didattica dell’economia

  • LA CRISI SPIEGATA AI RAGAZZI. In 3 storie, con un prologo e un'appendice

    Autore: Massimiliano Lepratti

     

    Indice:

    1.  Prologo
    2.  Prima storia. La miccia: ossia la moneta non si sa più quanto valga
    3. Seconda storia: il combustibile, ossia quando le case statunitensi scesero di valore (sorprendendo tutti)
    4.  Terza storia: l'incendio si propaga
    5.  Appendice. Chi ferma l'incendio?

     

    1. Prologo

     

    La crisi che abbiamo conosciuto a partire dal 2008 non è la prima e probabilmente non sarà l'ultima grande crisi economica e finanziaria conosciuta dall'umanità. Le spiegazioni possono essere tante e complesse, ma per voler essere semplici si può cominciare dicendo che tutte le crisi hanno un elemento di partenza comune: qualcosa a cui prima si dava un valore elevato improvvisamente perde questo valore. Nel 2008 questo qualcosa sono state le case, altre volte sono state le aziende che producono computer, altre volte ancora altri oggetti.

    Ma quelli elencati finora sono solo i carburanti, una volta che una crisi è scoppiata l'incendio sale così alto e forte che tutto brucia e la parola d'ordine diventa portare acqua per fermare il fuoco, nessuno si preoccupa più di sapere cosa lo ha provocato. Per limitare gli incendi tuttavia è importante conoscerne le cause perciò qui proveremo a farlo, esaminando i tre elementi principali: la miccia, il carburante (di cui abbiamo detto sopra) e il bosco in cui si propaga.

     

    2. Prima storia. La miccia: ossia la moneta non si sa più quanto valga

     

    Nel 2008 la grande crisi che stiamo vivendo ancora oggi si è manifestata dapprima nel mondo delle banche, ossia quei luoghi in cui ci scambiano monete e altri pezzi di carta che rappresentano una ricchezza. A un certo punto alcune grandi banche hanno detto che non sapevano più a quanta ricchezza corrispondevano i pezzi di carta che stavano comprando e vendendo e sono cominciati i guai grossi: se non sai quanto vale una cosa come fai a continuare a venderla, e soprattutto chi la comprerebbe?

    Il guaio ancora più grosso è che da molti anni non si sa neppure quanto valga una moneta e questo rende più facile la comparsa  di problemi come quelli che stiamo vivendo.

    Può apparire strano affermare che nessuno sappia quanto vale la moneta, ciascuno tra noi potrebbe dire che la moneta che ha in mano vale 2 euro o la cartamoneta che ha nel portafoglio ne vale 10. Ma in questo modo non stiamo offrendo risposte alla domanda, perché la domanda successiva diventerebbe immediatamente: ma 2 euro o 10 euro quanto valgono? E nessuno lo sa.

     

    Intermezzo: perché il valore della moneta è incerto

     

    Per capire meglio questa storia curiosa bisogna andare molto indietro nel tempo, quando le monete di oro, argento e rame cominciarono ad essere usate per facilitare gli scambi: prima della moneta se io desideravo scambiare le mele che coltivavo con i fazzoletti fatti da un artigiano non bastava che a me interessassero i fazzoletti, occorreva anche che lui accettasse come pagamento le mie mele, ossia che le mele lo interessassero, il che non avveniva sempre. Nel tempo si sono individuati alcuni oggetti che tutti ritenevano interessante possedere e scambiare e la preferenza progressivamente andò alle monete metalliche ossia a cilindretti in oro, argento o rame facili da trasportare, difficili da rovinare, belli da vedere. In questo modo io potevo vendere le mie mele in cambio di cilindretti  di metallo, ossia di monete e offrire a chiunque questi cilindretti in cambio di fazzoletti o di altro. Un grosso vantaggio delle monete era che si sapeva esattamente quanto valevano: valevano il metallo che contenevano, ad esempio una lira (o libra) valeva esattamente una libbra d'argento (ossia una quantità pari a circa 300 grammi)

     

    La storia però si complica ai tempi dei Romani, circa 1800 anni fa quando gli imperatori romani, per mancanza di metalli, presero l’abitudine che sulle monete doveva rimanere scritto lo stesso valore (ad esempio “una lira”), ma che la quantità di metallo contenuto doveva divenire la metà.

     

    Questa specie di truffa è continuata nel tempo ed ha raggiunto il suo momento più importante qualche decina di anni fa, il 15 agosto del 1971 quando il presidente degli Stati Uniti Nixon decise  il passaggio finale. Fino a quel momento le monete non contenevano più nulla di prezioso, ma almeno se una persona voleva poteva andare in banca negli Stati Uniti e chiedere che il suo pezzo di cartamoneta fosse trasformato in una quantità di oro stabilita. Invece dal 15 agosto del 1971 Nixon  decise che non si poteva più chiedere di trasformare in oro i dollari; per finanziare la guerra  contro il Vietnam erano stati stampati troppi dollari e l'oro contenuto a Fort Knox (il forziere degli Stati Uniti) non era più sufficiente.

    Da quel momento dire quanto vale una moneta o un pezzo di carta che rappresenta una ricchezza diventa una pura convenzione, ossia non qualcosa che si possa facilmente misurare, ma un accordo tra persone o enti di un certo rilievo, un accordo che continua a cambiare e di cui sempre meno sono chiari i decisori, ossia coloro che stabiliscono la convenzione.

     

     

    3. Seconda storia: il combustibile, ossia quando le case statunitensi scesero di valore (sorprendendo tutti)


    Lasciamo stare le monete, gli altri pezzi di carta e il problema del loro valore. Lo riprenderemo in seguito. Ora ci spostiamo dalla miccia (l'incertezza sui valori delle monete) al combustibile della crisi.

    Anche qui la storia inizia con un fatto molto semplice: il lavoro di molte imprese dipende dalla costruzione e dalla vendita di nuove case. Costruire una nuova casa significa dare lavoro a muratori, architetti, elettricisti, idraulici, ma anche a coloro che producono gli oggetti con cui la casa si riempirà (mobili, televisori, frigoriferi...) e a coloro che costruiranno le strade, le linee telefoniche, le tubature che collegano la casa con il resto della città.

    Erano quindi in molti a desiderare che si continuasse quanto più possibile a fabbricare nuove case negli Stati Uniti e anche nel resto del mondo. I più potenti fra costoro erano le grandi imprese di costruzione e le banche, che guadagnavano prestando soldi sia a chi fabbricava la casa, sia a chi l'avrebbe comprata.

    A un certo punto il numero di coloro che aveva comprato una nuova casa sembrava esaurito. Un acquisto simile non è alla portata di tutti: per pagare le centinaia di migliaia di dollari o di euro per l'abitazione occorre avere un lavoro sicuro che permetta ogni mese di mettere da parte una certa quantità di soldi da restituire alla banca che ci ha prestato l'insieme del denaro necessario all'acquisto e con cui ci siamo indebitati per anni e anni.

     

    Un miracolo americano: le banche aiutano i poveri immigrati messicani

     

    Cosa fare allora? Le possibilità erano due: o smettere di costruire nuove case, oppure trovare nuovi acquirenti fra coloro i quali non sembravano in grado di ripagare. Fino al 2006 si scelse la seconda soluzione: le banche statunitensi prestavano i soldi agli immigrati messicani poveri, privi spesso di un lavoro stabile, affinché comprassero una casa. Per assicurarsi contro il rischio del mancato pagamento ponevano una condizione: nel caso in cui non fosse stato ripagato il debito, la casa sarebbe diventata di proprietà della banca. Questa condizione è una cosa normale che le banche pongono sempre a chi chiede un prestito per quel tipo di acquisto, ma il fatto nuovo era l'aumento continuo del valore delle case durante gli anni 2000 (ogni pochi anni raddoppiavano il prezzo) così che se l'immigrato non avesse avuto soldi per la restituzione del prestito la banca si sarebbe appropriata di una casa il cui valore nel frattempo era cresciuto di molto e ci avrebbe guadagnato in ogni caso.

     

     

    Tra il 2006 e il 2007 il gioco però si rompe, il prezzo delle case negli Stati Uniti a forza di crescere è diventato troppo alto, un aumento ulteriore farebbe sì che non vi sarebbero altri acquirenti e a quel punto il prezzo  comincia a calare. Le banche si rendono conto che gli immigrati poveri non solo continuano a faticare nel pagare le rate del prestito, ma in più, che la gallina dalle uova d'oro non fa più uova. Ossia la casa che dovrebbe essere tolta agli immigrati in caso di incapacità di pagamento sta perdendo valore.


    4. Terza storia: l'incendio si propaga

     

    A questo punto inizia la storia della propagazione dell'incendio ed è la più complessa, sebbene i suoi meccanismi basilari siano facili.

    Davanti a immigrati non più in grado di pagare, le banche avrebbero potuto chiamarli, togliere loro le case e rivenderle. Se avessero potuto procedere in questo modo non avrebbero certo fatto la felicità dei loro debitori, ma avrebbero perso solo un po' di soldi, circoscrivendo l'incendio.

    Invece la miccia, nel frattempo, era diventata molto più lunga e molto più nascosta e ha cominciato ad incendiare anche luoghi molto lontani da quelli dove il tutto ha avuto origine.

    Per non dover aspettare 20 o 25 anni in attesa che i nostri immigrati messicani avessero completato  la restituzione dei debiti, le banche nel momento in cui tutto sembrava andar bene avevano venduto il loro credito. Per capirci facciamo un esempio, supponiamo che la banca A in cambio ad esempio di 105.000 dollari incassati immediatamente ha venduto alla banca B un pezzo di carta ufficiale in cui c'era scritto: “il signor Gonzalez deve pagare entro 25 anni 100.000 dollari prestatigli per l'acquisto della sua casa più altri 50.000 per gli interessi, totale 150.000 dollari”. La banca B  per non dover a sua volta aspettare 25 anni a quel punto aveva diviso in 10 pezzi da 15.000 dollari ciascuno la carta originale del sig. Gonzalez. Questi nuovi pezzi di carta si chiamano “obbligazioni derivate”. Quindi, la banca B, mette insieme ciascuno di questi 10 pezzi con altri pezzi di carta (altre obbligazioni) provenienti da altre persone che avevano chiesto prestiti.

     

    Tutti imitano Paperon de’ Paperoni

     

    Il risultato è una specie di puzzle che la banca B ha ceduto alle banche C, site in altre parti del mondo, magari a un prezzo un poco più alto di quello che lei stessa aveva pagato. E perché le banche C avevano accettato di comprare a un prezzo un poco più alto? Evidentemente perché speravano che il prezzo di quei puzzle di carta salisse ulteriormente di valore. E come fa a salire di valore un pezzo di carta? È un processo che ha a che fare con quanto dicevamo al termine della prima storia: se un pezzo di carta (banconota, obbligazione o puzzle di obbligazioni che sia) non ha un riferimento certo in qualche cosa di ben definito che si possa immediatamente scambiare con esso, il suo valore dipende solo da quanto ci si aspetta che varrà.

    Per dirla più chiaramente: da quanto i più ricchi e potenti tra coloro che comprano e vendono quei pezzi di carta si aspettano che varrà. Se la banca di Paperon de' Paperoni decide di comprare un sacco di pezzi di carta legati al debito di tanti signori Gonzalez, probabilmente tanti altri faranno lo stesso. Si aspetteranno che il valore di quei pezzi di carta cresca (“se li compra Paperone una ragione ci sarà...”). E il bello è che il valore cresce davvero perché non è legato a nulla di ben definito, ma solo al prezzo che i vari acquirenti sono disposti a pagare e che può crescere fino a che nessuno è più disposto a tirar fuori tutti quei soldi.

     

    E nessuno sa dove è finito il debito iniziale

     

    Tutto bene? Assolutamente no, perché quando ci si rende conto che il sig. Gonzalez ha magari perso il lavoro e non può pagare il debito e che contemporaneamente la sua casa sta diminuendo di valore, nessuno è in grado di dire dove sia finito il pezzo di carta iniziale che diceva “il sig. Gonzalez deve 100.000 dollari più 50.000 di interessi alla banca A”. Come è possibile che questo sia accaduto? Attraverso due processi, il primo è il continuo spezzettamento e rimescolamento di quel pezzo di carta; il secondo è l'assenza di controlli, per cui le grandi banche che facevano questo processo di spezzettamento e rivendita non dovevano seguire regole particolari e alla fine loro stesse non badavano più a dove i loro puzzle andavano a finire. Fino a che nell'agosto del 2007 una grande banca francese ha detto “fermi tutti, io non presto e non ricevo più pezzi di carta da nessuno perché non  sono assolutamente in grado di dire quanto questi valgono”.

    A quel punto il panico si diffonde, altre grandi banche in buona parte del mondo sono in condizioni simili a quella francese e non possono prestare o ricevere nulla.

     

    5. Appendice. Chi ferma l'incendio?

     

    La crisi divampa: se le banche non prestano più soldi, le fabbriche che hanno bisogno di soldi per allargare o continuare l'attività chiudono, i lavoratori perdono il lavoro, e se perdono il lavoro non possono restituire i prestiti che hanno ricevuto per comprare casa dalle banche e così altre banche entrano in crisi. Ma non è finita:  gli stessi lavoratori non guadagnando più nulla smettono di comprare i prodotti che compravano prima (ad esempio non vanno più nelle agenzie turistiche, non comprano più una nuova maglietta per giocare a tennis o un nuovo paio di scarpe per andare in montagna) e le aziende che producono quelle magliette e quelle scarpe chiudono, lasciando a casa altri lavoratori e aumentando la diffusione della crisi.


    Fermare una crisi non è per nulla facile. Uno dei sistemi che in passato ha funzionato è stata la creazione di posti di lavoro da parte dello Stato. Per uscire dalla crisi in passato alcuni Stati hanno deciso di aprire nuove scuole e nuovi ospedali. Per far questo hanno dovuto assumere nuovi insegnanti, nuovi medici, nuovi infermieri etc. pagandoli attraverso la stampa di nuova cartamoneta. A quel punto è stato messo in atto un circolo virtuoso, basato sull'idea che se uno Stato è in crisi deve spendere di più.

     

    Sembra il contrario del buonsenso comune, ma ha funzionato: i nuovi insegnanti, medici, infermieri avendo uno stipendio potevano comprare una casa. Il costruttore di case ricevendo il denaro da loro poteva usarlo per acquistare un'automobile. Il rivenditore di automobili poteva usare lo stesso denaro per acquistare le magliette da tennis e le scarpe da montagna che in precedenza non comprava più nessuno e così  una parte delle aziende iniziavano ad uscire dalla crisi. In più tutti i protagonisti del circolo virtuoso (medici, infermieri, insegnanti, costruttori di case, rivenditori di automobili, rivenditori di magliette e scarpe) avendo un lavoro pagavano le tasse e allo Stato tornava indietro quella cartamoneta che aveva fatto stampare all'inizio per riattivare l'economia.

     

    Ma ogni crisi ha una storia sua e le ricette per uscire non possono essere dettate una volta per tutte. Per il momento fermiamoci qui, il resto è rimandato ad altre storie.

     

     

    Bibliografia essenziale

     

    Luciano Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino 2011
    Andrea Fumagalli, Sai cos'è lo spread?, Bruno Mondadori. Milano 2012
    Massimiliano Lepratti, L'economia è semplice, EMI, Bologna 2008

  • Si fa presto a dire LIBERISMO

    Autore: Cesare Grazioli

     

    Tre definizioni di un concetto molto, molto complicato

     

    Indice:

    1. Questione di definizione
    2. Liberismo e impresa
    3. Liberismo e stato
    4. Liberismo oggi

     

     

    1. Questione di definizione

     

    Liberalism fra inglese e italiano

     

    Per cominciare, è indispensabile che sia chiara la distinzione (tutta racchiusa in una sillaba) tra:
    il LIBERISMO, di cui qui ci occuperemo - la teoria economica che risale allo scozzese Adam Smith -; e il LIBERALISMO, la teoria politica risalente a John Locke, che contro l’assolutismo sosteneva la divisione del potere (tra esecutivo/governo e legislativo/parlamento), l’inviolabilità delle libertà fondamentali dell’uomo (i diritti civili, diremmo oggi), e l’uguaglianza formale, cioè di fronte alla legge.

    Per singolare paradosso, proprio la cultura inglese, che elaborò questi concetti, non li distingue sul piano linguistico, usando per entrambi la parola liberalism.

    Tuttavia i due concetti vanno distinti, come prova il fatto che l’uno può stare senza l’altro: ad es. un regime del tutto illiberale come la dittatura fascista di Pinochet in Cile era ultra-liberista in economia; e, viceversa, sistemi politici liberali o liberaldemocratici* sono stati e possono essere poco o per nulla liberisti, come ora vedremo.

    * definiamo qui liberaldemocratico un sistema liberale basato sul suffragio universale, mentre il liberalismo classico ottocentesco limitava il voto, cioè i diritti politici, a chi aveva determinati requisiti di censo e/o di istruzione.

     

    La libertà secondo Adam Smith

     

    Certamente Adam Smith, il primo teorico del liberismo, lo intendeva come la proiezione sul piano economico del liberalismo politico: sosteneva infatti la libertà dell’impresa, la libertà del mercato, la libertà dei commerci.

     

    Ma cerchiamo di capire: libertà di chi, e da chi/ da che cosa?

     

    Smith adottò il punto di vista dell’imprenditore capitalista o, per dirlo più concretamente, dell’industriale creatore del moderno sistema di fabbrica nella prima rivoluzione industriale.
    (A .Smith, Saggio  sulla natura e l’origine della ricchezza delle nazioni, 1776).

     

    Per Smith sono i profitti dell’imprenditore, tramite i suoi investimenti produttivi, che generano lo sviluppo economico generale. Con disarmante sincerità, Smith aggiungeva che, per il benessere e la ricchezza di una nazione, era necessaria l’esistenza di una maggioranza di poorlabours, cioè di lavoratori salariati sulla soglia della povertà, con salari sufficienti solo a sfamare sé e (al più) l’unico loro bene, i figli: quei poorlabours vennero poi definiti da Marx ‘proletariato di fabbrica’.

     

    Tre definizioni di liberismo

     

    Se è chiaro che la libertà economica teorizzata da Smith è (soprattutto) quella dell'imprenditore capitalista, la sua concezione diventa coerente. Da allora liberismo significa tre cose:

    1. Libertà della singola impresa di operare in un mercato “autoregolato”, nel quale lo Stato non intervenga, cioè non voglia fissare i prezzi, o programmare-incentivare lo sviluppo di un settore o di un altro, o costituire aziende statali: insomma, un’economia basata su un sistema di aziende private in regime di libera concorrenza fra loro
    2. Libertà di commercio internazionale, senza che lo Stato fissi dazi doganali e altre misure protezionistiche: in questo caso, liberismo è sinonimo di libero-scambismo.
    3. Libertà dell’impresa nel gestire la forza-lavoro, senza vincoli posti da leggi dello Stato o dai lavoratori coalizzati in organizzazioni sindacali (i sindacati dei lavoratori esistono perché è ovvio che se il contratto di lavoro è pattuito individualmente tra il datore di lavoro e il singolo lavoratore, il primo è di norma in posizione di forza, data la oggettiva disparità del loro rapporto).

     

    2. Liberismo e impresa

     

    Il liberismo secondo le imprese


    Vediamo la prospettiva degli imprenditori, ovvero delle imprese.

    Le imprese tendono sempre ad essere liberiste nel 3° significato sopra indicato, cioè a preferire la più ampia libertà/discrezionalità nel gestire la forza-lavoro: esempi facili, tratti dall’attualità italiana, sono la contrarietà delle imprese all’art.18 dello Statuto dei lavoratori (che regola i casi di licenziamento individuale), e il loro favore alla possibilità di avere un gran numero di contratti di assunzione “flessibili”. In questo caso, il “liberismo” è inteso come libertà dell’impresa dai vincoli posti dal sindacato e dalle leggi a tutela del lavoro dipendente (contro i “lacci e laccioli”, secondo una espressione di largo uso nel mondo delle imprese).

    Il liberismo nel 1° significato (mercato autoregolato, senza interferenze statali) significa per le imprese essere contrarie a tre situazioni molto diverse:

    1. a una economia statalizzata e pianificata (di tipo socialista sovietico)
    2. a una economia mista (in parte pubblica, in parte privata, come era quella italiana dagli anni ’30 fino ai ’90; o quelle inglese e francese nel 2° dopoguerra)
    3. a un’economia in cui lo Stato abbia un ruolo di indirizzo, cioè di programmazione economica, e/o di intervento in funzione anticiclica (ovvero di spesa pubblica per espandere la domanda nelle fasi recessive, quando il mercato, cioè l’economia privata, si trovi in difficoltà), come accadde col New Deal di Roosevelt negli Stati Uniti degli anni ’30; e come accadde dal secondo dopoguerra in gran parte d’Europa, con le politiche del Welfare State.

     

    Una metafora calcistica per capire il liberismo
     
    Il 1° tipo di liberismo assegnerebbe allo Stato il ruolo del servizio d’ordine, il più discreto possibile (“c’è ma non si vede”), il quale sorveglia lo stadio, reprime i tifosi violenti, assicura “legge e ordine”, e si disinteressa completamente di quanto accade in campo. Agli occhi di questo tipo di liberismo, l’economia pianificata (a) è quella dello Stato che, anziché limitarsi al ruolo suo proprio di servizio d’ordine, sequestra lo stadio, caccia le squadre e si mette a giocare, per di più cambiando le regole e anche le misure delle porte; l’economia mista (b) gli appare quella in cui lo Stato entra in campo, confondendosi con gli altri giocatori; la programmazione economica (c) gli appare  infine paragonabile al caso di un servizio d’ordine che si metta a svolgere il ruolo di allenatore, o di arbitro della partita.

    Naturalmente, il liberista che preferisce la musica sinfonica al calcio, può paragonare il ruolo dello Stato a quello della polizia municipale di servizio al teatro (o della maschera che controlla i biglietti); e paragonerebbe le altre situazioni qui indicate alla maschera che assumesse la direzione artistica del teatro (a); o che si intrufolasse tra gli orchestrali (b); o si mettesse a fare il direttore d’orchestra (c).

     

    Una contraddizione interna al liberismo

     

    Il liberismo in questa prima accezione, come autodeterminazione del sistema delle imprese private, ha una contraddizione intrinseca, rilevata già dallo stesso Smith:

    • da una parte, infatti, il principio della libera concorrenza dovrebbe basarsi su un sistema di molte imprese in competizione tra loro sulla qualità dei prodotti e/o sui prezzi;
    • dall’altra, però, questa concorrenza può servire ad alcune imprese per “mettere fuori mercato” e/o assorbire le concorrenti, fino ad arrivare a una situazione di monopolio, che è l’opposto della concorrenza stessa (non a caso gli Stati Uniti per primi hanno adottato da un secolo, sia pure con scarso successo, una legislazione antitrust).

     

    Aziende liberiste solo di nome

     

    Infine, le aziende sono spesso molto poco liberiste nel 2° significato, cioè libero-scambiste, e ci limitiamo qui a pochi esempi tratti dalla storia del Novecento, tra gli innumerevoli possibili.

    Negli Stati Uniti dei “ruggenti” anni ‘20, la grande industria era ferocemente liberista nel 3° significato (si arrivò a uccidere dei sindacalisti…), e nel 1° (in omaggio a un antistatalismo radicato nella cultura americana del “self-made man”); ma per nulla nel 2°, anzi ottenne dallo Stato tariffe protezionistiche tali da impedire praticamente le importazioni di molte merci.

    Lo stesso si può dire della Confindustria italiana negli anni ‘50, che quasi eliminò i sindacati nelle fabbriche (e basò lo sviluppo di quell’epoca anche sui salari più bassi d’Europa), e si oppose a ogni ipotesi di programmazione economica (che invece, sulla base del keynesismo condiviso nel resto dell’Occidente, era largamente praticata altrove).

    Questa industria fu – nelle sue componenti maggioritarie – schierata a difesa del guscio protezionistico vigente dalla fine dell’Ottocento, e rafforzato dal fascismo: tanto che inizialmente avversò l’adesione alla Cee, sostenuta dai governi del tempo (e che si sarebbe poi rivelata vantaggiosissima per le stesse imprese: la Cee divenne subito il principale mercato di sbocco per i prodotti italiani).

     

    3. Liberalismo e stato

     

    Il liberismo secondo lo stato fascista

     

    Vediamo ora la prospettiva degli Stati, cioè della politica economica dei governi.

    Ci riferiamo ovviamente a Stati ad economia di mercato (cioè capitalistica), perché è ovvio che i regimi di tipo sovietico, che statalizzarono e centralizzarono l’economia eliminando il mercato, furono l’opposto del liberismo in tutti  e tre i sensi.

    Più complesso sarebbe il discorso per Stati autoritari di tipo fascista, o, in qualche modo, per  quella forma di capitalismo di Stato oggi vigente in Cina, che al di là della propaganda, sembrerebbe più simile ai sistemi fascisti che a quello comunista.

    Quegli Stati erano liberisti nel 3° significato (lasciavano cioè totale libertà d’azione alle imprese nei confronti dei lavoratori, privando questi ultimi del diritto di scioperare e di organizzarsi in sindacati non controllati dal regime; sia pur con la “foglia di fico” dell’ordinamento corporativo).

    I sistemi fascisti erano invece nettamente anti-liberisti nel 2° significato, cioè erano protezionisti (fino all’autarchia, nel caso italiano; o alla gestione statale del commercio estero, in forme bilaterali gestite dal governo, nel caso del nazismo tedesco); ed erano anti-liberisti nel 1° significato, visto che il fascismo e il nazismo intervennero pesantemente nell’economia: il fascismo con la statalizzazione di molte banche e imprese, fino a creare lo “Stato imprenditore e banchiere”, a fianco dell’economia privata; il nazismo, con i “piani quadriennali” che decretavano quali settori incentivare e quali no.

     

    Il liberismo secondo gli stati liberaldemocratici

     

    Ma anche per gli Stati liberaldemocratici ad economia di mercato, è opportuno distinguere i tre significati di liberismo sopra richiamati, con esempi tratti dal passato e dal presente.

    Nell’America di Roosevelt, il New Deal fu anti-liberista in tutti tre i significati sopra indicati: mantenne le barriere protezionistiche ereditate dai governi repubblicani degli anni venti; introdusse concrete misure a favore dei sindacati e dei lavoratori, per sostenere l’occupazione e i redditi da lavoro, e perciò la domanda interna; attuò numerose misure non tanto di programmazione, quanto di intervento diretto dello Stato, con grandi opere pubbliche per rilanciare l’occupazione e i consumi. Eppure, il New Deal non si proponeva certo di limitare l’economia di mercato, né tanto meno di renderla “socialista”, quanto piuttosto di salvarla e rafforzarla, e così accadde, anche se solo parzialmente: sappiamo che fu poi la 2° guerra mondiale a risollevare definitivamente l’economia americana dalla depressione degli anni ’30.

    In gran parte dell’Europa occidentale, per tutta la “età dell’oro” (i trent’anni successivi al 1945) i governi si ispirarono a Keynes e al Welfare State, tanto che in Germania fu coniato il termine “economia sociale di mercato”. Ciò portò a una situazione pressoché opposta a quella dell’America degli anni venti. Lo Stato interveniva sia con misure dirette e indirette a favore dei lavoratori, per favorire la piena occupazione e una serie di “diritti sociali” dentro e fuori i luoghi di lavoro; interveniva inoltre sul mercato programmando lo sviluppo (con formule quali: politiche industriali, “concertazione” e “politiche dei redditi”, incentivi alla ricerca e a settori considerati strategici), e/o assumendo direttamente la gestione di alcuni settori economici considerati strategici come trasporti, energia, sanità, scuola, ecc.

    Anti-liberisti, dunque, secondo il 1° e il 3° significato, gli Stati europei erano invece libero-scambisti, a partire dai trattati fondatori della Ceca (1950) e della Cee (1957), almeno per il commercio dei beni industriali. Per la verità, la Cee fu, e la Ue è tuttora, un mercato di libero scambio industriale ma al contempo un sistema di protezionismo agrario, cioè di difesa (onerosissima!) degli agricoltori-allevatori europei dalla concorrenza extra-europea.

     

    Il caso italiano

     

    Il caso italiano, come spesso accade, è più complesso. Nel dopoguerra, e soprattutto dal 1947 (cioè dall’inizio della formula del centrismo, con De Gasperi capo del governo ed Einaudi ministro del Tesoro), i governi italiani adottarono una graduale apertura al libero-scambismo, anche superando le resistenze della Confindustria (con le già citate adesioni alla Ceca e alla Cee); e fecero propria la posizione della Confindustria, liberista nel 3° significato (cioè in senso “antioperaio”), e nel 2°, ovvero rinunciarono a una politica di programmazione economica (di “programmazione” si riparlò solo dagli anni ’60, ma non fu mai attuata).

    Così facendo delegarono lo sviluppo esclusivamente alla spontaneità del mercato. Al contempo, però, quei governi mantennero (rispetto all’epoca fascista), ma anche crearono ex novo, importanti settori di industria pubblica: l’Iri, il maggiore gruppo italiano; l’Agip e poi l’Eni, colosso nel settore energetico; poi l’Enel nel campo dell’elettricità, e la Montedison, colosso chimico e nelle fibre sintetiche, ed altri. Si trattò di settori che ebbero un ruolo essenziale nel favorire il “miracolo economico”.

    Secondo la metafora calcistica che abbiamo già utilizzato, lo Stato italiano dai ’40 ai ’60 rinunciò a svolgere il ruolo di giudice/arbitro del mercato, ma svolse (molto più di altri Stati occidentali) il ruolo di giocatore, a fianco e/o in competizione con gli altri giocatori (privati). Dalla fine degli anni ’60, poi (pressato dalle lotte operaie di quegli anni), assunse un ruolo diverso anche nei rapporti tra imprese e lavoratori, attuando importanti leggi a tutela del lavoro: vedi soprattutto  la legge 300 del 1970, chiamata Statuto dei lavoratori.  

     

    4. Il liberismo oggi

     

    L’Occidente e le politiche keynesiane

     

    In Occidente, la teoria economica keynesiana fu rimessa in discussione e poi abbandonata dalla fine degli anni ‘70, di fronte al crescente indebitamento degli Stati (dovuto principalmente all’aumento della spesa pubblica legata ai costi del Welfare State). Per la verità, a giudizio di molti economisti, quell’indebitamento derivava non tanto dal keynesismo, quanto dal modo unilaterale con cui era stato applicato. La teoria di Keynes, infatti, venne interpretata come la giustificazione del “deficit spending”, ovvero della necessità che lo Stato finanziasse lo sviluppo anche ricorrendo all’indebitamento.

    In realtà, secondo Keynes, lo Stato deve giocare un ruolo “anticiclico”, ma questo significa:

    1. spendere, anche indebitandosi cioè creando deficit, durante le fasi recessive del mercato;
    2. ma, all’opposto, drenare risorse (soprattutto con la leva fiscale) e in tal modo ridurre le sue spese e i suoi debiti, durante le fasi favorevoli del ciclo economico, quando c’è meno bisogno della spesa pubblica per alimentare la domanda e la produzione.

    Però, ben si capisce, è politicamente più facile per gli Stati giocare il ruolo di “cicala” che quello di “formica”, cosicché le loro politiche di alta spesa pubblica produssero un crescente indebitamento, che a sua volta portò buoni argomenti al neo-liberismo, avversario della teoria keynesiana.

     

    Il monetarismo neoliberista

     

    Il monetarismo neo-liberista, nuovamente imperante dagli anni ’80, assume come dogmi il pareggio del bilancio dello Stato, la riduzione della spesa pubblica e delle tasse, con la formula “meno Stato più mercato” (liberismo del 1° tipo), e con una “deregulation” sia nei rapporti di lavoro (liberismo del 3° tipo) sia, soprattutto, nella riduzione dei controlli sui movimenti di capitale finanziario (liberismo del 2° tipo, in questo caso applicato non solo alla liberalizzazione della circolazione internazionale delle merci, ma soprattutto a quella dei capitali), con la conseguenza di una enorme finanziarizzazione dell’economia (ricordiamo che il volume di scambi solo di valute estere  passò da 15 miliardi di dollari al giorno del 1975 a 3.200 nel 2007, cioè si è moltiplicato x 213 volte).

    Da allora, le politiche economiche seguite sia dagli organismi internazionale come il Fmi, la Banca mondiale, l’Ue (Unione europea) e la Bce (Banca centrale europea), sia dai singoli Stati (specie quelli europei, sotto l’egemonia della Germania e, forse più ancora, della grande finanza globale e dei suoi periodici attacchi speculativi a questa o a quella moneta o economia nazionale) sono state ispirate alle ricette liberiste, in tutte tre le accezioni (fino a fare diventare il pareggio di bilancio legge costituzionale, come hanno fatto l’Italia e altri Stati europei nel 2012 su pressione del governo tedesco della Merkel).

     

    Si notino i due paradossi conclusivi:

     

    1. nella fase più acuta della tempesta finanziaria esplosa nel 2007-08, fu lo Stato a salvare le banche e il mercato (soprattutto negli Usa, con onerosissimi interventi a vantaggio di alcune grandi banche, fatti dallo Stato, cioè a carico dei contribuenti);
    2. le severissime ricette di rigore finanziario neoliberista imposto ai Paesi in difficoltà dagli anni ’90 ai nostri giorni (in Sud America: Messico, Brasile, Argentina nell’ordine; e oggi in Europa: vedi il caso della Grecia) hanno quasi sempre avuto l’effetto di… uccidere il malato!

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