risultati diversi. Gruzinski fa l’esempio della sua città natale, Roubaix (Turcoing), la cittadina francese nota agli amanti del ciclismo per la classicissima di primavera Parigi-Roubaix. Un tempo era centro dell’industria tessile. Durante i “Trenta gloriosi” conobbe il suo periodo di splendore, attirando lavoratori da ogni parte del mondo. Negli anni ’70 il crollo e la deindustrializzazione. Oggi, la disoccupazione accomuna ex operai francesi, europei, africani, asiatici e sudamericani. Le antiche promesse del marxismo non fanno più presa. Ci si rivolge ai nuovi manager del futuro e dell’identità, fondamentalisti o ipernazionalisti.

    Una classe, una qualsiasi di questa come di altre regioni, è profondamente diversa da quella che caratterizzò la società affluente dei “Trenta gloriosi”. Allora, la scuola era la premessa per il lavoro e l’ingresso nel mondo. Oggi è il luogo dove si rappresentano i conflitti e le incertezze della società.

    La testimonianza di un giovane professore spagnolo vale anche in molti casi italiani:

    “Nelle classi dove insegnava, i castigliani originari sedevano accanto a maghrebini e equatoriani. Nel settembre del 2012, la provincia contava 45 mila equatoriani. Come “fare classe” in questa realtà? Detto in altri termini: quale passato offrire a questi ragazzi dei quali alcuni sono gli eredi dei vincitori spagnoli della Reconquista (sull’Islam) e della Conquista (dell’America), e gli altri discendono dai vinti di questi grandi episodi della storia iberica? Come spiegare l’espulsione dei Moriscos ad un pubblico diviso fra cristiani e musulmani, come introdurre la conquista dell’America presso allievi le cui memorie sono incompatibili? La denuncia del “genocidio indigeno” mal si concilia con una tradizione spagnola che si è compiaciuta a lungo dell’esaltazione della “missione civilizzatrice” dei conquistatori del nuovo mondo”.

    Se l’esempio è spagnolo, la conclusione riguarda tutti noi. “La sfida si propone ovunque, e occorrerebbe rispondervi prima che nuove grandi narrazioni, elaborate in nome di una storia mondializzata, impongano la versione dei potenti di oggi, o prima che i racconti nazionali riprendano l’esclusività della ricostruzione del passato” (pp. 30 ss).


    Quale storia, dunque?

    Gruzinski cerca nella sua storiografia le risorse per rispondere a una domanda, che (lo diciamo da studiosi di didattica storica) affligge gli insegnanti da più di mezzo secolo. La revisione della cronologia, in primo luogo. Noi siamo imprigionati in una cronologia limitata all’Europa: storia antica, medievale, moderna e contemporanea. Dentro questa tentiamo di incasellare fatti e problemi che si organizzano, invece, lungo assi temporali paralleli e asincronici. A partire dalla questa cronologia unica, tentiamo di osservare e giudicare il mondo. Noi parliamo di “America precolombiana”. Ci sembra naturale e puramente descrittivo. Ma se ci dicono di un’ “Europa precolombiana”, restiamo in imbarazzo. Ci sembra una provocazione. Al contrario, questa frase allude a un fatto reale. Al fatto, cioè, che la mondializzazione coinvolge tutti, Europa compresa. Il senso di provocazione che avvertiamo rivela, dunque, che noi siamo vittime del pregiudizio che la mondializzazione è solo eurocentrata e, già in partenza, siamo condotti a dequalificare l’apporto alla modernità di altre culture e di altre regioni del mondo.

    Nella storia del XXI secolo, l’anacronismo dovrebbe essere una virtù. “Se ci si attiene a una cronologia unica, la cavalcata attraverso i tempi genera solo discordanze e anacronismi. Lo storico li deve stanare per principio. A meno che questi anacronismi non rivelino le molteplici espressioni di un tempo mondializzato. Il principio di un flusso lineare ha facilitato in passato il racconto di un periodo storico, ma esso non è altro che una riduzione comoda, che risponde a motivazioni le più diverse: compattare e omogeneizzare la lettura del passato, accrescere la forza persuasiva di una dimostrazione, o, peggio, espellere dal racconto ciò che si vuole censurare o lasciare di lato” (cap. V)

    “Liberare l’Europa”. Anche questo slogan appare una provocazione. In realtà si tratta della serissima proposta di ampliare gli spazi dell’indagine storica. L’Europa è già nel  mondo, anche prima del XV secolo. E, quindi, la si capisce tenendo conto del mondo. Ricostruendo la sua complessità e riconoscendo le connessioni che si propongono e si costruiscono incessantemente fra questa e il suo contesto, e fra le diverse parti del mondo. Alla revisione della cronologia corrisponde una parallela revisione della geografia. Il verbo chiave di una nuova storia dovrebbe essere “ricontestualizzare”.

    Connettere e comparare. Ecco due altre operazioni che dal laboratorio dello storico dovrebbero transitare nelle aule. Per la verità, Gruzinski adopera il termine “riconnettere”. Lo fa in polemica con il modo tradizionale della storia di “comparare e connettere”. Queste operazioni, infatti, non sono nuove. Solitamente vengono avviate a partire da fatti e problemi dell’Occidente. Un esempio è la Rivoluzione francese, sulla cui base siamo abituati a instaurare confronti con altre parti del mondo, per cercare di scoprire analogie e differenze. Il nuovo contesto della mondializzazione, al contrario, crea nuove domande. Nuovi piani di comparazione, e, quindi, nuovi oggetti da prendere in considerazione. E’ questa ri-connessione che crea la consapevolezza di una storia “sempre meticcia”, anche dove la tradizione ne veicolava l’immagine di una purezza originaria e incontaminata. Credo che, a questo proposito, l’esempio dell’Amazzonia, costruita dai processi di mondializzazione iberica, sia estremamente significativo. (pp. 180 ss)

    La connessione fra globale e locale. E’ un punto centrale della riflessione storico-didattica di Gruzinski, che muove dal presupposto che gli allievi vanno coinvolti in una nuova visione del mondo. Sono essi che devono transitare da un mondo in conflitto, ma chiuso in se stesso, ad un mondo più aperto. Che devono, a partire dalla ricostruzione di un passato di intrecci, i più impensabili, immaginare un futuro altrettanto aperto e imprevedibile.

    La coscienza del mondo. Con l’avvio dei processi di mondializzazione, si chiede lo storico, si possono osservare i “germi della coscienza di un mondo”? Lo storico risponde in modo affermativo, citando personaggi e documenti, dai quali appare come, fin dalle origini della mondializzazione, la scoperta di nuove terre portò a interrogarsi sugli spazi dell’umanità e a riconoscere, pian piano, che questi non sono contrassegnati dalla sola Europa. Ciò avvenne sia in Occidente, sia in altre parti del mondo. (pp. 167 ss). Costruire una “coscienza mondiale”, quindi, potrebbe essere il nuovo compito didattico della scuola e della storia.


    Un esempio didattico

    Una nuova visione del passato, costruita attraverso una metodologia nuova e veicolata con strumenti altrettanto nuovi. Dovrebbero essere questo, a giudizio di Gruzinski, il fondamento di una storia insegnata al passo dei cambiamenti che viviamo.

    E’ evidente che di un programma di innovazione così ambizioso non si possono fornire che degli esempi. E’ quello che fa lo storico, servendosi dell’esperienza di Laurent  Guitton, professore di storia nel liceo Jean-Rostand di Roubaix.

    La situazione di partenza della classe, dove si svolge l’esperienza,  è quella che ci possiamo aspettare in una città come Roubaix. Classe composita, a volte con allievi violenti, disinteressata all’apprendimento, in particolare della storia. A questi ragazzi Guitton propone di affrontare lo studio di una ricerca di Gruzinski, L’aquila e il dragone (L’Aigle et le Dragon. Démesure européenne et mondialisation au XVIe siècle, Fayard 2012). E’ un tema che volentieri giudicheremmo specialistico e di scarsa gestibilità didattica. Si tratta, infatti, del confronto fra due colonizzazioni, avvenute entrambe nel XVI secolo: quella del Messico, l’Aquila, operata dagli spagnoli, e quella della Cina, il Dragone, tentata dai Portoghesi. Due contesti analoghi, nei quali due imperi europei aggrediscono realtà omologhe di altre parti del mondo, e ne scoprono le civilizzazioni insospettate; ma due situazioni profondamente diverse, nei protagonisti, nei contesti e negli esiti. La prima termina con l’annessione all’Europa di una parte del mondo: nasce così l’America latina e meticcia; la seconda con la sconfitta della potenza europea, e con il suo confinamento in un angolo del Celeste impero, e, infine, nell’oblio totale.

    Invitato dalla classe, Gruzinski accetta di seguire la sperimentazione, osservarne gli esiti e parlare con i ragazzi. Gli lascio la parola:

    “Il professore ha, dapprima, ricavato dal libro documenti e carte, per corredarne le sue lezioni di storia. In un secondo tempo, ha chiesto agli studenti di trasformare in dialoghi gli scambi che avevano fatto incontrare o scontrare gli europei e i loro ospiti. In due mesi, essi hanno composto dialoghi, che hanno imparato a memoria, e insieme hanno partecipato alla messa in scena di queste due storie, senza dubbio molto distanti dalle loro preoccupazioni quotidiane. Gli uni sono diventati dei cinesi o degli aztechi, gli altri dei portoghesi o degli spagnoli; non senza difficoltà, una giovane musulmana ha accettato di salire sul palco e di interpretare la parte della compagna india di Cortes, la Malinche, che fu un’intermediaria preziosa fra i conquistatori e gli aztechi. Gli allievi hanno interpretato episodi drammatici, come la messa a morte dell’imperatore Moctezuma dai suoi,  o l’arresto dei portoghesi da parte delle autorità cinesi. Ma lo spettacolo comprendeva anche momenti di osservazione e di scambio, che mettevano faccia a faccia Moctezuma e i suoi ospiti castigliani, o ancora l’imperatore cinese Zhengde e i suoi visitatori portoghesi.

    Senza il paziente lavoro realizzato dall’insegnante, nel teatro Pierre-de-Roubaix non si sarebbe mai ascoltata l’eco di quelle storie antiche. Ma l’essenziale era un altro. Passo dopo passo, questi adolescenti si sono appropriati di una doppia scena storica, che li ha messi di fronte a questioni di grande rilievo: la scoperta dell’altro, o più precisamente, degli altri, gli scarti fra le società e le civilizzazioni, le imprese di conquista e di colonizzazione, il senso e gli obbiettivi dell’espansione europea, le reazioni delle popolazioni aggredite.

    Attraverso l’invenzione dei dialoghi, la ricerca e la confezione degli elementi scenici, la scelta dei costumi, le inchieste sulle pratiche esotiche (il sacrificio umano presso gli aztechi) o falsamente familiari (come i giochi di società presso i cinesi e gli indiani), gli adolescenti di Roubaix si sono progressivamente familiarizzati con altri universi. Una volta in scena, identificandosi con i diversi protagonisti, si sono avvicinati a questi passati, meglio che in qualsiasi lezione. L’interpretazione e, dunque, l’incarnazione delle situazioni si rivelano determinanti” (pp. 10-11).

     

     

    Commenta Laurent Guitton che, quando ebbero l’idea di questo adattamento didattico della ricerca di Gruzinski, i docenti non erano per nulla ottimisti. Ragazzi difficili, inconvenienti di ogni tipo e, si legge fra le righe, il tempo che manca sempre (il lavoro di trasposizione prese due ore la settimana per due mesi e la lezione introduttive tre ore). La riuscita dello spettacolo e soprattutto il fatto che questo lavoro permise alla classe di dialogare con lo storico (grande scoperta degli allievi: i libri sono scritti da qualcuno in carne ed ossa!), furono, dunque, la piacevole sorpresa di quel gruppo docente.

    Ma il successo, continua l’insegnante, non fu solo negli applausi del pubblico e nella soddisfazione dei giovani attori. E’ nel fatto che “la storia delle conquiste iberiche permise ai giovani di fuoruscire da un romanzo nazionale, insufficiente a dare senso al loro percorso familiare e personale, e a dare loro una visione critica e distanziata di una mondializzazione sempre più complessa, al fine di prepararli al loro futuro ruolo di cittadini del mondo” (p. 192).

     

    Qualche osservazione critica

    Per valutare questo lavoro, il docente italiano deve tenere conto di alcune differenze tra Francia e Italia. Il programma di Oltralpe prevede (riporto ancora le parole di Gruzinski) in seconda superiore, di affrontare “la nozione plurale di modernità”, spiegando che “queste modernità si forgiano a contatto con altre umanità e con altri saperi, al prezzo di rischi, scambi ma anche di aggressioni. Lo stesso programma invita a esplorare i differenti aspetti della prima mondializzazione, giocando su scale e temporalità e privilegiando le interconnessioni” (p. 184). Dunque, quello scelto è un tema totalmente all’interno della programmazione.

    La differenza con la prassi normale è dettata dal fatto che in Francia vige una sorta di fondamentalismo costruttivista, che vuole che ogni concetto, fatto o problema venga fatto emergere da documenti e dati. Nei manuali francesi la narrazione sembra bandita. Tutto si deve costruire attraverso il lavoro in classe e la discussione. E’ esattamente il contrario dell’Italia, dove invece la narrazione la fa da padrona, mentre il laboratorio sui documenti è un lavoro residuale. Guitton, infatti, sottolinea che la novità che propone ha molto a che vedere con la “narrazione”, fatta ovviamente secondo le regole di una retorica moderna: suspense, imprevisti, alternanza di luoghi, salti …

    E’ importante, poi, cercare di evitare le applicazioni banali della metodologia storiografica proposta, quali potrebbero ricavarsi dall’esortazione dello storico di partire dal presente, dal locale o dai soggetti. Gruzinski è preciso, su questo punto: “Il montaggio dell’Aquila e il Dragone, non spiega direttamente i rapporti fra i quartieri grigi, dove quegli adolescenti abitano e il vasto mondo che essi catturano sui loro schermi o attraverso le cuffie. Evoca altre relazioni storiche, quelle che hanno permesso alla parte del mondo dove sono nati (l’Europa occidentale) di  proiettarsi attraverso i secoli su altri continenti) (p. 183). Il presente e il locale, dunque, di cui parla lo storico è sempre un prodotto della ricerca. Un costrutto scientifico già dato, quindi, e non il “loro luogo e la loro vita”, o il sapere pregresso degli allievi quale emerge dal cosiddetto “brainstorming”.

    Tre osservazioni, infine, per quanto riguarda la visione storico-didattica di Gruzinski. La prima riguarda la tecnica didattica presa a modello: la drammatizzazione. Non è affatto una tecnica nuova. Le didattiche empatiche sono abbastanza studiate e, per quanto riguarda la Francia ne esistono ricerche e studi interessanti, a partire da quelli di Huber e Dalongeville, che, evidentemente, lo storico non conosce. In questo, come in altri casi analoghi, il problema non è nella mancanza delle “novità didattiche”, quanto piuttosto nella loro mancata diffusione (in Italia come in Francia). La seconda riguarda la valutazione piuttosto negativa (almeno dal punto di vista dei contenuti) delle conoscenze storiche veicolate dai giochi. Su questo punto, la ricerca didattica ha prodotto delle considerazioni più sfumate, come si legge nelle ricerche di José Maria Cuenca Lopez.

    La terza riguarda il modello storiografico proposto. L’Histoire  connectée, infatti, è solo una delle nuove storiografie, scaturite dalla grande rivoluzione spaziale, che si matura nel mondo degli storici a cavallo del secolo. Studiare le interconnessioni è certo un fatto importante, ma, come scrisse Leften Stavrianos, la Terra può anche essere guardata dalla Luna. Lo storico, dunque, può costruire un punto di vista, a partire dal quale raccontare una storia dentro la quale vivono soggetti allocati in spazi diversi.  E’ ciò oggi è possibile sia dal punto di vista scientifico, sia dal punto di vista didattico.


    Bibliografia


    Rimando, per una rassegna critica sulla storiografia di Gruzinski, agli articoli di Annamaria Contini http://rpd.unibo.it/article/view/1696  e di Maria Matilde Benzoni http://riviste.unimi.it/index.php/AMonline/article/view/363, che si trovano in rete. Claudia Borri Maria Matilde Benzoni,  Americhe e modernità. Un itinerario fra storia e storiografia dal 1492, in “Altre modernità”, 9, 2013 http://riviste.unimi.it/index.php/AMonline/article/view/3012

    Per un inquadramento delle storiografie mondiali, si può partire dal lavoro di Marco Meriggi e Laura Fiore, Word History: le nuove rotte della storia, Laterza 2014 (anche in edizione Kindle).

    Michel Huber e Alain Dalongeville hanno scritto Enseigner l'histoire autrement : Devenir les héros des évènements du passé, Chronique sociale 2002, dove si parla di didattiche alternative e empatiche. Di J. M. Cuenca Lopez, i docenti italiani possono leggere il bell’articolo sull’uso didattico dei giochi elettronici, apparso su “Mundus”, 1, 2008: http://www.mundusonline.it/PDF/53.pdf

    Per quanto riguarda l’insegnamento della storia mondiale, l’Irre Emilia-Romagna produsse,  diverso tempo fa, una bibliografia ancora oggi interessante: http://www.storiairreer.it/Materiali/IndiceStoriaMondiale.htm, nella quale si trovano gli articoli fondamentali e, per l’Italia, pionieristici di Luigi Cajani http://www.storiairreer.it/Materiali/Materiali/Cajani_IE_2000.pdf

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