Europa

  • Il Portale tematico di storia europea "europa.clio-online.de"

    di Antonio Prampolini, con una Prefazione di Lucia Boschetti

    Il portale Themenportal Europäische Geschichte è una piattaforma digitale open access che si rivolge agli storici e ai docenti con saggi e fonti sulla storia europea dall'inizio dell’età moderna ad oggi.

    Con l’obiettivo di favorire una sostanziale innovazione degli studi e delle ricerche nell’ambito della storia economica e sociale, politica e culturale dell’Europa (e, in particolare, dei suoi processi d’integrazione), il Portale propone uno spettro di argomenti e metodi volutamente aperto in una prospettiva transnazionale e multidisciplinare.

  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte sesta: l’Europa

    L’educazione alla cittadinanza nell’attività delle organizzazioni e delle reti europee

    di Antonio Prampolini

     

    Il CONSIGLIO D’EUROPA

    Il Consiglio d’Europa (Council of Europe / Conseil de l'Europe), dalla sua creazione (1949) a oggi, ha sempre riconosciuto all’istruzione/educazione un ruolo centrale nella promozione della democrazia e dei diritti umani. Numerose sono perciò le “raccomandazioni” rivolte in tale ambito agli stati membri dell’organizzazione; raccomandazioni che, pur non essendo giuridicamente vincolanti, sono però da apprezzarsi per il loro contributo all’introduzione di buone pratiche didattiche/divulgative e all’innalzamento degli standard educativi nel Vecchio Continente.

    Tra queste, fondamentale è la Carta per l'educazione alla cittadinanza democratica e l'educazione ai diritti umani (Charter on Education for Democratic Citizenship and Human Rights Education). Approvata nel 2010 dal Comitato dei Ministri (Committee of Ministers) degli stati membri, la Carta contiene raccomandazioni in materia di educazione alla cittadinanza che riguardano tutti i livelli dell’istruzione scolastica (dalle scuole di infanzia all’università) e tutti i tipi di educazione (formale, non formale, generale, professionale), ed è articolata in più sezioni: Disposizioni generali, Finalità e principi, Politiche educative, Valutazione e cooperazione.

    La Carta definisce la «educazione alla cittadinanza democratica» come l’attività formativa che si propone di offrire ai giovani (ma anche agli adulti) le conoscenze e le abilità necessarie ad esercitare e difendere i loro diritti e a svolgere un ruolo responsabile nella società. Un’attività che, come sottolinea la Carta, richiede un «processo di insegnamento/apprendimento permanente» che deve coinvolgere non solo la scuola (dove un’efficace educazione alla cittadinanza deve basarsi su di una adeguata formazione dei docenti) ma anche le famiglie, le istituzioni pubbliche, i governi e le organizzazioni non governative, i media e il pubblico in generale, con l’obiettivo di promuovere la coesione sociale, l’uguaglianza di genere e il dialogo interculturale.

    Il Consiglio d’Europa e la Commissione Europea

    Da segnalare, tra le iniziative recenti del Consiglio d’Europa in partnership con la Commissione Europea (EU), il Forum on European Education for Democratic Citizenship (Edu4Europe) che riunisce i professionisti dei settori dell'istruzione e del mondo giovanile, ricercatori, responsabili politici, organizzazioni della società civile e altre entità coinvolte nell'educazione alla cittadinanza democratica europea (il primo incontro tra i partecipanti al forum si è svolto a Strasburgo nel novembre del 2019).

    Alla base dell’iniziativa c’è la consapevolezza della particolare congiuntura politica e sociale che sta attraversando oggi l’Europa. La crescente diffusione di fenomeni di estremismo nazionalista e di razzismo combinata con la crisi economia che ha colpito in particolare i ceti medio-bassi, il divario sempre maggiore tra i gruppi privilegiati e quelli socialmente esclusi, i problemi generati dai flussi migratori di massa, gli eventi terroristici di matrice islamica, nonché l’emergere di una vera e propria ostilità verso l’Europa e le sue organizzazioni comunitarie impongono un impegno straordinario da parte di tutti coloro che si occupano nel Vecchio Continente di processi educativi.

    Un impegno che deve avere come faro una concezione aperta e multiculturale della cittadinanza europea, intesa come «un'idea dinamica e complessa profondamente connessa con gli ideali di democrazia, partecipazione e diritti umani /e che/ mira creare uno spazio in cui le questioni civiche, politiche e sociali possano essere affrontate in una visione che supera i confini degli stati e i limiti delle culture nazionali».

    EURYDICE (Unione Europea)

    Eurydice, la rete d’informazione della Commissione Europea (istituita nel 1980 per approfondire la conoscenza dei sistemi e delle politiche nel settore educativo degli stati dell’Unione) ha pubblicato nel novembre del 2017 un importante rapporto, Citizenship Education at School in Europe (L’educazione alla cittadinanza a scuola in Europa), che offre un’ampia panoramica di come l’insegnamento dell’educazione civica viene affrontato nelle scuole pubbliche dei 28 stati membri dell’UE, oltre che in Bosnia ed Erzegovina, ex-Repubblica jugoslava di Macedonia, Islanda, Liechtenstein, Montenegro, Norvegia, Serbia, Svizzera e Turchia.

    Il rapporto è suddiviso in quattro capitoli/temi (organizzazione del curricolo e contenuti; insegnamento, apprendimento e partecipazione attiva; valutazione degli studenti e valutazione della scuola; formazione degli insegnanti) che includono studi di caso sulle iniziative nel settore dell’educazione civica in Austria, Belgio (Comunità fiamminga), Estonia, Francia. Il rapporto è inoltre completato da allegati (Annexes: National Information and Websites) che trattano diversi argomenti, che vanno dalle strategie/approcci all’educazione alla cittadinanza nei curricoli nazionali alle attività di formazione e supporto agli insegnanti.

    I risultati dell’indagine Eurydice sono stati riassunti in un utile documento di sintesi: Eurydice Brief Citizenship Education at School in Europe 2017 (Eurydice in breve L'educazione alla cittadinanza a scuola in Europa 2017.

    La NECE

    NECE- Networking European Citizenship Education è una rete transnazionale creata e gestita dall’Agenzia federale tedesca per l’educazione civica (Bundeszentrale für Politische Bildung – BpB) che si propone come piattaforma/forum di dialogo tra tutti coloro che a vario titolo si occupano di educazione alla cittadinanza in Europa (e non solo) per favorire la loro interazione e promuovere l’adozione di adeguate politiche a livello nazionale e internazionale.

    Dal 2007, NECE (che si propone quale «laboratorio transdisciplinare e transnazionale») è impegnata nell’organizzare incontri, conferenze, gruppi di studio avvalendosi anche della collaborazione di altre reti europee che operano nello stesso settore o che sono interessate ai temi dell’educazione civica come DARE (Democracy and Human Rights Education in Europe), EAEA (European Association for the Education of Adults), European Alternatives, EUROCLIO.

    NECE pubblica sul proprio sito una Newsletter periodica dove fornisce informazioni e approfondimenti sulle proprie attività ed anche su progetti europei, eventi, dibattiti e pubblicazioni in materia di educazione alla cittadinanza. La rete NECE opera facendo propria la consapevolezza che i concetti di cittadinanza europea, globale o cosmopolita devono essere riflessi più fortemente e utilizzati più frequentemente nelle pratiche educative dei singoli stati del Vecchio Continente.

    Fonti

    Articoli e documenti online

    Cimò E. (2017), Educazione alla cittadinanza: una disciplina per formare cittadini consapevoli di una Europa multiculturale, 14/11/2017.

    Cimò E. (2019), L’educazione alla cittadinanza in Europa nel nuovo quaderno di Eurydice Italia.

    Consiglio d’Europa (2010), Carta del Consiglio d’Europa sull’Educazione per la Cittadinanza Democratica e l’Educazione ai Diritti Umani.

    Consiglio d’Europa, Approcci contemporanei all’educazione alla cittadinanza europea.

    Council of Europe (2010), Recommendation of the Committee of Ministers to member stateson the Council of Europe Charter on Education for Democratic Citizenship and Human Rights Education.

    Council of Europe (2019), Edu4Europe: Education for European democratic citizenship forum - 1ST EDITION: “FUTURE VISIONS OF EUROPE”.

    Eurydice, About us.

    Eurydice (2017), Citizenship Education at School in Europe 2017.

    Eurydice (2017), Citizenship Education at School in Europe 2017 - Annexes: National Information and Websites.

    Eurydice (2018), Eurydice Brief Citizenship Education at School in Europe 2017.

    Eurydice Italia (2018), L’educazione alla cittadinanza a scuola in Europa 2017.

    Eurydice Italia (2018), Eurydice in breve. L'educazione alla cittadinanza a scuola in Europa 2017.

    Grüne P. (2017), NECE – Networking European Citizenship Education – International exchange to encourage the advancement of civic education.

    NECE, Who we are.

    Papisca A. (2010), Il Consiglio d’Europa definisce e aggiorna contenuti e metodi dell’educazione civica, Centro diritti umani - Università di Padova.

    Wikipedia, Consiglio d’Europa.

    Wikipedia, Eurydice.

    Siti web

    ► Sito multilingue del Consiglio d’Europa. La ricerca con le parole: “citizenship education”, “education civique”, segnala le numerose risorse offerte dal sito sull’argomento.

    ► Sezione in lingua inglese del sito EACEA - Education, Audiovisual and Culture Executive Agency (European Commission) dedicata a Eurydice, la rete d’informazione della Commissione Europea per la conoscenza dei sistemi e delle politiche nel settore educativo degli stati dell’Unione. Ricerche con “citizenship education”, “education civique”, “educazione civica”.

    ►Sito multilingue dell’Unione Europea. Il motore di ricerca interno consente di individuare testi/documenti/iniziative sulla citizenship education

    ► Sezione in lingua inglese del sito della Bundeszentrale für Politische Bildung – BpB riservata a NECE (rete transnazionale creata e gestita dalla stessa BpB che si dedica allo studio dell’educazione civica europea e globale). La sezione permette di accedere a numerose risorse informative e di approfondimento sulla "citizenship education".

    ► Sito in lingua inglese della European Association for the Education of Adults – EAEA. Ricerca con “citizenship education”.

    ► Sito in lingua inglese della European Association of History Educators (EUROCLIO). Ricerca con “citizenship education”.

    ► Sito multilingue della EPALE – Electronic Platform for Adult Learning in Europe (European Commission). Ricerca con “citizenship education”.

    ► Sito in lingua inglese di Lifelong Learning Platform, piattaforma di apprendimento permanente che riunisce 42 organizzazioni europee attive nel campo dell'istruzione, della formazione e della gioventù. Ricerca con “citizenship education".

  • Nessun popolo è una culla

    Il dibattito sulla vicenda greca di nuovo richiama in causa la storia e gli storici. Il tema, ovvio, è la democrazia. Può la Grecia, culla della democrazia, essere fuori dall'Europa? E' l'argomento che rimbalza dal parlamento alle prime pagine dei media.

    Non voglio toccare la questione se sia giusto o meno che la Grecia faccia il referendum, la politica di Tzipras e quella di Merkel, né se la Grecia possa o non possa stare in Europa. Vorrei attirare l'attenzione sul fatto che "essere culla di qualcuno" è un modo di dire che appartiene a una visione genealogica della storia (o delle storie), che abbiamo abbandonato da un pezzo, perché nessuno al mondo è la culla di qualcun altro; sul fatto che è ingiusto trasformare un popolo, con tutti i suoi problemi, in un simbolo utilizzato da altre collettività per i propri dibattiti interni; sul rischio dell'essenzialismo che incombe ogni volta che diciamo che "quel popolo lì incarna quell'idea lì"; sul fatto che abbiamo discusso lungamente, e dimostrato oltre ogni dubbio le differenze, a volte abissali, che esistono fra la democrazia ateniese e quella elaborata in Occidente.

    In una parola: mi sembra che di nuovo si stia facendo un diffuso abuso pubblico della storia, a volte con la compartecipazione attiva di qualche studioso. Per chi si occupa di formazione storica, questo è un problema. Così, per riportare le lancette indietro, a tempi relativamente più freddi, conviene rileggere la recensione al libro di Canfora sulla democrazia ateniese, che Silvia Ronchey pubblicò nel 2012 (e poi, con calma, andarci a leggere il libro).

     

     

  • Un Osservatorio sull’insegnamento della storia in Europa

    Occasione persa o opportunità interessante?

    di Paolo Ceccoli

    Nasce l'Osservatorio sull'insegnamento della storia

    01 La presidenza francese del Consiglio d’Europa (maggio-novembre 2019) si è fatta recentemente promotrice della creazione di un Osservatorio sull’insegnamento della storia in Europa. Il 26 novembre del 2019 ventitré ministri dell’educazione su quarantasette stati, tra cui l’Italia, hanno firmato una dichiarazione in cui si afferma che «il modo attraverso il quale la storia viene insegnata può favorire la riconciliazione fra le nazioni e all’interno di ciascuna nazione». Gli stessi ministri hanno anche affermato in quella sede che si adopereranno in favore della creazione dell’Osservatorio, uno strumento che dovrebbe fornire l’opportunità di

     

     

    promuovere pratiche che incoraggino un insegnamento della storia in linea con i valori del Consiglio d’Europa così come sono sanciti nelle nostre convenzioni. L’Osservatorio non mirerà a standardizzare il modo con cui la storia viene insegnata in Europa. Rispetterà le prerogative di ogni paese in questo campo e si assicurerà che le sue attività siano in linea con il lavoro del Consiglio d’Europa in materia di insegnamento della storia

     

    La Risoluzione che istituisce l’Osservatorio attraverso un accordo parziale allargato (APA) è stata poi sottoscritta solo da diciassette paesi. Non solo i promotori non sono riusciti ad allargare il consenso nei confronti dell’iniziativa ma hanno perso sostegni importanti. Tra i sei che non hanno confermato gli impegni preliminari vi sono infatti Italia e Svizzera, seguite da paesi piccoli o piccolissimi come Liechtenstein, Moldavia, Principato di Monaco e Montenegro. Gran Bretagna, Germania, i paesi scandinavi e tutta l’Europa centro orientale non hanno ritenuto di dover partecipare nemmeno alle riunioni preliminari.

    In questo articolo cercheremo di capire come si è organizzato per ora questo osservatorio, cosa potrebbe fare - temiamo poco, viste le premesse - e chi lo dirige, ma ci sembra necessario prima contestualizzare il clima in cui nasce l’iniziativa.

     

    La Francia, promotrice dell'Osservatorio

    02 La Francia rivoluzionaria e poi repubblicana ha sempre avuto molta fiducia nelle virtù dell’istruzione pubblica, statale, laica, obbligatoria e il più possibile gratuita. Già nel 1792 il filosofo Condorcet, nel suo Rapporto sull’istruzione pubblica presentato all’Assemblea nazionale, scrive che «il primo scopo di una istruzione nazionale» consiste nel «rendere reale l’uguaglianza politica riconosciuta dalla legge» (p. 8). Qualche pagina più avanti, tuttavia, riconosce che: «l’uguaglianza degli spiriti e quella dell’istruzione sono delle chimere. Bisogna dunque cercare di rendere utile questa ineguaglianza necessaria» (p. 17). La legge Ferry del 1882 cerca finalmente di realizzare i principi illuministi e razionalisti, intrisi di ottimismo pedagogico e fede nel progresso preconizzati da Condorcet. Le norme stabiliscono, non per caso, che il primo scopo dell’istruzione primaria, sul quale si fondano poi tutti gli altri è «l’istruzione morale e civica», in altre parole l’educazione a quei valori repubblicani che sembrano ancor oggi condivisi dalla maggioranza dell’opinione pubblica francese.

     

    Il terrorismo mette in crisi la fiducia nella formazione scolastica

    Non dobbiamo dunque sorprenderci se vari attentati di matrice islamista, come quello contro la redazione di Charlie Ebdo del 2015 o il recente assassinio del docente di storia e geografia Samuel Paty abbiano destato oltralpe un profondo scalpore. Questi attentati, quasi tutti perpetrati da terroristi nati e cresciuti in Francia, o in Belgio - che hanno studiato in scuole pubbliche e laiche - pongono un problema educativo fondamentale. Com’è possibile conoscere e non apprezzare i valori incarnati nella Dichiarazione dei diritti del 1789? Come si può arrivare a uccidere, talvolta suicidandosi allo stesso tempo, per affermare la supremazia di confuse e superficiali forme di fondamentalismo religioso e anticoloniale? Come è possibile non cogliere le opportunità di dare senso alle disuguaglianze, secondo quanto affermato da Condorcet, infliggendo violenza sanguinaria contro chi afferma i diritti più elementari di libertà, compreso quello, ad esempio, di passeggiare a Nizza sulla Promenade des Anglais? Non sarà forse che il sistema pubblico di istruzione non è stato capace o non è più in grado di realizzare gli scopi per cui era stato pensato durante la rivoluzione e costruito tra Ottocento e Novecento in quasi tutta Europa e paesi affini? Siamo sicuri che i suoi scopi abbiano senso o siano stati mai veramente realizzati? Come mai studenti con provenienze culturali diverse, nati e cresciuti in Europa occidentale, non sono stati integrati socialmente pur avendo frequentato le scuole nate per questo?

    Il problema naturalmente ha innanzitutto un risvolto politico: a cosa serve la scuola se non favorisce la coesione sociale? Se educa studenti che possono così clamorosamente disprezzare i valori che cerca di rappresentare e trasmettere? I ministri dell’educazione di tutta l’Unione europea e il commissario europeo per l’educazione affrontarono la questione una prima volta nel 2015.

     

    Una dichiarazione sulla cittadinanza e l'importanza della storia

    03 Venne pubblicata una dichiarazione in cui i ventotto ministri si misero d’accordo su di una lista di buoni propositi come:
    • il rafforzamento dei sistemi educativi,
    • la promozione dell’insegnamento del pensiero critico,
    • la lotta contro il razzismo e la discriminazione,
    • l’incoraggiamento del dialogo e delle conoscenze interculturali.

    Il documento, nella sua semplicità, indicava alcune linee di intervento che suscitarono l’attenzione dell’associazionismo professionale degli insegnanti. Euroclio (network europeo che raggruppa più di ottanta associazioni di docenti in 47 paesi), ad esempio, integrò quella dichiarazione con un proprio documento approvato dalla Conferenza Annuale del 2015 tenutasi a Helsingor in Danimarca.

    Il punto fondamentale sollevato da Euroclio fu che le finalità della dichiarazione intergovernativa di Parigi non avrebbero potuto realizzarsi senza una specifica attenzione all’insegnamento della storia, che andava ampliato e migliorato. L’insegnamento della storia veniva infatti individuato come il terreno più fertile da coltivare se si voleva educare le giovani generazioni ad una convivenza multiculturale rispettosa delle libertà individuali, al riconoscimento e all’accettazione di ciò che ci divide insieme a ciò che ci unisce, in Europa e non solo.

     

    Ma la storia non sembra interessare la politica

    Sembra proprio di poter dire che questi documenti non ebbero un gran seguito. Certo le attività di associazioni come Euroclio sono proseguite, anche con risultati per certi versi rimarchevoli, conseguiti talvolta in contesti ostili. Ci si permetta di segnalare qui, a titolo di esempio, la proposta di un curriculum di storia alternativo e non tossico che i colleghi eurocliani della Bosnia-Herzegovina hanno recentemente pubblicato.

    In generale, tuttavia, le cose ci sembrano andate via via peggiorando. Il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali hanno indotto i governi a pensare, con le loro decisioni, che il ruolo della scuola nel favorire la coesione sociale e dare senso alle differenze fosse quella che in Italia chiamiamo “educazione civica”. I programmi e i progetti finanziati dai vari enti decisionali in Europa e in molti paesi dell’Unione sono andati in quel senso riducendo l’importanza e la riflessione sull’insegnamento della storia o, peggio, pensando che il ritorno ad un insegnamento nozionistico, rigidamente cronologico, fondato sulla storia nazionale, di cui naturalmente essere orgogliosi proprio perché tale, fosse la ricetta giusta per contrastare fondamentalismi e radicalismi causati, secondo questa tendenza, dal relativismo e da un malinteso senso di colpa per essere quello che siamo. Ecco allora che, su iniziativa del governo francese e sotto la guida di Alain Lamassoure, parlamentare centrista di lungo corso, sia francese che europeo, nonché ex ministro per gli affari europei, nasce la proposta di un osservatorio europeo sull’insegnamento della storia.

    Lamassoure, originario della Navarra storica e appassionato europeista, intercetta i desideri del governo Macron di fare qualcosa per migliorare l’efficacia dei processi di inculturazione veicolati dalla scuola. L’insegnamento della storia sembra essere un campo di indagine interessante per capire quali nozioni ricevono i giovani che frequentano le scuole europee, quali attività svolgono nell’ambito dell’insegnamento della storia e con quali metodi o tecniche. Lamassoure ha presentato la sua idea durante la ventiseiesima conferenza annuale di Euroclio, tenutasi nell’aprile del 2019 a Danzica in Polonia. L’associazione ha subito aderito all’iniziativa cercando di cooperare come meglio poteva. La decisione della maggioranza dei governi dei paesi appartenenti al Consiglio d’Europa di non partecipare ci dice tuttavia che il tema non è sentito a livello governativo quanto lo è fra i docenti più attivi nell’associazionismo professionale.

     

    I compiti dell'Osservatorio 

    In ogni caso ora che questo Osservatorio ha preso forma, cosa farà? Cosa si propone con così pochi paesi partecipanti? Gli obiettivi restano ambiziosi, come si legge nella pa-gina del sito web che ne descrive le attività:

    • «raccogliere, organizzare e rendere disponibili informazioni fattuali sui modi in cui la storia è insegnata in tutti i paesi che aderiscono all’Accordo parziale allargato»;
    • l’Osservatorio terrà particolarmente conto delle attività scientificamente e accade-micamente solide nel suo campo;
    • terrà conto inoltre «della diversità dei sistemi educativi degli stati membri dell’accordo» ,
    • si assicurerà che le sue attività siano complementari a quelle dell’intero Consiglio d’Europa circa l’insegnamento della storia,
    • infine l’Osservatorio «non ha lo scopo di armonizzare i curricoli».

    Per raggiungere questi obbiettivi l’Osservatorio dovrà, in particolare:
    • condurre studi su come la storia viene insegnata negli stati membri dell’APA,
    • condurre studi su temi specifici dell’insegnamento della storia in modo particolari su aspetti che non sono inclusi nel curricolo formale,
    • «organizzare riunioni e conferenze per contribuire alla preparazione e alla diffusione di questi studi»,
    • diventare un punto di riferimento per organizzazioni e associazioni nel campo.

    Per tentare di realizzare questi obiettivi ambiziosi l’Osservatorio si è dotato di un comitato direttivo a livello politico e di un comitato di consulenti scientifici composto da diversi edu-catori, insegnanti, docenti e ricercatori anche di paesi che non appartengono all’APA. I membri di questo consiglio, scelti dal comitato direttivo, comprendono quattro colleghi e colleghe che lavorano con Euroclio, sempre più coinvolta nell’iniziativa, e anche uno storico italiano che lavora a Strasburgo, Piero Colla. Non ci resta che augurare all’Osservatorio un buon lavoro. Il comitato scientifico, la cui prima seduta si è tenuta il 13 luglio 2021, dovrà innanzitutto cercare di definire meglio le finalità e gli scopi, articolandoli in obiettivi speci-fici e praticabili. Il numero di paesi coinvolti non induce certo a credere che ci saranno mol-te risorse disponibili, ma, al di là di questo, la traduzione degli scopi in attività che vadano oltre le buone ma generiche intenzioni appare una sfida difficile da ogni punto di vista.

  • Un'Europa da Nobel?

    A Madrid dal 15 al 18 ottobre 2012 si è svolto il I CONGRESO INTERNACIONAL DE EDUCACIÓN PATRIMONIAL dal titolo "Mirando a Europa: estado de la cuestión y perspectivas de futuro". Di seguito riportiamo la relazione, adattata, tenuta dal Prof. A. Brusa. Un'occasione di riflessione sul significato di parole come patrimonio europeo, identità, radici.

    Un premio che ci obbliga a ripensare l'insegnamento della storia, il patrimonio europeo e l'educazione alla cittadinanza.

    (di Antonio Brusa)

    1. La pace, un patrimonio critico

    Il premio Nobel per la Pace, recentemente assegnato all'Unione Europea è un nuovo punto di partenza, per riesaminare alcune questioni chiave, dell'insegnamento della storia e forse anche della convivenza civile in Europa. Senza entrare nel merito delle polemiche e degli elogi, concentriamoci sulle motivazioni di questo premio, perché richiamano prepotentemente alcune parole cardine per chi insegna storia: storia –appunto-patrimonio, Europa e formazione. Questo premio, ci obbliga a riprenderle in considerazione e a interrogarci sul loro significato e sul loro valore, in questo scorcio iniziale del XXI secolo.

    Fra le motivazioni del premio, la principale coinvolge direttamente la riflessione storica, perché mette a confronto gli ultimi sessant'anni di pace, vissuti dall'Europa, con la sua storia millenaria, fatta di sangue e di guerre. Questa opposizione fa risaltare, quasi come un miracolo, la trasformazione di un continente, da teatro di ogni genere di conflitto a luogo di convivenza pacifica. E' un contrasto chiarissimo e inequivocabile; così come è eccezionale il periodo di pace che ha caratterizzato sia le nazioni europee nei loro rapporti vicendevoli, sia la vita della maggior parte dei loro abitanti. Sessanta anni sono un tempo molto lungo per la biografia degli Stati e degli individui. Indubbiamente, un fatto di questa portata merita di entrare in quel sontuoso repositorio di meraviglie che è il "patrimonio europeo". Non sembra lecito nutrire dubbi in proposito. Quale che sia il futuro che verrà riservato all'umanità, l'Europa potrà essere ricordata come il luogo che ha saputo regalare al mondo un simbolo di convivenza civile fra genti diverse; un esempio di superamento delle inimicizie passate; un modello di risoluzione pacifica delle controversie e dei dissidi. Questo è un dato positivo. E' un valore – potremmo dire - da tenere presente anche nei tempi difficili che l'Europa sta vivendo.

    Ma, proprio nel momento in cui l'Europa si accinge a "patrimonializzare la pace", agli studiosi e agli insegnanti spetta il compito di evitare un grave equivoco. Uno dei primi che ci mise in guardia, con passione e rigore, fu Gérard Namer, parlandone a proposito di un tema strettamente connesso con quello storico-patrimoniale: il tema dell'identità europea e della sua tradizione. Si discuteva delle radici europee (Era il decennio finale dello scorso secolo, quando si pose la questione di una Costituzione europea). Si dibatteva se queste dovessero essere giudeo-cristiane, laiche e se, ancora, si dovessero obliare per sempre quelle del movimento operaio, socialista, e di sinistra, seppellite dalla disfatta del mondo comunista. Qualcuno ricorderà le polemiche furiose nel parlamento europeo e fuori; ricorderà anche i ripetuti interventi della Chiesa cattolica. Lo studioso francese osservava che ciascun pretendente era in errore, perché rileggeva la propria tradizione purificandola dagli eccessi, e ne presentava solo gli aspetti che, a suo modo di vedere, erano positivi. Concludeva, dunque, che se queste correnti culturali desideravano contribuire alla definizione delle radici europee, dovevano concorrere con l'intero loro patrimonio, intessuto di intolleranze, inquisizioni, terrori e massacri.

    Forti di questa avvertenza, non possiamo non ritenere che proprio nel momento nel quale la pace diventa elemento connotativo del patrimonio europeo, occorre ricordare che all'interno di questo si custodisce anche la memoria delle guerre più sanguinose che la storia dell'umanità abbia conosciuto, i genocidi esemplari, le dittature più feroci e, marchio indelebile della modernità globalizzata, l'arrogante tentativo dell'Europa di impadronirsi del mondo e di considerare se stessa superiore, per civiltà, religione, arte e cultura alle altre regioni del pianeta. In una parola: di ritenere che il proprio patrimonio fosse superiore a quello del resto dell'umanità.

    Nella nostra presunzione – dice Namer -, noi Europei pretendiamo di determinare la nostra identità, decidendone autonomamente i contenuti patrimoniali. Essa, in realtà, è attribuita dagli altri. Questo accade nella vita di ogni giorno, nei gruppi di pari, nei quali "gli altri" definiscono ciascuno di "noi"; e accade anche nei rapporti fra i gruppi politici o fra gli stati. Per qua nto i singoli si forzino di autorappresentarsi, alla fine sono sempre gli "altri" che decidono che, a loro giudizio, noi siamo bravi, ladri, lavoratori, buoni combattenti, sciovinisti e così via. Dunque, sono gli altri che in questo momento "definiscono" l'Europa e ne disegnano i contorni identitari. Il Nobel della pace, perciò, al contrario di quanto si è portati a pensare, ci impone di guardare al di fuori di noi; a smettere di osservare il proprio ombelico culturale, per cercarvi le radici e i perché di questo premio. Invita noi europei a mettere in primo piano i rapporti che intratteniamo con il resto del mondo. Sollecita interrogativi che toccano le fondamenta epistemologiche della ricerca e dell'insegnamento: è possibile definire i tratti e la composizione del patrimonio europeo ascoltando solo le voci di chi abita questa parte del mondo? La ricerca sul patrimonio europeo non imporrebbe, invece, l'ascolto di altre genti, di altre culture, di altri punti di vista? E, per chiudere questa premessa problematica: ci obbliga a considerare la questione interculturale come "interna" alla definizione di noi stessi; non come un'aggiunta benevola e volontaria, ma logicamente non necessaria, della "nostra storia" e della "nostra identità".

    2. Parole intrecciate con la politica

    Sono parole normali e quotidiane, quelle che adoperiamo solitamente, quando affrontiamo questi argomenti: patrimonio, Europa, formazione. In larghissima misura sono anche istituzionalizzate, codificate in leggi, vive nelle abitudini professionali e nelle attività scolastiche o nelle imprese turistiche e museali. La loro diffusione e la loro pervasività sociale sollecitano diverse indagini, volte soprattutto alla risoluzione dei problemi e al miglioramento delle offerte formative e culturali. Presi da questa ricerca, siamo spesso restii a fermarci e a riflettere sul loro significato. Le diamo per scontate, esattamente come faceva Marc Bloch, al principio della sua immortale Apologia della storia. E, d'altra parte, tutti abbiamo sperimentato la loro inafferrabilità ogni volta che abbiamo cercato di circoscriverle con una definizione o con un modello rigoroso, dal momento che sfuggono e sempre si dissolvono e disperdono in mille problemi.

    Inoltre, per quanto non appartengano all'angosciante sfera economica, esse sono centrali nella vita politica e sociale delle nostre società, e questo aspetto fa sì che esse si trovino anche al crocevia di quel complesso di fatti e di vicende che da qualche decennio cataloghiamo sotto il nome generico di "uso pubblico della storia". In nome del patrimonio si prendono e si motivano decisioni politiche all'interno delle nazioni europee, specialmente nel campo della formazione; o, per quanto riguarda i rapporti con l'estero, nelle procedure e nelle discussioni che accompagnano l'accettazione di nuovi membri. Si ricorderà, ad esempio, il dibattito sull'ammissione della Turchia, e dell'obiezione, che venne avanzata dalla Francia, che la "Turchia era estranea al patrimonio europeo". E' utile chiedersi, allora, quanta parte di questo uso pubblico trovi alimento proprio nella zona di indistinzione e di incertezza che circonda queste parole. Giuseppe Sergi ci avverte di questo rischio con una frase efficace: "per quanto riguarda la storia, meno si sa e più si inventa".

    Ridurre i margini di questo pericolo è probabilmente un buon compito, per lo studioso e per l'insegnante.

    Le vicende di queste parole, d'altra parte, sono ben conosciute. La "Storia", quella con la S maiuscola, quella che si studia nelle scuole e che ritroviamo nello schema generativo di programmi e di manuali, è di origine piuttosto recente. In buona parte nasce dall'incontro/scontro fra le due grandi nazioni continentali del principio dell'Ottocento, la Francia e la Germania. La prima adotta come sua legittima progenitrice Roma (repubblicana al tempo della Rivoluzione francese e imperiale con Napoleone). La seconda sceglie e impone come genitrice primigenia, la Grecia. In questo modo, Grecia e Roma istituiscono le basi della civilizzazione europea e questa, fondendosi con l'energia dei nuovi popoli barbari, si suddivide e origina le nazioni; le quali, a loro volta, si trasformano – nel lungo conflitto dell'età moderna – negli Stati attuali. Antichità, Medioevo, Età moderna non sono le periodizzazioni notarili di una cronologia. I momenti obbligatori e rituali di un manuale. Sono i passaggi emotivamente pregnanti di una biografia.

    Solitamente, questa viene chiamata "la genealogia di una nazione". E' un'imprecisione. Si tratta, a ben guardare, della prima "storia europea". Essa, infatti, da una parte predispone la trama sulla quale ogni Stato ottocentesco disegna il percorso che lo ha portato all'indipendenza e alla sovranità. Dall'altra fornisce lo sfondo, sul quale si svolgono le singole avventure nazionali e individua quelli che potremmo chiamare "i protagonisti efficaci" della vicenda storica. Sono gli interlocutori con i quali la propria nazione deve interagire – pacificamente e no; e agli occhi dei quali essa deve mostrare il suo valore. Infine, a considerare questo schema narrativo con maggiore attenzione, si tratta ancora di una storia mondiale. Infatti, il continente europeo vi è definito come l'unico luogo della terra che ha dato origine e vita a "una storia". L'Asia Orientale – secondo questa ricostruzione - è immobilizzata nei suoi regimi dispotici; l'America e l'Oceania, continenti tribali, sono solo terre di conquista e l'Africa (questa fu la celebre definizione di Hegel) è il buco nero della storia. Al termine, questa storia individua "l'altro" per antonomasia, l'interlocutore estremo, una sorta di "sparring partner tradizionale", nel cui confronto si definiscono e si precisano i contorni dell'identità europea: l'Islam, prima nelle vesti dei conquistatori musulmani del mediterraneo meridionale, poi in quelle aggressive dell'impero turco.

    Si dirà: vecchie storie. Questo era il programma ottocentesco. Grave errore. Si prenda il programma per le superiori, emanato dal ministro Gelmini. Se ne riconosceranno i tratti ottocenteschi, anche ad una lettura superficiale. E, per quanto riguarda la scuola di base, si rilegga il programma emanato dalla Moratti (fortunatamente messo da parte nel 2007 e successivamente nel 2012): si noterà come siano ancora vivi e operanti i temi dell'ottocento: la civiltà greco-romana, vivificata dal cristianesimo, il medioevo feudale, le nazioni e l'eterno nemico, unica entità straniera autorizzata a frequentare questo programma, l'Islam.

    La migliore riflessione storico-didattica del secondo dopoguerra si è incaricata di smentire questa ricostruzione e di proporre alternative. E, dal punto di vista scientifico, la crescita e la diffusione della pratica storiografica nel mondo, ha relegato questa ricostruzione nell'hangar dei relitti del passato. Perciò, non occorre, qui, impegnarsi ulteriormente nella sua confutazione. E' necessario, invece, soffermarsi sulla sua efficacia. Questo schema, infatti, ha "lavorato" nel corso del tempo. Ha contribuito a costruire programmi e abitudini di insegnanti. Ha creato un'agenda di problemi e di rilevanze che resiste alla sua disfatta epistemologica. Storiograficamente inutilizzabile, esso è tuttavia ancora socialmente attivo.

    Lo schema funziona anche nella creazione di un immaginario geografico. Osserviamone l'azione per quanto riguarda la configurazione del sub-continente europeo. Questo schema storiografico vi ha disegnato degli spazi e ne ha stabilito le gerarchie. Alcune regioni sono privilegiate: qui si svolgono gli eventi e i processi fondamentali. L'Antichità vive nel Mediterraneo; il Medioevo opera in quella fascia ristretta, che va dalle Fiandre all'Italia del Nord (dove si incoronavano gli imperatori e dove sorsero le grandi e ricche città commerciali); l'età moderna predilige spesso i vasti spazi dell'Europa centrale. A turno, diverse regioni assumono il ruolo di protagoniste, poi rientrano dietro le quinte: Spagna, Italia, Francia, Germania, Olanda, Inghilterra, Svezia. Di volta in volta cambiano le periferie e i comprimari: ora sono i barbari, che premono ai confini dell'impero; ora sono le nuove genti – balcaniche e centro orientali – che lottano per assurgere al rango di nazione. Ogni stato, a sua volta, rielabora questo schema, assegnando rilevanze narrative ai momenti nei quali svolge ruoli di protagonista, scegliendo episodi simbolici, eleggendo il proprio pantheon di eroi.

    Il Cinquecento italiano è interamente preso dalla vicenda artistica del Rinascimento. Se prendiamo un manuale tedesco, avremo modo di osservare la somma trilogia italiana (Leonardo, Raffaello e Michelangelo: peraltro ricordati nelle scuole di tutta Europa); ma il "colore" del secolo è decisamente religioso, con Martin Lutero e la formazione delle chiese riformate; mentre in Spagna, tutta l'attenzione è concentrata sulla formazione dell'impero "dove non tramonta il sole". Proviamo a passare al Seicento: quello italiano è ben poca cosa, a parte Masaniello e Galileo. Ma se sfogliate un manuale spagnolo o olandese, troverete un'altra atmosfera, ben più trionfale. Da noi, Federico II è ormai un eroe del medioevo. Geniale, aperto alla cultura e all'arte, creatore di un'amministrazione centralizzata. In Germania, invece, è l'imperatore che ha perso. E tutto lo spazio se lo prende suo padre, Enrico VI, ricordato per aver esteso al massimo le terre imperiali (nei manuali italiani è appena ricordato, e non sempre con benevolenza). Se poi vi volete divertire con l'impero romano, scoprirete personaggi per noi italiani del tutto ignoti, ma quasi venerati nel resto di Europa: Viriato, il capo della guerriglia iberica (conteso peraltro da spagnoli e portoghesi), temuto dai romani che seppero liberarsene solo con il tradimento; Vercingetorige in Francia, vittima del suo acerrimo nemico Giulio Cesare (ma la loro fama oggi deve molto di più a Asterix, che allo studio della storia), Arminio in Germania, che distrusse le tre legioni di Varo, Giulio Civile in Olanda, un batavo che, dopo aver militato nelle legioni imperiali (come Arminio del resto), tornato nelle sue terre, guidò la resistenza antiromana; e infine, idolatrata in Inghilterra, Boadicea (o Boadicca), la regina che con il volto dipinto di blu si mise alla testa delle tribù britanniche, per contrastare l'invasore.

    E' una storia erratica, dunque, la cui logica profonda non può essere descritta se non facendo ricorso a qualche chiave mitologica: il "Passaggio da Oriente a Occidente", di memoria biblica e medievale; o la "migrazione verso il nord", pseudo spiegazione ottocentesca, avvalorata peraltro da tesi storiografiche, quali quella – infelice e fortunatamente ormai abbandonata – di Henri Pirenne, che sostenne come, con l'avvento degli arabi, l'unità mediterranea si perse, e la sua civiltà traslocò al Nord. Una storia che – proprio a causa del suo vagabondare – è la causa principale dei difficili problemi, ai quali siamo costretti a fare fronte, quando cerchiamo di definire gli spazi europei, e conseguentemente, i contorni del patrimonio europeo.

    Infatti, l'individuazione di un determinato spazio nazionale ha portato alla proiezione nel passato dei confini conquistati nella modernità, e, conseguentemente, ha condotto alla individuazione di una storia e di un patrimonio nazionali. In pratica: gli Stati si appropriavano della geografia, tracciando delle linee di demarcazione sul pianeta, e, contestualmente, si appropriavano di una quota di passato, dichiarandola la "propria storia". Potremmo dire che il patrimonio nazionale non è altro che il bottino di questa duplice appropriazione. Dovremmo concludere che il "patrimonio europeo" è, sua volta, la somma di questi bottini?

    Più che di una visione del mondo, si tratta di "una politica culturale", che ha portato alla creazione di un racconto del passato, al disegno di una geografia del presente e alla definizione del patrimonio storico-culturale del nuovo soggetto, lo Stato nazionale. Parte integrante di questa politica è la formazione del cittadino. Fu un progetto politico poderoso, che ha richiesto investimenti e cure assidue, da parte degli Stati europei. Ha generato una successione secolare di interventi capillari, nel territorio e nella società, che hanno costruito strutture profonde nei modi di pensare dei nostri contemporanei.

    Il tema impellente per l'Europa di oggi, è quello di decidere se, nel prospettare l'educazione del nuovo cittadino europeo, debba ripercorrere la strada ottocentesca, sia pure nelle forme attenuate e corrette politicamente, consigliate dalle nuove etichette globalizzate; oppure, se avventurarsi in quegli spazi della individuazione di una "cittadinanza senza nazionalismi", alla quale avviare le giovani generazioni. Sono spazi vagheggiati e descritti da molti e da molto tempo. Qui ci limitiamo soltanto a richiamarli, per soggiungere subito che, tuttavia, sono spazi assai poco praticati dalle istituzioni.

    L'impellenza di questo cambiamento trova molte ragioni, tutte ineludibili. Al primo posto, da studiosi, dobbiamo porre quelle scientifiche. Questa ricostruzione del passato è talmente priva di credibilità, da non meritare più le lunghe discussioni critiche, che un tempo aprivano i testi di metodologia e di storiografia. L'eurocentrismo, anche storiografico, è diventato una parola così screditata, che molti, e con qualche ragione, si preoccupano degli eccessi contrari di zelo decostruttivo e di esterofilia.

    Al secondo posto, da studiosi di didattica e di processi formativi, metteremo le finalità dello studio storico. Formare un'identità (nazionale, collettiva, europea) era l'obiettivo centrale del passato. Quale sarà l'obiettivo del lavoro formativo odierno? sarà sufficiente trasformare un aggettivo, da "nazionale" a "europeo"? oppure la critica deve essere ancora più radicale e ci deve spingere a rinunciare alle pretese identitarie, a liberare le potenzialità conoscitive delle scienze storico-sociali, per metterle a disposizione dei cittadini, quali strumenti necessari per orientarsi in una società e in un mondo sempre più complessi? Nemmeno questo è un punto nuovo. Sono diversi decenni, infatti, che la didattica critica propone, e molte volte con successo, di accompagnare - se non di sostituire - le liste di obiettivi identitari con degli obiettivi cognitivi. Potremmo dire, per quanto riguarda gli Stati dell'Europa occidentale, che - fin dagli anni '60 - i loro programmi di storia e geografia nazionali hanno subito un'autentica mutazione. Semmai, dobbiamo notare con una certa preoccupazione l'uso ambiguo del concetto di patrimonio, introdotto nei programmi relativamente di recente, che a volte si presta ad una ripresa sottotraccia degli obiettivi di appartenenza identitaria (un esempio lampante di questo tentativo politico è il programma di storia emanato dal Ministro Moratti).

    Ma vi è una terza ragione, che ci dovrebbe spingere a cambiare strada. Una ragione, oserei dire, drammatica. Ce ne parlano molti studiosi degli sviluppi della storiografia e dei temi della memoria nel mondo attuale. Fra questi Tessa Morris-Suzuki. Analizzando programmi, storiografie e progetti culturali di vari paesi del mondo, la studiosa ci prospetta una visione inquietante: quella della globalizzazione del nazionalismo. E' come se l'umanità intera si fosse appropriata della visione del mondo eurocentrica. Ciascuna nazione se ne è impadronita e, esattamente come è accaduto alle diverse nazioni dell'Ottocento europeo, l'ha adattata a sé. Ognuna, dunque, si racconta attraverso una storia autocentrata; proietta nel passato i suoi confini geografici (attuali o ai quali ritiene di aver diritto); ritaglia nell'universo culturale il proprio spazio patrimoniale; forma i suoi cittadini. E, in moltissimi casi, affronta la scena della contemporaneità con il deciso proposito di riprendersi le glorie del passato, se non di rivalersi delle umiliazioni della colonizzazione europea.

    Un identico processo avviene al livello micro – delle comunità e delle regioni – per le quali la studiosa parla di "effetti perversi del matrimonio fra pedagogia e storia locale".

    Posta dinanzi a questa esplosione del nazionalismo, a questa "ossessione per le identità nazionali, per la storia e la memoria difese come visioni naturali", l'Europa che, come abbiamo accennato, nel secondo dopoguerra aveva inaugurato strade nuove per la formazione storica, sembra intimidita. I programmi di storia degli ultimi due decenni, infatti, risentono di questa ripresa identitaria internazionale. E, quasi per uno straordinario contrappasso, questa parte del mondo che aveva orgogliosamente proclamato la sua superiorità culturale, ora sembra incapace di sostenere le sue scelte. Si dice, e si scrive spesso, che sono "scelte deboli" nei confronti di nazionalismi giovani e forti. Si elaborano nuove argomentazioni a sostegno di un identitarismo di marca occidentale. E non sempre, come ha sostenuto Keith Crowford per l'Inghilterra, sono battaglie condotte dalle destre nazionali. Nella vincente mondializzazione, si afferma con vigore, tutti – anche noi europei – abbiamo bisogno di una storia che ci definisca come cittadini nazionali. Tutti ci dobbiamo difendere. E, perciò, abbiamo bisogno di quella storia che Giuliano Procacci e Mario Carretero hanno chiamato, con singolare sintonia, "produttrice di carte di identità".

    Eppure, se noi europei accettiamo il Nobel per la pace (o - a seconda dei punti di vista - se lo vogliamo meritare), la scelta dovrebbe essere quella di ammainare la bandiera identitaria. Disarmare la storia, per restituirla al suo ruolo conoscitivo. E, conseguentemente, abbattere i recinti, con i quali l'Ottocento aveva preteso di ingabbiare i patrimoni, facendo a pezzi un territorio continuo, libero e indomabile, quale quello della cultura umana.

    3. Parole pericolose e i loro antidoti

    Queste argomentazioni non sono affatto nuove, nel mondo degli studiosi e degli insegnanti. Esse hanno avuto tempo per maturare reazioni e tentativi di risposta. Alla reazione di rigetto abbiamo già accennato: "Io sono una prof reazionaria e sono fiera di esserlo" scrive Véronique Bouzou, insegnante francese autrice di un pamphlet, significativamente intitolato a Pandora, nel quale proclama che lei continuerà a insegnare Clodoveo e Carlo Martello, per quanto la sua classe sia piena di immigrati maghrebini. Nascono club e associazioni dedicati alla eradicazione dei "complessi dell'Occidente", a curare il suo "masochismo" e a ridare l'orgoglio a un continente che un tempo dominava il mondo. Si coniano nuovi termini, come "l'alienismo" e si analizza "l'esterofilia", presente, come rivela una ricerca italiana di qualche anno fa, nella maggior parte dei manuali di storia per le elementari.

    Il tentativo di risposta, forse più diffuso, è quello della correttezza politica, più o meno marcata. Consiste nell'attenuazione, se non nell'eliminazione, degli episodi violenti del passato; nell'esaltazione, al contrario, dei momenti di pace e di scambio; nella messa in evidenza di tutti i meticciati possibili; nella messa in rilievo delle qualità altrui alla quale fa riscontro l'autoflagellazione. Strategie discorsive che non riescono a scalfire la trama concettuale che abbiamo descritto sopra; e non toccano nemmeno l'impianto formativo identitario.

    Vi è un'idea che accomuna i tentativi di risposta e le reazioni di rigetto: la storia serve per formare un'identità. Diversa da quella del passato, meno aggressiva e più disposta alla pace e al compromesso. Ma pur sempre un'identità. Mi sembra che questi tentativi, nella loro grande diversità, e proprio nella loro onestà e nel loro impegno sincero e appassionato, siano la prova più convincente della nostra difficoltà di agire in profondità.

    E' possibile spiegarne i motivi? Azzardo qualche ipotesi.

    La prima è che il poderoso lavoro di "autocivilizzazione", realizzatosi in Europa, ha prodotto un lessico che si presenta con le vesti della neutralità, ma che in realtà predispone ad un discorso identitario. Fanno parte di questo vocabolario di "parole pericolose", termini quali "radici, origini, identità, popolo, cultura, tradizione, memoria e memoria collettiva, eredità e, finalmente, patrimonio". Su questi, a partire dalla critica – indimenticabile quanto trascurata – del termine "origini", da parte di Marc Bloch, molti storici e studiosi di scienze sociali si sono espressi. Nella maggior parte dei casi si tratta di metafore, usate a lungo dagli studiosi, che – nel loro trasferimento nel linguaggio comune subiscono un processo di essenzializzazione. E' questa, forse la categoria cardine, sulla quale occorrerebbe lavorare. Messa a punto dalle scienze cognitive (Susan Gelman, sociologa della conoscenza); dall'antropologia (Jean-Loup Amselle) e finalmente dalla storia (Walter Paul), questa categoria ci insegna che una volta che questi concetti si essenzializzano, diventano concreti e reali. Una cultura, dunque, diventa una sorta di enorme sfera, all'interno della quale noi viviamo; le radici prendono consistenza effettiva: sono là, occorre difenderle dai parassiti, annaffiarle. Chi è così stupido da tagliare le proprie radici? E il patrimonio, infine, diventa il lascito concreto, l'eredità tramandataci dai nostri avi. Un tesoro da difendere, dunque. Gli esempi possono continuare, e sono tutti noti. Ma tutti concorrono ad avvertirci che le trappole del linguaggio possono scattare in ogni momento e in ogni luogo: anche nel laboratorio asettico del ricercatore; anche dalla cattedra di un insegnante impegnato anima e corpo nei progetti interculturali.

    La seconda è nella ondata culturalistica e della post-modernità, che ha caratterizzato molta parte della cultura mondiale degli ultimi decenni. Secondo questa visione, non esistono più narrazioni complessive. Abbiamo solo narrazioni locali e, dal momento che viviamo in nazioni democratiche, ognuno ha diritto alla propria narrazione e, conseguentemente, al proprio patrimonio. Sono state ben studiate alcune reazioni a questa impostazione: soprattutto l'autentica battaglia per il curricolo, scatenatasi negli Stati Uniti, a partire dal 1995. Qui mi permetto di ricordare la vicenda italiana. Nel 2006, durante il secondo governo Prodi (centrosinistra) venne convocato l'Osservatorio Interculturale, una struttura ministeriale della quale facevano parte rappresentanti delle diverse comunità etniche, presenti in Italia, studiosi di pedagogia e di didattiche disciplinari. Argomento di quelle riunioni erano proprio le materie di studio, e le loro trasformazioni in presenza di classi multietniche. Forse è utile riproporre qui le conclusioni di quella Commissione. La Repubblica, vi si disse, ha il dovere di dotare i propri cittadini degli strumenti culturali più efficaci: e compito della ricerca è quello di individuarli. Ora, se la storia è uno strumento per leggere e capire il mondo, questa va data a tutti, senza distinzione di cultura, di religione e di provenienza. In linea con quelle conclusioni furono i nuovi programmi di storia per la scuola di base (sia quelli del 2007, sia quelli del 2012) nei quali si individua una trama narrativa (ominazione, neolitizzazione, industrializzazione, globalizzazione) caratteristica della vicenda umana nel suo complesso e, come tale, contenuto di studio obbligatorio per tutti i cittadini italiani. Questa trama, rigorosa ma essenziale, lascia d'altra parte, molto tempo libero ai docenti per adattare il loro programma alle concrete situazioni di classe.

    A questa vicenda è collegabile il terzo ostacolo al rinnovamento. E' la paura che, distruggendo un ordine precedente e lungamente ricercato, ci si inoltri in un territorio didattico futile, privo di certezze e di luoghi forti della memoria. Una paura, occorre riconoscerlo, che trova solide motivazioni in un avventurismo didattico che spesso caratterizza i tentativi di innovazione. A mio modo di vedere, questa paura si vince sul terreno dei contenuti di studio, e non della metodologia (come continuano a sostenere molti pedagogisti). Ad esempio: per restare al caso europeo. Che cosa vuol dire, concretamente, rifiutare la trama eurocentrica, alla quale abbiamo fatto riferimento sopra? Certamente non basta anteporre al programma un proemio di competenze di cittadinanza europea, aperta e tollerante. Occorre "alzare lo sguardo" e raccontare qualcosa di diverso. Proviamo a osservare il mondo mediterraneo insieme con le terre circostanti. Il cosiddetto barbaricum (sia le regioni europee centrali e settentrionali, sia le regioni dell'africa settentrionale) acquisterà consistenza e cesserà di essere il territorio di provenienza di invasori inopportuni. Esso è, come mostra bene tutta la ricerca della cosiddetta "Scuola di Vienna", un territorio di civilizzazione in forte interazione con i centri che campeggiano nella storia alla quale siamo abituati. Proviamo a innalzare il nostro sguardo, sopra quella esigua striscia di terra, che continuiamo a chiamare "Europa medievale". Vedremo l'immenso mondo degli slavi, il grande assente dalla nostra narrazione (una vera ironia, per genti che costituiscono la maggioranza della popolazione europea); vedremo il maestoso impero cazaro, che in tema di patrimonio, potrebbe costituire l'esempio europeo di una multiforme e tollerante compagine; vedremo gli assenti della penisola balcanica, e in particolare, l'impero bizantino e quello turco. Vedremo come il Mediterraneo, con le sue genti e le sue religioni, non scompare affatto dall'orizzonte medievale.

    Queste assenze macroscopiche ci avvertono di quanto il nostro sguardo sul passato europeo sia incompleto. Forse non siamo ancora in grado di definire "un patrimonio europeo". Ma sicuramente la condizione per non raggiungere questo obiettivo, o di raggiungerlo in un modo sbagliato, è quella dell'ignoranza.

    Il quarto ostacolo è interamente nel dominio della formazione patrimoniale e ci obbliga a riprendere il tema dell'identità. Per quali motivi, si dice, è importante occuparsi della protezione e della salvaguardia del patrimonio? Le risposte sono note: sentirsene proprietari, sapere che nel patrimonio sono conservate e custodite le nostre radici; che il patrimonio è il luogo della nostra identità; che il senso di appartenenza ad una comunità non può che provenire dalla condivisione di un patrimonio. Indubbiamente sono argomenti forti, il cui abbandono può generare un senso di disorientamento, in chi sostiene sinceramente la causa della salvaguardia del patrimonio. L'abbandono di questi argomenti pone un complesso di problemi, intrecciati fra di loro. In primo luogo, la ricerca di nuove strategie discorsive, capaci di aggregare i cittadini intorno a questi temi.

    In secondo luogo, la ricerca di motivazioni reali e solide: e queste si trovano interamente nella storia. Questa, infatti, non è solo decostruzione di miti e di tradizioni inventate; ma è anche svelamento di processi reali e profondi. La storia ci spiega come la scoperta del passato, fatta collettivamente nell'Ottocento, abbia allargato l'orizzonte di vita degli uomini. Questi hanno progressivamente imparato che il loro spazio è costituito da un universo, con una dimensione spaziale e temporale pressoché infinita. Hanno imparato che il loro spazio culturale era, anch'esso, infinitamente più vasto di quello riservato loro dalla piccola comunità nella quale erano vissuti fino ad allora. Certamente: posti di fronte a queste nuove frontiere, gli Stati hanno provveduto con i loro recinti di sicurezza. Oggi, nel XXI secolo, ci possiamo chiedere se ne abbiamo ancora bisogno. Ci possiamo chiedere se non abbiamo finalmente il diritto di percorrerli liberamente. E se questo non faccia parte dei nostri diritti di cittadinanza.

    Ora, se la fruizione di questo patrimonio appartiene agli umani, è ovvio sostenere che il patrimonio non può che essere di tutti. Sempre, e non soltanto quando viene dichiarato tale da una Commissione internazionali, un bene patrimoniale è "patrimonio dell'umanità". Questa prospettiva (o se volete, questa scoperta) ci carica di una responsabilità immensa. Noi non siamo i "proprietari" di un dato elemento patrimoniale. Tant'è vero che non lo possiamo distruggere a nostro piacimento. Ne siamo i custodi, per noi stessi, per gli altri e per le generazioni future. Ne siamo responsabili di fronte all'istanza etica più alta che riusciamo a immaginare. L'umanità.

    Chi distrugge il patrimonio è un barbaro (nell'accezione negativa del termine), perché non accetta o non conosce, o non sa praticare il territorio di vita della società moderna, caratterizzato, come abbiamo visto, dalle sue infinite dimensioni spazio/temporali/culturali. Alla formazione di una nuova società civile deve continuare a provvedere (come in passato) l'istituzione scolastica. E a questo serve, finalmente, l'apprendimento della storia. Il patrimonio europeo, dunque, non è il luogo dove inalberare il vessillo dell'europeaneità, distinto e diverso da quello islamico, induista o confuciano. Questo patrimonio, al contrario, ci spinge a varcare le frontiere e a insegnare agli uomini e le donne la pratica degli spazi senza confini. A pensare che la pace, se resta proprietà di una parte della terra, non ne diventa il patrimonio.

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