epidemia

  • Epidemie e pandemie dal passato al presente. Una raccolta di articoli in rete

    di Daniele Boschi

    Di fronte alla crisi provocata dalla diffusione del Coronavirus, gli organi di informazione e i social media si sono spesso affidati alle analisi e alle previsioni di medici ed epidemiologi, economisti, psicologi e scrittori; anche gli storici, tuttavia, sono scesi in campo. La Società Italiana per la Storia dell’Età Moderna ha realizzato nel suo sito web una raccolta di articoli, interviste e risorse online intitolata “la storia al tempo del Covid-19”. JSTOR Daily ha pubblicato decine di saggi ed articoli che oltre ad offrire approfondimenti sulla situazione attuale, ripercorrono la storia delle malattie infettive, della loro diffusione e delle misure adottate per prevenire o contrastare il contagio.

    Naturalmente il tema ricorrente negli interventi a sfondo storico è il confronto tra la crisi attuale e le epidemie del passato: dalla cosiddetta Peste Nera del XIV secolo alle terribili epidemie di peste del Seicento, dalla pandemia di colera del XIX secolo alla “spagnola” degli anni 1918-19. Quali sono le analogie e le differenze rispetto alla pandemia attuale? Possiamo trarre delle lezioni dal passato?

    Gli abitanti di Tournai seppelliscono le vittime della peste (miniatura del XIV secolo)1. Gli abitanti di Tournai seppelliscono le vittime della peste (miniatura del XIV secolo)

    La rassegna che segue si basa principalmente sui testi raccolti dalla Società Italiana per la Storia dell’Età Moderna, ma anche su altri articoli che ho trovato girovagando sulla rete a partire dalle indicazioni dei vari motori di ricerca.

    Ogni epoca storica ha le malattie che si merita

    Può essere utile partire dall’attenta e articolata analisi di Kyle Harper, che si ispira agli studi di William McNeill, autore oltre quarant’anni fa di una celebre monografia sulla storia delle malattie infettive. In un articolo pubblicato sull’edizione online della rivista «Foreign Policy», Harper ha sottolineato il fatto che le grandi epidemie sono sempre il risultato dell’azione congiunta di fattori casuali e di caratteristiche strutturali delle società umane. Sono casuali, infatti, il passaggio degli agenti patogeni da una specie all’altra, le mutazioni genetiche che rendono alcuni microrganismi più aggressivi, i contatti tra i diversi gruppi umani. Tuttavia, se si adotta una scala temporale più lunga, risultano evidenti i nessi tra la diffusione delle malattie infettive e i diversi livelli di sviluppo della società umana. In un certo senso, ogni epoca storica ha le malattie infettive che si merita – non dal punto vista morale, ma sul piano ecologico.

    Questo vale anche per noi. La modernizzazione della società ha portato con sé la creazione di ambienti assolutamente artificiali, progettati per tenere sotto stretto controllo gli agenti patogeni. Tuttavia, l’imponente aumento della popolazione umana, la globalizzazione e il crescente sfruttamento delle risorse naturali hanno enormemente aumentato l’interfaccia tra la nostra specie e i suoi potenziali parassiti. Paradossalmente, nell’Antropocene l’emergere di malattie infettive ha avuto un’accelerazione. È vero che sono molto migliorati i mezzi a nostra disposizione per combattere virus e batteri, ma alcuni dei nostri nuovi nemici come l’HIV e i coronavirus hanno messo o stanno mettendo a dura prova anche i più sofisticati strumenti della scienza e della medicina di oggi.

    La reazione alle epidemie: analogie e differenze tra presente e passato

    Molti storici hanno sottolineato le analogie, ma anche le differenze, che si riscontrano nel modo in cui la politica e la società reagiscono alle epidemie, osservando che le strategie adottate per arginare il Covid-19 hanno le loro radici nel passato.

    Il lazzaretto di Milano2. Il lazzaretto di Milano, che servì come luogo di ricovero per i malati durante le epidemie del XVI e XVII secolo.
    La struttura fu poi adibita ad altri usi ed infine smantellata alla fine dell’800 (la foto è del 1880 o 1882)

    Ad esempio, Eugenia Tognotti ha ricordato che fin dal tardo Medioevo, di fronte al dilagare della peste, le città italiane misero in atto un sistema difensivo basato su quarantene, cordoni sanitari, lazzaretti e controllo sociale della popolazione a rischio. Queste misure furono poi imitate in altri paesi europei. E questo accadeva nonostante il fatto che erano allora sconosciute le reali modalità di contagio delle malattie infettive.

    Un altro parallelo, secondo Tognotti, si può rintracciare tra la crisi attuale e quella provocata in Italia nel 1918 dalla diffusione della influenza spagnola:
    «… le scuole furono chiuse, e anche cinema, teatri e luoghi di ritrovo. Gli orari di apertura dei ristoranti furono ridotti. Furono proibite le riunioni pubbliche e anche i funerali e le cerimonie religiose. … Le descrizioni delle città italiane nell’autunno-inverno del 1918, con le strade buie e deserte, illuminate soltanto dalle luci delle farmacie, sono simili alle immagini che la televisione ci trasmette oggi, con le porte delle chiese serrate e le strade e le piazze deserte»1.

    I confronti vanno fatti però con cautela. Come mette in rilievo un articolo del geografo Freddy Vinet, autore di una monografia sulla pandemia di spagnola, il contesto di quella crisi, che scoppiò quando era ancora in corso il primo conflitto mondiale, era completamente diverso da quello attuale. L’epidemia giunse inaspettata in un momento in cui gli sforzi della popolazione e dei governi erano ancora concentrati sulla guerra e anche per questo le iniziative messe in campo per contrastare la diffusione della malattia furono deboli e poco efficaci:

    «Le risorse mediche erano riservate allo sforzo bellico. Le autorità politiche si rifiutavano di dare istruzioni generali per chiudere le frontiere o confinare la popolazione. L’economia di Paesi già duramente colpiti dalla guerra non doveva essere gravata ulteriormente. Le autorità rimandarono ai prefetti o ai Comuni il compito di chiudere teatri, cinema, negozi o sospendere eventi sportivi, qualora necessario. In realtà, le economie dei Paesi colpiti si fermarono per mancanza di personale. Il numero dei malati era tale che le scuole non potevano più funzionare, le fabbriche giravano a rilento e i raccolti erano lasciati in stato di abbandono».

    Quella terribile pandemia provocò nel mondo un numero di decessi stimato tra 50 e 100 milioni, in confronto ai quali la mortalità prodotta dal Covid-19, in termini puramente statistici, appare al momento molto bassa. Il fallimento delle autorità mediche e politiche nel contrastare la ‘spagnola’ fu totale e per questo esse si sforzarono poi di attutire il ricordo di quella tragedia nella memoria collettiva.

    Un padiglione di un ospedale di Washington D.C.3. Un padiglione di un ospedale di Washington D.C.
    riservato ai malati di influenza spagnola durante la pandemia del 1918-19

    Lo storico Richard J. Evans, intervistato sul «New Yorker», ha rievocato i principali risultati delle sue ricerche sulle epidemie di colera che colpirono Amburgo nel XIX secolo, e in particolare su quella devastante del 1892. Amburgo era allora la seconda città dell’Impero tedesco: era una città autonoma, governata da una élite di mercanti che cercò di imporre il silenzio sulla diffusione della malattia, per il timore dei danni che le misure di contenimento dell’epidemia avrebbero prodotto per i loro affari. Impossibile non vedere qualche somiglianza con gli analoghi tentativi fatti in un primo momento dalle autorità cinesi di fronte all’epidemia del Covid-19.

    Alessandro Pastore ha ricordato i “bollettini di sanità” che in Antico Regime consentivano agli uomini di spostarsi durante un’epidemia, apparentemente molto simili alle certificazioni oggi necessarie per poter giustificare i nostri movimenti a fronte di eventuali controlli di polizia. E tuttavia i bollettini di sanità erano rilasciati ad personam da un’autorità civile o ecclesiastica, mentre le nostre autocertificazioni sono sottoscritte da chi le ha compilate e riportano i dati di carte di identità o di altri documenti simili, dei quali non vi era l’equivalente in Antico Regime.

    La ricerca di capri espiatori e di responsabili umani

    La ricerca di capri espiatori, di complotti e di responsabili umani all’origine del contagio è un altro elemento che sembra accomunare la crisi attuale alle epidemie dei secoli passati. Come ha ricordato, tra gli altri, Simon Shama, al tempo della Peste Nera gli ebrei furono accusati di aver avvelenato i pozzi e di aver diffuso intenzionalmente il morbo; e alla fine dell’Ottocento non era raro che la diffusione del colera, arrivato in Europa dal Bengala, fosse spiegata come il risultato di una vendetta asiatica contro l’imperialismo europeo. Ai nostri giorni il Presidente statunitense Donald Trump ha accusato la Cina di aver diffuso nel mondo il Coronavirus; e aggiungiamo che altri hanno ipotizzato che siano stati i militari americani a portare il morbo a Wuhan.

    Un manifesto usato a New York durante un’epidemia di colera (1865)4. Un manifesto usato a New York durante un’epidemia di colera (1865)

    Silvana D’Alessio ha raccontato che a Napoli, durante l’epidemia di peste del 1656, si sparse la voce che il morbo fosse stato deliberatamente introdotto da nemici della corona spagnola, Francesi o Portoghesi, che l’avrebbero portato con polveri o unguenti; e alcuni presunti untori furono torturati e uccisi (come era già accaduto a Milano nel 1630).

    Al rapporto tra epidemie, immaginario collettivo e violenza sono dedicate alcune delle recenti ricerche di Samuel Cohn, che ora ha riproposto brevemente le sue tesi. Lo storico statunitense ha rilevato che, nella storia delle epidemie dall’antichità a oggi, la tendenza a sfogare paure e tensioni contro outsiders, o contro gruppi e individui marginali, rappresenta un’eccezione piuttosto che la regola. E mentre sono ben note le violenze contro gli ebrei al tempo della Peste Nera, meno conosciute sono le violente rivolte che scoppiarono nel XIX secolo e agli inizi del XX in occasione delle epidemie di colera, quando ad essere presi di mira furono il personale medico e sanitario e i rappresentanti delle autorità governative, accusati di avere inventato un pericolo inesistente e di segregare e far morire i presunti malati negli ospedali.

    Anacronismi e uso strumentale della storia

    Se gli storici sono in genere abbastanza cauti nel proporre il confronto tra il presente e il passato, non sempre si coglie un’analoga prudenza negli interventi e nelle analisi che appaiono sui media. E di fronte all’abbondanza dei riferimenti alle epidemie del passato, Maria Conforti si è chiesta «se la storia sia, come sembra in questi giorni, solo una trita ripetizione di eventi … o se non sia invece un ‘paese straniero’, come è stato definito da David Lowenthal: un luogo da visitare sapendo quanto è diverso dal nostro». E ha suggerito la lettura delle memorie del chirurgo Giuseppe Balestra, che fu a capo del lazzaretto dell’Isola Tiberina a Roma durante l’epidemia di peste del 1656, come «antidoto salutare alla tentazione di attualizzare senza le dovute cautele ed esperienze, pratiche e tragedie che per molti versi sono lontanissime dalla nostra».

    Un medico che indossa vari dispositivi di protezione dal contagio5. Un medico che indossa vari dispositivi di protezione dal contagio2
    durante l’epidemia di peste del 1656 a Roma
    (l’immagine serve da illustrazione a un testo satirico)

    Anche per Alessandro Pastore «anacronismi palesi e confronti ingannevoli sono facilmente in agguato e vanno smontati» rifacendosi alla lezione di Lucien Febvre, che definiva l’anacronismo come «il peccato dei peccati», e di Marc Bloch, che metteva in guardia dalle false somiglianze e invitava a cogliere la «sensazione della differenza» per arrivare a una vera conoscenza del passato.

    D’altro canto i riferimenti al passato non sono sempre ingenui, ma possono essere funzionali a forme di strumentalizzazione politica. In particolare, Maria Pia Donato, dopo aver ricordato che, ieri come oggi, le epidemie colpiscono più duramente i poveri, i deboli e i marginali, ha sottolineato il fatto che «con buona pace delle persistenze di lungo periodo, nelle società di antico regime l’accesso ineguale alle cure era un’evidenza … Oggi, invece, almeno nell’Europa occidentale, è un dato di fatto contrario al diritto, il frutto di scelte precise di politici eletti democraticamente – o almeno dell’assenza di scelte e di politiche». Per questo è necessario «oggi più che mai, insistere sulle differenze, denunciare l’uso strumentale di analogie e persistenze storiche, svolgere un’opera, per così dire, di igiene concettuale». Solo in questo modo gli storici potranno intervenire più autorevolmente al di fuori del dibattito accademico “per individuare le responsabilità, proporre soluzioni, immaginare un futuro di liberazione”.

    Dal passato al futuro

    Sulle prospettive che si aprono di fronte a noi, è ricorrente la constatazione che l’attuale crisi potrebbe segnare un passaggio epocale. Per Yuval Noah Harari questa crisi è forse la più grande della nostra generazione. «Le decisioni che le persone e i governi prenderanno nelle prossime settimane probabilmente incideranno in profondità sul mondo per anni. Influiranno non solo sui nostri sistemi sanitari ma anche sull’economia, la politica e la cultura». Siamo chiamati a scegliere tra la sorveglianza totalitaria e la responsabilizzazione dei cittadini, tra l’isolamento nazionalista e la solidarietà globale. Purtroppo una paralisi collettiva sembra aver bloccato la comunità internazionale. Gli Stati Uniti hanno abdicato al ruolo di guida che hanno svolto nelle precedenti crisi globali, come quella finanziaria del 2008 e quella di Ebola nel 2014. Soltanto se il vuoto lasciato dalla superpotenza americana sarà riempito da altri paesi, riusciremo a trasformare questa crisi in una opportunità per costruire un mondo più solidale.

    Sulle pagine di «Le Monde» Thomas Piketty si è chiesto se la crisi del Covid-19 porterà al declino dell’ideologia neo-liberista e all’emergere di un nuovo modello di sviluppo più equo e sostenibile. E ha risposto che ciò è possibile, ma non è affatto scontato. Egli ha sottolineato che «questa crisi può anche essere un’opportunità per riflettere su una distribuzione di risorse sanitarie ed educative minime per tutti gli abitanti del pianeta», risorse finanziate grazie a modalità di prelievo fiscale più efficaci sui redditi più elevati e sui grandi patrimoni. È difficile però immaginare che Trump o Macron possano aderire a una prospettiva di questo tipo e molto dipenderà anche dalla mobilitazione delle forze che si oppongono a quei leader e ai loro governi. «Possiamo essere certi di una cosa: i grandi sconvolgimenti politico-ideologici sono solo all’inizio».

    Tornando a Kyle Harper, col quale avevo aperto questa rassegna, egli ha concluso il suo intervento affermando che il Covid-19 avrà probabilmente un impatto molto minore rispetto alle maggiori pandemie del passato in termini di mortalità, ma molto forte sul piano sociale, economico e forse anche geopolitico:

    «A volte le pandemie si limitano ad accelerare il corso degli eventi storici o a rivelare la direzione nella quale si stava già andando, altre volte modificano in modo determinante lo sviluppo delle società umane … Avremo bisogno di tempo e di una prospettiva temporale più lunga per comprendere i modi in cui questa pandemia cambierà il nostro mondo (gli storici, naturalmente, prediligono la distanza e lo sguardo da lontano). Ma la sensazione che abbiamo di assistere alla rottura di alcune delle giunture della nostra società non è sbagliata e il nostro passato ci ricorda che gli shock biologici spesso coincidono con momenti di trasformazione e di mutamento – e qualche volta persino di progresso».

     

    Note

    1. Il testo originale di Eugenia Tognotti è in inglese. La traduzione è dell’autore di questo articolo. Questa avvertenza vale anche per gli articoli in lingua inglese citati in seguito.

    2. Il mistero della macabra maschera a forma di becco dei medici della peste.

    Fonti delle immagini

    Immagine1  | Immagine2  | Immagine3  | Immagine4  | Immagine5  

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  • La lunga guerra tra uomo e microbi

    Con una postilla sul “Laboratorio del tempo presente” (di HL)

    di Salvatore Adorno*

    Illustrazione di apertura dell’articolo di Salvatore Adorno, pubblicato da «La Sicilia», 20 marzo 2020

    Domesticazioni riuscite e no

    La vicenda del corona virus ci permette di utilizzare come chiave di lettura della storia dell’umanità il conflitto tra uomo e microbi.

    I microbi, virus e batteri, hanno una storia più lunga di quella dell’uomo. L’uomo è comparso sul pianeta 4 milioni di anni fa, quando i virus e i batteri erano già presenti da due miliardi di anni. Erano allora le più numerose forme di vita, i veri padroni della terra. Da quel momento l’uomo a grandi tappe ha forgiato il pianeta e ha riorganizzato il mondo degli altri esseri viventi in funzione del suo dominio: alcuni sono stati addomesticati come il cane e il cavallo, altri sono risultati restii al processo, come il bisonte che è stato così sterminato, altri sono rimasti ribelli come i virus e i batteri, i cosiddetti microbi: i nemici più pericolosi della specie umana.

    Per lungo tempo la forza di virus e batteri stava nel loro essere invisibili e quindi nella possibilità di agire indisturbatamente, uccidendo l’uomo. La scoperta del cannocchiale (siamo con Galileo nella prima metà del XVII secolo) e quindi del microscopio ha permesso di individuarli. Successivamente Pasteur e Kock, nel corso dell’Ottocento, hanno definito il loro ruolo nella trasmissione delle malattie, arrivando alla preparazione dei vaccini. Fleming nel primo Novecento ha scoperto gli antibiotici.

    La guerra degli uomini ai microbi

    Vaccini, antibiotici e risanamento dell’ambiente (si pensi alle bonifiche dei terreni malarici) sono state le armi con le quali l’uomo nel Novecento ha compiuto un vero “colpo di stato” nei confronti della maggioranza delle forme di vita fino ad allora dominanti, i microbi, che nella storia dell’umanità hanno ucciso mille volte più uomini di quanti ne abbiano ucciso guerre e disastri naturali.

    Non a caso, la ricerca scientifica e l’organizzazione dei sistemi sanitari nazionali hanno portato al ridimensionamento dell’azione di virus e batteri e in particolare all’eliminazione del virus del vaiolo e all’eradicazione di quello della difterite, del morbillo e di altre malattie endemiche. Tutto ciò ha contribuito in modo rilevante ad allungare la vita delle persone, migliorandone il controllo sanitario e la qualità. Un solo esempio: il vaiolo nel XX secolo, prima di scomparire definitivamente nel 1980, ha fatto 300 milioni di vittime.

    La risposta dei microbi

    La nostra epoca dei consumi di massa individuali, che inizia dopo la seconda guerra mondiale ed evolve nella globalizzazione, ha visto così un netto miglioramento delle condizioni di vita e lo sterminio dei più feroci nemici dell’uomo. Nei principali libri di storia della medicina si legge come nella seconda metà del Novecento siano diminuite le patologie legate alla trasmissione e al contagio e siano aumentate quelle tumorali e cardiopatiche legate all’inquinamento, all’alimentazione allo stress, ovvero all’attività umana. Il paradosso sta nel fatto che questa vittoria è avvenuta in un’epoca in cui si sono moltiplicate vertiginosamente le condizioni che favoriscono la diffusione e il contagio di batteri e virus: l’aumento dell’irrigazione, la crescita esponenziale dei trasporti, il deterioramento degli ecosistemi, il cambiamento delle relazioni tra animali e uomini, la nascita delle megalopoli e il moltiplicarsi all’infinito dei contatti quotidiani tra gli uomini.

    Ecco allora che la vittoria strategica sui microbi, realizzata tra la fine del XIX secolo e la seconda metà del XX secolo, risulta sempre più instabile, anche perché i batteri hanno risposto all’attacco degli antibiotici diventando resistenti MDR (multi drug resistence), producendo così nuove forme di malaria e di tubercolosi, e i virus, approfittando del sovvertimento ecologico del pianeta, sono mutati sfuggendo al controllo dei vaccini. Nel 1977, ad esempio, circa 50 milioni di esseri umani sono stati affetti da tubercolosi MDR. Per cui oggi la transizione epidemiologica che sembrava portare al trionfo dell’uomo pare essersi fermata e il nemico ritorna più pericoloso che mai nelle forme dell’HIV, della Sars, del corona virus.

    La coevoluzione tra uomo e microbi sembra di nuovo sfuggire al controllo dell’uomo.

    Una guerra che cambia la storia

    L’epidemia attuale di corona virus rappresenta l’altra faccia del dominio dell’uomo sulla natura, è la risposta della natura alla pretesa superiorità biologica dell’uomo. Un microbo sta mettendo a repentaglio il sistema dell’economia, della cultura e della società globale. L’uomo con la sua intelligenza riuscirà probabilmente a vincere questa guerra (così ormai viene rappresentata dei media) che però è anche l’ennesimo e forse più netto segnale del nostro essere entrati in un’altra fase della storia della specie. La pandemia di oggi per un verso si pone in continuità con la guerra infinita tra uomini e microbi, per un altro segna una cesura profonda perché agisce, per la prima volta e quindi in modo imprevedibile, in un pianeta iperconnesso e ipertecnologico che l’uomo ha forgiato come non mai a sua misura.

    Ambiente, migrazioni e virus

    C’è infatti uno stretto nesso tra l’emergenza ambientale, quella migratoria e quella sanitaria. Tutte e tre sono il frutto della globalizzazione e sono strettamente connesse tra loro. Tutte e tre pongono alla società globale una doppia sfida: mantenere la sicurezza e modificare gli stili di vita.

    Fino ad oggi il tema della sicurezza è stato affrontato polarizzando la paura e alzando barriere di odio nei confronti dei migranti, che tolgono lavoro, portano malattie e violenza. Questo atteggiamento spinge così a blindare il nostro stile di vita basato sui consumi di massa individuali e sull’uso indiscriminato delle risorse naturali.

    Il corona virus ribalta questa narrazione e ci dimostra all’improvviso che l’insicurezza, sanitaria ed economica, viene dalle aree più ricche ed è il prodotto della nostra società dei consumi e dell’alterazione degli equilibri ambientali che noi stessi abbiamo creato. Oggi per bloccare il virus tutte le autorità richiedono di rimodulare temporaneamente il nostro stile di vita rendendolo più controllato e più parco. A ben vedere è la stessa richiesta di Greta Thumberg, che ci invita a un cambiamento strutturale delle nostre modalità di produzione, di mobilità, di alimentazione e di svago, per salvare il pianeta dal riscaldamento globale e dall’esaurimento delle risorse.

    Di fronte all’insicurezza e alla precarietà prodotta dalla globalizzazione possiamo rispondere individuando un nemico esterno, trincerandoci nella certezza della bontà del nostro modello di vita, oppure prendendo atto che è il nostro modello di vita che genera instabilità e insicurezza, spingendoci a ripensarlo. La pandemia da corona virus e il riscaldamento globale, sono due facce di un pianeta iperconnesso e profondamente alterato nelle sue matrici naturali (acqua, suolo, aria, vita animale e vegetale), che la specie umana ha messo sotto stress.

    I segnali di questa malattia della terra sono ormai molti, forse è arrivato il momento di fermarsi a riflettere sul nostro futuro come individui, come società e come specie. Forse la politica dovrebbe occuparsi proprio di questo.

    *****
    ***

    Una postilla sul “Laboratorio del tempo presente” (di HL)

    Un’infermiera della Croce Rossa indossa una mascherina durante la pandemia del 1918 (da Jstor)

    A cosa serve parlare a scuola di corona virus? Certo, non ad aggiungere dati e polemiche a quelle che già inondano i media. Non c’è bisogno di una tabella in più o di una ulteriore raccomandazione a comportarsi correttamente. Quello che manca, e che i media non sono molto interessati a dare (comprensibilmente, vista l’emergenza), è la risposta a una folla di domande, che – per quanto inespresse – ci angosciano quanto quelle quotidiane, perché riguardano il destino della nostra società. Dopo, ci chiediamo, che cosa succederà? Ci stiamo accorgendo, infatti, che questo evento sta agendo nel nostro modo di vivere in modo molto profondo. Quindi, intuiamo, più o meno confusamente, che “il dopo” sarà diverso.

    È fondamentale cominciare a capire che cosa questo evento sta mettendo in discussione. La storia è uno degli strumenti a nostra disposizione. Lo fa in due direzioni. Quella del tempo, in primo luogo. La storia mette il nostro evento in una prospettiva temporale che, in questo caso, è lunghissima. Dura quanto l’intera vicenda umana. Coinvolge l’idea stessa di evoluzione. Adorno richiama il concetto di “coevoluzione”: quella dell’uomo e quella del virus. Se non conosciamo bene la dinamica di questo confronto, non potremo mai immaginare quale “mossa” ci convenga fare contro un avversario, adattabile almeno quanto lo siamo stati noi.

    La seconda direzione è quella della contestualizzazione. In quale contesto inserire questo evento? In quello del piccolo paese, della regione o del singolo stato? C’è una risposta ovvia: nel contesto dell’ambiente globale. C’è, infatti, una seconda coevoluzione che viene messa in gioco oggi: quella fra umanità e ambiente. E questa chiama in causa – come sottolinea Adorno – la globalizzazione con i suoi aspetti più visibili, quali le migrazioni, le crisi climatiche e i nostri stili di vita (ma potremmo aggiungere anche la finanza mondiale, le politiche internazionali e così via). Anche in questo caso, nessuna previsione futura, ma solo la lettura di una situazione con le possibili scelte: rispondiamo chiudendoci (e cioè cercando di conservare i vecchi assetti)? Oppure proveremo a modificare quegli aspetti che sembrano incidere negativamente nel dialogo fra noi e il nostro pianeta?

    Un laboratorio di cittadinanza

    Sono problemi che riguardano la vita di tutti. Quindi, è fondamentale, in una società democratica, che diano luogo a una discussione pubblica. Discuterne a scuola significa affermare il principio che, per essere buoni cittadini, occorre intervenire nel dibattito con cognizione di causa. Usando gli strumenti giusti. Quelli della storia, per esempio.

    Le piattaforme, che molti docenti usano o stanno affannosamente imparando a usare, consentono di discutere, di inviare materiali. Un laboratorio è possibile. Anzi, è molto più adatto alle tecnologie digitali di una lezione in video. L’articolo di Adorno può essere il punto di partenza. È certamente leggibile in una secondaria superiore. È una possibile apertura del dibattito. Il tempo e la contestualizzazione, come ho suggerito sopra, costituiscono la guide della discussione. All’insegnante il compito di ricondurvi i discorsi dei ragazzi che, come può succedere quando si tratta di “temi caldi”, tenderanno a scivolare nella “ricerca del colpevole” o nei “buoni o cattivi sentimenti”. Sempre in rete potremo trovare materiali da far leggere, da assegnare per gruppi, con i quali far lievitare il discorso e tenerlo aderente ai fatti e alle problematizzazioni storiche. Jstor, la più grande raccolta di riviste storiche, ne ha messi online parecchi (alcuni molto belli). Sono in inglese (ma Google traduttore si rivela una delle più grandi invenzioni del XXI secolo!). Vi permetteranno excursus nel passato e approfondimenti nelle problematiche del presente. Vi permetteranno, se saprete organizzarvi, di lavorare trasversalmente su molte discipline, da storia a scienze a letteratura.

    Insomma: anche su questo versante il “durante” – ciò che facciamo oggi – può annunciare un “dopo” alquanto diverso.

     


     

    * Questo articolo è stato scritto da Salvatore Adorno, docente di Storia dell’ambiente presso l’Università di Catania, per “La Sicilia” del 19 marzo 2020. HL ringrazia l’autore per averci consentito di riprenderlo qui, con qualche modifica, e di rilanciarlo fra i docenti.

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