laboratorio del tempo presente

  • 'Tra le linee': il Museo Ebraico di Berlino

    Autore: Fabio Fiore

    Il Museo Ebraico di Berlino (d’ora in poi MEB) è un luogo che non cessa di commuovermi. Non è in senso stretto un “museo”, anche se sin dall’intestazione di fatto lo è. E’ qualcosa di più e di diverso: un luogo della commemorazione e del pensiero. Chi lo ha già visitato, forse mi capirà. A chi non ancora, provo qui a raccontarlo. Per farlo, oltre al sito ufficiale, mi avvalgo di due altri strumenti, l’Audio-Guida e la Guida Essenziale fornite dal museo: anche la loro notevole qualità divulgativa ha l’inconfondibile sapore di quella cultura ebraico-tedesca al centro della narrazione del MEB1 .

     

    L’accesso.
    L’accesso consiste in una ripida scala di quasi sette metri di lunghezza che passa sotto il muro portante dell’edificio barocco e conduce in un labirinto sotterraneo. Ma dall’esterno non pare esserci collegamento tra vecchio e nuovo museo, tra l’antico ‘Kollegienhaus’e l’ampliamento progettato dall’architetto statunitense Daniel Libeskind e inaugurato nel 20012.

    Fig. 1 L’antico Kollegienhaus e l’ampliamento di Daniel Libeskind

    A proposito di questa entrata insolita, Libeskind osserva: «non volevo creare uno dei soliti ponti tra edificio vecchio e nuovo. Non sarebbe stata la soluzione per me…questa storia manca di collegamenti visibili, non c’è alcuna connessione tra la storia ebraica e quella della città di Berlino, nulla di cui si potrebbe dire:“ecco, è questo!”. Dalla strada il collegamento è completamente invisibile» (AG).Quest’apparente assenza di un nesso architettonico tra i due edifici mira in realtà a rivelare un’assenza, a esprimere un vuoto: «l’idea era molto semplice. Il museo doveva essere costruito intorno a un vuoto che attraversa l’intero edificio. Da un punto di vista puramente fisico, della presenza degli ebrei non è rimasto molto, piccole cose, materiali d’archivio, testimonianze più di un’assenza che di una presenza. Dal mio punto di vista, questo vuoto che è parte integrante della cultura contemporanea di Berlino, deve essere reso visibile e accessibile» (Libeskind, AG).

     

    Tra le linee: i “Voids”.
    Between Lines è il titolo di quest’opera straordinaria. E in effetti la struttura dell’edificio si basa su due linee: una diritta e un’altra a forma di fulmine

    Nei punti di incontro tra le due linee si formano degli spazi vuoti,che si estendono a tutti i piani del MEB, detti Voids: «Il Void è uno spazio che organizza il museo e allo stesso tempo non fa parte di esso. Non è riscaldato, climatizzato. E’ qualcosa di diverso che tuttavia è strettamente correlato agli spazi espositivi. Perché il Void fa in fondo riferimento a ciò che non sarà mai possibile esporre. Si tratta della storia della Berlino ebraica, della quale non è rimasto altro che cenere» (Libeskind, AG)3 . Di tali spazi deliberatamente non espositivi, il MEB ne ha previsti cinque di cui uno solo accessibile, il Memory Void, che ospita l’installazione dell’artista israeliano Menashe Kadishman-Shalechet, "Foglie morte"-iniziata nel 1997 e lasciata incompiuta.

     

    Gli “Assi”.
    I sotterranei del MEB sono attraversati da tre corridoi denominati “assi”: l’asse della continuità, l’asse dell’esilio, l’asse dell’Olocausto. Rappresentano i diversi destini degli ebrei tedeschi sotto la dittatura nazionalsocialista. Come le scale, anche gli assi hanno pavimenti in ardesia e sono in leggera pendenza. Restando costante l’altezza dei soffitti nel sotterraneo, ogni corridoio si fa più basso verso il fondo.L’asse della continuità lega il vecchio edificio con la ripida scala principale che conduce ai vari piani del museo. L’asse dell’esilio porta verso la luce, al Giardino dell’esilio.Il terzo asse, quello dell’Olocausto, è un vicolo cieco. Il visitatore è libero di muoversi nelle direzioni che crede.

    Fig. 2. I sotterranei sono attraversati dagli “assi”. L’asse dell’Olocausto è un vicolo cieco

     

    LaTorre dell’Olocausto.
    Uno degli elementi architettonicamente autonomi del MEB è rappresentato dalla Torre dell’Olocausto. Vi conduce il corridoio denominato “asse dell’Olocausto”. La torre è stata realizzata in cemento, è provvista di riscaldamento ed è chiusa su tutti i lati, prendendo luce esclusivamente da una stretta fenditura posta in alto.

    Fig. 3 La Torre dell'Olocausto

    L’ingresso è stato collocato nel piano interrato cosicché dall’esterno la costruzione appare del tutto indipendente dal piano dell’edificio. Il soffitto ha un’altezza di 24 metri. Creato per ricordare le vittime dell’Olocausto, tale edificio è essenzialmente un «voidit void», un «vuoto svuotato», in cui si sentono «i rumori soffusi di Berlino intorno a noi», «i rumori lontani di bambini che giocano nel cortile della scuola», in cui «si vede il bagliore della luce in alto». Ognuno è invitato a «interpretare l’esperienza a modo suo» (Libeskind, AG).

     

    Il Giardino dell’Esilio.
    L’asse del giardino sale in leggera pendenza e conduce all’aperto, al Giardino dell’esilio, un giardino di cemento a pianta quadrata dalla superficie lievemente inclinata. La struttura in cemento impedisce una visione di insieme. 49 steli ne fanno un vero e proprio labirinto. Le steli contengono della terra e in ciascuno di esse è stato piantato un ulivo. L’inclinazione del terreno di circa 12 gradi può provocare un leggero senso di vertigine che mira a trasmettere un poco del senso di stordimento provato da chi, tra il 1933 e il 1941, per sfuggire alle persecuzioni naziste,  si è lasciato alle spalle la storia di Berlino affrontando l’esilio. La forma quadrata di questo giardino è l’unica a rappresentare angoli retti in tutto il museo: «io credo che i  visitatori dopo l’esperienza sensoriale del giardino, dopo averne sperimentato gli effetti, si sentiranno singolarmente estraniati dal contesto a causa della sua forma semplice» (Libeskind, AG)4


    Fig.4 Il Giardino dell'esilio

     

    L’asse della continuità: il corpus documentale.
    Il più lungo dei tre, è anche la via che attraverso una ripida scala conduce all’esposizione permanente del MEB: «questa è la scala principale che vista dall’entrata risulta davvero stretta. Avvicinandosi però si nota che questa scala tende verso l’alto, verso la luce e porta ai diversi piani. Prima però è necessario passare attraverso tutto l’orrore, lo sterminio, il vicolo cieco della Torre dell’Olocausto, il Giardino dell’esilio, la diaspora di uomini e idee, la continuità con il futuro che ancora esiste. Il tempo non si è fermato» (Libeskind, GE).

    Giunti alla sommità della scala, suddiviso in 13 epoche e in diverse sezioni tematiche, l’imponente corpus documentale del MEB ci racconta due millenni di storia ebreo-tedesca dal punto di vista della minoranza ebraica, ponendo «le vicende storiche accanto ai destini personali» e selezionando «gli oggetti significativi dal punto di vista della narrazione espositiva» (GE). Mi limito ai titoli: Il mondo ebraico nel medioevo (le condizioni di vita degli ebrei aschkenaziti), La vita ebraica sul territorio in età moderna (radicamento territorialee stratificazione sociale); Vita ebraica, tradizioni ebraiche (legge religiosa e vita delle comunità, le trasformazioni nel tempo); Moses Mendelssohn (l’illuminismo ebraico); Gli ebrei tedeschi nel XIX sec. tra adattamento e autodeterminazione (conversioni al cristianesimo, movimento socialista, l’idea di nazione, l’antisemitismo politico); La modernità dispiegata: dall’Impero guglielmino alla Repubblica di Weimar (industrializzazione e società di massa, il campo di tensione tra spinte integrative e nuove forme di discriminazione); Reazioni degli ebrei tedeschi al nazismo (di istituzioni e di singoli,  tra il ’33 e il ‘41); Le donne nell’ebraismo (la condizione femminile, tra devozione tradizionalistica e secolarizzazione moderna); Lungo il museo con gli «stivali delle sette leghe» (duemila anni di storia materiale e ‘abitativa’ ebreo-tedesca); Ebraismo, Cristianesimo, Islam: confronto storico-culturale (rapporti secolari, influenze reciproche, conflitti: per un laboratorio del tempo presente); Considerazioni architettoniche (sul progetto di ampliamento del MEB, a partire dall’interrogativo: «è possibile dare una forma architettonica all’identità ebreo-tedesca?».

    Fig. 5 Documentazione della vita ebraica

     

    Informazioni spicciole.
    Con meticolosità teutonica, il MEB sembra calcolare ogni tipo di esigenza (il pubblico dei musei, si sa, è variegato): degli insegnanti, a cui vengono offerte visite guidate, approfondimenti tematici in presenza e online, documentazione e materiali vari; del resto, ci si potrebbe costruire intorno un anno di lavoro, in una quinta, trovando il modo di portare i ragazzi in gita a Berlino, più economica di altre capitali europee, Roma compresa. Dei genitori, che vedranno i loro bambini “trastullarsi intelligentemente” con tutta una serie di spazi, giochi, dispositivi appositamente creati per il loro apprendimento. Il Rafael Roth Learning Center gestisce impeccabilmente gli ambienti multimediali: in ogni sezione, il visitatore avrà a disposizione il corpus documentale interamente digitalizzato, approfondito, illustrato e quant’altro. Persino la caffetteria (il “Café Schmus”) ha un che di speciale: si apre su di un enorme teatro inondato di luce, di fronte a un ampio giardino alberato, come se volessero dirti: «abbiamo cercato di metterti a disagio, di farti percepire il vuoto e l’assenza – di memoria, di uomini, di interi gruppi di persone; ti abbiamo condotto attraverso i molteplici inferni della storia per riempirti la testa di informazioni, immagini, concetti, ricordi; miravamo a fare della tua visita un’esperienza profonda. Ti meriti un po’ di ristoro: prenditi ancora del tempo, non avere fretta di uscire».

    Fig. 6 Il Café Schmus

     

    NOTE

    1. Le ‘Audio-Guide’ (d’ora in poi AG) sono disponibili in ebraico, francese, giapponese, inglese, italiano, russo, spagnolo e tedesco; le ‘Guide’ (Museo ebraico di Berlino. Guida essenziale, a cura del MEB, Nicolaische Verlagsbuchhandlung  GmbH, Berlin 2010,d’ora in poi GE, cfr.www.jmberlin.de) in turco, olandese,danese, ebraico, francese, giapponese, inglese, italiano, polacco, russo, spagnolo, tedesco e per sordomuti.
    2. Daniel Libeskind (1946) è un architetto polacco naturalizzato statunitense, annoverato tra i principali esponenti del “Decostruttivismo”, cfr. www.libeskind.com.
    3. Il vecchio cimitero ebraico di Berlino è un esempio toccante di questa assenza/presenza: la tomba del grande Moses Mendelssohn, alcune lapidi appese  a un muretto, un giardino verdissimo  in un angolo appartato della città:  nient’altro!
    4. A pochi passi dalla Porta di Brandeburgo, notevole è anche il c.d. “Holocaust-Mahnmal”, il monumento per le vittime delle persecuzioni naziste di un altro architetto statunitense, Peter Eisenman, che riprende e sviluppa stile e motivi del Giardino dell’esilio.


                         


    3 settembre 2016

  • Berlusconi in classe. Paura di studiarlo?

    Autore: Antonio Brusa


    Appunti da Giovanni Gozzini.

    e nel silenzio freddo delle strade
    non vivremo più
    (non saremo più)
    come vuoti di memoria

    http://www.musictory.it/musica/Giorgio+Barbarotta
     
    Una recentissima rassegna di Giovanni Gozzini (L’Italia di Berlusconi come problema storiografico, in “Italia Contemporanea”, 2013, pp. 645-658), mi spinge a proporre l’analoga questione didattica, inevitabile, se non vogliamo escludere dalle nostre classi l’informazione, l’analisi e la discussione sugli ultimi decenni:  si può  parlare di Berlusconi in classe?  Con la sua consolidata abitudine a non studiare la storia recente (o “molto contemporanea”), la scuola del dopoguerra ha largamente contribuito a formare una società incapace di trasformare in conoscenza/coscienza storica l’esperienza dei fatti. Una società che, proprio perché vittima di questa inettitudine, è diventata “vuota di memoria” (per riprendere le parole, questa volta di uno storico, Stefano Pivato).

    Abbiamo assistito impotenti alla cancellazione del ricordo dei padri, che negli anni ’50 ricostruirono con fatica la nazione, e del loro lungo travaglio nei decenni successivi dell’emigrazione. Abbiamo visto trasformarsi in un mito griffato il ’68, con le sue contraddizioni e le sue speranze. Si sono disciolte le Brigate Rosse e il dolore che generarono in molti, così come l’angoscia di una guerra fredda che sembrò interminabile. Svaniti nel nulla partiti e uomini ai quali, solo pochi decenni fa, gli italiani si inchinavano ossequiosi. Farà la stessa fine anche l’ultimo ventennio, quello che si iniziò battezzando una seconda Repubblica, e che rischia di essere ricordato in futuro solo per qualche barzelletta sconcia?

    La rassegna di Gozzini ci mette al corrente di un’ampia serie di opere su questo periodo (le troverete in bibliografia). Ci invita a entrare in un cantiere aperto, nel quale gli storici stanno trasformando il ventennio berlusconiano in un oggetto di studio. Qui riconosciamo la sorta di cassetta degli attrezzi dello storico. Li vorrei enucleare e mettere a disposizione del docente che ha capito l’importanza della rielaborazione, attraverso lo studio disciplinare, dell’esperienza e del ricordo dei fatti recenti. Li presento, dunque, in ordine, rinviando alla lettura dell’articolo originale per approfondire i fatti, le teorie e coglierne le sfumature alle quali ho dovuto rinunciare.  

    In occasione della campagna elettorale del 2001, Berlusconi distribuì 12 milioni di copie di una sua biografia, intitolata Una storia italiana (edizioni Mondadori). Il titolo riassumeva due significati: la storia dell’Italia e quella di un suo cittadino.

     

    I luoghi comuni su Berlusconi
    Al primo posto ci sono i luoghi comuni. Con questi, probabilmente, l’insegnante avrà subito a che fare, quando proporrà quell’attività che (impropriamente) si conviene chiamare “brainstorming”, volta a sondare le preconoscenze degli allievi. Dietro le loro convinzioni, troverà, con ogni probabilità, questi stereotipi. Li definisco “stereotipi colti” dal momento che si tratta di idee che condividono un doppio statuto: da una parte, sono quelle che animano la discussione pubblica, dalla chiacchiera del bar, al discorso in famiglia, al talk show all’editoriale in punta di penna. Dall’altra, però, la loro storia ci rivela che non nascono dal nulla, ma spesso trovano la loro origine negli stessi luoghi della produzione del sapere. Gozzini ne individua due modelli generatori:

    a.    La parentesi. Questo periodo è considerato alla stregua di una malattia passeggera. Insomma: l’Italia non è quella di Berlusconi. Lui vi è entrato come un corpo estraneo ma, terminata la sua vicenda, l’Italia riprenderà il suo corso normale. Una degenerazione provvisoria. Si disse lo stesso del fascismo, da un pulpito autorevole, quello di Croce, lo si ripete di Berlusconi da parte di studiosi e giornalisti, come Deaglio, Cordero o Severgnini (di queste opere, e di altre non comprese nella bibliografia allegata, troverete le referenze nel saggio di Gozzini). L’effetto consolatorio e auto assolutorio di questa posizione è evidente, e spiega abbastanza bene il suo successo popolare. C’è sempre una “società civile”, o “un paese reale”, immuni dalle nefandezze della politica.

    b.    L’eccezione italiana. L’Italia è considerata una anomalia “in sé”. Ora i Guelfi e i Ghibellini, ora la divisione Nord-Sud, ora il rapporto fra cittadini e politica (ecc.), tutto – e quindi anche il “caso Berlusconi”-  sta a marcare un paese che non ha eguali. Un luogo comune anche questo: trovatemi, nella storia, due luoghi, due momenti, due popoli che siano uguali, e potremo dire allora che l’Italia è veramente “la singolarità”. Per quanto riguarda il “caso italiano”, Gozzini ce ne segnala l’origine colta in quel “paradigma eccezionalista”, secondo il quale “la storia del nostro paese è stata una lunga sequenza di ritardi, deviazioni, anomalie rispetto a presunti modelli di modernità”  (pp. 648 s). Fra i tanti padri nobili di questo modo di vedere la nostra storia, si va da Gabriel Almond e Sidney Verba, che nel 1965 pubblicarono un libro fondamentale sulla cultura civica (presente nelle nazioni del nord e ovviamente assente in Italia), fino a Ernesto Galli della Loggia e Loreto di Nucci, che applicano questo modello all’Italia in una loro opera di una decina di anni fa su uno dei temi che piacciono di più ai commentatori politici, quello della reciproca delegittimazione. Anche questo è considerato un tipico tratto della politica italiana, a smontare il quale, però, Gozzini cita significativi esempi americani (la delegittimazione di Obama, da parte di elettori repubblicani, o le carrettate di fango che i contendenti alla presidenza non temono di scaricarsi addosso vicendevolmente).


     

    Nel corso di una trasmissione di Servizio Pubblico, Berlusconi spolvera la sedia del suo interlocutore (Travaglio), prima di adoperarla. Al di là della gag, è evidente la “delegittimazione” di un avversario con il quale non si vuole condividere nulla, nemmeno un contatto fisico indiretto.


    Le parole-concetto
    Accanto agli stereotipi, vi sono alcune parole che ormai fanno parte del lessico della politica diffusa, ma delle quali dobbiamo chiederci quale sia il corretto significato. Spesso, infatti, vengono adoperate in accezioni che impediscono una loro “produttività” conoscitiva, perché sono usate come armi di offesa o di difesa, per accusare l’avversario o sostenere le proprie ragioni. Quelle più adoperate a proposito del ventennio berlusconiano, sono: populismo, democrazia, carisma (con i suoi derivati: liederismo carismatico, potere carismatico ecc), liberismo.

    Democrazia. La quasi totalità degli stati, che siedono alle Nazioni Unite, si definisce “democratica”. Sarà vero? Proprio rispondendo a questa domanda, gli studiosi hanno cominciato a classificare le democrazie attuali. Vi sono quelle che si proclamano tali perché chi comanda è eletto (non consideriamo qui il grado di libertà delle elezioni). Una volta eletto, però, non vuole impicci per il periodo di governo assegnato. “Non parlate al guidatore”, potrebbe essere il suo slogan. Queste si chiamano “democrazie elettorali”. Ve ne sono altre, invece, nelle quali chi comanda deve continuamente dar conto del suo operato ad altri contropoteri, attivi e influenti, quali una magistratura indipendente che non fa differenze fra chi ha potere e chi non ce l’ha, e, soprattutto, il sistema dei media (e più di recente la comunicazione via internet). Queste ultime vengono definite “democrazia liberali” (Larry Diamond e Marc Plattner).

    Populismo. Ecco una bella definizione di Yves Mény e Yves Surel: “I movimenti populisti si fondano su una concezione immediata e irrazionale della sovranità popolare, un’ideologia violenta dell’antipolitica e una fondazione carismatica della nuova élite”.

    Il “populismo” è una categoria politica esistente fin dal XIX secolo. Non necessariamente di destra, dal momento che venne usata, per esempio, dai governi americani nella loro lotta contro i cartelli monopolistici del principio del Novecento.

     

    Carisma. Mi servo della spiegazione che Luigi Gentili fornisce di questo termine religioso applicato alla politica da Max Weber. Secondo il sociologo tedesco, il carisma è l’unico potere “in grado di cambiare la storia, modificando interiormente le coscienze degli uomini”. Esso nasce da una relazione particolare che si instaura fra gli individui e una personalità, percepita – anche fisicamente - come eccezionale. Al tempo di Weber, il modello statuale era quello della Germania guglielmina, caratterizzato da una organizzazione rigida ed efficiente. Oggi non è sempre così. Questa evoluzione storica, ha portato a due tipi diversi di personalità carismatiche. Il Capo carismatico (come Hitler o Napoleone) è quello che impone cambiamenti radicali, servendosi di una catena di comando efficace e rigorosa (e in effetti è il modello preso in considerazione da Weber). Il Leader carismatico (Luther King), invece, è “l’abile costruttore di una cultura che induce le persone a seguirlo” e governa attraverso una rete flessibile. Entrambi, però, hanno due talloni di Achille: il fatto che il riconoscimento del carisma debba essere spontaneo, e il fatto che la carismaticità non sia per nulla ereditaria.

    Liberismo/neoliberismo: per questi termini penso che sia utile indirizzare il lettore al contributo di Cesare Grazioli, qui, su HL, perché ne fa una trattazione specifica per la didattica.

     

    Le fonti
    Certamente, la maggior parte delle fonti che potranno essere usate in classe sono quelle mediatiche: giornali e tv. Le osservazioni di Gozzini ci mettono in guardia sul problema cruciale: quanto corrispondono alla realtà? La parola d’ordine è “cautela”. Occorre, infatti, tenere presente che i giornali italiani, nel corso della loro lunga storia, hanno mostrato una consolidata tradizione di “vicinanza al palazzo della politica” (Carlo Sorrentino, Peppino Ortoleva). Perciò, l’immagine che essi offrono, spesso non corrisponde alla realtà, quanto piuttosto all’immagine di questa che la politica si è formata, o che vuole diffondere.

    Anche per la tv occorre fare attenzione. E’ ben vero che i tg seguono dappresso le orme non esaltanti della carta stampata (come dimostrano abbondantemente i dati dell’Osservatorio di Pavia); ma sembra assai probabile che l’impatto di questi tg (e in generale delle trasmissioni di informazione e dibattito politico) non sposti l’elettorato, quanto piuttosto ne confermi le scelte. Occorre guardare con attenzione e scegliere con oculatezza le fonti significative. La tv non agisce direttamente sulla scelta politica, quanto sulla costruzione di una cultura, che a sua volta favorisce un certo ambiente politico. Sentiamo Gozzini:
    “Il dibattito politico non è più l’incontro di boxe educata alle regole, dei tempi di Jacobelli (anni ’60-70). E’ diventato wrestling: racconto sceneggiato e diretto da una regia, dove non interessa capire bensì fare il tifo e vedere chi vince alla fine. Nuovi generi (reality come L’isola dei famosi, talent show come X factor) proseguono la lezione delle telenovelas nell’indurre un senso del presente e del futuro esclusivamente individuale (senza storia e senza politica) entro il quale essere se stessi (senza studiare, senza prepararsi, senza avere competenze) è l’unica condizione per avere ciò che conta nella vita: il successo” (p. 655).

    Fin qui Gozzini. Immagino, però, che in un lavoro scolastico sarà intuitivo accedere alle fonti orali, ai ricordi dei genitori e degli adulti. In questo caso, sarà bene tenere presente la dinamica affatto particolare di queste fonti, che non veicolano mai quello che il soggetto vide o visse, ma sono una rielaborazione dei ricordi incessante e, quindi, mutevole nel tempo (su queste, rinvio all’articolo sull’uso didattico delle fonti orali, scritto da Carla Marcellini per il n. 3 di Novecento.org).

    Nell’esperienza didattica, queste avvertenze sono tanto più necessarie, quanto più – agli occhi inesperti dell’allievo – fonti mediatiche e fonti orali possono apparire più aderenti alla realtà, di quanto non siano quelle, relative a periodi lontani del tempo, alle quali la scuola lo ha abituato. Al contrario, occorre tenere presente che sono fonti che hanno, spesso, contribuito a creare quella realtà, della quale si vogliono testimoni obiettivi.

     

    I problemi
    Al contrario di quello che può pensare un allievo (e ovviamente non solo lui), il lavoro dello storico non si limita a “raccontare ciò che è accaduto”. Lo storico si pone dei problemi e cerca di risolverli. Cerca i dati, li elabora, si confronta con le opinioni e le tesi dei colleghi. Infine racconta i risultati del suo esperimento di ricerca. Quindi, se vogliamo trasformare in “conoscenza storica” il racconto/ricordo del ventennio berlusconiano, dobbiamo individuare quali sono i problemi, intorno ai quali si è attivata la ricerca, e, per contro, evitare la pratica spontanea, di raccogliere informazioni, metterle in ordine cronologico e tentare alla fine qualche “giudizio personale”.

    Mi sembra che questo punto sia essenziale, in particolar modo quando parliamo di storia recente. Occorre far capire agli studenti che il nostro mondo è un terreno di ricerca, esattamente come il mondo della natura (pur con tutte le differenze epistemologiche e di metodo). La storicizzazione non è un processo che avviene una volta per tutte, e si chiude con la codificazione della sequenza canonica dei fatti e dei giudizi. E’ invece un processo incessante, nel quale i problemi si susseguono, e da ognuno scaturisce un racconto particolare del passato. Se capire questo aspetto del pensiero storico è importante, per quanto riguarda l’apprendimento della storia lontana, diventa vitale per la storia vicina a noi: perché su questo versante critica si gioca gran parte della differenza fra la storia chiacchierata e la ricostruzione storica.

    Qui, dunque, si svolge il cuore della partita della formazione storica del cittadino. Ecco alcuni dei problemi più rilevanti.

    Continuità/rottura. Mentre gli attori politici del tempo si proponevano come i distruttori della tradizione della prima Repubblica, e quindi mettevano in evidenza gli elementi di frattura col passato, gli studiosi odierni tendono a sottolineare gli aspetti di continuità fra prima e seconda Repubblica. Forse la tesi storiografica più sorprendente (e interessante, a giudizio di Gozzini), è quella elaborata da Amato e Graziosi. Secondo questi storici, il modello tradizionale dello sviluppo italiano è stato di tipo “parasovietico”. Si è costruito negli anni ’60, basandosi su questo nesso: democrazia-spesa pubblica-indebitamento. In pratica, attraverso la spesa pubblica, consentita dall’indebitamento, i partiti cercano di guadagnarsi il consenso popolare. Quando la crisi degli anni ’70 rompe il giocattolo, la politica non riesce a costruire un modello diverso, e perciò si ostina a usare quello vecchio, finanziandolo, questa volta, con la svalutazione. Una pratica che dovette cessare con l’ingresso dell’Italia nell’UE. Gli anni ’90, quindi, si presentano come privi di futuro: da una parte - la società civile - , la generazione degli anni ’60 si avvia all’invecchiamento e alla conseguente perdita di capacità propulsive. L’Italia entra nel mondo della gerontocrazia. Dall’altra - il ceto politico - il modello tradizionale non ha più benzina di scorta. Alcuni governi (Amato, Prodi, Ciampi) cercano di invertire il ciclo sovietico dell’indebitamento. Trovano ampia ostilità in una nazione che non vuole mutare il suo modo tradizionale di sopravvivere. Qui entra in campo la proposta politica di Berlusconi, che dietro il sipario della propaganda liberista, è “indulgente, statalista, debitoria”: una riedizione vincente di un passato irrecuperabile.

    Il confronto con il passato. A quale forma di governo del passato assomiglia il governo Berlusconi? Nella patria del fascismo, si tratta di una domanda quasi obbligatoria. Nella polemica antiberlusconiana, era abbastanza frequente l’accusa di essere una sorta di riedizione di quella dittatura. Paul Ginzborg è nettamente contrario:

    “Nel 1999 Berlusconi scriveva “gli individui sono i migliori giudici di ciò che è bene per loro”. Nel 1932 Gentile e Mussolini nella voce Fascismo dell’Enciclopedia italiana, scrissero: “Antindividualistica, la concezione fascista è per lo Stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato”.

    Dunque, i due sistemi sono agli antipodi. Quello berlusconiano si articola su due piani. Da una canto, identifica la politica con il marketing. Il sondaggio, le opinioni, la pancia della gente (come si dice da allora), questi sono gli strumenti per rilevare gli obiettivi dell’azione politica. Dall’altro, questa azione non è mai promossa (dichiaratamente) da una “parte”. Berlusconi si proclama ostile al sistema dei partiti, intesi come soggetti che promuovono il miglioramento della collettività, attraverso un’azione pedagogica e mossi da intenti etici e politici. Crainz e Gibelli definiscono questo sistema “totalitarismo pubblicitario”.

     Berlusconi tra i fiori. E’ il titolo di una foto di Una storia italiana.La vicenda personale, i gusti intimi, le particolarità individuali, 

    fanno parte del messaggio pubblico della politica berlusconiana.

     

    Potere pubblico e patrimonio personale. Inevitabile affrontare uno dei temi più scottanti del periodo. Il capo del governo è uno degli uomini più ricchi del paese: ci sarà un conflitto di interessi? Anche su questo problema, gli storici sottolineano elementi di continuità. I grandi capitalisti italiani (si citano Agnelli e De Benedetti) hanno sempre goduto di rapporti privilegiati con il mondo politico e, dal punto di vista della “società civile”, questa è da lungo tempo abituata al fitto intreccio di reti clientelari e all’insofferenza endemica verso “le regole”, al punto da dimostrarsi assai poco sensibile al tema del conflitto di interessi, anche quando, come nel caso di Berlusconi, questo deflagra in modo vistoso.

    Questo conflitto, per gli storici, è un dato di fatto. A partire dalle prime dichiarazioni di Giuliano Ferrara, che scrisse apertamente che Berlusconi era sceso in campo per salvare le sue proprietà, fino alla sequenza di leggi che hanno protetto sia il monopolio televisivo, sia il loro proprietario dall’intervento della magistratura: tutto ciò appartiene agli eventi, e non alle discussioni partigiane.

    L’intreccio fra pubblico e privato si è rivelato centrale nella periodizzazione del ventennio. Infatti, dopo una primissima fase, nella quale prevalevano gli aspetti liberali del programma, pian piano si è scivolati verso una fase di aperta conservazione (quella appunto “parasovietica” di cui sopra).

    La società civile. Nella polemica (soprattutto della sinistra), la platea alla quale si rivolge Berlusconi è figlia del “riflusso” degli anni ’80. Gli storici hanno molte obiezioni in proposito. Certamente, gli anni ’80 conoscono molte crisi, da quella del “modello parasovietico”, a quella generazionale, alla crisi irreversibile della grande industria con il conseguente tracollo della classe operaia. In realtà, negli anni ’80 si realizza un cambiamento radicale della struttura economica (e conseguentemente sociale) del nostro paese. Le piccole e medie industrie ne diventano l’asse portante, e i protagonisti di questa rivoluzione sono spesso “ex operai ed ex studenti che hanno introiettato la lezione di protagonismo individuale del Sessantotto e, delusi da una politica che nel corso degli anni settanta perde carica riformatrice, scelgono altre strade di vita. Ciò che viene chiamato “riflusso”, perché considerato con gli occhi totalizzanti dell’etica politica, è in realtà un “flusso” verso il dinamismo imprenditoriale, di cui partiti e sindacati capiscono ben poco” (p. 650). E’ questa la base elettorale “forte”, a cui si rivolge Berlusconi; ed è questa la base che i suoi avversari non capiscono, e liquidano con supponenza, accusandola di corruzione e di inciviltà.


    Bibliografia
    Amato G., Graziosi A., Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, Il Mulino, Bologna 2013.
    Colarizi S., Gervasoni M., La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica 1989-2011, Laterza, Bari 2012.
    Crainz G., Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012.
    Gibelli A., Berlusconi passato alla storia. l’Italia nell’era della democrazia autoritaria, Donzelli, Roma 2010.
    Ginzborg, P., Berlusconi in prospettiva storica comparata, in Santomassimo G, (a cura di), La notte della democrazia italiana. Dal regime fascista al governo Berlusconi, Il Saggiatore, Milano 2003.
    Ginzborg, P., Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, Einaudi, Torino 2003.
    Orsina G., Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 2013.

  • Che dire in classe del “populismo”? Il concetto e alcuni problemi di insegnamento.

    Autore: Antonio Brusa
     

    Fig. 1. Il populismofenomeno mondiale,  secondo un disegnatore olandese

     

    Una parola carica di storia
    Il dizionario la mette giù semplice: “Populismo è qualsiasi movimento politico diretto all'esaltazione demagogica delle qualità e capacità delle classi popolari”. Tuttavia,basta passare alla definizione, per quanto stringatissima,dell’Enciclopedia Treccani, o a quella un po’ più articolata delDizionario di Storiografia della Bruno Mondadori, per mettere in luce il problema che ne complica la spiegazione: come tutti i concetti storici, infatti, anche “populismo” ha un significato che cambia nel tempo, e con questo si arricchisce di sfumature e varianti.

    Dalle sue origini, nella Germania  antisemita dell’Ottocento (come ci racconta Francesco Violi), “populismo” è passato, nello stesso secolo, a designare sia un movimento russo, dai caratteri un po’ anarcoidi e molto rivoluzionari, che opponeva il popolo oppresso alla nobiltà e al clero, sia un partito americano, il Populist Party, avversario acerrimo dei Democratici. Una volta entrato nel Novecento, il concetto ha preso a viaggiare. E’ entrato nelle democrazie occidentali, scrive Marco D’Eramo, spiegandoci che Roosevelt era “populista”, quando si batteva contro le oligarchie economiche del suo paese. Si è acclimatato nell’America latina, il “paradiso del populismo”, secondo Loris Zanatta, dove J.D. Perón, il dittatore argentino, ne ha creato una variante di successo, legando all’idea di popolo quella di un leader carismatico, che ne interpreta la volontà. E, finalmente, è giunto nell’Italia repubblicana, con le tante versioni di populismo, da Giannini, il fondatore dell’Uomo Qualunque, fino ai più recenti Berlusconi, Di Pietro, Bossi/Salvini,  Grillo e Renzi. L’Italia, scrive Lucio Caracciolo, pensando anche al sottofondo populista del Fascismo, sembra la culla dei populismi europei. Quello che è certo, è che l’Europa di oggi appare invasa da populismi, un po’ come l’Europa degli anni ’30 fu caratterizzata dal proliferare dei fascismi.  

    Fig. 2 Questa vignetta del 1896 mostra il populistaWilliam Jennings Bryan nelle vesti di un serpente che ingoia l’asinello Democratico.

     

    Movimento di destra o di sinistra?
    Molti movimenti populisti odierni hanno nomi e leaderaccomunati da una chiara ideologia di destra: da Marine Le Pen del Fronte Nazionale in Francia, al Partito per le Libertà di Geert Wilders in Olanda, al Fidesz di Viktor Orbán in Ungheria, allo UKIP di Nigel Farage in Inghilterra, al polacco Giustizia e Libertà degli (ex) gemelli Kaczinsky, e poi i Perussuolamalaiset, ovverossia “I Veri Finlandesi” di Timo Soini, i Democratici Svedesi, il Partito del Progresso Norvegese (e tanti altri). Ne dobbiamo concludere che il populismo è unaideologia politica di destra? (Sul questo si veda l’intervista di Piotr Zygulski a Luca Andriola)   

    Lasituazione spagnola istilla qualche dubbio. Qui, infatti, la partita politica sembra giocarsi fra due movimenti, entrambi inequivocabilmente populisti: Podemos, di sinistra, e l’emergente Ciudadanos, di destra. E, elemento accessorio quanto significativo in quest’epoca di simboli, i loro colori–  rispettivamente il viola e l’arancione - sono emersi nel panorama politico europeo come “colori politici” solo alla fine del secolo passato, avvertendoci che anche “destra e sinistra”, con le loro divise tradizionali, sono realtà soggette a cambiamento.

    Nicolò Talenti, sul “Fatto quotidiano”, discute la definizione che abbiamo visto sopra. La accoglie per il suo richiamo al socialismo ottocentesco, ma la critica per il riferimento alla “demagogia”.E’ una sottolineatura spregiativa ingiusta, argomenta, perché il populismo, proprio perché fa “ricorso al popolo”, rivela una sostanza democratica che va apprezzata positivamente. Dello stesso parere é Nicoletta Tiliacos, dalle pagine del “Foglio”, che, recensendo il libro di Marco Tarchi (L’Italia populista: dal qualunquismo ai Girotondi, Il Mulino, Bologna 2003) afferma come sia soprattutto la sinistra a nutrire un’opinione negativa sul populismo, per quanto ne mostri ampie contaminazioni.

    Fig. 3. Sul fenomeno del populismo, e sulle diverse interpretazioni, si veda il ricco, quanto agile, dossier della Fondazione Feltrinelli, con interventi di Urbinati, Zilioli, Müller e altri

     

    Christian Raimo, su “Internazionale”, ne illustra dapprima il carattere reazionario:“Se c’è una cosa che hanno mostrato la politica italiana ed europea negli ultimi trent’anni, è che ovunque si è affermato un populismo di destra. Antidemocratico, nazionalista, reazionario, sostanzialmente xenofobo, ma non solo: multiforme, mimetico, interclassista, trasversale. La crisi delle ideologie del Novecento si è portata dietro i partiti, i sindacati, ma anche lo stesso impianto dei diritti sociali”. Poi, ne lascia intravvedere le valenze di sinistra, citando Ernesto Laclau (On Populist Reason, London-N.Y, 2005) e, attraverso lui, ricorrendo a Gramsci: “il populismo fino a oggi non è solo stato degradato, è stato proprio denigrato, è stato condannato moralmente. Questo ha significato essenzialmente screditare le masse”.  Come si può, conclude, escludere che sia di sinistra un movimento che considera così centrale l’idea di popolo?

     

    Il concetto di popolo
    Ecco il termine cruciale. “Popolo”. Che cosa intendiamo con questa parola, sulla cui variabilità lo storico ha molto da dire? Popolo aveva un significato ad Atene, come sa qualsiasi insegnante di storia, e un altro a Roma. Nel Medioevo assunse accezioni molto distanti (all’epoca dei regni romano-germanici, per esempio, quando era l’insieme di quelli che potevano combattere; o al tempo delle città comunali, dove spesso fu una consorteria di ceti); nell’Età moderna si definì prima come la totalità dei sudditi, poi come gli abitanti soggetti alle leggi vigenti in un territorio. Dalla fine del Settecento entrò in un rapporto, non sempre lineare, col termine “cittadino”.Oggi è una parola solo apparentemente condivisa e chiara. Infatti, alla domanda “che cos’è il popolo italiano?” ci divideremmo subito. Per alcuni sarebbe l’insieme degli abitanti della penisola; per altri l’insieme dei cittadini italiani; per altri ancora l’insieme dei nati in Italia e dei loro discendenti, per qualcuno anche se viventi all’estero.

    Il “popolo di populismo” è qualcosa di ulteriormente diverso. E’ una sorta di costrutto chimerico, per metà malleabile e per metà solido come la pietra. Da una parte, infatti, esso si riferisce a realtà che vengono rielaborate a seconda delle situazioni. Ma, una volta che questa realtà è stata formata, questa diventa astorica e assoluta.

    Così lo spiega Mario Tarchi (citato da Christian Raimo). Nell’idea populista, il popolo è  una “una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili”.  Esso ha “naturali qualità etiche” in base alle quali contrappone il suo “realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali”.  Esso, quindi, per quanto artificiosamente costruito, rivendica il suo primato contro ogni forma di rappresentanza e mediazione, loro sì, bollate come “politiche”e dunque “artificiose”.Per spiegare la sua natura particolare, Claudio Rise, fa ricorso al concetto di “primordialismo”. Si tratta, scrive, di un “criterio cognitivo, di orientamento a valenza identitaria, in base al quale: a) gli individui classificano sé e gli altri, e b) su queste classificazioni formano poi gruppi, appartenenze che influenzano il comportamento dei membri".

     

    Un popolo compatto, maa geometria variabile
    Il “popolo” dei populisti, dunque, è costruito a partire da una qualche classificazione. E’ il gruppo dei “noialtri”, opposto ai “loro altri”. Ma chi sono i nostri? Dipende. Possono essere quelli d’accordo con il fatto che gli “altri” vadano rottamati; oppure che gli “altri” debbano essere travolti dalla ruspa, o, in alternativa, mandati a quel paese. “Rottamazione”, “ruspa” e “vaffa” sono parole d’ordine che scombinano le classificazioni politiche e sociali abituali, e le ricombinano in nuove appartenenze (è ancora Christian Raimo a parlare). Per questo è difficile identificare un populista con i sistemi che fino al recente passato sono serviti a distinguere la destra dalla sinistra. E per questo, ancora, un populista ha buon gioco nello sfuggire alle etichettature. “Noi, dirà, siamo il popolo. E il popolo non ha colore politico”.

    Questi molti “popoli-populisti” condividono una sorta di narrazione originaria: “Gli altri ci opprimono, ci tolgono diritti e ricchezze. Sono corrotti. Quindi li dobbiamo combattere e eliminare”. E’ un racconto assai simile a quello che le genti europee del diciannovesimo secolo hanno appreso dalla predicazione nazionalistica: che dovevano riscattarsi dal loro lungo servaggio e risorgere. Con una differenza da sottolineare con cura. In fondo, per quanto “inventate”, le nazioni europee si basavano su elementi territoriali, linguistici, storici che venivano ricomposti e riutilizzati alla bisogna. Nei populismi, invece, la libertà nella scelta degli elementi discriminatori è straordinariamente più ampia: si va dal nazionalismo ipertradizionale, all’antieuropeismo, all’egoismo sociale, all’esaltazione parossistica dell’onestà, all’antimeridionalismo, alla xenofobia, al razzismo, alla modernizzazione efficientistica, alla condanna dell’evasione fiscale o alla sua esaltazione, alla ripulsa di ebrei, arabi, zingari (ecc.).

    A onta di questa variabilità, il “popolo-populista” esibisce una compattezza formidabile. E’ la tesi sostenuta da Yves Mény e Yves Surel. La valorizzazione del popolo, scrivono, porta ad una idealizzazione tale della “comunità immaginata”, che questa viene presentata unita, forte e risoluta nel reagire contro chi attenta alla sua identità: esattamente come le nazioni che, due secoli fa, combatterono per acquisire l’indipendenzae il diritto al riconoscimento internazionale (Populismo e democrazia, Bologna, il Mulino 2001. Vedine qui la recensione).

    Fig. 4 Nel disegno di Plantu, populisti di destra e di sinistra sono accomunati nella denuncia del marciume generale. 

    François parla della crescita di una maggioranza popolare antiprogressista in Francia

     

    Perché il populismo
    Si ritiene solitamente che il populismo sia l’antitesi della politica. Gli stessi rappresentanti dei movimenti (o partiti) populisti amano mostrarsi come i suoi nemici. Giovanni Orsina guarda il fenomeno da un punto di vista diverso. Ipotizza che la suadiffusione dipenda da una sorta di ritardo psicologico delle masse. In pratica, secondo lui, è successo questo. Col finire del secolo passato, siamo entrati in una fase storica così diversa, da obbligarci a cercare e costruire nuovi modi di interpretare il mondo. Tuttavia, molte persone pensano di vivere ancora nel XX secolo, “nel secolo delle ideologie e della politica che faceva promesse ambiziose”.  Vivono in un mondo nuovo con gli schemi mentali di un passato, nel quale i partiti costruivano progetti politici di ampio respiro.

    La politica, al posto di “insegnare” che il mondo è cambiato, e di “svegliare la gente dal sogno del Novecento”, prende la strada più facile: insegue i desideri della gente e promette ciò che questa si attende. Impegni che si rivelano, inevitabilmente, irrealizzabili. Di qui la frustrazione e il disprezzo per dei partiti incapaci. Il populismo odierno, quindi, secondo Orsina, nasce da un forte bisogno di politica: solo che chiede una politica d’altri tempi. La sua diffusione esprime uno dei tanti paradossi della nostra epoca, nella quale i partiti sono considerati dei ruderi inefficienti e dannosi, ma, al tempo stesso, se ne rimpiange la capacità di direzione e gli orizzonti verso i quali riuscivano, in un passato che resta ancora fresco nella memoria, a indirizzare masse imponenti di cittadini.

     

    Problemi didattici
    La tesi di Orsina, anche perché espressa con la sinteticità dell’editoriale, va discussa e sfumata. In questa sede – tuttavia - può avere il merito di aprire un dibattito didattico interessante  su due punti. Il primo è che sollecita il docente a collocare il fenomeno “populismo” nelle grandi trasformazioni dei nostri tempi. Per capire questo fenomeno, e la sua spettacolare avanzata in Europa, non basta conoscere la sua definizione (per questo, come per altri concetti analoghi). Occorre ricostruire il contesto, in questo caso dell’età “molto contemporanea”, e, per far questo, l’insegnante deve ritagliare un tempo sufficiente, all’interno della programmazione dell’ultimo anno.

    Il secondo nasce dall’analisi del quadro cognitivo diffuso, che (sempre a giudizio di Orsina) favorirebbe l’avanzata del populismo.  Ecco gli elementi di questo quadro.

    -    Una perdita del senso della realtà, che fa ritenere plausibili operazioni per quanto del tutto improponibili
    -    Un’ostinata ricerca di un capro espiatorio, che porta alla soluzione facile di ogni problema: basta punire un colpevole per risolverlo
    -    La diffusione del “complottismo”: cioè la convinzione che ci sia sempre un soggetto preciso, dietro i problemi che viviamo
    -    L’indignazione cosmica, scatenata dall’osservazione che nessuno adotta soluzioni che appaiono semplici e a portata di mano
    -    L’idea che siamo giunti ad un punto così basso, che peggio di così non si può andare. Tanto peggio, tanto meglio

    Per adoperare categorie cognitive più familiari agli insegnanti di storia, possiamo dire che Orsina allude a quella incapacità di maneggiare situazioni complesse e astratte, che obbliga il soggetto-cittadino a operareipersemplificazioni della realtà e a personalizzare processi storici. E’ il quadro clinico che Anna Emilia Berti delinea nelle pagine di “Mundus”, parlando degli ostacoli alla corretta comprensione della storia. Non è nuovo, e non è per nulla specifico di uno dei tanti “mali” della società che viviamo. Negli anni ’60 del secolo scorso, von Friedberg e Hubner ne scoprivano le tracce nella concezione storica degli adolescenti deltempo. Ecco che come la descrivevano:

    “Gli eventi storici e i loro nessi vengono rappresentati per mezzo di categorie dell’esperienza quotidiana ingigantite, quando non siano semplicemente ridotti (come avviene nei ragazzi fino all’età di circa 13 anni) alle categorie normali della cosiddetta esperienza concreta“immediata”. [...] Tutti gli avvenimenti storici e le situazioni sociali vengono visti sempre come il risultato dello sforzo di singole persone. Le motivazioni e le caratteristiche ad esse attribuite “spiegano” i nessi di condizionamento relativi alla struttura sociale e la continuità della storia” (von Friedeburg, Hubner, Immagine della storia e socializzazione politica (1964), trad. it. in Barbagli (a cura di), Scuola, potere, ideologia, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 271, cit. da Berti).

    Il quadro cognitivo tracciato da Giovanni Orsina, dunque, fa pensare ad una mancata formazione storica generalizzata, piuttosto che a un trauma conoscitivo tipico dei nostri contemporanei.  La diffusione del populismo, dunque, sarebbe una spia di un fatto sociale più vasto, non necessariamente limitato né ai nostri tempi, né al successo di questo o quel partito.

    Infatti, l’individuazione di questo deficit risale a diversi decenni fa ed è caratteristico non solo dell’Italia, (come ci autorizza a dire la ricerca tedesca citata sopra). Esso testimonia la difficoltà di avviare i giovani verso una comprensione adulta dei processi storico-sociali. Più che un bisogno di politica (o forse “oltre al bisogno di politica”), questa diagnosi rivelerebbe un drammatico bisogno di storia. Drammatico, perché il “deficit storiografico” inibisce l’intelligenza di strategie complesse per risolvere i problemi sociali; impedisce a larghi strati sociali di comprenderne la natura e, perciò, li spinge a cercare soluzioni elementari e personalizzate; favorisce la cultura politica dello slogan facile e della personalità risolutrice.

    E’ una specie di semialfabetismo storiografico, forse paragonabile a quell’analfabetismo funzionale sul quale ci ha bene informato Tullio De Mauro (La cultura degli Italiani, Bari, Laterza 2010). Dovrebbe preoccupare, e molto, la società e la politica; dovrebbe metterle in guardia sul pericolo che una società democratica corre, quando si disinveste sulla formazione storica e umanistica in generale.  La soluzione che viene adottata – in Italia come all’estero – è quella di una forte spinta all’ Educazione alla cittadinanza. Questa, tuttavia, in mancanza di quegli strumenti fondamentali di analisi sociale, la cui disponibilità non può che essere il frutto di un lungo e sofisticato lavoro scolastico (e quindi di investimenti), rischia di ridursi a un elenco consolatorio di competenze.

    Intanto, e in attesa di tempi scolasticamente migliori, perché non dirsi, almeno, che sarebbe utile sapere di cosa si tratta in realtà, quando si dice “populismo”?

  • Cinque competenze per evitare un naufragio

    Autore: Antonio Brusa


    Il Mediterraneo e il Laboratorio del Tempo presente.

    Indice
    Introduzione: Naufragi didattici
    Competenza n.1:  Mettere in prospettiva storica
    Competenza n. 2: Usare i concetti storici in modo appropriato
    Competenza n.3:  Contestualizzare
    Competenza n. 4: Comprendere la complessità dei fatti storici
    Competenza n. 5: Comprendere i processi storici
    Il laboratorio del tempo presente


    Introduzione
    Naufragi didattici

    Tanti rischi di naufragio, quando si progetta di trasformare il Mediterraneo odierno in un oggetto di studio storico. Il primo riguarda proprio l’oggetto “Mediterraneo contemporaneo”.  Ormai tutti ci hanno fatto l’abitudine. Fino al 1500, il Mediterraneo è al centro della storia insegnata. Greci, romani, medioevo, Repubbliche marinare, Venezia e i turchi. Fino a Lepanto. E’ comprensibile che, stressata da tanto navigare, la storia se ne fugga verso Nord. E tutti noi, appresso a lei, cominciamo a parlare in classe di Inghilterra, Francia e Germania. Il Novecento?  Storia europea e mondiale. L’Italia giusto perché viviamo qui. Ma che la nostra sia la penisola centrale del Grande Mare (come dicevano i romani, perché Mare Nostrum è un’invenzione post risorgimentale) è un fatto solo geografico. Il buon Metternich, alla lunga, ha convinto anche noi.

    Il secondo naufragio nasce per opposizione a questo occultamento. E’ la vendetta della “storia molto contemporanea”, quella che dai media si riversa direttamente nelle nostre coscienze: gli sbarchi dei migranti, le rivolte arabe, le guerre e gli ammazzamenti quotidiani, per non parlare delle questioni dell’inquinamento e dello sfruttamento delle risorse marine. Dal tempo della Rivoluzione dei Gelsomini, Tunisia 2010, il Mediterraneo occupa stabilmente le prime pagine. Ne vorremmo parlare in classe. Ma come trasformare questa valanga di notizie in un “oggetto insegnabile”?

    In senso più largo, poi, il naufragio può riguardare quel progetto, contemplato dai programmi in vigore nella scuola di base, ma perfettamente realizzabile in quello delle superiori, che potremmo chiamare Laboratorio del Tempo presente, uno strumento ideale proprio per rispondere alla domanda di sopra. E’ possibile costruire un laboratorio siffatto? Con quali contenuti e con quali operazioni verrà riempito? E quando programmarlo? Solo nei due anni terminali dei cicli, cioé in terza media o in quinta superiore? E la primaria? Continuerà a lamentarsi di essere stata espropriata dal mondo contemporaneo?

     In una accezione ancora più estesa, un naufragio inevitabile attende  sfortunatamente quei docenti che sono alle prese con le liste infinite di competenze, alle quali il Miur e le Direzioni Regionali sacrificano i pochissimi soldi dell’aggiornamento. Se quegli insegnanti temono di impazzire in un lavoro inutile,  e vorrebbero riportare tutto alla concretezza della storia, questo scritto – che riassume le lezioni e i lavori della Summer School Mediterraneo contemporaneo, organizzata a Venezia 2014 dall’Insmli - è per loro.


    Competenza n.1

    Mettere in prospettiva storica

    Tutti noi percepiamo naturalmente (dotate questo avverbio di tutte le virgolette che ci vogliono) una dimensione temporale dei fatti che conosciamo. Risparmiatemi le citazioni, di Nietzche, Foucault e di tanti altri, che ci hanno insegnato come qualsiasi cosa, nella nostra società, è circondata da una sorta di “alone di storia”. A volte, questo è come una pellicola sottilissima. Quasi impercettibile. Ci spinge a sentenziare che quel dato fenomeno  “è appiattito sul presente”. Un esempio di tutti i giorni: il contrasto fra mondo occidentale e Islam, a proposito della separazione fra il potere secolare e quello religioso. Da noi le due sfere sono separate (più o meno bene); da loro, invece, si sovrappongono. Oppure, il diverso modo di concepire la donna: garantita dai diritti nel mondo occidentale, priva di diritti in quello islamico. Che profondità storica vediamo in queste due differenze? Nessuna. L’Islam è così.  E’ tale da sempre. Come il mondo occidentale. Diversi per natura.

    Tre stereotipi temporali

    Ma ecco un esempio opposto: la lacerazione del Mediterraneo fra mondo cristiano e mondo islamico. Il Nord e il Sud. Qui una profondità storica si vede. Perlomeno, chi sa che gli Arabi un giorno, tanto tempo fa, invasero il Mediterraneo, sa pure che in quel momento il mare si divise in due. E chi ne sa qualcosa in più, riesce a dire che questa spartizione avvenne fra VII e VIII secolo. Chi ne sa molto di più, aggiungerà che, in effetti, si tratta della famosa Tesi di Pirenne, lo studioso belga che – un po’ prima della seconda guerra mondiale  –  stabilì che con l’arrivo degli Arabi finì il lungo periodo di unità del Mediterraneo, garantita dall’impero romano, ma costruitasi lentamente con i traffici di uomini, cose e idee di Greci e Fenici. Nel VII secolo il Sud prese una sua strada, allontanandosi verso Est, mentre il Nord si ritirò sempre di più verso il Settentrione dell’Europa. Nacquero, così, il Medioevo e l’Età moderna e – nella lotta acerrima contro l’Islam – si temprò la civiltà cristiana (qui potete leggere l’edizione originale di Maometto e Carlo Magno).

    Sono stereotipi, dobbiamo sottolineare con forza, dando a questo termine il significato di conoscenza diffusa e condivisa al punto tale da non essere più messa in discussione.

    “A regola d’arte”, o il mestiere di storico

    I primi due sono stereotipi del quotidiano. Non c’è bisogno di aver studiato, per essere convinti che le cose stanno in un certo modo. Il terzo no. E’ uno stereotipo colto (per questo lo ritroviamo nella manualistica). Deriva da una conoscenza nata in ambito accademico e di lì diffusa nella società, al punto tale da essere considerata una realtà indiscutibile, per quanto da oltre mezzo secolo sia stata smentita e dichiarata in larga misura inattendibile.

    Questi stereotipi permettono ad un soggetto qualsiasi, dunque anche ad un nostro allievo, di mettere in prospettiva temporale cose e problemi. Nel nostro caso presiedono al nostro modo di guardare a ciò che accade nella riva Sud del Mediterraneo. Cos’è - allora - la “competenza storica”? Direi che la competenza esiste quando facciamo l’identica operazione (mettere in prospettiva temporale qualcosa), ma la facciamo “a regola d’arte”.

    Questa espressione è tipica di alcune professioni, come quelle del piastrellista o dell’idraulico, che - per quanto pagate profumatamente - sono relegate nel comparto dei “lavori manuali”. Ma se ciò vi appare uno svilimento del ragionamento storico, ricordate il celebre manuale di metodologia, scritto da Marc Bloch, che aveva come sottotitolo “il mestiere di storico”. Il lavoro storico ha una certa sua “artigianalità”. Mi sembra, perciò, straordinariamente bello chiamare in causa il più grande storico del secolo scorso, per precisare un termine pedagogico così inflazionato, e proprio per questo pericoloso. Diremo perciò che quando lo fa a regola d’arte, allora uno possiede (in gradi diversi) la competenza “Mettere in prospettiva storica”.

    Cosa occorre per possedere una competenza storica

    Ma che vuol dire, nel nostro caso, “a regola d’arte”? Ahimè: qui non si sfugge allo studio e alle tanto vituperate “nozioni”. Occorre possedere qualche conoscenza storica precisa. Riprendiamo i nostri esempi.

    Nel primo caso, quello della separazione dei poteri, può essere sufficiente sapere, e rifletterci su, che in Italia la difesa del potere temporale da parte della Chiesa caratterizzò tutta la prima parte della storia unitaria, fino al 1929, quando il Fascismo riuscì a trovare un accordo di delimitazione dei campi (molti direbbero che, a guardar bene, questa separazione è abbastanza difettosa).

    Nel secondo caso, quello dei diritti delle donne, può essere sufficiente sapere che la Costituzione, che Habib Bourghiba promulgò nel 1959, attribuiva alle donne tunisine la facoltà di divorziare e  decretò la potestà parentale, mentre nell’Italia “dei diritti”, si dovette attendere il 1974 per il divorzio, e solo con il nuovo codice della famiglia, dell’anno successivo, la “patria potestà” venne sostituita con la parità dei poteri genitoriali (potestà parentale). E’ ben vero che il partito islamista, giunto recentemente al potere, ha promulgato una nuova Costituzione: ma le donne hanno difeso coi denti le loro conquiste e quella parità, che in quello stato musulmano godono da un tempo più lungo che da noi.

    Nel terzo caso, quello della divisione del Mediterraneo, occorre fare qualche ragionamento e un po’ di studio in più, che portino alla consapevolezza che questa divisione – nelle forme che conosciamo e che ci preoccupano tanto - fu una delle conseguenze traumatiche del processo di colonizzazione, e non dell’arrivo degli arabi nel Medioevo. La colonizzazione (come vedremo meglio subito) è un lungo processo, che interessò la vicenda mediterranea dal 1830 al 1983. Fu proprio durante questo lasso di tempo  che si aprì un solco lacerante tra la riva dell’Occidente cristiano e laico – la sponda dei dominatori - e quella islamica -  la terra dei dominati - gente inferiore, da sfruttare e da educare alla civiltà. Nei secoli precedenti, nonostante guerre e piraterie di ogni sorta, le due rive si erano guardate con un salutare rispetto, pur desiderando l’una le ricchezze dell’altra. Solo negli ultimi due secoli, dunque,  la riva Nord cominciò a considerarsi “naturalmente” superiore all’altra, che venne pensata come “naturalmente” diversa.

    Potremmo dire, per concludere con una nota storiografica, che Pirenne dette dignità scientifica al senso comune nato nell’Europa coloniale, quello della differenza sostanziale fra le due sponde, inaugurando perciò un errore di prospettiva storica. Retrodatava al passato medievale quello che era in realtà un fenomeno recente.

    Sapere non basta

    Ovviamente, non basta “possedere una determinata conoscenza storica”. Ad esempio “sapere che Pirenne scrisse Maometto e Carlomagno nel 1937”, o “che la Costituzione tunisina fu promulgata nel  1959” non è sufficiente per raggiungere la nostra competenza. Occorre – come abbiamo visto - accostare questa conoscenza a un certo fatto e a una certa affermazione, e ricavarne le conseguenze opportune.  Se è vero che la divisione traumatica del Mediterraneo è così recente, allora dobbiamo ritenere falsi quei ragionamenti e quelle convinzioni che fanno risalire alcuni aspetti della realtà attuale a tempi immemorabili, a crociate sanguinose e a scorrerie di schiavisti, quando non alla “essenza” di una determinata religione. La prospettiva storica ci aiuta a capire che questa opposizione insanabile – fra Nord e Sud – ha cause che devono cercarsi in qualcosa che sta vicino a noi, e non a remotissime, e dunque inattaccabili, tradizioni.

    Al fondo di nuovi ragionamenti, ai quali la conoscenza della storia ci può condurre, c’è una distinzione fondamentale fra la “forma” che i concetti, i giudizi, i punti di vista assumono nell’uso comune, e quella alla quale il ragionamento scientifico ci deve abituare. Nel discorso storico diffuso, infatti, si è portati a “essenzializzare”. Con questo termine si intende quel modo di considerare cose astratte o immateriali (come una cultura, una religione, un modo di pensare ecc) come degli oggetti fisici, solidi. Dunque immutabili. Se, invece, riusciamo a mettere questi oggetti in prospettiva storica, siamo portati a “relativizzarli”. Con questo termine non si allude affatto a frasi come “perdita di certezze”, oppure “tutte le cose hanno lo stesso valore” (anche in questo caso si tratta di accezioni di senso comune dalle quali occorre liberarsi). “Relativizzare” significa, invece, capire che le cose della storia hanno cause individuabili, nascono e vivono in contesti riconoscibili, che sono anch’essi mutevoli nel tempo. Sono, per dirla in un linguaggio – questa volta comune sia alla scienza sia al quotidiano – un “prodotto degli uomini”. Sono costrutti sociali passibili di cambiamenti.


    Competenza n.2
    Usare i concetti storici in modo appropriato

    Il ragionamento per questa nuova competenza è identico. Nel linguaggio comune usiamo continuamente dei concetti storici. La competenza è saperli usare “a regola d’arte”, cioè in modo appropriato (come giustamente dicono i programmi).

    Per capire che cosa tutto ciò voglia dire, concentriamoci su un paio di termini che abbiamo già citato: Colonizzazione e il suo opposto Decolonizzazione.

    Il significato comune di colonizzazione

    Nel discorso quotidiano, colonizzazione è usato in due accezioni:

    - Un significato largo, metaforico. E’ una qualsivoglia dipendenza da un soggetto esterno. Economica, mentale, culturale, politica. Un soggetto prevale su un altro? Lo sta “colonizzando”. E’ sufficiente, dunque, una qualsiasi asimmetria in un rapporto perché noi ci si senta legittimati a usare questa parola.

    - Un significato soggettivo. “Io mi sento colonizzato”. Sean Connery, per quanto viva nella ricca Scozia e non abbia nessun motivo per lamentarsi, si sente colonizzato dall’Inghilterra (non farò esempi più casalinghi, per quanto ugualmente calzanti). Magari, guardando dall’esterno, uno gli potrebbe dire che non è così vero. Ma è un fatto che lui sia convinto di questa asimmetria dei rapporti.

    L’accezione scientifica di colonizzazione

    Nel linguaggio scientifico, il termine ha un uso assai più circoscritto: colonizzazione è il dominio esterno su un determinato territorio.

    In realtà, la storiografia ci obbliga a distinzioni  un po’ più raffinate. Per esempio, ci mette in guardia sul termine “colonia”, che noi adoperiamo, senza pensarci su troppo, per la storia greca, quella romana e quella moderno-contemporanea. In ognuno di questi contesti il termine designa fenomeni diversi. Nel mondo greco, è la fondazione della apoikìa, la “casa lontana”, la reduplicazione della “città madre”, la metròpolis. Nel mondo romano è prima un insediamento agricolo in terre conquistate e poi una città. A partire dal 1400, con l’avvio dell’impero portoghese, è la conquista di un territorio (che lo si metta a coltura o no poco importa, e naturalmente, senza la minima voglia di reduplicare Lisbona in terra straniera).

    Analogamente, occorre fare attenzione al termine correlato – Impero. Gli imperi coloniali sono molto diversi da quello romano. Metterli tutti nello stesso calderone (addirittura con quello di Carlo Magno) non aiuta molto a capire. Basti un solo esempio per consigliare prudenza: nel 248 d.C, un imperatore di origine araba e dal nome greco, Filippo, celebrò i Ludi del Millenario di Roma. Trovatemi un nativo africano, sudamericano, o indiano, che abbiano rivestito per un solo giorno l’ermellino imperiale in Portogallo, Spagna o Inghilterra.

    Un’eventualità impossibile, anche solo a pensarla. E, per quanto riguarda l’Italia, ci viene da sorridere al pensiero che Mussolini non si rese affatto conto che il suo progetto di rimettere in vita l’impero romano avrebbe aperto un giorno le porte del Quirinale a un negus etiopico o a uno sceicco libico.

    Decolonizzazione

    Si dirà: la solita meticolosità dei ricercatori. Che non sia così, lo apprendiamo osservando l’opposto di colonizzazione. Decolonizzazione. Per chi ne conosce solo l’accezione comune, questo termine non può che voler dire “liberazione”. Il colonizzato è uno schiavo. Il decolonizzato è uno libero. Non è così per lo storico: la decolonizzazione si avvera quando “si crea uno stato indipendente”.

    Una bella differenza, che apre scenari nuovi di comprensione e ci aiuta a evitare gli equivoci. Un esempio che riguarda il Mediterraneo. Presentare la lotta per la decolonizzazione come “lotta per la libertà” è in stridente contrasto con il fatto che quella lotta portò – nel Mediterraneo - alla costituzione di stati autoritari o dittatoriali (con la sola eccezione del Libano). Certamente: nel corso del processo indipendentista, la lotta viene sempre propagandata come “guerra per la libertà”. Ne sappiamo qualcosa noi, avvezzi a studiare la retorica risorgimentale. Ma in sostanza, questa punta alla nascita di uno stato, che potrà essere democratico o autoritario. Ma ciò avverrà non in ragione della “decolonizzazione”, quanto per altri motivi (chi vorrà, potrà metterli a fuoco comparando le vicende mediterranee con quanto accadde nelle colonie latino-americane, o in quelle inglesi).


    Le competenze non sono isolate

    Poiché gli equivoci didattici sono sempre dietro l’angolo, immagino che qualche lettore stia già pensando che tutto si risolverebbe facendo studiare le definizioni precise dei termini storici, come vuole una pratica antica, spesso ricorrente. Purtroppo questa fatica servirebbe a poco, se gli allievi non li sapessero usare in modo appropriato. Non sarebbe una “competenza”.

    Un modo sorprendente di uso – insieme storiografico e didattico – è quello di intrecciare questa con la competenza cronologica. In pratica, se “applichiamo il concetto al tempo”, vediamo che “colonizzazione/decolonizzazione” sono due termini che “creano un tempo”. La colonizzazione ritaglia, nella cronologia europea e mondiale, un tempo lunghissimo, che va dal 1415, data in cui i portoghesi cominciarono a lanciarsi alla conquista delle terre africane, per aggirare i domini musulmani, fino al 1984, quando, con la restituzione alla Cina di Hong Kong, si ritiene generalmente conclusa la fase del dominio europeo del mondo.

    Se poi applichiamo lo stesso procedimento alla cronologia mediterranea, vediamo che il tempo della colonizzazione si sposta in avanti, verso i nostri giorni, perché inizia nel 1830, con l’avvio della conquista algerina da parte della Francia.

    Analogo fenomeno succede adoperando come strumento di periodizzazione il concetto di decolonizzazione. Vedremo che nel mondo questa comincia a metà Ottocento, con le guerre delle colonie sudamericane contro il dominio spagnolo, mentre nel Mediterraneo si avvia solo molto tardi, dopo la seconda guerra mondiale.

    Alcune conseguenze didattiche

    Il processo di colonizzazione, dunque, è un periodo lunghissimo, di circa mezzo millennio. Il che vuol dire che presenta molte diversità. Un conto è la colonizzazione ai suoi esordi, un conto nei tempi successivi. La violenza della primissima colonizzazione non è per nulla comparabile a quella successiva. Il Mediterraneo ha avuto la “fortuna” (qui le virgolette ci vogliono) di essere colonizzato tardi: pensate se la conquista algerina o quella libica avessero prodotto una catastrofe demografica simile a quella che seguì le imprese di Cortez e di Pizzarro. Allo stesso modo, anche la decolonizzazione propone situazioni diverse. Un conto è creare uno stato indipendente nell’Ottocento, quando la forma di governo statale appariva vincente; un altro conto riuscire a crearlo nel secondo dopoguerra, se non addirittura dopo la fine della guerra fredda, al tempo del declino dello stato nazionale.

    Di questo lungo processo, quindi, il Mediterraneo vive la parte finale. Per quasi tutto l’Ottocento, solo una parte del Maghreb è colonizzata dalla Francia. E’ a partire dal Novecento che inizia la grande divisione del mare. Comincia l’Italia, aggredendo la Libia. Poi, con il crollo dell’impero turco, ci si lancia alla conquista delle sue terre. Inghilterra e Francia fanno la parte del leone, mettendo le mani sul Vicino oriente, dalla Persia fino all’Egitto. All’Italia toccano le briciole di una vittoria che le apparve mutilata. Solo la Turchia riuscì a salvarsi dall’avidità dei vincitori europei. La colonizzazione della riva sud è un fatto recentissimo, così come le guerre o le lotte per acquistare l’indipendenza. Noi – specialmente in Italia – abbiamo rimosso tutto: ma come possiamo pensare che nel Sud questo fenomeno sia stato dimenticato?

    Queste avvertenze ci aiutano a rivedere a diffusi, giudizi cristallizzati. Ci dicono che ciò che è importante capire, in questi processi così lunghi, è proprio la loro profondità temporale. Non si tratta di fenomeni puntuali, dei quali è sufficiente stabilire una data di conquista o quella dell’indipendenza. In tempi così lunghi, si creano abitudini, si mescolano culture e genti, si sedimentano odi e passioni, che diventa difficile dimenticare o sradicare. E, per converso, alcuni fenomeni (la colonizzazione del Mediterraneo) sono così recenti che non è pensabile che non pesino ancora sui fatti della contemporaneità.

    Una pratica insegnante da rivedere

    C’è, in questa dimensione temporale lunga, anche un invito a rivedere delle pratiche insegnanti. Stando ai programmi, ciò che accade al principio del XV secolo si insegna in prima media o in prima superiore. La fine del Novecento, invece, è argomento dell’anno terminale. E’ legittimo chiedersi in che modo l’allievo riuscirà a “tenere insieme” in un unico racconto mentale fatti e problemi che apprende separatamente, a anni di distanza. Noi smembriamo in decine di pezzi il processo della colonizzazione/decolonizzazione, poi pretendiamo che gli allievi lo comprendano.
    Facciamo il conto delle conoscenze scolastiche relative a questo processo e proviamo a situarle in una programmazione standard. Si parte in prima (o in terza superiore) con le imprese portoghesi, segue la conquista dell’America. L’anno successivo, spieghiamo le vicende delle compagnie olandesi e inglesi. Non dovrebbero mancare la Guerra dei sette anni e il trattato di Parigi del 1767, con il quale Francia e Inghilterra cominciarono a spartirsi il pianeta e la tratta degli schiavi. Finalmente, all’inizio dell’Ottocento, si da il via alla conquista della riva sud del Mediterraneo, con l’assalto al mondo delle potenze europee, sancito dalla Conferenza di Berlino del 1884. Il Novecento (siamo arrivati all’ultimo anno) si apre con la conquista della Libia da parte dell’Italia, e – dopo la prima guerra mondiale –  continua con la definitiva colonizzazione del Mediterraneo. Infine, se ci rimane tempo, inseriamo una rapida trattazione del periodo della decolonizzazione successiva alla seconda guerra mondiale.
    Se, come diciamo ad ogni occasione, il presente è frutto di lunghe sedimentazioni, è evidente che questa pratica insegnante è un ostacolo insormontabile per la sua comprensione.


    Competenza n.3
    Contestualizzare

    Ogni oggetto storico è immerso in una rete spazio-temporale molto complessa.  Esso è “contestualizzato”. La contestualizzazione, però, non si vede. Occorre ricostruirla mentalmente. Per questo è una competenza: “saper contestualizzare”.

    Proviamola su un problema attuale: le donne velate. Negli anni ’60,  il cosiddetto “svelamento” ebbe il valore di “liberazione delle donne”. Ma in determinati regimi dittatoriali, quando lo svelamento venne imposto, molte donne, anche laiche, decisero di velarsi – proprio per manifestare la ribellione contro un sopruso. Dopo l’attentato delle Torri gemelle, in molte parti del mondo le donne  musulmane, sentendo la loro religione messa ingiustamente sotto accusa, hanno preso a velarsi in segno di orgoglio e di difesa della propria identità. Insomma: nel senso comune occidentale le donne musulmane velate significano unicamente oppressione femminile. L’analisi storica ci obbliga a diversificare questo giudizio. In certe occasioni è vero. In altre, paradossalmente, è esattamente il contrario. Per distinguere e capire, occorre “saper contestualizzare”.

    Un altro esempio, questa volta di storia generale. Noi contestualizziamo la Prima guerra mondiale generalmente in uno spazio-tempo settentrionale: gli Alleati (Francia e Inghilterra, con l’Italia a rimorchio), combattono contro le potenze centrali dell’Europa: Austria e Germania. E’ proprio così? Al momento della guerra, la Germania ha da tempo stabilito un filo diretto con la Turchia e l’Austria è ancora una realtà balcanica. La guerra, infine, scoppia nei Balcani, cioè in una penisola mediterranea.

    E’ la guerra delle trincee. Giusto. Ma si combatte anche nel mare. L’Adriatico è un fronte caldissimo: tanto è vero che il giorno dopo l’entrata in guerra dell’Italia, gli austriaci non persero tempo a bombardare le coste pugliesi. E uno dei primi caduti fu un povero ragazzo di Bari, centrato da una bomba lasciata cadere da un aereo, partito dalle coste montenegrine (questa storia è raccontata da Sergio Chiaffarata nel prossimo numero di “Mundus”).

    Sulle coste turche, a Gallipoli, si combatte una delle battaglie più sanguinose della seconda guerra mondiale. Vede fronteggiarsi i turchi, guidati da Mostafà Kemal, e decine di migliaia di ragazzi neozelandesi e australiani, mandati al macello da insipienti generali inglesi. Quella vittoria fu per Kemal il trampolino di lancio, per conquistare il potere e creare la Repubblica turca. Nell’altra parte del mondo, Australia e Nuova Zelanda, hanno fondato su quell’eccidio di giovani vite le basi della loro identità nazionale.

    Fra le conseguenze più rilevanti della guerra c’è la distruzione dell’impero turco. L’ assetto del mare, raggiunto nel lontano XVI secolo, si sconvolge in pochi anni. Francia e Inghilterra si accaparrano le spoglie imperiali e pongono le basi, con la loro dissennata politica spartitoria, della odierna catastrofe mediorientale.  E’ con la guerra che il Mediterraneo diventa un mare interamente colonizzato.

    Tutto questo si vede molto bene, a patto di contestualizzare l’evento guerra in uno spazio-tempo centro-meridionale.  Questo nuovo contesto pone le basi per mettere in prospettiva storica gli eventi dell’oggi. Se, invece,  come siamo abituati a fare, ci irrigidiamo in una contestualizzazione centro-settentrionale, i fatti del Vicino Oriente tenderanno ad apparire fastidiosamente inspiegabili. Motivati magari da una connaturata propensione alla violenza di quelle popolazioni.


    Competenza n. 4
    Riconoscere la complessità storica dei fatti

    Un fatto storico è una specie di cellula: se lo guardiamo al microscopio si rivela un sistema di innumerevoli componenti intrecciate fra di loro. E questo sia se si tratti di un fatto macro, come una guerra o una crisi mondiale, sia che si tratti della biografia di un individuo o di un evento minimo di storia locale. I fatti si presentano apparentemente come “cose solide”. Fa parte essenziale della formazione storica insegnare agli allievi che occorre analizzarli, per riconoscere la loro complessità.

    Fernand Braudel ci ha insegnato che ogni fatto storico risulta dalla sedimentazione di tanti tempi. Per spiegarle questo concetto, ha usato una metafora celebre, quanto mai pertinente in tema di Mediterraneo: i fatti sono come il mare. In profondità ci sono le acque quasi immobili, poi le lente correnti marine e in superficie le onde.

    E’ un modello di analisi facile, un buon avvio per insegnare a leggere la complessità dei fatti mediterranei.  Uno dei miei primi esperimenti con i ragazzi riguardò la battaglia di Lepanto. Invitavo gli allievi a scomporla in tanti elementi, servendomi di un’immagine: le navi, le vele, i remi, i cannoni, le bandiere con le insegne religiose.  Ognuno di questi elementi ha un suo tempo, che non è difficile stabilire. A questo punto invitavo gli allievi a costruire una “piramide dei tempi”: in basso i tempi più antichi (la navigazione e le vele); poi quelli intermedi: le religioni; poi quella della costituzione dei soggetti che combattevano (Impero turco, Venezia, Malta, Regno di Napoli,ecc.); infine quelli delle armi.

    E’ una pratica didattica molto semplice, che si basa su tre operazioni: la prima di analisi (scomporre l’evento nella maggior parte di elementi che si riesce); la seconda di datazione degli elementi trovati (approssimata, o precisa a seconda delle possibilità); la terza di costruzione di uno schema cronologico (una infografica, diremmo oggi). Il risultato è, da una parte, una sorta di “impronta cronologica” dell’evento. La chiamo così, perché ogni evento ha una sua impronta particolare. La seconda è un avvio alla percezione della complessità del fatto storico.


    Competenza n. 5
    Comprendere i processi

    Il tempo storico non è una linea. La pratica sempre più diffusa delle “rette cronologiche” tende a consolidare la confusione fra il tempo storico e la cronologia. Credo che la “piramide dei tempi”, vista sopra, sia un cronogramma molto più ricco e vicino all’analisi storica, di una retta diritta e sottile. 

    I tempi storici più interessanti riguardano i processi. Potremmo definirli, al termine di questa carrellata sulle competenze, con una semplice formula:

    Contestualizzazione + Complessità + Prospettiva storica = processo

    Nella mentalità diffusa il tempo storico è come una serie di biglie, una colpisce l’altra muovendo dal passato verso il futuro. Nell’analisi storica, il processo è il fluire nel tempo di un insieme complesso, le cui componenti viaggiano a velocità diverse, interagendo fra di loro e con il loro contesto.

    Proprio perché complesso, il processo storico può essere letto da tante angolazioni. Difficilmente lo sarà in modo esaustivo. Molte letture risulteranno compatibili. La possibilità di guardarlo da punti di vista diversi aiuterà spesso la sua comprensione. Quasi mai un processo permette giudizi univoci (positivo o negativo). Spesso convivono aspetti che ci appaiono di natura diversa. Spesso gli effetti dei processi sono sorprendenti rispetto alle premesse. Diciamo allora che sono “controintuitivi”. I combattenti per la libertà dei popoli colonizzati del mediterraneo si batterono sinceramente per i loro ideali. Chi avrebbe mai potuto sospettare che, una volta al potere, avrebbero dato vita a governi autoritari o dittatoriali? Quanto di “controintuitivo” c’è nella storia delle Primavere arabe? Il grande impero turco, come quello austroungarico, era percepito come oppressivo dai molti sudditi, e questo favorì anche la sua rapida caduta. Ma (esattamente come l’impero austroungarico) esso ha garantito la convivenza di popoli e di religioni diverse come non accadde nei tempi successivi, di stati liberi e indipendenti. Molti superstiti delle persecuzioni naziste e dei pogrom europei dettero vita allo stato di Israele: chi avrebbe mai detto che avrebbero dato vita a uno stato con le preoccupanti caratteristiche dell’apartheid? Dal canto suo, il mondo palestinese si presenta con una complessità di soggetti che non consentono letture univoche.

    Nella mentalità comune ci si attende che i cambiamenti siano definitivi e radicali. Ci si attende che i suoi protagonisti siano “buoni o cattivi”. Che ci sia chi ha ragione e chi ha torto. La storia ci abitua a fare i conti con cose che hanno una pluralità di letture. Ci dovrebbe insegnare che non esistono gesti, e personaggi, taumaturgici, ma pazienti opere di governo della complessità.


    Il laboratorio del tempo presente

    •    Didattica ingenua: fare una ricerca, informarsi, discutere, portare i giornali in classe, ecc

    •    Didattica esperta: sottoporre un determinato fatto  all’analisi operata con gli strumenti storici a disposizione in quel momento scolastico

    Le scuole sono piene dei relitti della didattica ingenua. Un evento colpisce la sensibilità dei ragazzi? Ecco pronta la ricerca su Internet; gli articoli di giornali e la diatriba mediatica riprodotta in classe. L’interesse dei ragazzi è assicurato. Ma qual è il vantaggio formativo che ne ottengono? Cosa imparano rappresentando in classe la dinamica di un talk show? E per quale motivo si dovrebbero confrontare in classe le opinioni di giornalisti (se va bene), quando non di oscuri commentatori della rete?

    Un laboratorio del Tempo presente, a mio modo di vedere, dovrebbe essere il luogo dove si prova l’efficacia delle capacità operative, messe a punto nel corso della programmazione. E’ il luogo – per riprendere il tema di questo intervento – dove si sperimenta quanto l’allievo sia competente nell’analizzare un dato fatto. Man mano che si impadronisce – studiando la storia - di questa o di quella competenza, saggerà le sue capacità nell’analisi di fatti della contemporaneità. Certamente, alla fine del suo percorso formativo dovrebbe disporre di una capacità di analisi e di interrogazione più raffinata e completa. Ma non è detto che, nel corso del curricolo, possa sperimentare la capacità di scomporre un evento; o di provare a metterlo in prospettiva storica; o di contestualizzarlo.

    Appartiene a un modo ingenuo di considerare l’insegnamento storico quello di riservare alla fine del percorso l’analisi dei temi caldi della storia immediata. Una didattica esperta, invece, suggerisce al docente di non perdere l’occasione che la storia gli offre e di aprire, di tanto in tanto, una finestra su quello che sta accadendo, in modo da offrire all’allievo la possibilità concreta di convincersi che la storia che studia, per quanto riguardi fatti lontani, ci attrezza ad una lettura sempre più approfondita del presente.

    Riferimenti

    Gli esempi di questo intervento sono tratti dalle relazioni tenute alla Summer School “Laboratorio del Tempo presente”, organizzata dall’Insmli a Venezia dal 25 al 27 agosto 2014, e dedicata a Mediterraneo contemporaneo. In particolare, debbo a Giulia Albanese i riferimenti al fascismo e al Concordato del 1929; a Nicola Labanca quelli al tema della Colonizzazione/decolonizzazione, mentre Leila el Houssi mi ha dato gli spunti sulla condizione femminile nel mondo islamico. Ho seguito, infine, il quadro cronologico tracciato da Mostafà Hassani Idrissi. Queste relazioni, insieme con i quindici studi di caso preparati dai tutor della scuola, verranno pubblicati su “Novecento.org”. La storia completa del Mediterraneo, diretta ai docenti del Mediterraneo, è:  Mostafa Hassani Idrissi (dir.), Méditerranée. Une histoire à partager, Bayard, Parigi 2013, della quale si possono leggere brani, studi di caso e materiali multimediali sul sito. Spero che quanto prima questo volume possa essere tradotto in italiano.

  • Come la televisione russa mostra la guerra in Ucraina

    Fabio De Leonardis

    01Fig. 1 - Dmitrij KiselëvNotizie della settimana. Una trasmissione molto popolare

    Per condurre questa breve panoramica, si è scelto di concentrarsi in particolare su una trasmissione estremamente popolare del canale statale Rossija-1, ossia Vesti nedeli (“Notizie della settimana”), condotta dal noto giornalista e documentarista Dmitrij Kiselëv, già direttore del gruppo mediatico Rossija Segodnja (Russia oggi) e considerata uno dei pilastri mediatici del putinismo, tanto da essere accusata dal noto oppositore Aleksej Naval’nyj di essere “fatta di sole bugie”. La trasmissione va in onda ogni domenica sera alle 20 da settembre all’inizio di luglio e dura tra le due ore e mezza e le tre ore. Secondo la fondazione russa “Opinione Pubblica” (FOM), il 61% dei russi guarda la televisione ogni giorno, e il 24% considera questa trasmissione “il miglior programma di approfondimento”. In base ai dati del sito Mediascope.net, nella prima settimana di aprile la trasmissione Vesti nedeli è stata la terza più vista nella regione di Mosca, con il 19,4% dello share. Si tratta quindi di una trasmissione assai rappresentativa dei media di stato russi, sia in termini di contenuti che di ricezione. Si è scelto di concentrarsi sulla puntata del 3 aprile 2022; in quella data non era ancora stata scoperta la portata delle uccisioni avvenute a Buča, quindi si trattava di una giornata senza eventi troppo eclatanti, suscettibili di rendere la trasmissione “eccessiva”.

    02Fig. 2 - “La nostra causa è giusta”La Grande guerra patriottica

    La puntata si apre con il titolo di apertura “La nostra causa è giusta”, citazione dal discorso di guerra di Stalin del 6 novembre 1941. Poiché la “Grande guerra patriottica”, come viene chiamata in Russia la guerra contro gli invasori nazifascisti del 1941-45, ha rimpiazzato la Rivoluzione d’Ottobre come mito fondativo dello stato (al punto che la narrazione di quell’evento è intoccabile, e l’“offesa all’onore e ai veterani” costituisce un reato penale), e considerata la notorietà di quel discorso, il pubblico è immediatamente portato ad associare l’attuale conflitto come una sorta di proseguimento di quell’evento; nell’introduzione si prosegue mostrando immagini di atrocità verso la popolazione civile sovietica da parte degli occupanti, mantenendo in primo piano la scritta “Gli eredi”, che suggerisce una filiazione diretta dei combattenti ucraini di oggi dagli invasori e dai collaborazionisti di ieri.

    03Fig. 3 - I sondaggi sul gradimento dell’operato di PutinIl soldato russo, ‘eroe normale’

    Il presentatore Dmitrij Kiselëv appare presentando dei sondaggi dell’istituto VCIOM che riportano una sostanziale crescita dell’approvazione del pubblico nei confronti dell’operato del presidente Putin da quando è iniziata l’“operazione speciale” in Ucraina (com’è noto, il termine “guerra” non è utilizzato, anche perché sanzionabile). Non vi sono, né vi saranno ospiti in trasmissione: il flusso narrativo è unificato e procede in maniera unidirezionale dal conduttore al pubblico. Si comincia con un reportage dalla regione di Lugansk (Luhans’k) in cui vengono mostrate immagini di combattimenti a distanza tra i miliziani della LNR (la Repubblica Popolare di Lugansk) e “i neonazisti di oggi, compresi alcuni mercenari”; si vedono immagini di distruzioni apportate dall’esercito ucraino, ma la maggior parte del video si concentra sull’attività dei miliziani e dei militari russi, mostrata come se fosse una sorta di lavoro, una quotidianità della guerra in cui tuttavia non si vedono vittime né distruzioni: l’impressione è quella di un “lavoro eroico” apparentemente privo di retorica, ma che proprio per questo permette una maggiore identificazione con il pubblico.

    “I russi non abbandonano la loro gente”

    Specularmente rispetto a quanto viene mostrato sulla tv italiana, vengono poi mostrate immagini di civili nei territori “liberati”, dalle cui testimonianze emergono svariate atrocità attribuite al battaglione Aidar: stupri, torture, violenze e assassinii. Vengono inoltre mandate in onda immagini ad alto tasso emotivo di distruzione di centri abitati e di profughi in fuga, e alcuni abitanti di queste località, intervistati, ringraziano i militari russi di averli “salvati”. Sono mostrate, alla fine del reportage, le immagini di contadini che arano i loro campi con dei trattori, a simboleggiare il ritorno alla normalità reso possibile dall’arrivo dei “salvatori”; viene anche sottolineato come prima dell’aratura i militari della LNR abbiano “ripulito” i campi dalle mine e dai proiettili inesplosi con l’aiuto dei soldati russi (si vedono i mezzi militari con le Z in bella mostra, mentre svolgono questo lavoro); un ufficiale della LNR commenta che “i russi non abbandonano la loro gente” (anche questa è una citazione facilmente riconoscibile dal film sovietico La tenda rossa del 1969, ripresa più di recente dal popolarissimo noir russo Il fratello grande 2 del 2000). Si passa poi a Mariupol’, dove un’ex guardia carceraria mostra una camera delle torture, e si mostrano immagini di estese distruzioni attribuite al reggimento Azov, con alcuni abitanti intervistati che spiegano di essere stati usati come “scudi umani”. Sono mostrati poi gli ex uffici dei servizi segreti ucraini, dove la telecamera indulge a lungo sulla bandiera dell’organizzazione neofascista Pravyj Sektor appesa al muro, a dimostrare la collusione dell’estrema destra con le istituzioni dello Stato ucraino. Scorrono poi le immagini del presidente della Cecenia Ramzan Kadyrov mentre visita un ospedale con dei feriti e ispeziona le sue truppe al fronte e le immagini del bombardamento del deposito di idrocarburi di Belgorod effettuato (si presume) dall’aviazione ucraina, a seguito del bombardamento di analoghe strutture a Kremenščuk, presentato come una risposta diretta al primo. Segue una dettagliata lista di obiettivi militari distrutti da parte del portavoce del Ministero della Difesa Kanašenkov.

    Kiselëv parla poi dei negoziati, presentandoli come frutto del successo dell’operazione speciale, e indugia sul fatto che l’Ucraina sia stata costretta a fare concessioni, mentre la Russia rimane ferma sulle suo posizioni. Il riassunto delle trattative è affidato al capo negoziatore Vladimir Medinskij, il quale è inquadrato in modo che accanto al suo volto figuri la foto del presidente Putin da un lato e della bandiera russa dall’altro. Viene poi dato spazio alle dichiarazioni del ministro degli Esteri Lavrov, il quale spiega come a muovere la Russia siano state necessità di sicurezza vitali per il paese.

    I paralleli con la Grande Guerra Patriottica, l’enfasi sul “lavoro quotidiano” dei soldati, sull’eroismo di ogni giorno e sul ritorno al lavoro sembrano suggerire l’intenzione autoriale di far risuonare corde ben note nel pubblico più anziano (assai numeroso in Russia), ridestando la memoria dell’URSS e stabilendo una continuità narrativa rispetto a quel passato mirante a rassicurare il pubblico.

    Nelle immagini del reportage successivo, relativo al conflitto nel resto del paese, vengono mostrate immagini del lancio di razzi che colpiscono obiettivi visti attraverso il mirino, a sottolineare il carattere “chirurgico” degli attacchi; laddove vengono mostrate immagini di distruzione, mancano però dalla immagini le vittime umane di queste operazioni, mostrate sempre a debita distanza (il che ricorda le modalità di rappresentazione della Guerra del Golfo del 1991).

    “L’Occidente è imprevedibile”

    Kiselëv passa poi ad elencare tutte le misure prese dagli “ex-partner” occidentali contro la Russia, e di come “in spregio ad ogni decenza” questi si apprestino a metterne in campo altre, dando la parola direttamente alle dichiarazioni ufficiali di Putin, il quale presenta le sanzioni come qualcosa che sarebbe stato imposto indipendentemente dalle azioni della Russia, e miranti a colpire il loro “diritto ad essere indipendenti, il diritto ad essere la Russia”. “L’Occidente è imprevedibile”, sottolinea il conduttore, che spiega quindi la scelta di imporre l’uso del rublo per i pagamenti come una misura di difesa della sovranità e degli interessi nazionali. Sul fatto che le sanzioni danneggino anche i paesi UE viene ridata la parola a Putin, il quale accusa i governi europei di non tener conto degli interessi dei loro stessi cittadini, preferendo servire “il loro padrone oltreoceano” e costringendo la popolazione a “patire il freddo e mangiare meno, in nome della solidarietà atlantica”. Il conduttore aggiunge che tali scelte da parte dei paesi NATO porteranno alla crescita dell’inflazione e a una crisi economica internazionale, lasciando alla fame le popolazioni dei paesi più poveri e accrescendo le diseguaglianze. Fa da contrappeso la rassicurazione sul fatto che il valore del rublo sarà ristabilito e i prezzi caleranno, perché “il paese funziona”.

    04Fig. 4 - Il cancelliere Scholz contestato a un comizio “Prendi questa, Putin”. La russofobia europea

    Per illustrare quanto affermato, si mostrano immagini di un comizio di Olaf Scholz in cui il cancelliere tedesco viene contestato dal pubblico, accompagnate dal commento che “in Germania sono stati chiusi tutti i media di opposizione e quest’ultima è stata schiacciata: questa è la democrazia”; seguono le immagini del premier polacco Morawiecki, uno di coloro che “premono sul cancelliere tedesco” e che ora è “raggiante perché la russofobia polacca è finalmente diventata mainstream”. Il conduttore suggerisce che la Germania sia vittima delle macchinazioni del nazionalismo polacco, desideroso di vendicare i torti subiti nel passato. Seguono le dichiarazioni del presidente della Lituania Gitanas Nauseda, accompagnate dalla spiegazione del fatto che, nonostante le promesse di Biden di sostituire le importazioni di gas russo con quelle americane, la mancanza di un numero sufficiente di rigassificatori condanna altri paesi che invece non possono permettersi di restare senza carburante, come l’Austria, la Slovacchia e l’Ungheria. Ampio spazio è dato a un discorso di Viktor Orbán in cui quest’ultimo spiega come tale scenario rappresenti la fine dell’economia ungherese, mostrando così le divisioni interne alla UE e quelle in seno al gruppo dei paesi di Višegrad. Partono poi immagini dalla Gran Bretagna, commentando che la riduzione delle importazioni di gas provocherà un impoverimento di massa tra la popolazione di quel paese. Fra le dichiarazioni di vari politici, viene dato ampio risalto a quello della commissaria UE alla concorrenza Margareth Werstager, la quale consiglia di usare meno acqua calda e afferma che ogni volta che si spegne l’acqua quando si fa la doccia bisognerebbe dire “Prendi questa, Putin!”. Il corrispondente ironizza sul fatto che si possa fare lo stesso con la benzina e con gli alimenti, ma ciò non salverà la grande produzione industriale energivora: a sostegno di questa affermazione, vengono riportate le testimonianze di diverse personalità tedesche del settore.

    05Fig. 5 - La preoccupazione degli industriali tedeschiKiselëv poi si sofferma sulla “battaglia delle lettere”, ossia sul fatto che in Occidente la lettera Z e la V state fatte oggetto di ostracismo per la loro associazione con l’intervento russo in Ucraina, e dopo aver riportato le battute su Twitter di un diplomatico cinese, ironizza sul fatto che esse siano anche le iniziali del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj, che così dovrebbe ribattezzarsi Ladimir Elenskij (viene usata la trascrizione del nome dal russo, anziché dall’ucraino). “La realtà – spiega Kiselëv – è un’altra cosa”, lanciando un altro reportage dal teatro di guerra.

     

     

    06Fig. 6 - Le distruzioni non vengono occultate, ma non si vedono mai cadaveriMariupol’

    Compaiono qui le immagini spettrali di una Mariupol’ semidistrutta nella quale si aggirano i due corrispondenti. Questi incontrano alcuni militari russi con delle armi “trofeo di guerra”, tra le quali il grosso è costituito da materiale di produzione statunitense, su cui la telecamera indugia a lungo. La distruzione è attribuita ai combattenti ucraini, identificati come “il reggimento nazista Azov” i quali pur di non arrendersi avrebbero costretto la città a patirne le conseguenze. Un soldato testimonia che questi miliziani spesso si travestono da civili, e che i militari russi quindi sono costretti a “filtrare” tutte le persone che incontrano. Sono mostrate inoltre le immagini dall’alto del complesso industriale Azovstal’, dove il reggimento Azov si è asserragliato, contrapposte a quelle dell’ex mercato di Mariupol’ in cui si aggirano civili in cerca di cibo. Alla domanda su come mai li lascino girare indisturbati, uno dei soldati commenta: “al posto loro noi cosa faremmo? Sono civili pacifici”. Sono inoltre mostrate le immagini di un’officina “per la preparazione rapida di bare”, sottolineando che le perdite sono elevate. Sono poi mostrati dei carri armati, “forza principale per la liberazione di Mariupol’”. Il racconto prosegue spiegando che nelle prime settimane del conflitto sono stati fatti prigionieri molti ufficiali ucraini, mentre ora è il turno dei soldati semplici. Ne viene brevemente intervistato uno, che si riferisce ai russi come “i nostri/vostri”, e il quale racconta che i miliziani del reggimento Azov li avevano arruolati con la forza costringendoli a combattere nelle proprie fila, e di come lui si sia arreso dopo la morte di alcuni dei suoi commilitoni. L’inviato spiega come molti prigionieri diventino un sostegno per le truppe della Repubblica Popolare di Doneck/Donec’k (DNR), per le quali svolgono lavori ausiliari, e ne intervista un gruppo, chiedendo loro come li trattino i militari russi: “non vi picchiano?” “no, ci trattano bene”, rispondono tutti. Di uno di loro riferisce un militare che “non lo scambieremo con i nostri prigionieri, perché vuole combattere insieme a noi, è uno dei nostri”. In generale, a differenza da quanto vediamo sui media occidentali, non vengono mai mostrati cadaveri, mentre tutto il reportage suggerisce l’umanità dei militari russi e la benevolenza, ricambiata, verso i civili. Le distruzioni non sono negate, ma la responsabilità è attribuita alla controparte.

    07Fig. 7 - Prigionieri di guerra ucraini. “Non vi picchiano?” “No, ci trattano bene”.L’‘Ucraina nazista’

    Terminato il reportage dalla DNR, Kiselëv spiega che per gli uomini ucraini dai 18 ai 60 anni su ordine del presidente è stato vietato lasciare il paese, ma molti cercano comunque di scappare, e che già fiorisce un business in cui la fuga in Occidente costa dai due ai diecimila dollari. Segue un altro reportage dall’Ucraina in cui si mostrano dei bambini che, messisi in riga, ripetono il saluto dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini di Stepan Bandera, ora saluto ufficiale delle forze armate ucraine, “Gloria all’Ucraina / Gloria agli eroi”; si specifica inoltre che i bambini stanno imparando a riconoscere “i loro” chiedendo ai passanti di pronunciare uno shibboleth, la parola ucraina poljanica. Vengono poi mostrati roghi di libri russi “una tradizione nazionalista”, e la cacciata di un pope ortodosso del patriarcato di Mosca da una chiesa; si parla di come a un consolato sloveno sia stato imposto di ammainare la propria bandiera, perché il tricolore ricordava quello russo; vengono poi mostrate le immagini della “tournée” di Zelens’kyj in diversi parlamenti, in cui il presidente ucraino “senza vergogna bolla sempre più paesi come nemici” e “prende a calci chi rifiuta di applicare sanzioni alla Russia e di fornirgli armi”, arrivando ad accusare persino gli USA. Mentre scorrono le immagini dell’incontro tra la neopresidente del Parlamento Europeo Metsola e Zelens’kyj, l’inviato fa notare come non vi siano riprese all’esterno, insinuando che in realtà tali incontri non avvengano a Kiev. Vengono poi mostrate le immagini di un “colonnello” ucraino arrestato dai suoi durante “un’orgia con un travestito” e quelle di un supermercato, dove una voce fuori campo afferma che un prodotto lì in vendita è probabilmente arrivato lì in origine come aiuto umanitario. Seguono le immagini di militari ucraini che escono da un’ambulanza, a suggerire come le ambulanze vengano utilizzate in maniera impropria.

    La ‘guerra gentile’ dei russi

    08.jpgFig. 8 - Soldato russo chiede alla padrona di casa di poter entrare per cercare eventuali militari ucraini nascosti

    Parte poi un’ulteriore reportage dal “settore meridionale” in cui viene mostrata un’operazione speciale dei militari russi per verificare la presenza o meno di militari ucraini in una casa. Viene qui sottolineato come i militari entrino in un edificio “con estrema gentilezza”, chiedendo il permesso alla padrona di casa, ma poi trovandovi nascosti tre militari travestiti da civili che “preparavano un attentato”: le successive immagini di interrogatorio e di uomini armati impegnati nella ricerca di armi ricordano quelle di un film d’azione, genere assai popolare in Russia, e il corrispondente chiude spiegando che è “in questo che consiste la smilitarizzazione”.  l servizio successivo viene mostrata una folla di civili a cui i militari russi distribuiscono generi alimentari, commentando che “molti civili si rivolgono alle nostre truppe chiedendo aiuto: i negozi ci sono, ma non ci sono soldi”, perché “le autorità di Kiev non pagano pensioni e stipendi, come da tempo fanno con il Donbass”. Commenta un soldato sul finale, che “occorre sempre restare umani”.

    09Fig. 9 - Civili ucraini in attesa degli aiuti alimentari forniti dai russi

    Bandera, eroe nazionale ucraino

    Nella parte successiva, Kiselëv la mette sul piano storico: mostra alcune immagini di documenti ricavati da archivi aperti di recente da cui emergerebbero nuovi dettagli sulle stragi, gli stupri e le ruberie compiute dai nazionalisti ucraini negli anni della Grande Guerra Patriottica, e su cui il presentatore indugia aggiungendo che gli eredi di Bandera (che combatté coi nazisti e contro i sovietici) abbiano ereditato dai loro predecessori tutto il peggio e si comportino allo stesso modo: “gente così va annientata o processata. È in questo che consiste la denazificazione”. Segue un servizio del caporedattore del canale Istorija Denisov, il quale racconta le origini e l’evoluzione ideologica del nazionalismo ucraino. Denisov mostra un libro per bambini riccamente illustrato dedicato all’attività dell’UPA, l’organizzazione paramilitare nazionalista ucraina attiva fra il 1942 e il 1949, di cui faceva parte anche l’organizzazione di Bandera, che ne costituiva l’elemento principale, denunciando come nelle scuole ucraine venga portato avanti un vero e proprio lavaggio del cervello; un altro storico, Bogdan Bezpal’ko, nota come il nazionalismo ucraino banderista abbia un carattere “quasi religioso”, e che esso produce “un esercito di zombi”; si fa poi riferimento al film polacco Wolyn, in cui viene dato molto spazio alle atrocità commesse dall’UPA in Polonia, paese che pure – sottolinea il conduttore - ha sostenuto e sostiene l’Ucraina post-Majdan, e di come questa pellicola sia stata messa al bando in Ucraina. Viene inoltre citata l’opera di uno storico polacco, Aleksander Korman, il quale accusa l’UPA di genocidio, documentandone le atrocità con diverse prove fotografiche. Dopo aver descritto nel dettaglio le atrocità inflitte dall’UPA alle sue vittime, la voce fuori campo ricorda come il fondatore dell’UPA Roman Šuchevič, ucciso nel 1950 dai servizi sovietici, sia stato riabilitato e decorato post-mortem col titolo di “Eroe dell’Ucraina” nel 2007. Viene poi riportata la vicenda della collaborazione tra l’UPA e il regime hitleriano nel corso dell’invasione dell’URSS, in particolare i pogrom da questi attuati a Leopoli nel luglio del 1941; si ricorda successivamente il caso dell’eccidio di Chatyn’, e si sottolinea come la responsabilità di quest’ultimo, che l’URSS aveva attribuito ai soli tedeschi, fosse in realtà condivisa con le SS locali, una delle quali, Hrihoriy Vasiura, riuscì a lungo a nascondere il proprio passato prima di essere scoperto, processato e fucilato nel 1986. Viene sottolineato che i dettagli del processo non furono resi pubblici per intervento dell’ex segretario del PC ucraino Ščerbic’kyj, il quale chiese di non far trapelare informazioni sulla partecipazione dei nazionalisti ucraini ai massacri onde evitare di esacerbare i rapporti interetnici.

    10Fig- 10 - Un libro illustrato per bambini sull’UPAUna guerra senza cadaveri

    In generale, nella rappresentazione mediatica del conflitto si nota come lo Stato ucraino e i suoi rappresentanti, ad eccezione della breve parte in cui viene mostrata quella che viene sprezzantemente definita “la tournée” di Zelens’kyj, sia assente: il “nemico” viene individuato a più riprese nei reggimenti di neonazisti Azov e Aidar; i soldati russi sono mostrati come “eroi del quotidiano” dotati di umanità e comprensione, mentre i civili sono vittime innocenti che accettano di buon grado l’aiuto dei russi. Sono totalmente assenti le immagini truculente dei cadaveri a cui ci hanno abituati i nostri media, e laddove vengono mostrate immagini di repertorio della Seconda guerra mondiale, i dettagli più scabrosi sono offuscati. La narrazione è univoca e onnicomprensiva, non c’è spazio per alcun dubbio o dibattito: dopo che i vari servizi dal fronte hanno stabilito che le cose stanno come descritto, e dopo aver spiegato che le sanzioni sono inefficaci e sono solo il frutto dell’inimicizia americana nei confronti della Russia, il lungo excursus storico sottrae alla controparte ucraina ogni legittimità, riducendola esclusivamente al (certamente deprecabile) nazionalismo di stampo banderista. Non vi è spazio per una narrazione che renda conto di altre forme di nazionalismo ucraino di diverso orientamento politico pure esistenti (ancorché oggi marginalizzate), né vi è spazio per un excursus storico sul formarsi dell’Ucraina come comunità immaginata politico-culturale. In sostanza, tutta la trasmissione sembra orientata a sostanziare le affermazioni fatte da Putin nel discorso di cui vengono riportati alcuni passaggi. L’effetto emotivo sul pubblico è quello da un lato di spaventarlo, mostrando un’Ucraina ridotta a un covo di banderisti e una UE inaffidabile totalmente alla mercé di un America guerrafondaia, dall’altro quello di rassicurarlo sul fatto che il presidente e l’esercito se ne stanno occupando e stanno risolvendo il problema. Se sui media italiani e occidentali in generale prevalgono le immagini di distruzione e di brutalità, finalizzate a smuovere e indignare il pubblico per spingerlo a schierarsi attivamente con la NATO e la UE a sostegno dell’Ucraina aggredita, il modo in cui Vesti nedeli racconta la guerra tende invece a ‘acquietare’ il pubblico, producendo un effetto di adesione passiva in cui l’agentività è lasciata al presidente e alle forze armate.

  • E’ l’economia, stupido!

    Autore: Antonio Brusa

    Le crisi economiche: un argomento ideale per il Laboratorio del Tempo Presente*

     

    It’s the economy, stupid!” fu la frase vincente che Clinton disse a Bush, quando lo sbaragliò alle elezioni del 1992. Bush aveva appena finito di strapazzare l’esercito irakeno, ma, non sapendo nulla di economia, fu colto in castagna, e perse.Oggi ce la potremmo rimpallare a vicenda quella frase, noi – docenti di storia – che in trent’anni di post-modernismo abbiamo fatto di tutto per rimuovere la sbornia di economia politica degli anni ’70, guadagnandone un analfabetismo che ci impedisce di capire le vicende nelle quali ci sembra di precipitare. Non capiamo noi e non capiscono i nostri allievi. Tempi angosciosi, concludiamo scuotendo la testa. Mi piacerebbe adottare quella frase per la Summer School, “Laboratorio del Tempo presente” di quest’anno, la prima dell’Insmli, che ha avuto come tema “Il Novecento attraverso le crisi”.

     


    Indice

    • Un progetto di lavoro originale
    • Accordiamoci sul concetto di crisi
    • Due argomenti importanti: finanza e governo dell’economia internazionale
    • Una nuova vulgata del Novecento
    • Uno schema per la programmazione
    • Fatti e concetti da rivedere
    • Considerazioni finali

     

    Un progetto di lavoro originale

    Una scuola per essere meno stupidi in tempo di crisi? La nostra è durata tre giorni, di lezioni e discussioni, guidate da Scipione Guarracino, Carlo Fumian, Marcello Flores e Giovanni Gozzini (al quale debbo la citazione di Clinton). Io, in particolare, digiuno come sono di storia contemporanea e da sempre ignorantissimo di economia, vi ho imparato un sacco. Ho capito che devo rivedere molti concetti e fatti, che davo per scontati e che la ricerca attuale ha stravolto. Mi sono sottolineato alcuni concetti, nodali per capire la crisi, ma anche per orientarsi nelle discussioni pubbliche intorno a questa. Mi sembra di aver individuato un filo rosso, una sorta di narrazione che, facendo perno sulle grandi crisi, mi permette di riorganizzare, rapidamente e in modo efficace, quello che so sul Novecento e, poi, mi sono venute tante idee, su film, romanzi, casi di vita che potrebbero rendere vivo un percorso scolastico, ricco di laboratori, approfondimenti e di intrecci interdisciplinari.

     

    Mi sembra che l’argomento “crisi” possa fornire questi strumenti di insegnamento:

    1. Una visione sintetica e molto compatta del Novecento, utilissima per inquadrare il programma
    2. Un fiume di suggerimenti per unità didattiche interdisciplinari, fra storia, letteratura, arte, cinema, musica e anche geografia (per esempio i problemi della mondializzazione)
    3. Un’altrettanto vasta possibilità di laboratori di storia locale/nazionale
    4. Un nuovo orizzonte per l’uso delle fonti orali in classe: avete mai pensato che un prof o un genitore sono fonti per la conoscenza della crisi del 1973? E che gli allievi stessi sono fonti per quella del 2008?

    Fortunatamente non sono solo. A questa scuola hanno partecipato oltre 70, fra docenti e comandati degli Istituti Storici della Resistenza. Ci siamo appassionati al problema e siamo decisi a mettere a punto qualcuno di quegli strumenti. Fra cinque mesi dovrei avere sul mio schermo questi materiali. Li metteremo, con le relazioni dei colleghi storici, in “Novecento.org”, la rivista didattica degli Istituti. Questi sono solo i miei appunti, giusto per mettere a fuoco alcune idee didattiche e per sollecitare il lettore di HL a partecipare a questa opera collettiva.

     

    Accordiamoci sul concetto di crisi

    In questa Scuola è stato adoperato in diverse accezioni, non necessariamente in conflitto fra di loro. Carlo Fumian, riprendendolo dal dibattito delle scienze politiche, lo definisce come un “periodo di malessere violento e breve”. Un febbrone, per riprendere le sue parole, dal quale il paziente può uscire male (la recessione), oppure immunizzato dalla malattia. Nel ’29 la crisi dura pochi mesi, poi si entra in recessione. Se è così – mi viene da pensare - quando sento che “stiamo uscendo dalla crisi”, ascolto una cosa imprecisa o falsa. La crisi è esplosa nel 2008. Poi alcuni l’hanno superata e altri sono entrati in recessione. Oggi, nel 2013, dovrebbero dirmi se noi italiani stiamo ancora in recessione o se ne stiamo uscendo.

     

    Questi “colpi violenti” a volte esplodono a ripetizione. Per esempio, alla crisi del ‘29 seguirono altre fibrillazioni, come quella del ’37, con effetti ugualmente terribili.

    Fumian ha utilizzato questa accezione del concetto per inquadrare il ’29. Per analizzare gli anni ’70, Marcello Flores, invece, ha utilizzato il termine “crisi” in un’accezione più sistemica. Non si trattò, ha sostenuto, di un “febbrone” solo economico. Anzi, da questo punto di vista non fu peggiore di tanti altri. In realtà, si trattò di un travaglio che colpì molti aspetti della società: culturali, politici, comportamentali, ecologici, di politica internazionale (ricordiamo, solo per fare un esempio, il terrorismo), militari.

    In questa accezione, forse più largamente usata in ambito storico, la crisi è sempre un fatto molto complesso (cosa che piace tantissimo agli storici), con molte cause, tante sfaccettature e tanti motivi. Questa immagine si presta, perciò, alla definizione classica di crisi, alla latina - da cribrum - il setaccio che passa al vaglio la storia. La crisi, in questa nuova accezione, fa sempre male, ma si tratta di un parto oppure di un “tornante storico”, per dirla alla francese.

    Questo concetto potrebbe essere applicabile anche alla crisi del 1880 e seguenti, che (secondo Fumian, questa volta) fu un periodo di crescita, una “non-crisi”, dal momento che fu il momento di gestazione di quello che noi consideriamo il mondo contemporaneo. Analogamente, il 1973 e seguenti, fu il periodo di gestazione del nostro mondo.

    Riassumo con questo specchietto le quattro crisi delle quali normalmente si parla nei manuali e che scandiscono il “lungo Novecento”, distinguendo per comodità “crisi internazionale” da “crisi sistemica”.

     

    1880 Crisi sistemica/Periodo di crescita economica Nascita mondo contemporaneo
    1929 Crisi internazionale Recessione globale
    1973 Crisi sistemica/Grandi cambiamenti Nascita del mondo attuale
    2008 Crisi internazionale e “finanziaria” Recessione parziale


    Fumian e Flores usano definizioni di crisi molto “storiche”. Gozzini, che ha parlato della crisi del 2008, mi sembra più propenso a usare la definizione di “crisi finanziaria”: questa crisi inizia per ragioni finanziarie negli Usa, e travolge molte economie, fra le quali quella italiana. Per questa rinvio ai tre pezzi sulle crisi, scritti su HL da Massimiliano Lepratti, con riferimento speciale  a quella del 2008, e ai due argomenti che seguono.

     

              

     

    Due concetti importanti: finanza e governo dell’economia internazionale

    Il concetto di Finanza, con la sua grande famiglia di futures, subprime, spread, broker, rating ecc., ci opprime quasi quotidianamente. E’ decisivo per capire la crisi del 2008, ma ha radici lontane. Risale alle origini del mondo contemporaneo. In principio – nella seconda metà del 1800 - i futures erano forme di assicurazione, che l’imprenditore inventava per garantirsi da eventuali disastri. Ad esempio, un imprenditore agricolo, che non sa se l’anno prossimo il suo raccolto andrà a buon fine, “fa una scommessa contro la sua riuscita”. Se il raccolto va bene, guadagna vendendo il grano. Se va male, vince la scommessa e non ci rimette. Una trovata intelligente. Solo che, una volta che comincia a circolare l’idea, si scommette su tutto e i broker inventano ogni giorno nuove occasioni per scommettere e guadagnare. Negli ultimi decenni del 1900, questa massa di scommesse non ha più un rapporto stretto con il mondo della produzione. Anzi: il suo valore è eccezionalmente più alto. Ogni giorno, ormai da una ventina d’anni, la finanza fa circolare un paio di migliaia di miliardi di dollari. Una cifra immensa. Come se ogni giorno qualcuno gettasse sul tavolo da gioco tutto il debito italiano di un anno. Per avere un’idea di quanto valgano mille miliardi di dollari, pensiamo a quanto ci fa piangere una manovra fiscale di appena cinquanta miliardi di bigliettoni.

     

    Ilgoverno internazionale dell’economia. Prima dell’avvento dell’internazionalizzazione (e poi dell’esplosione della globalizzazione, alla fine del XX secolo), ogni Stato aveva gli strumenti per governare i processi economici che si svolgevano nel suo territorio e, attraverso patti bilaterali, riusciva a dialogare in forme più o meno conflittuali, con gli altri stati.

     

    Con l’avvento dell’internazionalizzazione si è inaugurata l’epoca del “malgoverno dell’economia”. Ma non per “colpa” dell’internazionalizzazione. Questo malgoverno dipende principalmente da una sorta di coazione a comportarsi male, da parte degli Stati. Questi, infatti, cercano di intervenire  su un terreno che è fuori dalla loro portata (perché è internazionale) con una logica nazionale. E’ quello che accade negli anni ‘30, quando gli Stati fecero fronte alla recessione, seguita alla crisi, attraverso politiche protezionistiche (a cominciare proprio da Roosevelt). Governarono con la testa rivolta all’indietro, come se si fosse ancora ai giorni della guerra franco-prussiana, e peggiorano la situazione.

     

    Infatti, la conseguenza delle loro politiche, nel 1929, fu quella di cronicizzare la recessione. Questa durò ancora dieci anni. Poi, nel secondo dopoguerra, gli Stati sembrarono finalmente aver appreso la lezione, e inaugurarono politiche di controllo internazionale degli scambi, che contribuirono a costruire il famoso “trentennio d’oro”. Ma sembra che quello fu l’unico momento nel quale gli Stati tennero conto della storia. Verso gli anni ’70, infatti, la rottura dell’equilibrio di Bretton Wood e della parità fra dollaro e oro (1944), e, poi, la deregolamentazione dei mercati, del duo Reagan-Thatcher crearono le premesse per la situazione attuale.

     

    Una nuova vulgata del Novecento

    Sarà un mio pallino, ma resto convinto del fatto che non basta, quando si fa didattica (o comunicazione), aprire questioni e dubbi, e terminare il proprio intervento avvertendo che “il problema è più complesso”. Occorre “sporcarsi le mani” con sintesi, immagini, carte che, per quanto provvisorie, facciano il punto e permettano all’interlocutore (ma anche a noi) di orientarsi. Se non lo facciamo noi storici, ragazzi e gente comune adotteranno mappe e racconti, prodotti dalle nuove agenzie di rassicurazione della politica o del mercato. Meglio, allora, che lo facciamo noi, con tutte le avvertenze e le precauzioni: quelle che chi mi legge deve tenere presente, scorrendo questa rapidissima sintesi.

    Il racconto del Novecento, dunque, può iniziare con la prima esplosione dell’internazionalizzazione. Siamo alla fine del XIX secolo. L’abbattimento dei costi, che i grandi battelli a vapore consentono, permette al grano, al mais, al vino di fare viaggi che fino a pochi anni prima erano impensabili. Gli Stati restano interdetti. Un po’ ne approfittano, un altro po’ cercano di bloccare questo flusso. Ma le loro politiche protezionistiche sono deboli e, tutto sommato, non riescono a fermarne lo sviluppo. Le crisi che si aprono in questo periodo dipendono spesso dall’incapacità di settori economici locali di far fronte alla nuova competizione internazionale. E’ una scrematura, non una recessione.

    Terminata la prima guerra mondiale, il decennio ‘19-‘29 vede di nuovo il mondo crescere. Al suo centro gli Usa e la loro folla di investitori, che scorgono nella ricostruzione europea (e tedesca) una buona fonte di guadagno. Quando, però, si profila l’esplosione della finanza (i soldi facili delle scommesse di cui sopra), questi immensi capitali lasciano precipitosamente il vecchio continente, e si riversano nella borsa di New York. E’ un periodo che alcuni storici chiamano di euforia incontrollata.

    1929. La bolla finanziaria esplode e innesca la crisi, che si abbatte su un’economia (quella europea) già colpita dall’abbandono dei capitali americani. Tutti (regimi fascisti, comunisti e liberaldemocratici) reagiscono alla recessione degli anni trenta attivando politiche protezionistiche, chiamate in vario modo  a seconda dell’ideologia di riferimento.

    Per uscire dalla crisi, occorsero quattro elementi. Il primo fu il pieno impiego. Fu garantito dalla guerra (ahimè). Il secondo: le politiche pianificatrici, che non furono attuate solo nel mondo comunista (anzi: il termine “planismo” fu coniato da W. Lippmann, il celebre giornalista americano). Terzo: il governo internazionale dell’economia, inauguratosi alla fine della guerra e del quale gli accordi di Bretton Wood sono il simbolo; e, finalmente, il Welfare europeo e poi americano.

    Di conseguenza, nel 1943 inizia il periodo dei “trenta gloriosi”, durante il quale si registra un incremento economico un po’ dappertutto, il miracolo economico italiano e giapponese e altri fatti interessanti da raccontare, fra i quali, in primo piano, la decolonizzazione.

    La crisi degli anni ‘70 ha certamente diversi aspetti “critici”: il petrolio, i mercati che si fermano, la Guerra  dei Sei giorni. Non fu ininfluente, per il suo scatenarsi, la decisione degli Usa di abbandonare gli accordi di Bretton Wood (1971). E, come nel 1929, anche questa crisi fu mal governata, ad esempio attraverso l’abuso dell’inflazione (che permette a uno Stato di vendere di più a danno degli altri). Tuttavia, i suoi aspetti decisivi, per quanto “critici” anch’essi, costituiscono le fondamenta del mondo attuale: la nascita della sensibilità ecologica, del femminismo, i nuovi comportamenti, la planetarizzazione della cultura, la rivoluzione digitale.

     

     

    E’ quest’ultima, probabilmente, che – insieme con la deregolamentazione dei mercati internazionali promossa da Reagan e da Thatcher - innesca le condizioni della crisi successiva. La telematica, infatti, esaspera la velocità della finanza. Non è più necessario recarsi in Borsa, per scommettere. Lo si può fare da casa, dal proprio terminale. E’ il momento in cui diventano indispensabili efficaci istituzioni di controllo e un buon governo di questo traffico caotico. Invece, come abbiamo visto, la nostra è l’età della de-regolamentazione, nei confronti della quale poco possono fare i vari organismi (G8, G20, WTO ecc), dal momento che ogni Stato persegue ottusamente il proprio tornaconto. Le bolle diventano pericolose e incontrollate, esplodono a ripetizione, a partire dall’inizio del XXI secolo. Quella del 2008 innesca la recessione, nella quale noi italiani ci siamo impantanati e dalla quale altri sembrano essersi salvati.

     

    Uno schema per la programmazione

     

    1880/1929 Avvio del processo di internazionalizzazione
    La seconda industrializzazione
    La prima guerra mondiale
    Il primo dopoguerra
    L’industrializzazione italiana
    Giolitti e la società di massa
    La guerra di Libia
    Il Fascismo
    1929/1945 Crisi e recessione
    Le risposte alla crisi: Roosevelt, Stalin, Hitler
    La II Guerra
    Il fascismo. L’Italia entra in crisi prima del 1929, a causa della quota ’90.
    1945/1973 I “Trenta gloriosi”
    La fine della decolonizzazione
    La Repubblica italiana
    L’industrializzazione italiana
    1973/2008 Il mondo attuale
    La globalizzazione
    La planetarizzazione della cultura
    La rivoluzione digitale
    La rivoluzione sociale: femminismo e ecologismo
    La rivoluzione antropica: le migrazioni
    La riconversione produttiva dell’Italia
    Italia e Ue
    I cambiamenti sociali
    I rapporti fra politica e società

     

    Fatti e concetti da rivedere

    Mi sono reso conto, in tanti anni di lavoro con i docenti, che spesso non basta mostrare uno schema, un’interpretazione nuova. E’ sempre utile elencare anche le idee e i racconti che, secondo questa interpretazione, dovrebbero essere messi nel cassetto. Eccone alcuni.

    1. La crisi del 1880. C’è su tutti i manuali, ma non fu una crisi. Al contrario, si trattò di un periodo di crescita impetuosa, favorita dal processo di internazionalizzazione dell’economia, avviatosi nella seconda metà dell’Ottocento. Localmente, come accadde in alcuni settori dell’economia italiana, produsse degli scompensi. In generale quel periodo vide un aumento di tutti i parametri dell’economia.
    2. La fallacia del locale. Molti esempi adottati per spiegare la particolarità italiana in realtà non sono significativi di una specificità nazionale. La crisi della Banca di Roma fu solo una delle crisi bancarie mondiali. Le città operaie (Schio, Crespi d’Adda) che testimonierebbero il particolare slancio paternalistico di capitalisti italiani, impallidiscono di fronte alle centinaia di città operaie analoghe americane.
    3. La sovrapproduzione del 1929. E’ spesso invocata come causa fondamentale di quella crisi. In realtà fu poco influente, in una crisi che fu innescata dallo spostamento massiccio di capitali americani dai settori produttivi europei agli appetitosi investimenti finanziari americani.
    4. Il ruolo salvifico del New Deal. C’è su tutti i manuali. Tutto il mondo andò in malora, ma Roosevelt salvò l’America con il suo piano di aiuti e la svalutazione del dollaro, si dice. In realtà, il New Deal alleviò solo gli effetti della crisi, ma nessuna delle politiche attuate da Roosevelt riuscì a invertire l’andamento recessivo dell’economia
    5. Il welfare, politica di sinistra? Questa fa parte anche delle cose che si dicono in politica. In realtà, fu proposto da un conservatore, Lord Beverage nel 1942, nel suo rapporto al Parlamento inglese.
    6. Lo choc petrolifero fu la causa della crisi del ‘73. In realtà, fu scarsamente influente. Il prezzo del petrolio si ristabilizzò rapidamente.
    7. La sovrapproduzione del 1973: in realtà, le politiche monetariste, che trovavano nelle teorie di Milton Friedman (la famosa “scuola di Chicago”) il loro fondamento, si basavano sul fatto che esisteva troppa moneta per troppo poche merci.
    8. La crisi del 2008. Ha effetti negativi solo in alcune regioni del mondo. Altre ne sembrano esenti; altre ancora sembrano andare meglio.

     

    Considerazioni finali

    Tre punti conclusivi. Interessano questo tema, ma investono questioni molto più generali e decisive per la formazione storica. Il primo riguarda i tempi del progetto didattico. Se riprendete lo schema della programmazione che ho proposto, noterete che divide l’annualità in quattro parti. Supponiamo di assegnare a tutte un tempo equivalente. Significa che a metà anno si dovrebbe arrivare alla seconda guerra mondiale, e che la seconda metà dell’anno dovrebbe essere dedicata ai tempi più recenti, fino ai nostri giorni. Significa – lo sappiamo tutti benissimo – che questa programmazione va contro le abitudini maggioritarie degli insegnanti. Spero siate d’accordo sulla necessità di ridiscutere questa norma non scritta. Non dal punto di vista formale, che si tratti di una violazione dei programmi, quanto da quello sostanziale: a che serve investire cinque anni per imparare a leggere le mappe del tempo passato, se poi non ci dotiamo di quelle per capire il tempo presente?

    Il secondo riguarda i tempi a disposizione. Protesta immediata: non abbiamo tempo. E’ vero. E, peraltro, quando il duo Moratti-Gelmini ne ha sottratto gran parte soprattutto nella scuola di base, nessuno ha fiatato. In ogni caso, oggi è così. Cinquanta ore l’anno nella maggior parte dei corsi, sperando che Educazione alla Cittadinanza o la guerra fra poveri con Geografia non aggravi questo disastro. Al momento, non vedo che due soluzioni:

    1. Dotarsi di racconti sintetici e potenti (non di bignamini, quindi) del periodo da spiegare. E da questo punto di vista le crisi sono un bel fil rouge del Novecento.
    2. Costruire sistemi concreti ed efficaci di collaborazione fra discipline. Senza perdere tempo su liste interminabili di competenze, quanto piuttosto mettendosi d’accordo nella cooperazione fra italiano, storia, storia dell’arte, geografia ecc, intorno a temi nodali. Anche da questo punto di vista, le quattro crisi suggeriscono magnifici incroci pluridisciplinari.

    Il terzo infine, riguarda il Laboratorio del tempo presente. Questa struttura potrebbe essere aperta in qualsiasi momento del curricolo, in qualsiasi grado e ordine di scuola, quando se ne presenta la necessità. Un problema sociale si impone in tutta la sua urgenza? Discutiamone in classe. Ma non per fare la “ricerca”, peggio ancora la “ricerca su internet” o “la lettura del quotidiano”. Quanto, piuttosto, per mostrare come le capacità di ragionamento storico (nel nostro caso) messe a punto fin a quel momento in classe, danno una mano per capire quel fenomeno e per dire, magari, qualcosa di diverso di quello che gli allievi sentono in classe o ai talk show. Insomma, Il laboratorio è un modo per sottolineare che la scuola deve recuperare il suo senso di “presidio culturale” nella società.

     

     

     

    * La Summer School “Il Novecento attraverso le crisi” si è tenuta a San Marino il 9-10-11 settembre 2014. Vedila su www.Novecento.org.

  • Eliminazioni di massa

    “Un gruppo di ragazzi esce dal campo di Birkenau. Un membro della nostra squadra è con loro. Nota che alcuni temporeggiano prima di salire sul treno, per finire la sigaretta. Condividono le impressioni. «Non riesco neanche a immaginare come si potesse sopravvivere in un posto così», dice uno.
    «Nemmeno io, è incredibile di cosa sono stati capaci gli uomini », sussurra un altro.
    «Io, al posto dei deportati mi sarei ribellato già durante il viaggio; avrei preso a spallate quel vagone fino a sfondarlo e sarei scappato», afferma il primo.
    «Ma erano vagoni adibiti al trasporto di animali! Mica ce l’avresti fatta! Su quelli ci trasportavano i cavalli… o i tori. Neanche i tori riuscirebbero a romperli.»
    «Ah, neanche i tori?! E certo che i tori sono forti… Oh, pensa  che l’anno scorso sono stato in Spagna e ho visto i tori.»
    «Nella corrida? Davvero?»
    «Sììì! Sono belli grossi e corrono…»

    Dopo un altro paio di battute sui tori, la corrida e le vacanze in Spagna dell’anno prima, i ragazzi decidono di tornare sul treno. Il loop della memoria personale dei due giovani, messo a confronto con il memoriale che è stato fatto diventare il campo di Auschwitz-Birkenau, costruisce nella loro mente una sorta di gioco al bersaglio, tipico delle riviste di enigmistica. Partendo da una parola, «vagone», si va a «carro bestiame» a «tori» a «corrida» a «vacanze in Spagna». La spirale consente di uscire rapidamente, per forza centripeta, dall’orrore del campo. Viene da chiedersi quante volte un gioco simile sia riuscito ai deportati.
    Primo Levi racconta: «Passa Frenkel, la spia. Accelerare il passo, non si sa mai, quello fa il male per il male… Il canto di Ulisse [nella Divina Commedia]. Chissà come e perché mi è venuto in mente». (A. Salza)

    Nel campo di sterminio, nonostante l’ordine ossessivo, non tutto ha un senso.” Se vi viene voglia di leggere il seguito, scaricate Eliminazioni di massa, il libro che Alberto Salza ha scritto con la collaborazione di una giovane disegnatrice, Victoria  Musci.  Alberto condivide con molti insegnanti il medesimo cruccio. Non gli basta descrivere l’orrore (gli stermini che trovano appunto in Auschwitz il luogo dell’esemplarità). Vuole fare qualcosa per evitarli.  Tattiche di contro genocidio, è il titolo di un paragrafo del capitolo centrale di questo libro, “il manuale”, appunto di chi si attrezza per evitare che queste tragedie si ripetano.

    Chi lo conosce, ama lo stile di Alberto. Mi auguro che altri lo possano gustare. Racconti brevi, che colpiscono. Poi, cambia registro, e assume il tono distaccato e scientifico, di chi descrive i problemi e spiega le strategie per risolverli. Già nella sua apertura, il libro vi spiazza, con un racconto che non saprete classificare. Fantascienza? Horror? Non farete in tempo a porvi le domande che sarete frustati dalla scoperta (che non vi rivelo, naturalmente). Quindi, Alberto passa a spiegare che cosa è un genocidio (come è giusto che sia in tutti i libri che ne parlano) e vi presenta, uno per uno, i protagonisti di questo evento: dai boia fino agli storici.  Segue il manuale delle tecniche antigenocidio e le “pratiche” attualmente messe in atto (qui troverete la scenetta dei due ragazzi a Auschwitz).

    Alberto ha scritto questo libro appena due anni fa. Ma non lo troverete più in libreria. Nella nuova visione del mondo delle case editrici i libri sono merce “vendi e getta”. Stanno in giro pochi mesi, poi al macero. I soldi? Pochi, maledetti e subito. A suo modo, è un altro sterminio, al quale, a nostro modo, ci opponiamo con la diffusione in rete (HL).

  • Guerre vecchie e guerre nuove. I concetti per capire le nuove guerre

    Autore: Antonio Brusa

     

    Appunti da Yves Michaud

     

    Indice

    Introduzione
    Le domande sulle nuove guerre
    I concetti tradizionali della guerra
    Un prontuario di nuovi concetti
    Uno scenario nuovo
    Uno scenario in movimento

    Introduzione
    Nell’ottica di un Laboratorio del tempo presente, avere un prontuario di concetti sulla guerra è essenziale. Lo ricavo da Yves Michaud, che  insegna filosofia presso l’Università di Rouen.  Negli anni ’80 pubblicò un libretto sulla violenza per la collana “Que sais-je?”, quell’eccezionale canale di cultura di massa che in Italia non si è mai riusciti a riprodurre, nonostante i molti tentativi di imitazione. L’ultima edizione è aggiornata al 2012. In questo testo seguo abbastanza fedelmente il brano di Michaud. Poche volte lo riassumo o lo integro. L’ho suddiviso e titolato in modo che sia un testo consultabile a scuola. Come sempre, invito il lettore volenteroso, o che volesse citarlo a leggere la fonte: Yves Michaud, La violence, Puf, Paris 2012, pp. 55-67. Dello stesso autore segnalo: Changement dans la violence. Essai sur la bienveillance universelle et la peur, Odile Jacob, Paris 2002. Inoltre, sulle vecchie e nuove guerre si veda la rapida messa a punto di Nicola Labanca, sullaTreccani online(Atlante-Geopolitico).  (HL)

      Carta mondiale dei conflitti

    Le domande sulle  nuove guerre

    Conflitti interni o esterni?
    In molte occasioni è difficile distinguerli. In Africa, per esempio, quando si scontrano etnie di confine, si mettono in moto subito attori internazionali e i paesi confinanti, col risultato immediato dell’internazionalizzazione del conflitto. Una mondializzazione che spesso è moltiplicata dallo stesso intervento internazionale per ristabilire la pace

    Quali sono i nuovi campi di battaglia?
    Questi spesso non sono più delimitati e identificabili. Si possono trovare nel cuore delle popolazioni civili, lontano dai luoghi dove risiedono i contendenti, nelle zone turistiche o in mezzo alle città. I contendenti, spesso, non sono degli stati, ma aspirano a divenirlo: palestinesi, minoranze dell’ex-Unione sovietica, movimenti autonomisti o indipendentisti, musulmani di Bosnia, macedoni, albanesi del Kosovo, curdi della Turchia o dell’Iran, tamil di Ceylon ecc. Altri, invece, non aspirano nemmeno a diventare stati: fra questi i movimenti terroristi, come al-Qaida o i movimenti altermondialisti.

    In quali regioni scoppiano questi conflitti?
    Sia che esplodano, sia che covino sotto la cenere, spesso questi conflitti nascono dalla decomposizione di antiche unità politiche, come l’Urss o la Jugoslavia. Altri nascono in zone conflittuali “congelate” dall’equilibrio della guerra fredda e suscettibili di nuove riorganizzazioni: gli Emirati arabi e il Quwait, il corno d’Africa, le coste del Mediterraneo, la Cina e Taiwan, la maggior parte dei confini territoriali della Cina.  Altri ancora risalgono ad antichi conflitti di civilizzazione.

    Perché si mondializzano?
    Tutti questi conflitti sono abbondantemente mediatizzati. Mettono in gioco le organizzazioni internazionali e le Ong che si occupano di assistenza umanitaria. I flussi migratori, infine, contribuiscono a internazionalizzare i conflitti, trasferendoli dalle regioni di partenza dei migranti a quelle di arrivo: un esempio è la ripresa dell’antisemitismo in Francia, dovuta in buona parte all’esportazione del conflitto israelo-palestinese.


    I concetti tradizionali della guerra

    Il sistema della guerra
    Nel corso dei millenni, le società umane hanno elaborato un complesso sistema per regolare la violenza fra gruppi, o per cercare di regolarla. Le basi di questo sistema sono:

    -    La dichiarazione di guerra o la guerra-sorpresa
    -    La pace solenne
    -    La distruzione totale dell’avversario
    -    Le leggi del combattimento
    -    I modi di soccorso dei feriti e il recupero dei caduti

    La razionalità della guerra
    Nel XIX secolo, questo sistema giunge ad una regolamentazione rigorosa, che viene sistematizzata daKarl von Clausewitz. Questa si riassume nella celebre affermazione: “la guerra è la continuazione della diplomazia con altri mezzi”. Questa affermazione suppone che i soggetti che fanno la guerra siano “razionali”. Come la diplomazia cerca di ottenere dei vantaggi o di minimizzare degli svantaggi, allo stesso modo la guerra cerca di ottenere vantaggi (un guadagno territoriale, economico, commerciale) o di limitare le perdite.

    E’ il sistema di regole o “il modo di considerare la guerra” al quale siamo abituati. Questo sistema presuppone che gli attori siano degli stati sovrani, con eserciti a comando centralizzato, in forte relazione col mondo politico e a forte inerzia: quando la macchina bellica si mette in moto, è difficile arrestarla. In questo mondo di regole si sono svolti i conflitti europei, e le guerre per la divisione del mondo fra stati europei e imperi americano e sovietico.

    Lo stato sovrano
    “Stato sovrano” vuol dire che ogni stato giudica la legittimità della violenza al proprio interno. Ma quando si tratta di uno scontro fra stati, non esiste un’autorità superiore, che possa imporre regole e il loro rispetto. Ci si deve accontentare del diritto internazionale: una “stabilizzazione relativa e sempre temporanea di regole fra stati”, fermo restando che ogni stato resta giudice della legittimità del proprio intervento. Lo stesso diritto, perciò, può diventare occasione di guerra, quando, ad esempio, si dichiara di far rispettare una frontiera violata, o un trattato precedentemente violato.

    Internazionalizzazione della guerra
    Il dispositivo giuridico, poi, deve fare i conti con l’enorme capacità di uccisione, raggiunta dalla macchina bellica negli ultimi due secoli. Questa ha condotto gli stati e le società a ragionare sulle alleanze, sulla cooperazione internazionale, a fare attenzione all’equilibrio fra le forze e ha portato, ancora, allo sviluppo di una coscienza umanitaria internazionale e al bisogno di pace, indispensabile per l’economia e per l’industria.
    Ai nostri giorni, i vecchi concetti di von Clausewitz non bastano più per capire il dispiegamento della violenza internazionale contemporanea. Occorrono nuovi concetti.

     

    Un prontuario di nuovi concetti

    Genocidio
    Lo potremmo intendere come una forma di guerra diretta contro uno o più gruppi umani, piuttosto che contro qualche stato, con l’intenzione di sterminarli. Conosciamo molti esempi di genocidio: da quello degli harare in sud africa, perpetrato dai tedeschi al principio del novecento, a quello degli armeni, condotto dai turchi (ben coadiuvati dai curdi) durante la prima guerra mondiale; nella seconda guerra conosciamo quello contro gli ebrei e i rom e, nel secondo dopoguerra sono ancora nella nostra memoria il genocidio del Rwanda, contro i tutzi, quello compiuto dai khmer rossi in Cambogia e quelli balcanici. A questi esempi potremmo aggiungerne molti altri.

    Al genocidio in quanto tale va assimilata la “pulizia etnica”, che consiste nell’impiego della violenza e del terrore al fine di eliminare la presenza di alcune minoranze, in un determinato territorio, uccidendole o costringendole alla fuga.

    I genocidi non sono una particolarità del XX secolo (e del nostro). La specificità, invece, consiste nella sistematicità della persecuzione. Il fatto che sia spesso uno stato ad essere l’autore del genocidio forse è legato alla difficoltà di conservare l’unità territoriale o al tentativo di superare una forte crisi. Gli iniziatori di un genocidio utilizzano il loro obiettivo come un capro espiatorio dei problemi nazionali.

    Iperterrorismo
    Fino alla seconda metà del XIX secolo, il terrorismo faceva parte di una politica mirante all’acquisizione del potere o a esercitare una pressione sul potere politico, attraverso assassini di personalità politiche o ad attentati mirati. Il cambiamento fondamentale è avvenuto quando il terrorismo è diventato internazionale e si è trasformato in “guerra durante la pace”. I fattori che hanno favorito questo cambiamento sono: la facilità dei trasporti, la copertura mediatica mondiale, la vulnerabilità degli obiettivi possibili (gruppi di turisti, ambasciate, rappresentanze commerciali, mezzi di trasporto ecc.), le armi potenti, facili da nascondere, spostare o montare, ma anche le armi facili da inventare, come dimostra l’attentato delle Torri gemelle, compiuto con due aerei di linea, trasformati in missili.

    La nozione di iperterrorismo fa riferimento al carattere mondiale dell’azione, sulla sua natura spettacolare, e sugli effetti militari e politici che questa raggiunge. E’ una nuova forma di guerra, a causa di una logistica nuova, della natura degli obiettivi e dei protagonisti. Un piccolo gruppo di terroristi può condurre una “guerra liquida”, imprevedibile, ottenere successi notevoli e obbligare l’avversario a adottare misure di precauzione, dalle conseguenze psicologiche, economiche e politiche numerose e costose.

    L’iperterrorismo rientra nel quadro razionale di von Clausewitz, se guardiamo i suoi effetti: in realtà si tratta di imporre la propria volontà a un soggetto nemico, a costringerlo, per esempio a modificare la sua politica. Lo si è visto con gli attentati di Atocha, in Spagna (2004), che influirono sui risultati elettorali al punto da far vincere gli avversari del governo in carica.

    Se guardiamo la natura dei soggetti, invece, l’iperterrorismo non rientra più nel canone di von Clausewitz, perché in genere non è condotto da stati (con alcune eccezioni degli anni ’90 dello scorso secolo, quando fu diretto da Libia, Siria e Iran). L’iperterrorismo è condotto piuttosto da una sorta di nebulosa, da una sorta di multinazionale (politica o religiosa) in guerra contro gli stati.

    L’efficacia di questa azione è notevole, dal momento che è una guerra condotta durante la pace, in un territorio retto da regole di pace, approfittando dei benefici dello stato di diritto.

    Guerra asimmetrica
    La guerra è asimmetrica quando è condotta da due protagonisti che rispettano regole diverse, usano armi diverse e hanno campi diversi di battaglia. Un esempio è la guerra che al-Qaida conduce contro gli Usa, a partire dall’attentato delle Torri Gemelle: il campo di battaglia è mobile e vario e la componente della comunicazione è essenziale. Anche la risposta americana rientra nel campo delle guerre asimmetriche: si svolge con un controllo della rete di comunicazione, uso di forze speciali e di materiali innovativi.

    Ci sono molti motivi per ritenere che una delle cause della guerra asimmetrica si trova nella superiorità assoluta raggiunta dagli Stati, sia nel campo della guerra convenzionale che in quello nucleare. Questa superiorità, spinge gli avversari a cercare altri terreni e altre forme di scontro. Si tratta di abbandonare quei terreni, nei quali la superiorità avversaria è insuperabile, e crearne altri, nei quali il nemico si trovi in difficoltà.

    Guerra preventiva
    Dopo gli attentati dell’11 settembre, diventa una forma di guerra sempre più invocata. Con un termine inglese è detta anche preemption war. Gli stati la invocano per difendersi da altri stati, definiti “canaglia” (in inglese rogue nations). Il pericolo rappresentato dalle armi nucleari della Corea del Nord o dell’Iran, o dalle armi biologiche, che si ipotizzava possedesse Saddam Hussein, dittatore irakeno, il sostegno che la Siria ha fornito all’iperterrorismo, hanno giustificato – agli occhi degli stati occidentali – il ricorso ad azioni preventive. Lo scopo dichiarato era quello di impedire che la capacità distruttrice di questi gruppi raggiungesse una soglia irreversibile, tale da minacciare gli stati più forti e da costringerli ad una logica di mutua dissuasione.

    L’idea della guerra preventiva si basa su questo schema: da una parte ci sono gli stati “imprevedibili”, dotati di armi potenzialmente di distruzione di massa (nucleari, biologiche, chimiche); dall’altra gli stati “razionali”, dotati di capacità di dissuasione. Questo schema impone che la guerra preventiva non possa essere dichiarata da un solo stato, dal momento che apparirebbe come un intervento imperialista, o un terrorismo di stato; essa necessita, dunque, l’intervento di una coalizione.

    Guerra umanitaria
    Oppure, eufemisticamente, “ingerenza umanitaria”. Si ha quando si interviene in un territorio per evitare dei disastri come la carestia, il genocidio, la pulizia etnica, le guerre civili lunghissime, le violazioni sistematiche dei Diritti dell’Umanità.

    La casistica di questa guerra è varia. Ci sono gli interventi per proteggere l’azione di organizzazioni non militari, come in Sierra Leone, Liberia, Rwanda; per separare i contendenti, come in Bosnia o in Costa d’Avorio; per reprimere una delle parti, considerata fomentatrice della guerra, come quando si è intervenuti contro la Serbia nella crisi del Kosovo, contro l’Irak, nella prima guerra del Golfo, contro la famiglia del colonnello Ghaddafi, in Libia.

    Anche in questo caso, è indispensabile che l’intervento sia approvato dalla comunità internazionale, altrimenti verrebbe interpretato come un’ingerenza imperiale o neocolonialista.

    Occorre, è appena il caso di dirlo, riconoscere che, al di là dei buoni sentimenti, la nozione di guerra umanitaria è ambigua. Sa una parte, gli agenti non governativi, come certe Ong, possono lucrare vantaggi dalla situazione di guerra, attirare simpatie o raccogliere finanziamenti. Dall’altra, l’intervento umanitario rischia di estendere e prolungare il conflitto, dal momento che immette sul campo di battaglia risorse che alimentano gli stessi contendenti (attraverso l’imposizione di tasse, o attraverso la loro rivendita). In questo modo, accade che chi vuole placare la crisi contribuisce a renderla cronica.

    Infine, i campi di rifugiati, sotto l’ombrello delle organizzazioni umanitarie, possono destabilizzare l’economia di una regione, introducendo una seconda economia artificiale.

    Guerra giusta
    Era una nozione di età medievale, quando ci si interrogava sulle cause che potevano giustificare un’azione violenta (ma non bisogna dimenticare che questo strumento giuridico era molto usato dai romani). In pratica, si invoca un principio di ordine superiore, in base al quale si giustifica l’intervento militare.
    E’ indubbio che questo appello al giudizio di dio, o a qualche altro valore trascendentale, apre la porta alla variante della guerra giusta, che è costituita dalla “guerra santa”, combattuta contro coloro che hanno una credenza religiosa (o politica) diversa.

    Società civile internazionale
    Alcuni autori, come Michael Ignatieff  o  Mary Kaldor, autrice di un testo fondamentale sulle nuove guerre, sostengono la tesi della nascita di una comunità di cittadini del mondo, che si sforzerebbero di pesare sulla gestione delle relazioni internazionali, sia quando ci sono dei conflitti, sia quando si tratta di sostenere cause umanitarie, sanitarie o ambientali. Ricavano questa idea dal fatto che esiste una comunità internazionale, che si sta sviluppando un diritto penale internazionale, che si moltiplicano le istituzioni internazionali che si battono per la cooperazione e per la pace, che ci sono organizzazioni non governative che vanno in soccorso di popolazioni in difficoltà.

    Fanno parte dei “cittadini del mondo”, coloro che si occupano professionalmente dei problemi umanitari, gli uomini dalla “grande coscienza”, le associazioni che rappresentano – dal canto loro – soggetti collettivi (Greenpeace, WWF, Attac, i gruppi altermondialisti ecc.). Questi soggetti agiscono per influire sulle decisioni degli organismi internazionali e sull’azione politica dei diversi stati.

    E’ importante notare che – contrariamente a quanto si pensa in Italia e in Francia – nozione di “società civile” non si oppone a quella di “mondo politico”. Nella sua idea originaria, nata dal pensiero di Locke e di Kant, la società civile implica, per contropartita (almeno come orizzonte finale) la costituzione di uno Stato mondiale cosmopolita. Quindi, al posto di opporsi al mondo politico, la società civile lo prefigura.

     

    Uno scenario nuovo

    Nessuna di queste nozioni è totalmente nuova. La novità consiste nel fatto che esse sono necessarie, tutte insieme, per comprendere lo scenario attuale. Uno scenario totalmente nuovo.

    Le guerriglie, un tempo nazionali o confinate in determinati territori, sono diventate internazionali. Si può dire che esiste un terrorismo globalizzato, che trova le sue radici nella diffusione degli armamenti nucleari, e nel quale gli stessi genocidi si sono banalizzati.

    Il mondo non è più governato da una o due superpotenze. E’ multipolare. Localmente ci sono superpotenze in grado di esercitare una forte influenza sulla porzione di mondo circostante (India, Cina, Nigeria, Sud Africa, Australia ecc).

    Aumentano gli stati che non sono in grado di gestire con efficacia i conflitti interni (come la Russia), gli stati nei quali si diffondono movimenti autonomistici o indipendentisti (Italia, Spagna).

    Si diffonde l’aspirazione alla “sovranità nazionale”, ma, al tempo stesso, questa si svuota progressivamente, a causa di trattati internazionali, o a causa dell’impossibilità di una sola nazione di gestire un conflitto, dal momento che questo si internazionalizza rapidamente.

     

    Uno scenario in movimento

    Certamente, la proliferazione delle organizzazioni internazionali, per quanto esse non riescano ad essere sempre efficaci come si vorrebbe, testimonia quanto sia diffusa la volontà di non ripetere l’incubo della seconda guerra mondiale.

    Questo desiderio nasce in uno scenario che vede lo sviluppo di due tendenze opposte: da una parte, la frammentazione del mondo, che sempre di più sembra costituito da stati sovrani, in una situazione potenziale di guerra; dall’altra l’incremento della solidarietà internazionale e dell’interdipendenza.

    A questa seconda tendenza fanno riferimento due nuovi processi. Il primo è la diffusione dell’idea dei “diritti umani”, accettati da moltissimi (anche se l’accettazione è spesso solo di facciata); dall’altra, la lenta costituzione di un diritto internazionale, di un sistema di pene che valga per tutti, esercitato da comunità internazionali. Indubbiamente non si tratta della comunità cosmopolita vagheggiata da Kant. E’ un codice di leggi in progress, fatto di aggiustamenti, di decisioni parziali, spesso stipulate fra singoli soggetti. Tuttavia progredisce, e lascia sperare che si stia costruendo un nuovo ordine internazionale.

  • I grandi tabù della Tratta dei neri e il difficile rapporto fra protesta sociale e ricerca storica.*

    di Antonio Brusa

     

    “L’appello lanciato questa estate da militanti “antirazzisti” in molti paesi democratici ad abbattere le statue di coloro che sarebbero più o meno direttamente legati alla tratta atlantica ha rimesso al centro del dibattito pubblico la questione della schiavitù. Al posto di migliorare la nostra conoscenza del carattere abietto del commercio degli schiavi neri nella pluralità delle sue manifestazioni geografiche, la frenesia vendicatrice alla quale stiamo assistendo non ha fatto altro che rinforzare l’idea, peraltro già ben radicata, secondo la quale non ci fu che una sola Tratta dei Neri: quella condotta dagli Occidentali fra i secoli XV e XIX”.

    Con queste parole, Matthieu Creson apre il suo articolo sulla persistenza del tabù della Tratta”, appena pubblicato dall’autorevole “Revue des deux Mondes” (7 sett. 2020).  Nell’immaginario italiano ci vediamo lontani spettatori di questa vergogna storica. Pensiamo che siano fatti che riguardano gli stati atlantici, europei e americani, ben lontani da noi mediterranei. Le cose non stanno in questo modo. Per due motivi. Il primo è che il fenomeno della schiavitù riguardò direttamente l’Italia fino a tutta l’età moderna, come ci ha insegnato Salvatore Bono (Schiavi. Una storia mediterranea. XVI-XIX secolo, Il Mulino, Bologna: qui il riassunto analitico). Il secondo è che la polemica contro la schiavitù mette sul banco degli imputati l’intero occidente, europei e italiani compresi.

    Per tutti quelli che si occupano di storia, infine, questo è un magnifico, quanto penoso, caso di studio sui rapporti fra la memoria storica, alla quale fanno riferimento i movimenti di protesta, e la ricerca storica.

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    I motivi che hanno scatenato le proteste sono indiscutibili. Non possono che suscitare indignazione in tutto il mondo il razzismo e le ingiustizie sociali che spingono nelle strade tanti cittadini americani. Ciò che Matthieu Creson sottolinea è il discorso storico che accompagna e alimenta molta parte del movimento. Questo discorso è viziato da due rimozioni. La prima è geografica: si rimuove il fatto che la Tratta atlantica non fu l’unica esistente. La seconda è storica: si rimuove il fatto che i primi stati a proclamare illegale lo schiavismo furono europei. Queste due rimozioni cementano due tabù, apparentemente incontrastati in quello che rischia di diventare un processo mondiale all’Europa: “non si può parlare di Tratte che non siano quella atlantica” e “non si può dire bene dell’Europa”.

     

    La rimozione geografica

    Il primo a farne un oggetto di dibattito pubblico è stato Olivier Petré-Grenouilleau, con il suo La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale(Il Mulino, Bologna 2010: vedine un buon riassunto qui)

     

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    Lo storico francese scriveva che se si allarga lo sguardo al di là dello scenario atlantico, spuntano altre due tratte, altrettanto dolorose di quella atlantica. La Tratta musulmana, che prelevava schiavi dall’Africa sub-sahariana per venderli ai paesi mediterranei ed esportarli fino in Estremo oriente; e quella africana, della produzione e del consumo interno degli schiavi. I dati offerti dallo storico lasciavano senza fiato chi si avvicinava per la prima volta a questo problema. Se la tratta atlantica trasferì in America poco meno di 12 milioni di persone, quella interna africana ne riguardò 14 milioni e quella musulmana 19. Indubbiamente, questi dati erano da ponderare tenendo conto di due fattori. Il primo è che la tratta atlantica durò poco più di tre secoli, mentre il periodo preso in considerazione dallo storico per quelle islamica e africana andava dal 620 d. C al 1920. Il secondo è che, mentre per la tratta atlantica le fonti sono numerose e precise (i libri contabili dei negrieri, i contratti di vendita americani ecc.), non altrettanto si può dire delle altre due tratte che devono fare affidamento a stime, che secondo lo stesso Grenouilleau hanno un largo margine di variabilità. Altri storici, infatti, danno cifre diverse, che – tuttavia - essendo sempre dell’ordine dei milioni, non intaccano la sensazione di enormità del commercio islamico e africano.

    (Lo storico francese non si occupava del commercio mediterraneo, i cui dati avrebbero aggiunto peso al terribile quadro della schiavitù mondiale, con i milioni di cristiani, fatti schiavi dai corsari barbareschi, e i milioni di nord-africani fatti schiavi dai cristiani (italiani e maltesi soprattutto), e venduti nei mercati di Livorno, Napoli, Genova e Palermo, insieme con quelli dell’Africa nera che pure giungevano in Italia).

     

    Shitstorm mediatico

    Quando uscì in Francia, nel 2005, il libro di Grenouilleau divise il pubblico. Fu esaltato come opera fondamentale da molti storici, dall’Académie e dal Senato (che pure aveva proclamato, con la legge Taubira del 2001, che lo schiavismo è un crimine contro l’umanità). Dall’altra suscitò vive proteste da parte delle comunità afro-francesi e antillane, che accusarono lo storico di “negrofobia”, chiesero che venisse processato, proprio per la violazione della legge Taubira, e lo sottoposero a un indegno shitstorm mediatico, con insulti e accuse di ogni genere, delle quali la rete, a dispetto del mito della sua memoria indistruttibile, conserva tracce scarse e difficili da reperire (qui una cronologia degli interventi, un tempo ben in vista, oggi quasi introvabili. Noterò ancora che l’articolo di Clionautes, che citavo a questo proposito nel 2016, è sparito).

     

    I fabbricanti di schiavi

    I mercanti occidentali acquistavano gli schiavi nei mercati africani: quelli atlantici, oggi meta del turismo memoriale (ne scrive Elisa Magnani), e quelli indiani, altrettanto celebri, come Zanzibar. Quest’isola era anche un centro di smistamento della tratta islamica, al pari di Timbuctù, dove si concentravano le carovane di schiavi destinate ai mercati della costa nordafricana. Ma come venivano prodotti questi schiavi? Ne sappiamo poco, scrive John Iliffe. A metà Ottocento, un missionario chiese a 177 schiavi liberati in che modo erano stati fatti schiavi. Un terzo dichiarò che era prigioniero di guerra; un altro terzo che si trovava già in condizioni di schiavitù quando fu portato al mercato. Altri erano stati fatti schiavi per debiti; un paio perché erano figli di donne accusate di stregoneria. Come sapevano – e scrivevano – i negrieri, la prospettiva di un buon guadagno incentivava i tribunali africani a comminare la pena della schiavitù per una gran quantità di reati. Al di là di particolari e di cifre che vanno ancora messi in piena luce, ciò che sappiamo è che dietro le Tratte atlantica e islamica agì un sistema schiavistico consolidato nel tempo, interamente africano, fatto di imperi, regni e individui che lucravano sulla riduzione in schiavitù di uomini e donne nere, che evidentemente non consideravano “fratelli” (J. Iliffe, Popoli dell’Africa. Storia di un continente, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 179).

     

    Vittime e carnefici

    “La maggior parte degli studi recenti, di qualsiasi scuola, concludeva Grenouilleau, ci dice che gli africani non furono solamente vittime della tratta, ma anche artefici” (p. 187). Lo storico avrebbe potuto richiamarsi con efficacia alla formula icastica - “nessun popolo è vergine”- che Franco Cassano ha inciso nel suo libro più bello (Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro, Il Mulino, Bologna 2003). Il ruolo della vittima e del carnefice si sono alternati più volte nei tempi lunghissimi dei diversi gruppi umani. Una storia che ne selezioni solo alcuni aspetti impedisce di fare i conti con i passati vergognosi di ciascuno. Rischia, in luogo di creare una società che si riconosce unita nella condanna del crimine della schiavitù, di lacerarla con un desiderio di vendetta, che è un temibile motore dell’alternanza fra vittima e persecutore. Nel pieno della polemica sul suo libro, Grenouilleau scriveva: “È importante comprendere che gli Occidentali, gli Orientali o gli Africani odierni non sono affatto responsabili dei crimini commessi da qualcuno dei loro antenati, e che non serve a niente aizzare le comunità, le une contro le altre. Come scriveva Edouard Glissant a proposito della schiavitù, il lavoro della memoria non deve far rivivere il passato. A noi serve una “memoria che sa andare oltre” (Traite négrière  : les détournements de l'histoire, par Olivier Petre-Grenouilleau, in “Le Monde”, 5 marzo 2005).

     

    La rimozione storica

    Se la schiavitù è un fenomeno che interessò la stragrande maggioranza dei gruppi umani (forse solo gli indigeni australiani ne furono esenti), la sua abolizione è un evento che riguarda esclusivamente l’Europa. In moltissime società esistettero filosofi, poeti e governanti che hanno manifestato la loro avversione per questo istituto. Ma solo in Europa questa ostilità si è concretizzata nella sua messa fuori legge. Questo evento dovrebbe essere celebrato come identitario di una umanità, come quella attuale, che si proclama antirazzista e antischiavista. Non è dunque paradossale il fatto – si chiede Pascal Bruckner - “che le prime società che hanno abolito la schiavitù, dopo averne largamente approfittato, siano le sole ad essere messe sotto accusa, le sole alle quali si chiede una riparazione?” (La tyrannie de la pénitence. Essai sur le masochisme occidentale, Grasset, Parigi 2006, p. 174).  

     

    Il doppio versante della rimozione

    La questione dello schiavismo, per come viene affrontata nei movimenti di protesta mondiali, diventa un tutt’uno con quella del colonialismo europeo, con il conseguente bilancio post-coloniale e con il razzismo. L’evento dell’abolizione, quindi, viene seppellito sotto un cumulo di misfatti che preme anche sul versante interno all’Occidente, incrementando quel sentimento di “autocolpevolizzazione” che caratterizza il rapporto che Europa e Occidente intrattengono con il loro passato, e producendo, di conseguenza, una memoria unidirezionale.  Perché è una strana “memoria della schiavitù quella che impone solo all’Occidente di fare penitenza e di risarcire i discendenti degli schiavi” (Creson, cit.).

    Fernando Duarte ha provato a quantificare l’ammontare di questi risarcimenti. Secondo gli stati africani si tratterebbe di 777 miliardi di dollari (dati del 1999); mentre i trenta milioni di discendenti americani di schiavi africani avrebbero diritto a una compensazione di 250 mila dollari a testa (Réparation de l'esclavage : les descendants d'esclaves doivent-ils recevoir une compensation financière? 2 luglio 2020). Tuttavia, per quanto lo storico non debba trascurare gli aspetti economici nella sua analisi, sarebbe sbagliato farne una questione di soldi. Ce lo fa capire la delibera di professori e studenti del Dipartimento di Letteratura inglese dell’Università di Chicago, approvata dopo l’assassinio di George Floyd, nel luglio del 2020. Vi si stabilisce che per l’anno accademico 2020-2021 verranno accolti solo studenti neri o che si impegneranno  nei Black Studies, la branca delle discipline umanistiche che il dipartimento si propone di sviluppare. È un debito, proseguono i colleghi americani, che la collettività degli studiosi deve pagare, perché “la letteratura inglese, come disciplina, nella sua lunga storia ha ammantato di una razionalizzazione estetica la colonizzazione, lo sfruttamento, l’estrazione dei neri, e l’anti-negritudine (anti-blackness)” e che, quindi, il loro dovere di studiosi è quello di “eliminare l’anti-negritudine persistente e recalcitrante della nostra disciplina”.

     

    Due documenti per comprendere una rivoluzione

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    Immagine4Am I Not a Man and a Brother?, il medaglione disegnato da Josiah Wedgwood nel 1787 contro la schiavitù (Fonte)  

     Si diceva nelle buone famiglie di un tempo che una dote di matrimonio non era adeguata se non avesse compreso qualche ceramica Wedgwood. Josiah Wedgwood era un imprenditore, inventore e designer di ceramiche adorate dalle famiglie borghesi. Era anche amico e fervido sostenitore di Thomas Clarkson, il primo storico del movimento abolizionista. Questo medaglione, autentico logo del movimento, fu regalato a Benjamin Franklin, presidente della società abolizionista della Pennsylvania. Diventò un gioiello esibito dalle signore di tutt’Europa. Più efficace di un libro, commentò Franklin.

    Osservato con gli occhi moderni, quest’uomo nero e incatenato, che supplica di essere considerato un fratello, è lo stigma del “nero inferiore” che spinge il movimento di protesta ad abbattere i monumenti nei quali “un uomo bianco concede la libertà a schiavi neri che ringraziano” (su questo tema si veda l’articolo di Daniele Boschi, qui su Historia Ludens). Osservata con gli occhi di un individuo del XVIII secolo, invece, quest’immagine è rivoluzionaria, perché rompe con la tradizione più “inclusiva” che il mondo antico aveva consegnato alla modernità, quella delle religioni del libro, secondo le quali “non è lecito fare schiavo il fratello”. In base a questa norma, un cristiano (come un musulmano o un ebreo) non poteva ridurre in schiavitù un correligionario, proprio perché la comune fede li rendeva fratelli, ma poteva fare schiavi tutti gli altri. Il medaglione diceva alla gente del XVIII secolo che si è fratelli per il semplice fatto di essere uomini. Una rivoluzione, scrive Olivier Grenouilleau (La révolution abolitionniste,Gallimard, Paris 2017).

    Con un salto di qualche anno, ci troviamo a Napoli, dove Antonio Savarese, medico “dei Reali Eserciti”, uno studioso che viaggiò in lungo e in largo, anche al seguito delle truppe napoleoniche, scrive testi di antropologia fisica e medicina. Letti con gli occhi moderni, sono libri insopportabilmente razzisti. Ci raccontano che i creoli sono un miscuglio indecente di razze e che i bianchi si sono degenerati al loro contatto; che i neri puzzano, hanno un aspetto orribile e assomigliano più a un orango che a un uomo. Letti con gli occhi del tempo, questi testi ci rivelano uno studioso che considerava le colonie americane una tragedia, dal momento che in meno di tre secoli avevano causato lo sterminio della popolazione indigena e ora erano meta di avventurieri e di mercanti dediti “all’industria, tanto vilipesa e censurata, di comprare e vendere uomini di colore nero, traffico che disonora l’uman genere, e che da alcuni governi è stato proibito e da altri sostenuto, malgrado che si vantassero per sommamente civilizzati”. (A. Tuccillo, Il commercio infame. Antischiavismo e diritti dell’uomo nel Settecento italiano, Cliopress, Napoli 2013, pp. 344-346).

    Immagine5La foga iconoclastica non ha risparmiato i monumenti di Victor Schoelcher, il giornalista e uomo politico francese, promotore del decreto del 1848 con il quale venne sancita la fine della schiavitù in Francia e nelle sue colonie. Su di lui si veda: F. Magris, Rivoluzionario o riformista? Victor Schoelcher e l’abolizione della schiavitù, in “Studi Storici”, 54, 3, 2013, pp. 611-622. 

    La rivoluzione abolizionista

    Due documenti – un gioiello e il brano di un libro – ci fanno intuire la differenza dei tempi. Oggi noi consideriamo normale essere contro la schiavitù. Allora era rivoluzionario. Oggi noi assimiliamo razzismo, colonialismo e schiavismo. Tre secoli fa erano fenomeni ben distinti. Se non recuperiamo lo sguardo di quei tempi, non riusciremo a valutare la portata di quella rivoluzione. Torniamo dunque a Grenouilleau che, lavorando su una massa impressionante di documenti, ci offre una visione realistica di come quella rivoluzione si sviluppò.

    Fu una rivoluzione strana, ci avverte il nostro autore. Ha una premessa lunghissima, che affonda nei tempi profondi della civilizzazione occidentale, dagli antichi sofisti e ai loro allievi romani, ai sapienti religiosi e laici di età medievale e moderna. Non era nuova, in occidente (come in altre culture), la considerazione dell’inumanità dell’istituto schiavile. Ciò che è inedito è il fatto che questa disapprovazione si concretizza – alla fine del XVIII in America, in Inghilterra e poi nel resto dell’Europa - nella richiesta della sua abolizione. Non era naturale pensarlo: lo dimostra il fatto che mai (a nostra conoscenza) tale proposito fu espresso nel corso delle numerosissime rivolte che hanno costellato la storia della schiavitù sin dai tempi antichi.

    Il movimento transnazionale che nacque alla fine del XVIII secolo, invece, trasformò questa richiesta in un obiettivo politico con una ostinazione e un’intelligenza rimarchevoli: perché la seconda stranezza di questa rivoluzione consiste nella sua lunga durata. Le date ufficiali (se ci limitiamo a queste) ci dicono che durò quasi un secolo, dal 1792, data nella quale la Danimarca per prima proclamò l’illegittimità della Tratta, fino al 1888, quando crollò l’ultimo baluardo dello schiavismo occidentale, il Brasile dell’imperatore Pietro II.

    Lo storico ricostruisce l’attività politica di questo movimento, che seppe vincere nonostante fosse minoritario e incappasse in numerose battute d’arresto. Le maggioranze (soprattutto quelle inglesi e francesi) agitavano il rischio delle spaventose crisi economiche che la liberazione degli schiavi avrebbe comportato e la paura delle ribellioni delle colonie. Oppure sventolavano la bandiera nazionalistica, come in Francia, dove si chiedeva ai cittadini di non cedere alle idee provenienti dalla nemica di sempre, l’Inghilterra.  Al suo interno, il movimento riusciva a tenere insieme anime diverse: gruppi pietisti americani e inglesi, élites illuminate, intellettuali francesi (ma anche italiani, come abbiamo visto) spesso ostili alla religione, a volte masse operaie, come accadde a Manchester dove ben undicimila cittadini votarono il documento abolizionista. Non necessariamente gli abolizionisti erano anche anticolonialisti. Molti sostenevano un dominio coloniale soft, limitato per esempio al controllo degli empori costieri. Per giunta, dopo la seconda metà dell’Ottocento, quando ci si rese conto che le leggi europee non avevano messo fine al fenomeno, gli abolizionisti spinsero per intervenire sui regni africani anche con i cannoni. (La révolution abolitionniste. Entretien avec l’historien Olivier Grenouilleau).

     

    Una memoria che divorzia dalla storia

    In effetti, il mondo extra-europeo non mostrò grande entusiasmo per questa iniziativa. La Cina abolì la schiavitù nel 1909. Il mondo musulmano – teatro della seconda grande Tratta – fu ancora più restio: l’Arabia Saudita la abolì nel 1962 e la Mauritania nel 1980. Questa refrattarietà generale, il persistere della condizione schiavile, illegalmente o sotto altre forme giuridiche, la stessa ostinata avversione alla liberazione degli schiavi che ci racconta la storia americana, dovrebbero insegnarci quanto fu difficile e meritorio avviare e realizzare il percorso politico e culturale che condusse alla illegittimità della schiavitù e alla sua condanna come crimine contro l’umanità.

    Oggi, invece, quel periodo viene letto con la lente di un ideale antischiavista, antirazzista e anticolonialista del tutto contemporanea. Usata in questo modo, diventa una lente deformata che occulta i protagonisti di una lotta che ci ha consegnato un’eredità che dovremmo giudicare eccezionale, sia alla luce della storia dell’Occidente, sia nel confronto fra Occidente e resto del mondo. Jessica Moody ci informa che i movimenti antirazzisti puntano a ottenere una Giornata della memoria, esemplata sul modello di Auschwitz (The persistence of memory.Remembering Slavery in Liverpool, “Slaving Capital of the World”, Liverpool U.P, 2020, pp. 181-183). Questo paragone, proprio perché voluto dai movimenti attuali, è illuminante. Quella giornata fu scelta dopo una lunga discussione fra le varie proposte. Venne accettata perché, pur ricordando il genocidio, apriva al futuro (la liberazione del campo). E resta ancora oggi, nonostante la storiografia abbia da tempo messo in luce i delitti dei quali l’Armata Rossa si macchiò nel corso della sua avanzata. All’opposto, sembra che i tabù dello schiavismo impediscano di trovare una data comune, capace al tempo stesso di ricordare le sofferenze passate e di spingere gli uomini a guardare a un futuro migliore. Ne è una buona prova il dibattito svoltosi in occasione della scelta della data della “Giornata nazionale della memoria”, prevista nella legge Taubira: dopo aver scartato tutte le date possibili - dalla rivoluzione di Haiti comunque collegata alla Rivoluzione francese e ai suoi proclami, all’abolizione definitiva del 1848 – i parlamentari francesi hanno ripiegato sul 10 maggio, data della promulgazione della legge Toubira.

    Una giornata della memoria istituita per celebrare se stessa è il simbolo, ironicamente istruttivo, di una memoria che ha tagliato i ponti con la storia.

     

    *Ringrazio Luigi Cajani per i suggerimenti e il controllo attento

  • I Pacifici Celti Leghisti: Roma ladrona e la storia dell’antichità

    Autore: Mariangela Galatea Vaglio                                
     

    Introduzione

    La maestra aveva dato ai suoi allievi la consegna di immedesimarsi negli abitanti di un villaggio antico; e la bambina aveva scritto che ogni mattina si pettinava le lunghe trecce bionde e cantava con la cetra, nel suo villaggio celtico. Lessi questo compito su un sito, oggi irrintracciabile, di una scuola elementare friulana, negli anni ’90. Era una segno, minimo per quanto significativo a mio giudizio, dell’effetto che la propaganda politica della Lega cominciava ad avere nelle scuole. Sono passati pochi anni, già vediamo che molti adulti non ricordano più quei tempi e gli allievi delle scuole ci sorprendono del fatto che non ne sanno nulla. Così, quando ho letto la ricerca che Mariangela Galatea Vaglio - ricercatrice di storia antica, insegnante e scrittrice apprezzata (Didone, per esempio. Nuove storie dal passato, Castelvecchi editore) – aveva realizzato sull’uso politico della storia antica, le ho chiesto di condividere con il lettori di HL il capitolo dedicato ai Celti e la Lega. Non mi è mai sembrato, nemmeno negli anni caldi, un tema di storia folkloristica italiana. Per chi ha studiato i temi dell’invenzione della tradizione e dell’uso pubblico della storia (imprescindibili come dicono le Nuove Indicazioni anche per insegnare storia nella scuola di base) era evidente che si stava assistendo, quasi in diretta, ad un tentativo di invenzione della tradizione. Un fenomeno avvenuto dante nel passato. Ma questa volta, la novità era che la politica si appropriava in modo aperto del passato, e ne faceva un uso pubblico sfrontato, quasi si facesse beffe degli studiosi che, in contemporanea, mettevano in guardia i cittadini. Anche per questo è importante cominciare, fin d’ora, a costruire una memoria storica di quei tempi. (HL)

     

    I.    La Lega ed i Celti, un colpo di fulmine


     

    Tutti assieme in riva all’Eridano

    15 settembre 1996: sulle rive di un Po placido, indorato dal sole e filmato dalle televisioni di mezzo mondo si danno appuntamento per una grande catena umana i Leghisti di Umberto Bossi. Nei progetti del Senatùr il giorno dovrebbe segnare la nascita della Repubblica Federale di Padania, stato sovrano comprendente, grosso modo, Veneto, Sud Tirolo, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Trentino, Val d’Aosta, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Marche, Umbria e Toscana.

    Se sul piano della partecipazione reale la manifestazione non è un completo successo, l’eco che essa ottiene sui mezzi di informazione è enorme. Non c’è telegiornale o giornale che non mostri l’immagine di Bossi intento a raccogliere in un’ampolla di vetro la preziosa acqua della fonte del Po, l’antico Eridano, che viene versata poi in Laguna. Questo successo di pubblico è dovuto all’abilità con cui la Lega ha saputo orchestrare la campagna di lancio dell’iniziativa e l’innegabile senso teatrale che ha inspirato gli organizzatori della manifestazione stessa. A questo senso del teatro vanno certo ricondotta l’introduzione nell’immaginario leghista, appena qualche mese prima della programmazione della marcia sul Po, del ‘mito celtico’. Bossi proclama su giornali e tv che i leghisti sono diretti discendenti di quei “pacifici” Celti che, durante l’antichità, si erano stanziati nella pianura Padana ed erano stati poi travolti dalla conquista romana imperialista. La nuova simbologia celtica è il filo conduttore della Kermesse leghista. Il 15 settembre stesso Repubblica dedica a questo nuovo apparato mitologico un articolo dal titolo: “I riti presi dai Celti tra storia ed Asterix”.

    “Druidi ed ampolle. Il grande fiume che rigenera. La dea Sole - scrive Francesco Erbani, - Dovendo fondare uno Stato indipendente si hanno davanti due strade: ricostruire una storia cercando nelle sue pieghe il filo di un’identità oppure costruire una simbologia, un apparato di miti. Umberto Bossi ha imboccato ruvidamente la seconda. E ha scelto, per il battesimo padano, il repertorio rituale degli antichi Celti.”


     

     Druidi e ampolle.Qui l’articolo di Francesco Erbani

     

    Già, ma chi sono i Celti di Bossi ? E come mai compaiono proprio in questa forma e proprio in questo momento, materializzandosi pare quasi dal nulla sulla rive del Po ? L’antichista può certo sorridere davanti agli anacronismi di questi celti protoleghisti padani . La propaganda politica, però, come la pubblicità, ha regole forse capricciose ma serie. Bossi sceglie i Celti spinto di sicuro da qualcosa di più che un semplice colpo di sole, fosse pure delle Alpi. Cercare di comprenderle o almeno di individuarle aiuterà non solo a ridisegnare l’immagine dei Celti con maggiore acribia filologica, ma anche a conoscere meglio alcuni aspetti della Lega ed alcune eredità che essa ha raccolto lungo il suo cammino.


    Dal Carroccio al Sole delle Alpi.

    Quando nel 1989 la Lega  si affaccia alla ribalta nazionale il suo apparato propagandistico non contempla alcuna allusione ai Celti. Le due Leghe del Nord, cioè quella Lombarda e la Liga Veneta, si richiamavano esplicitamente non all’antichità, quanto piuttosto al Medioevo.

    Tutta la prima fase della Lega come partito di rilevanza nazionale è legata ad una propaganda che recupera le memorie dei liberi comuni contro il Barbarossa. Il simbolo della Lega diviene così Alberto da Giussano, che rimane nel logo del partito anche quando la denominazione del movimento cambia da Lega Lombarda a Lega Nord, ed orna i baveri delle giacche dei leghisti. Per i giornali Lega e Carroccio diventano sinonimi intercambiabili, lo stendardo dei comuni ribelli al Barbarossa diviene la bandiera ufficiale della Lega, le adunate del partito non possono che svolgersi a Pontida.

    Del resto già la Liga Veneta, che era presente da anni nel Veneto e aveva colto già nell’’83 significativi successi elettorali, raggiungendo, ad esempio, il 6% in provincia di Vicenza ed il 7% in quella di Treviso, si affidava anch’essa a memorie medievali, veneziane in particolare: il suo stendardo era il Leone di S. Marco, il suo riferimento storico la Serenissima. Essa era talmente affascinata da queste memorie che, in buona sostanza, prima della fusione con la Lombarda di Bossi, veniva ritenuta dai suoi stessi simpatizzanti come “una bizzarra congrega di persone impegnate a coltivare un dialetto (lingua, secondo loro) che i Veneti non riuscivano a capire e a lanciare invettive odiose contro il Sud .” 

    Nei primi tempi di successo sulla scena politica va sottolineato che forse nemmeno i bersagli della propaganda e i fini del movimento sono così chiari. La polemica si rivolge soprattutto contro il Sud e contro Roma ladrona, sede di ogni vizio in quanto sede della aborrita partitocrazia. La battaglia verte solo sul presente, al massimo sul passato prossimo, la prospettiva di recupero storico non interessa. Un certo interesse nei confronti dei Celti e dell’antico fiume-dio Eridano, tuttavia, doveva essersi sviluppato precocemente in Umberto Bossi e velocemente radicatosi, tanto da indurlo a battezzare il suo ultimo nato Eridano Sirio.

    Tuttavia fino alle elezioni del ’94 l’intero apparato propagandistico della Lega sembra rimanere nell’ambito della polemica antimeridionalista e antipartitocratica, con scarsissimi accenni a qualsivoglia recupero della storia passata. La svolta nella propaganda si verifica soltanto nel ‘96. Il mito dei Celti compare in contemporanea alle prime dichiarazioni secessioniste del movimento. Man mano che il Senatùr chiarisce, forse in primis a se stesso, quali siano i suoi obbiettivi politici, cioè man mano che si inizia a dichiarare da parte della Lega che il fine da raggiungere una è una vera e propria secessione dallo stato italiano, vi è la necessità di giustificare questo distacco dal resto dell’Italia non solo con motivi di ordine fiscale, ma con motivazioni di carattere etnico. Vi è in proposito una vera svolta ideologica: il movimento, a questo punto, si presenta come l’espressione di una etnia vessata per secoli da una dominazione straniera. La Lega mira insomma ad inserirsi nella grande tradizione di partiti politici a base regionale che rivendicano l’autonomia del loro territorio poiché esso è etnicamente e culturalmente diverso dai restanti territori dello Stato che li ingloba. La Padania diventa, nella visione leghista, comparabile al Quebec canadese, all’Irlanda del Nord o ai Paesi Baschi


    Un prontuario per la separazione

    Ma per portare avanti un discorso di separatismo su base etnica, è necessario prima convincere l’uditorio che gli abitanti del Nord Italia sono, appunto, appartenenti ad una etnia diversa da quelli del Centro Sud. Ed ecco che allora il richiamo alle antiche identità comunali del medioevo non basta più, dal momento che fin nei secoli più bui dell’evo medio, Milanesi e Palermitani (o per lo meno le élite dirigenti delle città in questione) comunque si sentivano tutti parte di una stessa cultura e cominciavano a riconoscersi in una lingua che, nata alla corte di Sicilia, era stata poi affinata dal toscano Dante e codificata dal veneziano Bembo. Il mito celtico dunque viene inventato in un momento in cui la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania - questo il nome che il gruppo ha voluto assumere a Montecitorio - ha bisogno :

    •    Di un mito fondante che giustifichi il progetto separatista.
    •    Di una giustificazione etnica, non solo fiscale, del separatismo stesso.
    •    Di un mito che sia unificante anche di tutto il Nord, in un momento in cui i leghisti del Nord Est cominciano a voler a conquistare a loro volta una autonomia e si dimostrano insofferenti all'ipotesi di un centralismo ‘lombardo’ che si sostituisca a quello romano


     

    Ai piedi del grattacielo della regione, la Lega organizza unamostra di costumi medievali


    La scelta dunque dei Celti non è casuale, ma risponde invece ad una operazione di maquillage ideologico di notevole sapienza. I Celti e la revisione leghista della storia antica entrano in scena contemporaneamente all’annuncio della secessione. Per giustificare una scelta tanto drastica, infatti, non è più sufficiente tirare in ballo la Roma Ladrona della prima Repubblica. L’idea di separarsi da Roma, per il Nord viene presentata ormai come l’unica strada di salvezza. Roma non può essere sanata dai suoi difetti, né lo Stato unitario può essere ‘bonificato’ dalle infiltrazioni malavitose del Sud. Il malaffare romano non è un prodotto incidentale, ma un portato strutturale di Roma stessa, che fin dall’antichità ha vessato i pacifici popoli celtici del Nord. Li ha conquistati con la violenza, inglobati a forza, tassati e tartassati fin dalla notte dei tempi. Per liberarsi da questa secolare sanguisuga, i celtici popoli del Nord non possono più cercare un accordo pacifico, devono giungere alla secessione.


        
    II.    I Celti di Bossi : fra Braveheart, le Rune ed Asterix

    Da John Wayne a Mel Gibson

    L’immaginario leghista spesso a primo acchito a chi ci si avvicini dà l’impressione di un calderone, forse celtico, in cui si può trovare tutto ed il contrario di tutto. Nei pochi anni di ribalta politica, alle assemblee della Lega è capitato di vedere i gadget più inconsueti e di incrociare personaggi addobbati nelle fogge più inconsulte. Oltre al Carroccio e ad Alberto da Giussano, il mito americano contava non pochi cultori. L’America, del resto, era la grande patria del federalismo, nonché la terra nutrice di John Wayne, il cowboy cui molti leghisti si inspiravano fin nell’abbigliamento (qualcuno ricorda le cravatte alla texana dell’onorevole Francesco Speroni, ministro leghista delle Riforme Istituzionali nel governo Berlusconi?).

    Con il tramontare della scelta federalista anche i modelli di riferimento cambiano. Sono, curioso notarlo, sempre dei modelli legati al cinema, cosa non incomprensibile se si tiene conto che i leghisti, in genere, non mostrano una grande inclinazione per i libri, e ad una buona lettura preferiscono, Bossi in testa, un dvd. John Wayne, ad onta del suo berretto verde che si intonerebbe con le camicie del servizio d’ordine, entra presto nel dimenticatoio. Gli subentra Mel Gibson, regista ed interprete del film Braveheart (1995). La pellicola, storia di un ribelle scozzese che si batte contro il dominio inglese, folgora Umberto Bossi. Il Senatùr a più riprese si paragona in discorsi ed interviste a Gibson. Alle convention della Lega cominciano ad apparire figuranti con lunghi capelli scarmigliati, la faccia dipinta di blu, la cornamusa ed il kilt. Siamo all’anticamera del mito celtico.  

     

    Fondendo le varie “anime storiche” della Lega, da Alberico da Giussano a Bravehart, Renzo Martinelli realizza Barbarossa(2009, Rai Production)


    La nascita del mito celtico

    I Celti fanno capolino nella propaganda leghista proprio in occasione della grande manifestazione del 15 settembre 1996. L’evento, per stessa ammissione di rappresentanti leghisti, nasce all’inizio come una boutade polemica del Senatùr. Ma l’idea di ritrovarsi tutti assieme in riva al grande fiume conquista talmente la fantasia della base che le varie sezioni cominciano a darsi da fare per organizzare quello che i leghisti battezzano subito  il loro “Indipendence Day”. Il 5 agosto 1996 si ha una prova generale di secessione nelle acque liguri: Bossi fa immergere il fido Bobo Maroni nel golfo di S.Fruttuoso (GE). La Lega in questo momento è ancora tutta unita attorno al suo leader. Irene Pivetti, da sempre rappresentante dell’ala cattolica del movimento, non partecipa alla manifestazione di persona, ma si considera presente in spirito, anche se già ha espresso qualche riserva sull’operato dei colleghi. Bossi cita come modello per le future azioni secessioniste della Lega Ghandi e Martin Luther King. Ai Celti, padani o meno, nessun accenno.

    E’ soltanto a partire dal 10 agosto che si iniziano a trovare nei discorsi di Bossi i primi accenni ai Celti. Per la prima volta viene abbozzata quella che dovrebbe essere la futura bandiera dello stato padano, il cosiddetto “Sole delle Alpi”. Lo descrive in anteprima a Sebastiano Messina della Repubblica uno dei personaggi più folcloristici dello stato maggiore leghista, Erminio Boso, un trentino rotondo soprannominato, guarda caso, “Obelix”, come il guerriero celta di Uderzo: “Il tricolore non ci piace più, è una bandiera artificiale voluta dai massoni. Torniamo alla bandiera di S. Giorgio, quella bianca con la croce rossa, e aggiungiamo la ruota del Sole delle Alpi.”

    E’ curioso che l’introduzione di questo simbolo, che si richiama alla tradizione pagana ed i primi accenni ai Celti siano concomitanti con l’espulsione dal partito della cattolica Pivetti, datata proprio al 10 Agosto.

    Contemporaneamente alla messa a punto del mito celtico, la Lega si dichiara pronta a collaborazioni con i movimenti indipendentisti d’Europa: Alleanza Libera Europea, movimento che raggruppa i movimenti autonomisti, viene invitata ufficialmente a Venezia.

    La svolta paganeggiante di Bossi non sfugge alla Chiesa. Su Repubblica del 11/9/’96 appare un articolo non firmato, dal chiaro titolo “La Chiesa non perdona Umberto il pagano”, in cui Irene Pivetti definisce il suo ex leader : “adoratore pagano del Po....istigatore di una religiosità laica, naturalista e panteista”, mentre Roberto Cartocci, docente di metodologia delle scienze politiche e collaboratore della rivista cattolica Jesus, afferma che “sostanzialmente priva di avversari, la Lega ha trovato nella Chiesa l’unico ostacolo in grado di contrastarla.” La Pivetti ritornerà sull’argomento a manifestazione indipendentista conclusa, usando toni ancor più feroci: “Bossi sta trasformando la Lega in una setta religiosa. Non fa più un discorso politico ma pseudomistico: l’ampolla del dio Po, e tutte quelle sciocchezze, lui che si comporta come un capo religioso...una pagliacciata che non cancella la gravità dell’offesa ai cattolici”.

    Ma ormai i Celti bossiani sono sbarcati su Po, fra druidi, ampolle e telecamere.


    Asterix il Gallo

    La tre giorni leghista sulle rive del Po si svolge sotto gli occhi delle telecamere e, fortunatamente, senza incidenti di rilievo. Umberto Bossi preleva dalle fonti del fiume una ampolla di acqua, “sacra acqua del Po, acqua non mafiosa, acqua che è carne di tutti noi padani, acqua magica, cristallina e pura come l’acqua dei padani”

    Il recipiente degno di contenere tanta meraviglia è stato fatto soffiare appositamente a Murano, copiandolo da un vaso celtico esposto anni prima a Palazzo Grassi.

    L’apparire dei Celti nella propaganda leghista suscita immediatamente la curiosità dei giornalisti. Il 30 agosto, non appena comincia a prender forma il programma leghista per la giornata del 15 settembre e Celti e Dio Po entrano in scena, Roberto Bianchin intervista sulle pagine di Repubblica Andrea Vitali, collaboratore del medioevalista Franco Cardini, chiedendo lumi sui Celti.

    Lo studioso asserisce che la mitologia di Bossi risulta dal punto di vista simbolico assai efficace, riprendendo alcuni temi forti come “il mito dell’acqua portatrice di vita...Bossi ripete un rito antico, con l’acqua che purifica il territorio e lo separa da ciò che è impuro.... Eridano non è solo il nome del Po, ma anche del Rodano, tipico della cultura celtica, stava nel paese degli Iperborei, dove Apollo viveva sempre giovane.”

    Il giorno prima anche Giorgio Bocca, che la manifestazione leghista seguirà da inviato, aveva preso in esame la nuova ondata celtica del Bossi-pensiero. Secondo Bocca essa va considerata come un prodotto “della vasta ondata reazionaria, desiderio di medioevo, di antimodernismo, che hanno fatto un leader di uno “che non ha mai letto un libro”... uno che non sa nulla di nulla, né di storia, né di economia né di finanza”. Continua Bocca: “Non sarà un caso che il mondo dello spettacolo abbia quasi annullato la classicità, e produca decine di film su miti celtici e nibelungici. Non è un caso che il giullare Bossi sia passato dal Ruzzante ai riti ed ai simboli della tavola rotonda.  Bossi è un personaggio di grande fama e di piccola statura, ma ha un suo fiuto nel capire gli umori o i miasmi che salgono dal passato remoto...: un certo neopaganesimo, una dissacrazione pagana, celtica della Chiesa di Roma, che dà un fremito alle memorie del sangue dei dolmen e degli dei delle foreste. E’ una violenza di Brenno che può durare finché nessuno gli rompe in testa il suo spadone di cartapesta.”

    Il 15 Settembre, a preghiera all’Eridano avvenuta, Francesco Erbani interroga sull’argomento esperti nel tentativo di rintracciare fonti più precise per questa Celtic Renaissance padana.
    Franco Cardini si stupisce: “Mi meraviglia che abbiano adottato i Celti, la cui storia rimanda più all’idea di integrazione che non di secessione”. Enzo Pace, sociologo delle religioni, parla di un “pastone, assemblaggio di frammenti”: “Nella storia dei Celti non c’è solo l’epopea della ribellione a Roma. Si sofferma lì solo chi legge unicamente i fumetti di Asterix .” Pace, dopo aver rilevato che questo bagno di paganesimo avviene poco dopo l’espulsione della cattolica Pivetti, sottolinea il fatto che la Lega ha recuperato i Celti e non i Longobardi che “arrivati in Italia abbandonarono il retroterra europeo, quei rapporti oltre le Alpi che a Bossi servono e che i Celti assicurano.”


    Il paradosso della Chiesa italiana
     
    Come vedremo più avanti, probabilmente la molla che fa scattare il recupero celtico della Lega è leggermente diversa. In ogni caso già da questa prima panoramica ‘a caldo’ le fonti di Bossi sono chiare: agli osservatori i Celti leghisti si presentano come un assemblaggio di modelli tratti dal cinema e dai fumetti, che fa sorridere gli studiosi seri ed arrabbiare la Chiesa.

    Delle prese di posizione di Irene Pivetti, cattolicissima ex presidente della Camera, si è già detto. Ma poco tenera è anche la voce ufficiale della Chiesa. L’Osservatore Romano infatti bolla come eretica la secessione di Bossi e le sue idee neopagane. Contro Bossi si schierano apertamente il cardinal Martini, arcivescovo di Milano ed il cardinal Ruini.

    Gli ambienti cattolici non mancano di mettere in evidenza l’avversione della Lega verso il Vaticano.In questo blog vengono raccolte le espressioni  anticlericali più colorite delSenatùr

     

    Eugenio Scalfari nota il paradosso di una Chiesa che diviene così la sentinella dell’Unità d’Italia, quell’unità che lei stessa nell’Ottocento aveva tenacemente osteggiato: “La gerarchia ha fiutato puzza di razzismo...di ideologia anticristiana ed ha giudicato che toccava a lei intervenire per bloccare un movimento così radicalmente e pericolosamente antitetico alla dottrina... Se si predica la divinizzazione del fiume, e si disconosce la preghiera fondamentale della cattolicità..questo non riguarda più Cesare, ma Dio, perché ferisce al cuore la dottrina e la cristianità storicamente realizzata.”

    I Celti di Bossi quindi sarebbero nati da un incontro fortuito fra Asterix, Conan il Barbaro e la tendenza neopagana insita nella società moderna che la Chiesa combatte. Ma sarà proprio tutto qui?
     

    Celti, Camice verdi, Sole delle Alpi : la cultura esoterica e le radici del nazismo.

    Asterix, Conan il Barbaro, il diffuso interesse per il mondo delle leggende celtiche e germaniche non bastano da soli a chiarire perché la Lega, dovendosi scegliersi un mito fondante, ricorra proprio a quello celtico. Tale scelta lascia spiazzati, come abbiamo visto, autorevoli storici e sociologi, che la giustificano con la necessità di trovare un collante etnico che unifichi le popolazioni del nord Italia e le metta in relazione con quelle della Germania e del Nord Europa in generale. Ma i miti, persino quelli utilizzati nella propaganda politica, ben raramente vengono scelti sulla sola base di motivazioni utilitaristiche. I Celti di Bossi fin dal loro primo apparire non hanno mancato di far correre brividi di disagio lungo la schiena di molti. La Lega con la sua ampolla druidica, i riti pagani dell’acqua, le schiere di giovani camice verdi pronte a buttarsi nel fuoco per il loro leader carismatico hanno immediatamente richiamato alla memoria altre adunate, altre schiere di giovani, in camicia, però, bruna. L’ombra del Nazismo si è stesa sulla pianura Padana. C’è un collegamento diretto od intuibile fra la scelta di un certo apparato mitologico e la struttura che la Lega si sta dando? I collegamenti fra Lega e Nazismo sono solo il frutto di isterismo collettivo, voglia di demonizzazione dell’avversario o sono invece determinati dal fatto che entrambi i movimenti hanno una  qualche origine comune, una matrice che determina la presenza di talune affinità di comportamento ? E il recupero celtico non farà parte di questa matrice comune?

    Giorgio Bocca esclude ogni possibile rapporto di diretta filiazione o di contatto fra i due movimenti: “Come ideologia, come contesto storico, il paragone con il nazismo è privo di qualsiasi serietà. Ma sul piano del folklore, della cultura reazionaria, il paragone è pertinente e impressionante. Le parate della Lega, le feste della Lega sono simili per cattivo gusto, per l’improbabilità storica, per il cheap folkloristico a quelle della Germania del ‘36”.

    Il linguaggio, spesso violento della Lega e le immagini adoperate, che richiamano la propaganda politica delle dittature novecentesche, sono analizzati dal punto di vista linguistico in questo numero di “Storia culturale”

     

    Sostanzialmente concorde ma preoccupato anche Michele Serra: “Una crisi sociale ed economica grave ha fatto da innesco ad un inquietante movimento nazionalista... guidato da un classicissimo tipo paranoico che si crede davvero l’incarnazione dello Spirito del Nord....Quando avremo finito di ridere del dio Eridanio e di altre consimili fregnacce forse ci renderemo conto che i tedeschi, prima di Hitler, sapevano di essere ariani quanto i Lombardi ed i Veneti sanno di essere Celti. Pure, allora, ci hanno creduto a milioni.” Intervistato sul Corriere della Sera George Mosse dichiara: “La mitologia leghista messa in scena sul Po è quanto di più vicino ai rituali politici fascisti io abbia sentito dalla fine della guerra... Dal momento che non ha trovato un mito bell’e pronto (Bossi) si è messo a costruirlo. Il vecchio dio Po gli serve a farne nascere uno nuovo.” Dunque i richiami ai Celti di Bossi, il suo paragonare l’ampolla del Po al Santo Graal ricorderebbero la propaganda nazista, più ancora che quella fascista legata alla ripresa della romanità, per una pura convergenza casuale. Entrambi riprenderebbero l’immagine del medioevo come luogo barbarico:“Terra vergine di sentimenti elementari, al di fuori di ogni legge, dark age per eccellenza. Ma in quel buio si desidera vedere una luce “altra”. ..Esso è per vocazione a disposizione di ogni sogno di barbarie e di forza bruta trionfante, ed ecco perché viene sempre, da Wagner a Frazetta, sospettato di nazismo. E’ nazista ogni vagheggiamento di una forza che non sappia né leggere né scrivere.”

    Dunque il punto di contatto fra nazismo e Lega sarebbe proprio questo culto della forza fine a se stessa, contraria o sospettosa della cultura, ed i Celti risulterebbero scelti a caso tra i vari popoli barbari che avrebbero potuto candidarsi al ruolo di inspiratori.


    Nazisti inventati

    Ma andando un po’ più a fondo nello studio di testi propagandistici prodotti in seno alla Lega ci si rende conto che gli sviluppi simili di Lega e partito nazista potrebbero anche essere meno casuali di quanto sembra e la scelta dei Celti connessa ad un comune ambito di riferimento culturale, bazzicato sia dai nazisti degli anni ’30 sia da alcuni appartenenti alla Lega in periodi più recenti.

    Il 7 Ottobre ’96 viene pubblicato sul foglio Lega Nord - Padania indipendente n°37, organo ufficiale della Lega Nord, un articolo di Gilberto Oneto, ministro della Cultura nel Governo Sole della Padania, “Il Sole delle Alpi sorge sulla Padania”, apparso in parte già nel 1995 sul primo numero di Quaderni Padani, rivista che cura “lo studio e la promozione della cultura padanista, con testi sulla storia e sulle varie espressioni culturali dei popoli padano - alpini”.  

    Gilberto Oneto, Giuseppe Aloé e Davide Fiorini spiegano il significato del sole padano dalle pagine di“Quaderni Padani”

     

    L’articolo presenta il nuovo simbolo della bandiera padana, il Sole delle Alpi appunto, un cerchio in cui viene inscritto un fiore a sei petali “ radicato”, a detta di Oneto, “ nella memoria popolare ( ?) e famigliare (sic !) ad una intera comunità di popoli.” Il simbolo avrebbe radici celtiche “la Ruota solare o croce celtica” sarebbe “la personificazione mitologica del dio Lug... la cui immagine è all’origine di tutti i soli che sono comuni nell’iconografia dell’area alpina.” Il sole celtico avrebbe legami con la simbologia cristiana (Cristo ha l’epiteto di Sol Invictus) e collegato alle dottrine magiche che difendono dagli spiriti cattivi nonché alla simbologia alchemica. Non pago di ciò, Oneto continua : “Legato alla ruota è il significato di rotazione che accomuna una vastissima gamma di segni antichissimi, dal Triscele alla Svastica... risulta facile ed immediato il suo accostamento con il Chrismon, monogramma formato dalle iniziali del Cristo...questo somiglia e forse deriva dalla runa Hagal che significa contente il tutto” Oltre che il Chrismon, la cultura celtica avrebbe inventato anche il concetto di trinità, poi passato al cristianesimo.

    Fermiamoci qui. I concetti riportati nell’articolo, infatti, per quanto possano apparire farneticanti, non sono di certo nuovi. Essi sono tutti ripresi (assieme alla dea Sole parimenti citata nell’articolo in un passo non riportato) dall’antica tradizione ermetica iniziatica che, presente in Europa fin dal periodo rinascimentale, è riemersa con prepotenza durante gli ultimi anni dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento. In questo arco di anni fiorisce in Europa, specialmente in Inghilterra e Germania, una pletora “di associazioni e cenacoli la cui caratteristica consisteva nel ritenersi depositari di una antica sapienza primordiale che in alcune sue manifestazioni sfociava nell’esoterismo, nell’occultismo e nel magismo...Nel 1897 un gruppo di studenti liceali viennesi fonda una associazione che assumeva la denominazione Die Telyn, un’arpa i cui suoni paramagici esprimevano la creatività delle popolazioni celtiche del Galles meridionale” In questi cenacoli si incrociano ciarlatani, intellettuali, futuri arbitri della storia d’Europa, da Madame Blavansky a Yeats a Hitler. In essi Fabre d’Olivet, un famoso occultista, “elabora una staordinaria epopea, volta a dimostrare la prevalenza dei Celti su tutti gli altri popoli ed il valore esemplare dell’impero teocratico fondato dal druido Ram seimila anni prima di Cristo. Ram diviene Rama in India, Osiride in Egitto, Dioniso in Grecia.”

    In questa cultura i Celti, legati agli Iperborei ed al mito d’Atlantide, nonché alla leggenda del Santo Graal, sono una sorta di popolo eletto. Hitler e lo stato maggiore del nazismo si formano all’interno di questi circoli, così come Yeats, poeta vate dell’indipendenza della celtica Irlanda.

    Ora, è evidente che fra Bossi ed Hitler, la Lega ed il partito Nazionalsocialista non vi sono punti diretti di contatto. Tuttavia è interessante notare come i due movimenti, che presentano analogie di struttura e di organizzazione, abbiano alle spalle anche una cultura comune. Le rune a Hitler inspirarono il logo delle SS, a Bossi inspirano il simbolo del Sole delle Alpi, l’uno amava circondarsi di camice brune, l’altro verdi.

     

    Scene di lotta di classe a Ponte di Legno.

    Oltre ai legami con questo “sottofondo esoterico” che in qualche modo fu legato anche alla nascita della cultura nazista, l’articolo di Oneto risulta interessante per indagare altri aspetti della ricostruzione leghista dei Celti. Addirittura illuminante risulta a questo proposito un passaggio finale dello scritto: “Si può sicuramente affermare che si tratta del segno  (ossia: Il sole delle Alpi) più diffuso in Padania nella cultura subalterna, in quella cultura popolare contadina, montanara ed artigiana che è ancora radicata e ricca e che rappresenta il più forte e vitale tessuto connettivo del paese. Anche per questo non ci può essere simbolo migliore del Sol per rappresentare un paese che ha sempre mantenuto una unità culturale anche sotto secolari divisioni politiche e culture dominanti, spesso forestiere ed imposte con la forza o con l’inganno...ora questa terra sta faticosamente lottando per ritrovare la sua cultura più profonda e non può darsi un sigillo più antico, ricco e popolare di questo...ritorno eterno alla propria tradizione.”

    Ancor più duro era stato, qualche giorno prima, una altro articolo sempre uscito dalla penna del “ministro” Oneto, pubblicato nel primo numero del giornale Il Nord, quello diffuso, per intenderci, lungo il Po durante la tre giorni della secessione: “Esiste innanzitutto un’origine comune: la Padania è il paese dei Celti, dei Liguri e dei Veneti che la abitavano dall’inizio dei tempi... I nostri vecchi vivevano in una sorta di età dell’oro prima che sull’Appennino si affacciassero i Romani, con tutto il loro sopraffattorio parafernale...” quella celtica era una società modernissima, con una struttura democratica (i capi venivano eletti) e paritaria (donne e uomini, poveri e ricchi avevano gli stessi diritti)”, dove addirittura l’età dei Celti diviene un regno del Bengodi.

    Oneto stesso spiega : “Il Sol non ha mai avuto utilizzi nobili: esso non esiste nell’araldica nobiliare, e se ne trovano tracce solo insignificanti su manufatti aulici prodotti da culture dominanti. La sua diffusione è invece massiccia nell’arte e nell’iconografia popolare... con particolare rilevanza per tutti i manufatti che sono vitali per la vita della comunità.”


    L’Italia fondata dai Fenici

    La Lega dunque, questa Lega celtica, si presenta come un partito di lotta sociale, che difende gli interessi di un popolo antico, operoso e da sempre vessato da dominazioni straniere. E nella dominazione forestiera che con la forza o l’inganno ha tenuto sotto il suo potere gli sventurati Celti padani non occorre una gran fantasia nel riconoscere Roma, sede nell’antichità del violento impero centralista e in anni più recenti della partitocrazia malavitosa. Uno stato che, sono ancora parole dei Leghisti, è un mostro ignobile, pensato per stroncare i popoli celtici bonari ed operosi: “Ascoltatemi bene perché vi parlerò della morte del nostro popolo, il popolo celtico delle pianure del nord della Padania. Si chiama Stato Italiota - da un ceppo di Fenici. Stanziato nell’epoca preromana nell’attuale Calabria, dispregiato dagli Achei ed abiurato dai Romani, il più gelido dei mostri”.

    In questo ultimo passo (presentato come “Una libera reinterpretazione del Così parlò Zaratustra di Nietzche”), addirittura, lo stato italico non è neppure più un prodotto di Roma, ché almeno i Latini e gli Achei, in quanto indoeuropei di origine come i Celti, un po’ di rispetto se lo meriterebbero (sentenzia ispirato Erminio Boso: “Magari i veri Romani erano persone serie. Ma poi, le infiltrazioni...quando il sangue si tara...”) ma figlio bastardo di Fenici.

    I Celti Padani, vessati da Romani, appaiono quindi nell’immaginario leghista configurati come un popolo di artigiani, magari di piccoli imprenditori che si son fatti da soli, dediti al lavoro, dotati di senso pratico, alieni da ogni grillo per la testa, che non ha tempo da perdere con le fisime della burocrazia e degli intellettuali. Sono insomma la proiezione, in epoca antica, degli elettori tipo odierni della Lega, in lotta con i grandi industriali (la vera aristocrazia del nostro tempo) e con i burocrati ‘foresti’. Lo scontro fra gli interessi di classe si colora di sfumature epiche: non è più una questione di tasse, di riforme istituzionali e federaliste, ma una battaglia storica fra due blocchi contrapposti fin dalla notte dei tempi.


    Misteri del popolo

    Precedenti diretti di questa visione da scontro epico - etnico non si trovano nella propaganda di nessun partito politico del secondo dopoguerra. Di precedenti letterari se ne rintraccia solo uno, anche se non perfettamente coincidente, nel campo del romanzo d’appendice ottocentesco. Nel 1856 Eugéne Sue, il grande inventore del romanzo d’appendice ottocentesco, inizia I Misteri del Popolo, saga storica in cui una famiglia proletaria francese (i Lebrenn, che già dal nome appaiono legati al nome del capo celta Brenno) viene seguita attraverso i secoli e la secolare lotta con la famiglia antagonista dei Plouermel, via via feudatari, legittimisti, capitalisti.

    Sue scrive la saga dal punto di vista socialista, è amico di Mazzini che farà pubblicare I Misteri del Popolo in Svizzera. Tuttavia i suoi Celti proletari vessati rimangono l’unico precedente di questa lotta di classe etnica ambientata a Ponte di Legno, che la Lega ha inventato e diffonde. E’ impossibile determinare se Bossi o qualcuno del suo entourage abbia letto Sue. Di certo la trama e l’analisi delle implicazioni politiche del romanzo sono ricordate in un saggio di Umberto Eco, che ebbe negli anni ’70 vasto successo e circolazione. Non stupirebbe, a questo punto, se l’apparato della Lega, oltre ad Asterix, Conan il Barbaro,  Mel Gibson e l’esoterismo magico, comprendesse fra i suoi padri nobili anche il romanzo d’appendice dell’Ottocento.

     

    III.   La Lega, La Liga e l’assalto a S. Marco.

    Se una notte di maggio un campanile...

    Venezia, notte dell’8 maggio 1997. Al molo di S. Marco attracca un ferry boat proveniente dal Tronchetto. Ma a scendere dalla rampa, invece dei turisti d’uso, è un piccolo tanko militare che si dirige verso il campanile. I vigili in servizio sulla piazza pensano che si tratti della scena di un film. Invece a bordo vi sono otto componenti di un sedicente commando indipendentista, che si asserragliano nel campanile stesso. Il gruppetto tiene la città e l’Italia col fiato sospeso fino alla mattina successiva. Gli occupanti, che si proclamano combattenti della Serenissima, armati ed intenzionati a resistere, dichiarano al sindaco Massimo Cacciari, intervenuto per tentare una mediazione, di essere in attesa del loro ambasciatore ufficiale, Giuseppe Segato, in arrivo a Venezia da Borgoricco, paese in provincia di Padova.

    Segato non riesce ad arrivare in tempo, perché gli otto Serenissimi vengono arrestati grazie all’intervento delle squadre speciali dei Carabinieri. Lo stesso ‘ambasciatore’ viene incarcerato qualche giorno più tardi. Le indagini successive provano che gli otto sono responsabili anche dei proclami indipendentisti diramati attraverso la televisione alcune settimane prima nell’area di Venezia, attraverso un indebito inserimento nelle frequenze della Rai.

    L’assalto al campanile di san Marco non mancò di ottenere una certa risonanza internazionale, testimoniata da questo manga – Gunslinger Girl - che intrattenne i lettori giapponesi sul tanko e le imprese dei Serenissimi


    L’assalto al campanile scatena nell’opinione pubblica vive preoccupazioni, anche se poi, alla luce delle successive scoperte, più che un attentato eversivo sembra un atto inconsulto messo in piedi da un gruppetto di esagitati molto naïf. A rimanere spiazzato è, sulle prime, lo stesso Bossi. A caldo il Senatùr dichiara che gli otto del campanile sono addirittura degli agenti provocatori al soldo dei servizi segreti. Poi, sull’onda della simpatia istantanea che i Serenissimi suscitano nel popolo leghista, cambia parere e li qualifica come patrioti ed eroi. Gli altri partiti politici, dopo un momento di allarme in cui ci si interroga se nel Nordest non si rischi la nascita di nuove forme di terrorismo formato da schegge impazzite della Lega, presto dimenticano gli otto o si limitano a considerarli sempliciotti un po’ bacati.


    Segato, la storia veneta e l’elogio di Trasea Peto.

    Che i componenti del commando-ex operai del padovano che la sera si riunivano in conclavi clandestini per pianificare una fantomatica rinascita della antica Repubblica Veneta - non brillino per astuzia è un dato incontrovertibile. Più interessante invece è il preteso ambasciatore del gruppo, Giuseppe Segato, che dai Serenissimi veniva considerato l’ideologo ufficiale ed il punto di riferimento.

    Segato risulta infatti autore di un saggio stampato e diffuso a sue spese, intitolato Il mito dei Veneti dalle origini ai giorni nostri (Borgoricco, 1996). Il libro è molto utile per comprendere non solo da quale humus sia germinata la bislacca idea dell’assalto al Campanile, ma anche quale tipo di ricostruzione dell’antica storia veneta venga divulgata presso questi gruppuscoli indipendentisti da cui poi prendono origine o spunto, in molti casi, i movimenti politici più noti.

    Segato si propone di tracciare un disegno della storia veneta dalle origini ai giorni nostri. E che la sua prospettiva storica sia rigorosamente venetocentrica (e contrapposta totalmente alla ricostruzione ‘celtica’ della Lega di Bossi) è chiaro fin dalle prime pagine. I Veneti di Segato sono infatti il vero motore della storia d’Europa : “Da alcune aree veneto-indoeuropizzate nel 2° millennio emergeranno popoli quali i Celti, i Latini, i Germani ed i Veneti dell’alto adriatico” sentenzia infatti il nostro saggista a p.9, lasciando intendere che i Veneto-Indoeuropei sono il vero ed unico popolo originario, da cui discendono tutti gli altri.

    Il modello veneto è il motore della storia : (p.22) “Con il verificarsi della consistente penetrazione veneta centroeuropea vengono a fondersi gusti e stili di svariata provenienza nel nuovo aspetto etnico culturale della regione, che da allora ha preso una connotazione così marcata da essere in grado di reagire in modo dinamico e caratterizzante ad ogni impulso della storia.”

    E questo eden primigenio non è turbato da ingiustizie sociali che invece tormentano gli altri popoli coevi: “In contrasto con il mondo indoeuropeo e quanto andava maturando verso Sud (Roma) o verso Nord Ovest (Celti) non sorgeranno caste guerriere o sacerdotali o irreggimentazioni di tipo feudale e/o monarchico, con l’egemonia di una o poche famiglie, con il culto della personalità del singolo a scapito di quella della comunità, e aggressività verso l’esterno a gloria del singolo. (p.22)”  I Veneti di Segato spingono col loro esempio i popoli vicini sulla via della culturalizzazione. Gli Etruschi stessi si civilizzano grazie a questo vivificante contatto : “La civiltà etrusca annovera nella sua essenza anche importanti aspetti Veneto-indoeuropei... a partire dal VII secolo l’Etruria, molto ricca di risorse minerarie, si trova ad essere una regione molto fortunata, perché sotto lo stimolo di civiltà più progredite i suoi abitanti seppero sfruttarle (sic) dando il via ad attività artigianali e mercantili.”(p. 40).

    L’incontro con i Romani è pacifico perché i Romani riconoscono la relativa indipendenza del Veneto, che diviene uno dei centri economici dell’impero, ma ha in sé la forza morale di non abbandonarsi alla corruzione che invece distrugge Roma: “Con la pace augustea prese vita un gran dinamismo cui tutti parteciparono ed il Veneto in modo particolare.. il linguaggio equivoco della storiografia risorgimentale ha indotto a dedurre che la romanizzazione abbia comportato la fine dei Veneti...le alleate giungono a grandi destini, ma raggiunta la ricchezza seguono due vie diverse: Roma prende la via della dissoluzione morale, e cade nei tentacoli della corruzione, Padova conserva saldezza di principi e di costumi.” (p.53)

    Un esempio di questa saldezza di principi è proprio il senatore patavino Trasea Peto, che si batte contro la corruzione dell’Urbe, e di cui Segato tesse l’elogio: “Trasea assurge a simbolo dell’ideale repubblicano (connaturato nei Veneti) con la sua inflessibile opposizione alla vocazione assolutistica della monarchia.” (p.58).


    Sul cattivo uso di fonti buone

    Tralasciando gli svarioni storici, l’esame di questo testo è interessante per chiarire il tipo di mentalità che contraddistingue questo tentativo di storiografia politicizzata a fini secessionisti. Al contrario di quanto avviene con la propaganda leghista, che le radici e le tradizioni celtiche deve, come si è visto sopra, inventarle dal nulla, i Veneti possono contare su una forte identità culturale alle spalle. Quelle di Segato sono, in larga parte, farneticazioni estremistiche. Però le fonti da cui prende spunto per ricostruire la sua fantasiosa visione storica sono reali (effettivamente i Veneti ebbero rapporti buoni con gli Etruschi, pessimi con i Celti, ottimi con i Romani). Segato stesso cita come sue basi gli studi di esperti seri (ad esempio, lo storico Lorenzo Braccesi per la parte storica, e di Aldo Prosdocimi per quella linguistica), seppure travisandone completamente argomentazioni e conclusioni. Al contrario della propaganda leghista, che inventa di sana pianta, la propaganda ‘veneta’ può contare su un background storico alle sue spalle. Del resto che un afflato filologico pervadesse fin dall’inizio il movimento leghista veneto è testimoniato dal fatto che esso nasce ufficialmente per la prima volta come Società filologica veneta, e si prefigge come scopo lo studio, la diffusione del dialetto e della cultura veneta.

    Questa differenza di origini chiarisce anche in parte il perché della spaccatura avvenuta nel 1994 fra Liga Veneta e Lega Nord. Oltre al fattore economico (il Nordest è un’area troppo forte produttivamente per accontentarsi di accettare passivamente la politica decisa dai ‘padani’ di Milano, che spesso capisce poco quanto la vituperata Roma le esigenze reali del territorio), culturalmente il Veneto si trova ad avere una identità che, per quanto confusa, travisata e creata sulla base di fraintendimenti, è reale e diversa dalla vulgata ‘celtica’ che Bossi ha costruito. Non stupisce quindi che nelle farneticanti ricostruzioni ideologiche dei gruppi come quello di Segato, - che non sono ‘schegge impazzite’ della Lega, semmai piuttosto sono nuclei che preesistevano al fenomeno Lega e non si sono mai integrati con esso - la propaganda celtica di Bossi non trovi il minimo spazio, anzi l’immagine dei Veneti sia messa in antitesi con quella dei Celti pretesi precursori di Bossi. I Celti di Bossi, in questo caso, hanno fatto il calderone, ma il coperchio no.

     

    Celti in pensione: la svolta di Salvini

    Settembre 2010: nel Comune di Andro (BS) viene inaugurata una scuola elementare destinata ad assurgere immediatamente all'onore delle cronache nazionali. Nonostante si tratti di un edificio pubblico, il sindaco Oscar Lancini non solo l'ha voluta intitolare a Gianfranco Miglio, ideologo della Lega Nord, ma si è anche premurato di fornirla di arredi con sopra stampigliato ovunque il simbolo del Sole delle Alpi. Il logo campeggia sulle finestre, sui banchi, sui muri, dove per altro vi sono esposti anche dei crocefissi “imbullonati”, per evitare che qualcuno possa tentare di toglierli. «Li abbiamo fissati con le viti - precisa il sindaco Lancini - perché a nessuno venga in testa di toglierli o di coprirli. Viviamo in uno stato laico ma la nostra religione non si discute, neppure in una scuola frequentata per il 7% da immigrati».
    La vicenda finisce sui giornali, lo scandalo è enorme, e l'anno dopo il sindaco Lancini viene condannato dal tribunale alla rimozione di tutti i simboli, e al pagamento di 800 euro di spese legali, dopo un esposto presentato dalla CIGL per discriminazione sul luogo di lavoro.

    La trovata del sindaco leghista (per altro arrestato qualche tempo dopo perché coinvolto in una indagine su appalti truccati) rappresenta anche l'ultimo episodio in cui la simbologia celtica viene riproposta dal partito. Con il passare degli anni, infatti, i riferimenti al mito celtico ed alla simbologia pagana all'interno dello stesso partito vengono scemando: persino all'interno delle feste leghiste i gruppi di militanti in costume diventano sempre più sporadici e folkloristici, mentre i big del partito non fanno più riferimento nei loro discorsi alle origini celtiche del nord Italia.

    La Lega, infatti, ha deciso per un riposizionamento ideologico: da partito “identitario” del Nord e partito genericamente di centro-destra, che vuole pescare voti ed elettori al di là della loro provenienza geografica. In questo contesto, anche la propaganda è cambiata: da un lato si sottolinea non tanto la diversità etnica fra Italiani del Sud e del Nord, come nei primi tempi, ma fra Italiani ed immigrati. In questo già il sindaco di Andro si dimostra indicativo della svolta: sebbene legato all'immaginario del Sole delle Alpi, la sua politica era poi fortemente indirizzata contro gli stranieri, che nel paese erano stati esclusi con una delibera comunale (poi abrogata e considerata illegittima dal Tribunale) sia dai contributi per l'affitto della casa sia per il cosiddetto “bonus bebé”. Inoltre la svolta è chiara anche nella dichiarazione sui crocifissi: mentre nei primi anni la Lega si era messa in aperto conflitto con la Chiesa, vagheggiando quasi la fondazione di una “religione alternativa” che recuperasse i miti e i riti celtici, adesso invece i Leghisti si presentano come i guardiani della tradizione cattolica, pronti a difendere e ad imporre il crocifisso nei locali pubblici, in funzione antislamica.

    Il nuovo corso della Lega è sicuramente legato al passaggio della segreteria in mano a Matteo Salvini. Nonostante Salvini si sia speso in passato per difendere il simbolo del Sole della Alpila sua “fede” nei miti celtici è sempre apparsa piuttosto all'acqua di rose, ed il suo intento politico pare quello di affrancare la “sua” Lega da queste zavorre ideologiche celtiche, per trasformarla in un partito di destra sul modello di quello della Le Pen in Francia.

    La politica odierna mescola simboli appartenenti a tradizioni diverse; cambia la strategia, che ormai guarda a questioni che possono interessare l’intera popolazione italiana, come la polemica contro l’euro. Questo è l’invito al raduno di Pontida del 2014. L’immagine fa riferimento ai raduni nel “pratone” tradiziona. Il nuovo raduno si svolge in un’ “area feste”


    La Lega, insomma, si presenta come il partito della difesa della tradizione e della “razza” italiana: è antislamica, cristiana, aperta ad accogliere anche gli Italiani del Sud ed e di ogni origine geografica. I celti leghisti non sono dunque più funzionali alla sua propaganda, e infatti i simboli stessi fondanti della Lega delle origini (l'Alberto da Giussano ed il Sole delle Alpi) seppure restano nel simbolo elettorale passano in secondo piano rispetto al nome del segretario, Salvini, garante e propugnatore del “nuovo corso”.

    Gli intellettuali della prima ora, che avevano contribuito con i loro scritti a fondare il “mito celtico” risultano marginalizzati ed appannati. Gianfranco Miglio è morto, Gilberto Oneto molto marginalizzato. L'intero “circolo magico”, poi, che era cresciuto all'ombra di Bossi e che pareva coltivare interessi esoterici e collegati al mito celtico, è stato falcidiato dalle inchieste della magistratura e ha perso ogni ruolo chiave nel partito. Così i pacifici Celti leghisti sembrano destinati ad andare in pensione, silenziosamente, e ritirarsi negli antri di qualche museo, senza più occupare la ribalta della politica nazionale. Forse, per loro, è meglio così.

     La “festa dei Popoli Padani” del 2014 si svolge alla presenza degli uomini politici più importanti della Lega, da Bossi a Salvini, ma “La Padania”, che ne dà notizia, non fa cenno a Celti e a Tradizioni (termini peraltro scomparsi nell’indice analitico del giornale, insieme con Pontida e Alberto da Giussano), e illustra l’articolo con un Monviso, ritornato ad essere una semplice (e bella) montagna alpina
        

    Bibliografia

    ALFONSO, D. "Bossi al mare : la secessione nautica", in Repubblica 5/8/’96, p.10
    BIANCHIN, R. “ Così il dio Po divide i buoni dai cattivi” in Repubblica 30/8/’96, p. 8.
    BOCCA, G.”Solo adesso scopriamo che Bossi - Braveheart proviene dal medioevo” in Espresso, 29/8/’96, p.7
    BRUSADELLI, S : “I  Veneti alla prima crociata”, in Panorama del 14 / 11/ 1996, p. 65-66.
    ERBANI, F. “ I riti presi dai Celti tra storia ed Asterix” , da Repubblica, 15/9/’96, p. 7
    DEL FRATE, C -SPATOLA, G., La scuola appaltata alla Lega, http://www.corriere.it/cronache/10_settembre_12/scuola-appaltata-lega_2f751f96-be42-11df-b1cc-00144f02aabe.shtml
    FERTILLO, D. “Ricorda i Miti del totalitarismo” in Corriere della Sera, 15/9/’96, p. 3.
    FUCILLO, M. :”Da Ghandi a Feltrinelli”, in Repubblica 10/8/’96, p. 1
    GALLI, G. : Hitler ed il Nazismo magico, Milano, 1989
    LAGO, G. :“ Roma dorme, Bossi corre”, in Repubblica 9/8/’96, p. 1
    MESSINA, S. : “ Auto, barche ed aerei, così la Lega prepara la marcia sul Po”, in Repubblica 10/8/’96, p.2.
    ONETO, G. in Il Nord- padania Indipendente n.1 . Cfr Stella G. A. Dio Po, cit. pp. 211-214
    PASSALACQUA, G. “Pronta la nuova Lega”, in Repubblica 30/ 8/ ’96, p. 8
    PASSALACQUA, G. “Senatùr leader unico ma il partito lega ha mille facce” in Repubblica, 31/8/’96 p.8
    SCALFARI,  E. “I nuovi pagani del Po” in Repubblica, 15/9/’96, p.1
    SERRA, M. in Unità, 14/9/’96,p.1
    STELLA, G. .A., Dio Po, Baldini e Castoldi, Milano, 1996
    STELLA, G..A. “ l’acqua è la carne di noi padani”, in Corriere della Sera, 14/9/’96, p..3

  • Il laboratorio del tempo presente

    Diario di bordo, Bari 19 febbraio

    Ne sostengo la necessità da molti anni. Dobbiamo imparare, prima noi, ad analizzare il nostro tempo, e dobbiamo insegnare a farlo ai nostri allievi. A questo scopo, internet non sempre risponde bene. Troppo spesso, anzi, alimenta quel circolo fra fatti e eventi, che non ci permette di guardare le cose un po' dall'alto. Per questo, ci servono gli studi, quelli seri. Magari più tosti da leggere e capire, ma nei quali troviamo le dritte per ricostruire vicende che abbiamo vissuto, cercare qualche filo conduttore valido e facile da spiegare.

    A me è piaciuto molto questo articolo(“I soliti comunisti”: Il discorso anticomunista in Italia dopo il 1989 - Il Calibro.com), di Andrea Mariuzzo, precario di lusso, dal momento che ha studiato a Harvard e a Parigi. L'anticomunismo è una delle categorie politiche più usate. Come si analizza dal punto di vista di uno studioso di scienze politiche (e di storia attuale, mi viene da aggiungere)? Come trasformare "l'anticomunismo" in un concetto scientifico, e quindi adoperabile in un processo di formazione alla storia?

    Troverete in questo articolo molti eventi e fatti, che o avete vissuto, se lo avete fatto abbastanza come me, oppure avete ascoltato o citato nei discorsi pubblici sul passato recente. Mariuzzo li sistema e ce ne dà una chiave di comprensibilità, splendidamente aperta sul presente. Per questo è un ottimo saggio, da inserire nella nostra biblioteca.

    Ovvio che per gli allievi odierni, tutto questo non sarà percepito come "un fatto reale e presente". Ovvio che non ne sanno nulla e che per loro sarà quasi la stessa cosa che ascoltare la storia di un feudo. Ovvio che avranno bisogno di cronologie certe (che paradossalmente pretendiamo per la storia di Roma e non curiamo per la storia più recente). Ovvio che ci dobbiamo lavorare, e che non ci aiuta quasi nessuno.

    Ma se non lo facciamo noi, chi lo farà?

  • Il Laboratorio del Tempo presente

    CONVEGNO DI FONDAZIONE

    Una rete necessaria

    Lo studio della storia “molto contemporanea” è un’emergenza formativa, che, alla svolta del secolo, è diventata ineludibile. Come si constata da più parti, gran parte degli insegnanti non riesce a inserire nel curricolo lo studio strutturato degli ultimi decenni, mentre i cosiddetti “temi di attualità” sono spesso oggetto di trattazione saltuaria o vengono affrontati in discipline diverse dalla storia.

    Tempo presente

    Moltissimi allievi italiani, quindi, concludono il loro processo formativo privi di quella strumentazione storiografica che permetterebbe loro di capire fenomeni quali la globalizzazione, il rapporto fra locale e globale, i cambiamenti politici, antropologici, culturali, demografici e ambientali che segnano l’affermarsi di quello che – a giudizio concorde della comunità storiografica – è da considerarsi un periodo storico nuovo, con caratteristiche profondamente diverse da quel Novecento classico che, al momento attuale, sembra il terminus ad quem delle programmazioni di storia italiane.

    Al tempo stesso, lo studio della storia “molto contemporanea” sembra il terreno ideale per favorire il confronto fra i portati delle memorie (pubbliche e individuali) e quelli della ricostruzione storiografica. Ricerche recenti, ma ormai consolidate, mostrano come proprio in questo confronto si attivino i processi di formazione di quella “coscienza storica” che dovrebbe essere l’obiettivo centrale della formazione storica dei cittadini.

    Il laboratorio del tempo presente

    Un Laboratorio del tempo presente appare la struttura ideale dove mettere in gioco queste dinamiche formative, perché propone di lavorare sul rapporto fra l’oggi e le storie passate; fra i soggetti che studiano e i processi storici nei quali sono coinvolti. È, dunque, il luogo dove la strumentazione storiografica (ma potremmo aggiungere anche quella acquisita in altre discipline), lungamente preparata nel corso del curricolo, si mette alla prova nell’interpretazione dei fatti “caldi” – quelli che nella letteratura didattica internazionale si chiamano “questioni sensibili” – del presente.

    Il lavoro della rete

    Quest’obiettivo verrà declinato dalla rete attraverso due azioni:

    • L’allestimento di un sito presso il quale i docenti possano trovare materiali, proposte di lavoro e testi di didattica storica intorno alle questioni sensibili; presso il quale possano discutere dei problemi relativi al loro insegnamento.
    • L’allestimento di forme di aggiornamento (corsi e scuole di formazione).

    I partecipanti al progetto, dunque, si divideranno in gruppi di lavoro che:

    • cercheranno nel web materiali (libri, articoli, conferenze, dati) sui temi di particolare sensibilità (ambiente, emigrazione, pace e guerra, terrorismo ecc.);
    • produrranno proposte didattiche secondo l’ampio ventaglio di modelli che verranno proposti nel corso di fondazione: laboratori, giochi, storytelling, debate, ecc.
    • produrranno proposte di riorganizzazione dei contenuti, sia dell’ultimo anno, sia dell’intero quinquennio.

    A questo progetto partecipano le scuole che aderiscono alla rete e quelle che vorranno aderire. E porte aperte a tutti gli insegnanti e i ricercatori che vorranno dare una mano.

     

    IL LABORATORIO DEL TEMPO PRESENTE

    Il convegno

    Capalbio, 21-22-23 marzo 2019

     

    PROGRAMMA

    Giovedì, 21 marzo

    h. 14.30. Saluti e accoglienza

    h. 15.00. Antonio Brusa: presentazione del corso

    h. 15.15. Antonio Brusa: Un curricolo di storia per il Tempo presente

    h. 16.00. Alberto De Bernardi: Tra XX e XXI secolo: concetti e processi fondamentali

    h. 16.45. Break

    h. 17.00-18-30. I gruppi di lavoro: presentazione e discussione

     

    Venerdì, 22 marzo

    h. 09.00. Antonio Brusa: presentazione dei lavori della giornata

    h. 09.15. Pino Bruno: La ricerca delle fonti in rete

    h. 10.00. Lavori di gruppo

    h. 11.00. Break

    h. 11.15. Lavori di gruppo

    h. 13.00. Buffet

    h. 14.30. Plenaria: Analisi e comunicazione dei lavori di gruppo

    h. 16.00. Gita a Saturnia

    h. 20.00. Cena

     

    Sabato, 23 marzo

    h. 09.00. Antonio Brusa: presentazione dei lavori della giornata

    h. 09.15. Lavori di gruppo

    h. 11.00. Break

    h. 11.15. Plenaria: discussione e proposte di lavoro

    h. 13.00. Chiusura del corso

    Le persone

    Direttrice: Anna Maria Carbone

    Coordinatore: Antonio Brusa

    Comitato scientifico: Alberto de Bernardi (Unibo), Claudia Villani (Uniba), Pino Bruno (direttore “Tom’s Hardware”), Antonio Fini (IC Sarzana, La Spezia), David Nadery (IIS “Cassata Gattapone”, Gubbio), Francesca Alunni (Liceo Classico “Properzio”, Perugia), Lucio Bontempelli (IC “L.S. Tongiorgi”, Pisa), Carlo Firmani (Liceo Classico “Socrate”, Roma).

    Comitato tecnico e segreteria: Cristina Guidi e Giacomo Prestifilippo (Ici Manciano/Capalbio)

    Relatori e tutor: Antonio Brusa (Uniba), Alberto de Bernardi (Unibo), Pino Bruno (direttore “Tom’s Hardware”), Cesare Grazioli (IISS Blaise Pascal, Reggio Emilia), Marco Cecalupo (IC Leonardo Da Vinci, Reggio Emilia), Giuseppe Losapio (IISS Aldo Moro, Trani), Nadia Olivieri (IC 17 Montorio, Verona ).

    I partecipanti

    Il corso è rivolto sia ai docenti delle scuole che aderiscono alla rete, sia ai docenti interessati di tutto il territorio nazionale. Docenti di storia, ma anche di altre discipline che pensano di poter collaborare con noi. Saranno utilissimi anche docenti con competenze digitali, dal momento che il lavoro in rete sarà una componente fondamentale di questo progetto.

    Le modalità di lavoro

    Non aspettatevi un corso dove ci si limita ad ascoltare. In questo corso si discute, si progetta e si lavora insieme. Ci sono solo tre lezioni frontali. La maggior parte del tempo sarà destinato a lavori di gruppo, durante i quali si esporranno i mediatori didattici da adoperare nel laboratorio (nuovi materiali manualistici, laboratori, modelli di debate e di storytelling adatti alla storia, giochi per affrontare sia problemi sia per sveltire l’insegnamento curricolare) e le tecniche professionali per cercare in rete notizie affidabili. Durante i lavori, inoltre, ci si suddivideranno i compiti per la realizzazione del sito e la sua gestione. Si discuteranno le iniziative successive della rete.

    La logistica

    Capalbio, in provincia di Grosseto, è raggiungibile via treno o autostrada. L’aeroporto più vicino è quello di Roma Fiumicino. Arrivo consigliato il 21 marzo ore 14.00 circa alla stazione di Capalbio Scalo (linea Roma-Pisa). Gli spostamenti da e per la stazione saranno a cura dell’organizzazione (i partecipanti sono pregati di informare l’organizzazione degli orari di arrivo e partenza).

    • Le lezioni in plenaria si svolgeranno a Capalbio, presso “Il Frantoio”.
    • I gruppi di lavoro presso la scuola adiacente.
    • I partecipanti al corso verranno alloggiati presso l’Hotel “Valle del Buttero”, di Capalbio;
    • Il pranzo dei giorni 22 e 23 sarà a buffet.
    • La cena del 21 sarà presso il ristorante “La porta” di Capalbio.
    • La cena del 22 sarà a Saturnia.
    • Il trasferimento A/R e la gita a Saturnia sarà a cura dell’organizzazione.

    Per contatti

    Per la segreteria organizzativa e logistica: Cristina Guidi (ore 14-18 escluso sabato e domenica); tel. 3939463554:
    mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

    Giacomo Prestifilippo (ore 14-18 escluso sabato e domenica); tel. 3383623098;
    mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

     

    Scarica il modulo di iscrizione

  • Il laboratorio del tempo presente. Ucraina.

    di Antonio Brusa

    1395136612Fig.1 Il cosacco ucraino e il mugiko russo si confrontano in questo disegno umoristico FonteNe abbiamo parlato spesso. Ora è il momento. La guerra entra nelle nostre case, i ragazzi non fanno che parlarne. Hanno i loro strumenti di informazione. Tik Tok li tiene al corrente dei fatti e diffonde interpretazioni incontrollate. Noi adulti siamo con gli occhi fissi sui programmi di approfondimento delle varie reti.

    Proviamo a imbastire il laboratorio.

    a. Le fonti. Nel corso della guerra sono il problema reale. Le informazioni, soprattutto quelle rilasciate dai soggetti implicati nel conflitto, fanno parte della guerra. Lo siamo anche noi, in Italia, per quanto non direttamente, per fortuna. Quindi occorre fare attenzione: chi rilascia l’informazione? qual è il suo scopo? È possibile incrociare le informazioni? Difficile trovare un soggetto perfettamente neutrale. Anche un sito pacifista, dichiaratamente neutrale nel conflitto, non lo sarà nelle informazioni, dal momento che ha uno scopo politico, nobilissimo certo, ma potenzialmente in grado di orientare il suo punto di vista.
    b. La chiacchiera televisiva. Tendenzialmente ne farei a meno. Userei solo le dichiarazioni degli attori della crisi. Farei eccezione per interventi di studiosi riconosciuti (ai quali venga lasciato il tempo giusto di esprimere un’opinione compiuta).
    c. Le fonti privilegiate dei ragazzi. Tik Tok, i social? Riproducono le altre fonti? Hanno qualcosa di particolare?
    d. Un sito di riferimento? Come abbiamo visto nel caso del Bataclan qui su HL, non esiste in Italia un sito della P.I destinato a soccorrere i docenti in frangenti di questo tipo. Tuttavia, il sito dell’Ispi è ben informato. Soprattutto segue la questione da tempo (non si è improvvisato esperto dell’Ucraina). Ovviamente si deve tenere conto che è un sito italiano, vicino tradizionalmente al nostro ministero degli esteri.
    e. Bibliografia e sitografia: da valutare con cura (spero che HL possa reclutare qualche esperto che ci aiuti).

    fd777ee126b8b6ce2b6f7e266737 1587349Fig.2 FonteCosa fare in un laboratorio del tempo presente?

    a. Si parte da un punto fermo, ineludibile: la Russia ha invaso l’Ucraina e sta bombardando (anche) obiettivi civili. Per quante attenuanti e motivi a favore possa avere, si tratta di una violazione del diritto internazionale indiscutibile.
    b. Produrre una timeline. Potrà essere di diversi tipi. Quella recente (dal 1991) e quella di lungo periodo, dall’Ottocento ad oggi: la politica zarista, la prima guerra mondiale e la prima proclamazione di indipendenza dell’Ucraina, il periodo sovietico e l’holodomor, la guerra mondiale e le stragi etniche relative (ebrei, polacchi residenti in ucraina, ucraini residenti in Polonia, ecc.), il dopoguerra, Chernobyl, il 1991 e la proclamazione dell’indipendenza, la politica culturale ucraina e russa (tese entrambe ad esasperare i rispettivi nazionalismi). Su questo, probabilmente potranno essere utili i miei due articoli sull’Ucraina, pubblicati su “Historia Magistra” (2017). Potrà essere di aiuto anche un buon manuale.
    c. Analizzare i soggetti implicati direttamente. Si può preparare una scheda economico/militare, e una nella quale si registrino le cause (soggettive) del conflitto, gli obiettivi politici, alleanze, le prospettive
    d. Analizzare i soggetti implicati indirettamente (Cina, Europa, Turchia, altri paesi)
    e. Analizzare l’attività delle organizzazioni internazionali (a partire dall’ONU)
    f. Analizzare per quanto possibile le fonti. È ovvio che la critica delle fonti è condotta a livello professionale dagli storici. Ma è importante che ci si abitui a considerare i soggetti produttori della fonte, i loro scopi e gli effetti che quella certa notizia ha sul pubblico. Ma è altrettanto importante “accorgersi” della differenza delle fonti. Non spaventiamoci se le fonti sono in lingua: il traduttore dà una buona mano, e con un po’ di discernimento ci permette di capire. Non occorre dar conto di tutte le fonti. Basta anche un lavoro esemplare su alcune.
    g. Ricostruire uno scenario, indicando il grado di certezza degli elementi presi in considerazione (le modalità didattiche saranno a scelta: collettivamente, o divisi in gruppi)
    h. Gli allievi esprimono il loro parere. Quali sono le ragioni degli uni e degli altri. Se ne discute. Lo scopo del laboratorio non è individuare “da che parte sta la scuola, o la storia”, ma mettere in grado gli allievi di esprimere un giudizio motivato.

    È una proposta. Mi piacerebbe che HL riuscisse a fare due cose: dar conto di laboratori realizzati e, in tempi brevi, dare notizie più dettagliare su bibliografie e sitografie affidabili (che per parte nostra cercheremo di preparare).

    Per incominciare, ecco i contributi di Marcello Flores e altri, sul Mulino.

  • Il Sessantotto. Un laboratorio didattico su un anno spartiacque*

    di Antonio Brusa

    PARTE PRIMA: L’EVENTO E LA MEMORIA

    1. Manifesti di un tempo passato

    I manifesti del Sessantotto erano stampati in stretta economia o disegnati, uno per uno, in stanze piene di fumo, dove si ragionava della rivoluzione del giorno dopo. Oggi sono venduti all’asta, a prezzi a volte esorbitanti. Quelli introvabili sono conservati nelle biblioteche, come i quattordici manifesti dai quali Marie Jamet ricava alcuni motivi di quella rivolta: la lotta contro l’autorità, per una informazione alternativa e dunque contro la censura, a sostegno della classe operaia, contro il conformismo.

    Ne riproduco solo due, prodotti dall’Atélier Populaire, un gruppo di artisti che si propose come “designer collettivo delle masse” (alcuni di loro fecero poi una bella carriera), perché ci mostrano - in solo un colpo d’occhio - la lontananza e la vicinanza di quell’evento. La fabbrica novecentesca col pugno alzato è l’icona di una lotta che, a dispetto dello slogan, “non è più continuata”. Invece, il “ritorno alla normalità”, contro il quale inneggia il secondo manifesto, non cesserà mai di attrarre adolescenti ansiosi di apparire anticonformisti, per quanto non sappiano nulla di quel periodo lontano, di quasi mezzo secolo fa, quando i loro coetanei si ribellarono.

    Questa duplicità va ricordata sia nell’analisi storico-didattica di quell’evento (scopo della prima parte di questo lavoro), sia nella elaborazione di proposte didattiche, che vedremo in seguito, nella seconda parte.

    2. «Perché questi studenti protestano?»

    Quella rivolta sorprese la politica e i mezzi di informazione del tempo. Il «Time Magazine», il settimanale più letto in America, quasi non sa che pesci pigliare, al principio di quel fatidico maggio del ’68. Fa sua la domanda che tutti si ponevano: «Perché questi studenti protestano?». Cerca di metterla sul paterno: «Certe volte questi studenti fanno perdere la pazienza anche ai santi», ma rivela tutto il suo disorientamento quando l’unico paragone che riesce a trovare risale a un lontanissimo giorno in cui sant’Agostino si incavolò di brutto con i suoi studenti, licenziosi e scostumati, e se ne andò sbattendo la porta (Per i pignoli, si trattava del 382 d.C: in «Time», 3 maggio 1968). Certo, quel maggio fu bollente nelle università di tutto il mondo. Con buona pace di sant’Agostino, la storia ci suggerisce un solo parallelo: il 1848. Con la differenza, di non poco conto, che le rivolte giovanili erano state, allora, soltanto europee.

    "DaLes révoltes des jeunes, Paris, 1968."/>

    4. Una rivolta mondiale

    Il Manuale degli anni ’60 (The Routledge Handbook of the Global Sixties. Between Protest and Nation Building, a cura di Chen Jan et al., N.Y, 2018, d’ora in poi RH) ci aiuta a inquadrare la dimensione spazio-temporale del fenomeno. Per quanto riguarda il tempo, la rivolta giovanile rappresenta l’emersione di un ribollire che covava da parecchio e non si esaurì col ’68. Gli studiosi americani tendono a far coincidere questo periodo di turbamenti con la guerra del Vietnam (dal 1954 al 1975, dunque). Quelli europei sono più sfumati, perché inseriscono l’evento nel quadro dei cambiamenti antropologici e culturali che caratterizzano “i lunghi anni ’60”. Analogamente, anche la dimensione spaziale pone dei problemi. Infatti, se guardiamo la cartina, vediamo che la rivolta tocca tutti i continenti. Certo, si addensa in Europa e negli Usa: ma dal sud Africa, all’Australia, all’Argentina, non ci sono università che restarono tranquille. Se, tuttavia, guardiamo ai motivi della rivolta, vediamo che questi non sempre coincidono. Tanto che, quando i giovani di tutto il mondo tentarono di costruire una piattaforma rivendicativa comune, la cosa fallì miseramente. Ciò che chiedevano gli studenti italiani contrastava con le attese dei loro coetanei cecoslovacchi, africani o statunitensi, come ci si rese conto nei grandi raduni giovanili che si tennero – proprio in quell’anno - a Lubiana, a Sofia e a New York (Martin Klimke e Mary Nolan, The Globalization of the Sixties, Introduzione a RH, p. 3).

    5. Ribelli diversi

    Ci si ribella ovunque e nello stesso tempo, ma per motivi diversi. Certamente: è difficile accettare l’idea di una simultaneità che coinvolga individui e gruppi sociali per motivi dissimili tra di loro. Tuttavia, è un fatto che quelle convergenze non furono trovate dai ragazzi di allora, e nemmeno sono state individuate dagli storici nei tempi successivi. Questa è la conclusione di Marcello Flores e Giovanni Gozzini nella loro recente opera di sintesi: 1968. Un anno spartiacque (Il Mulino, 2018: d’ora in poi FG). I due storici smontano, una per una, le diverse “cause unificanti” proposte dalla storiografia. Il raggiungimento dell’età adulta da parte della “baby boom generation” è una delle spiegazioni più diffuse. Secondo questa teoria, la fine della Seconda guerra mondiale rappresentò un momento di forte ripresa della natalità. Quei bambini del dopoguerra corrispondono ai giovani che animano le manifestazioni sessantottesche. Tuttavia, questa fascia giovanile, demograficamente preponderante, caratterizzò molte nazioni occidentali, ma non quelle dell’allora “terzo mondo”. Forse, continuano i due storici, l’aspetto più interessante è che questi giovani, ovunque essi fossero, facevano parte delle prime leve popolari di studenti universitari. Erano colti, leggevano, facevano progetti. Probabilmente percepivano con acutezza il contrasto fra ciò che studiavano e la realtà; fra le loro aspettative e la risposta che le Università riuscivano a dare. Erano progressisti, dunque? Non sempre. In Africa, per esempio, provenivano dai ceti più facoltosi, avversi alle riforme socialisteggianti che si tentavano nell’euforia di un’indipendenza appena raggiunta; e se la generazione del baby boom americana ed europea scendeva nelle piazze contro la guerra, quella israeliana “che non conosceva gli orrori della guerra, era pronta a difendere con le armi la propria nazione” (FG, p. 93). Laici e anticonformisti in molte nazioni occidentali, in altrettante parti del mondo musulmano molti giovani vedevano nella Sharià l’alternativa alle ideologie, che giudicavano oppressive, del comunismo e del capitalismo.

    6. Tanti inneschi per una sola rivolta

    Questa diversità è messa ben in evidenza dalle cause immediate, quelle che scatenarono materialmente le sommosse. Le riassumo in questo specchietto (FG, p. 18).

    CittàMotivo della protesta
    Praga Mancanza di riscaldamento
    New York Richiesta di apertura degli alloggi alle studentesse
    Parigi Richiesta di apertura degli alloggi alle studentesse
    Rio de Janeiro Condizioni fatiscenti degli alloggiamenti
    Città del Messico Presenza dell'esercito nell'Università
    Dacca Imposizione dell'urdu a una popolazione che parla il bengalese
    Chennay Imposizione dell’hindi a una popolazione che parla il tamil
    Ankara Divieto alle studentesse di portare il velo
    Addis Abeba Sfilata di moda occidentalizzante
    Cairo Esami di ammissione all'Università troppo difficili

    Sono motivi disparati. Qualcuno di questi ci appare un pretesto decisamente secondario. Nonostante ciò, i partecipanti a queste manifestazioni ebbero tutti la sensazione di condividere un’unica, fondamentale, rivoluzione.

    7. L’azione dei media

    Qui entrano in gioco i media. Il 10 luglio del 1962 era stato lanciato dalla base di Cape Canaveral il satellite Telstar. Permetteva di vedere in Europa una partita di football americano, e a tutto il mondo di guardare in diretta Kennedy che parlava ai suoi. Nasceva la mondovisione. I media introducevano nella storia umana una pratica della simultaneità, come nessuno mai l’aveva vissuta prima. Il Sessantotto rese contemporanei i giovani del mondo.

    “I media rappresentano una condizione indispensabile per la trasformazione delle agitazioni locali”. Senza di loro, queste “non avrebbero risonanza e il loro esempio non potrebbe diffondersi. Di più: i media, trasmettendo motivi e forme delle agitazioni, contribuiscono a dare nuovi significati ai contesti e a trasformare le identità personali e collettive” (FG, p. 17).

    I media giocano una parte rilevante, inoltre, in quell’ “effetto farfalla” con il quale Flores e Gozzini cercano di spiegare perché una quota così piccola di giovani (appena il 4% della loro generazione partecipò ai movimenti) ebbe una risonanza così estesa.

    8. Testimoni privilegiati e generazioni invisibili

    I media, dunque, non si limitano a comunicare i fatti, ma intervengono sull’evoluzione stessa del movimento. Contribuiscono, ancora, alla creazione dei “testimoni privilegiati”, quei personaggi che guidarono i movimenti o ne furono elementi di spicco e che, nei tempi successivi, attraverso la loro storia personale e le loro varie testimonianze, ne hanno costruito l’interpretazione egemone: quella di una baby generation che, occupate le posizioni apicali della società, ha spesso disinvoltamente messo da parte i valori per i quali combatté. Scrive impietosamente Julie Pagis sulle pagine di «Libération»: “La memoria del Maggio ’68 è stata largamente costruita (confiscata) da un pugno di porta-parola autoproclamati, che hanno fatto della loro vicenda singolare e non rappresentativa la storia di una sedicente generazione del ‘68”. Julie Pagis è una ricercatrice che ha cercato ostinatamente i “giovani comuni”, quelli che affollavano le assemblee e riempivano le strade, ma che non erano mai saliti sul palco, dalla parte del microfono. Li ha intervistati, ne ha ricostruito le biografie, la loro partecipazione al movimento, la loro condizione attuale.

    Copertina del libro di Julie Pagis

    Ha scoperto che la “generazione sessantottina”, così come è raccontata nel discorso comune, semplicemente non esiste. I giovani che parteciparono al movimento erano classificabili in un buon numero profili, dalle istanze sociali e politiche disomogenee. Ha smontato altri stereotipi, come quelli sulla “ribellione contro i padri” o sulla “distruzione della famiglia”. Al contrario – scrive la studiosa – quei giovani sono la prova del radicamento delle tradizioni. I figli di comunisti, per esempio, si focalizzano sulla questione algerina, allora un cavallo di battaglia della sinistra francese; quelli provenienti da famiglie cattoliche, invece, si aprono a un terzomondismo quasi missionario. Pur con queste differenze, vissero tutti quel maggio del ‘68 come un trionfo: avevano messo il governo con le spalle al muro. Addirittura lo avevano fatto cadere. Ma per tutti, a giugno, arrivò il naufragio (pavé). Nelle nuove elezioni, De Gaulle vinse con una maggioranza mai vista nella storia repubblicana.

    Per quanto limitato a una nazione, il caso francese potrebbe essere paradigmatico anche di altre realtà. Quei giovani persero, ma la loro vita cambiò. Tutti, ad esempio, diventati genitori, mandarono i loro figli in scuole che ritenevano innovative; tutti conservarono nel tempo una forte sensibilità ai problemi sociali. «Non essendo riusciti a cambiare la vita – conclude Julie Pagis – hanno cambiato la loro vita».

    Potremmo dire che la “generazione del ’68” nacque, paradossalmente, sulle ceneri del movimento.

    9. Il lungo post-sessantotto

    Se non ha prodotto i cambiamenti desiderati, l’azione simultanea di centinaia di migliaia di giovani non è stata effimera, né ha riguardato unicamente la loro vita personale.

    Gustavo Prado Alvarez (Pitin) <br>Le galline hanno il loro numero <br>(riferito all’obbiettivo cubano di produrre <br>60 milioni di uova ogni anno). <br>«Palante», 11 Giugno 1964.

    Ha inciso profondamente nella storia umana, lasciando tracce e cicatrici che sono ancora oggi visibili. Di queste siamo abituati a mettere in evidenza solo quelle che hanno scavato nella storia italiana: l’autunno caldo del 1969; le rivolte sociali e le conseguenti riforme (lo statuto dei lavoratori e il diritto di famiglia fra questi); la stagione triste del terrorismo; una sorta di cronicizzazione del ribellismo studentesco che si perpetuò, sempre più stancamente, nel rito delle occupazioni autunnali delle scuole. E, per restare nelle scuole italiane, il Sessantotto è diventato per alcuni commentatori il male assoluto, a partire dal quale la scuola ha intrapreso il suo percorso di discesa agli inferi (Per tutti, si veda E. Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, 2019)

    Ma se allarghiamo lo sguardo, osserveremo lasciti mondiali non secondari. Una parte di questi ebbe origine dai “paesi non allineati”, un gruppo di stati che, è bene tenerlo presente, operò quando il pianeta era spartito in due blocchi. Eman Morsi, studiosa di letteratura e culture postcoloniali, ne tratta un aspetto insolito, quello dei cambiamenti di dieta in Egitto e Cuba. È un caso solo apparentemente marginale, perché – in realtà – mette in evidenza il modo con il quale negli anni ’60 si concepiva il rapporto fra sviluppo e sottosviluppo. Cuba e Egitto, che vogliono incamminarsi lungo la strada dello sviluppo, promuovono – tra altre riforme sociali ed economiche – l’introduzione di proteine animali nell’alimentazione popolare. Come nei paesi ricchi. Perciò, mettono in atto un grande programma per incrementare la produzione di uova e di polli, e spingere la popolazione a nutrirsene (un’abitudine alimentare che, fra l’altro, è rimasta ed è attualmente interpretata come “tradizionale”).

    Come molti in quegli anni, Castro e Nasser pensano che la storia corra lungo un binario, e che il loro compito (la loro “rivoluzione”) consista nel raggiungere e superare chi sta davanti. Riflettono speranze e modi di vedere – tipici degli anni ’60 – che si trasformarono in disillusioni cocenti nel decennio successivo (E. Morsi, Let them eat Meat, in RH, pp. 565 ss).

    Othman Bahjat, Ecco che succede con Nasser!<br> Lui vuole che la gente mangi noi al posto delle fave!<br> 1963. Nasser Foundation.

    9. Messaggi al mondo

    Il Terzo mondo non parla solo a se stesso, ma lancia messaggi che ebbero una qualche influenza sia sul ’68, sia sulla storia culturale e politica mondiale successiva. Ne scrive Robert Young, studiando la conferenza dell’Avana del gennaio del 1966 (Disseminating the Tricontinental, in RH pp. 517 ss). In quell’occasione, si ritrovarono a Cuba i rappresentanti di 82 di stati, molti dei quali non allineati, tutti anti-occidentali. Vi parteciparono protagonisti delle rivoluzioni sociali e politiche del tempo, come Malcom X, Salvador Allende, Amilcar Cabral. Vi sarebbe andato Ben Barka, se non lo avessero fatto sparire i servizi segreti. Molti di questi avrebbero partecipato poi alla conferenza dell’anno successivo a Londra, con Herbert Marcuse, Régis Debray, Paul Sweezy, Allen Ginzborg, Angela Davis: l’intera biblioteca, potremmo dire, divorata dai ragazzi del ’68. «Questa grande umanità ha detto “Basta!” e ha cominciato a camminare». Questo fu lo slogan del Convegno dell’Avana, che, con l’altro, coniato per l’occasione da Che Guevara, su «due, tre, molti Vietnam», fu tra i più ripetuti nelle assemblee giovanili.

    Quarta di copertina della brochure di preparazione alla Conferenza Tricontinentale, La Avana 1966.

    A quella conferenza presero parte decine e decine di disegnatori, di artisti e di fotografi. Dalla foto di Che Guevara nelle vesti del “Guerrillero heroico”, scattata da Alberto Korda, alle rielaborazioni psichedeliche di volti di politici e cantanti, di film – come Yellow Submarine (1968) - ai poster e alle raffigurazioni stilizzate e astratte («il nostro nemico è l’imperialismo, non l’arte astratta» aveva detto Fidel Castro, mandando in frantumi la tradizione del realismo socialista) troviamo in quel convegno, e nelle pagine del «Magazine Tricontinental» che se ne fece portavoce, l’intero alfabeto iconico che innervò il Sessantotto, ma non morì con questo, perché fu adottato dalle culture alternative e pop fino ai giorni nostri.

    "“IlJohn Birch fu un missionario battista, reclutato dall’esercito americano e ucciso dai soldati comunisti cinesi nel 1945.
    La John Birch Society è un gruppo di estrema destra americano, ancora oggi attivo, considerato fra i grandi elettori di Trump."/>

    11. Globalizzazione alternativa e Liberazione

    La fortuna del “Tricontinental Style” è testimoniata dall’icona di Barak Obama, disegnata da Shepard Fayrey per la campagna elettorale del 2008, «la più efficace illustrazione politica dopo Uncle Sam Wants You», scrive Anne Garland Mayer. “Il nostro poster è un arma di guerra”, aveva gridato Olivio Martìnez, rivoluzionario e disegnatore del «Tricontinental Magazine». A distanza di mezzo secolo, Anne Garland Mayer ci avverte che quest’arma non ha mai cessato di essere usata. Essa è la spia della sopravvivenza di quelle idee dentro i nuovi movimenti del XXI secolo, come Occupy Wall Street, e della formazione della nuova coscienza di un “Sud Globale” (From the Tricontinental to Global South. Race. Radicalism and transnational Solidarity, Duke U.P., 2018, prefazione e capitolo V).

    – Shepard Fayrey, Poster “Obama Hope”, disegnato per la campagna presidenziale del 2008<br> – Alfredo Rostgaard-Alberto Korda, 1970 (da un’asta di Katawiki)

    L’idea di liberazione, che gli anni ’60 ci consegnano, resta per noi un modello assoluto di radicalismo utopico. La riassumo con le parole di Christian Connery: «Attraverso gli anni ’60, la liberazione è diventata l’obiettivo e l’unità di misura dell’attività radicale e rivoluzionaria. Liberazione nazionale, liberazione psichica, liberazione sessuale, liberazione economica, liberazione sociale, liberazione del desiderio: gli anni ’60 promisero la liberazione dai capi, dai padroni della terra, dai genitori, dagli uomini, dai colonizzatori, dalla società, la liberazione della propria personalità, dai sistemi – capitalisti, fascisti e del socialismo di stato – o dal regime del genere, della sessualità o della razza» (Ch. Connery, The Dialectics of Liberation. The Global 1960s and the Present, in HR, p. 575).


    * Questo articolo è lo sviluppo della prima parte della lezione che ho tenuto nel corso per insegnanti ticinesi a Bellinzona, dedicato appunto all’ “anno della rivolta”. Nella seconda parte, presenterò diverse proposte didattiche, a partire dal tentativo di considerare questo evento come un “laboratorio periodizzante”, nel quale un insegnante può esercitare i propri allievi a lavorare sulle temporalità, sui sistemi complessi, sui documenti, sulla capacità di discutere, sulle fonti orali ecc.

     

  • Il Sessantotto. Un laboratorio su un anno spartiacque (parte seconda)

    di Antonio Brusa

    Nove laboratori sulla contestualizzazione storica*

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    A. IL LABORATORIO DELLA CONTESTUALIZZAZIONE

    In questo gruppo di laboratori inserisco quelle attività che mirano ad analizzare il fatto storico “Sessantotto”. Sono laboratori che vorrei definire “top-down”. Vanno dall’insegnante all’allievo in un percorso abbastanza tradizionale. L’insegnante prepara i materiali (lezioni, schemi) e pone agli allievi delle questioni da risolvere.

    Il campo di indagine è quello della contestualizzazione storica. Lo organizzo in due parti. La prima si occupa della complessità. Comprende cinque attività che, a partire da un modello storiografico, cercheranno di collegare l’“evento Sessantotto” a un contesto più ampio. La seconda si occupa del tempo, con quattro proposte, attraverso le quali questo evento verrà inserito in contesti temporali diversi. Questo articolo, quindi, andrebbe inteso come una sorta di antologia dalla quale un insegnante può prelevare l’attività che pensa più utile alla sua classe. A questa antologia ne seguirà una seconda, in un prossimo intervento su HL, dedicata a un tipo di laboratorio diverso (e forse più consueto fra gli insegnanti esperti), cioè il laboratorio con i documenti. Si tratta di progetti che riguardano la secondaria superiore. Per quella inferiore andranno adattati. In ogni caso, questi progetti vanno considerati dei “semilavorati”, che il docente dovrà completare, con consegne o scalette di conversazione più dettagliate, con riferimenti al manuale, eventuali altri materiali.

    Ma torniamo ai laboratori sulla contestualizzazione dell’“evento Sessantotto”. Braudel scriveva che un evento assomiglia a un vulcano dal quale si sprigionano tutti i tempi della storia. Ciò vale, in particolare, quando l’evento è talmente pesante da “dividere i tempi”. “Un evento spartiacque”, si è detto del Sessantotto. Difatti, è esattamente a metà strada fra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine della Guerra fredda. Questa espressione, usata da James Chapman, è stata ripresa da Marcello Flores e Giovanni Gozzini nel loro 1968. Un anno spartiacque (Il Mulino 2018, d’ora in poi FG: qui è possibile leggerlo), uno studio dal quale ricavo i materiali per questi laboratori.

    Da questo punto di vista, questo lavoro vorrebbe (anche) suggerire agli insegnanti un metodo di lettura dei testi storici forse diverso dal solito. Un insegnante legge un libro di storia con la segreta speranza di poterlo raccontare in classe, magari trovare qualche spunto oppure, nell’insegnamento superiore, per inserirlo in un contesto critico. Si potrebbe, secondo me, aggiungere a queste modalità di lettura senz’altro meritorie, quelle del “libro-palestra-per-pensare”. Un buon libro di storia, per me, è esattamente come una palestra, all’interno della quale si trovano macchine per fare esercizi di tipo diverso. Quindi lo leggo non solo per trovare fatti o problemi da poter raccontare; ma anche per trovare meccanismi da smontare e rimontare, con i quali giocare e inventare esercizi: cose che, fuori di metafora, non sono altro che idee, ragionamenti e storie.

    B. IL LABORATORIO DELLA COMPLESSITÀ

    b1.Un modello complesso

    Chapman utilizzava il termine watershed/spartiacque discutendo il “libro più innovativo sul Sessantotto”: 1968. The World Transformed (a cura di Carole Fink, Philipp Gassert e Detlef Junker, N.Y., Cambridge University Press, 1998). Lo utilizzo per costruire una parte del modello per lo studio di quel periodo.

    Nella loro Introduzione (pp. 1-30), Fink, Gassert e Junker espongono gli elementi fondamentali di un modello basato sul fatto che le rivolte del Sessantotto furono mondiali. Quindi inseriscono i movimenti giovanili in un quadro contrassegnato da una doppia crisi planetaria, politica ed economica.

    Modello per lo studio del Sessantotto

    La prima – la crisi politica - si era manifestata in due eventi: l’offensiva del Tet (gennaio-marzo 1968), scatenata dalle truppe nord vietnamite e dai viet-cong contro gli Usa, nella quale questi ultimi, pur vincendo militarmente, avevano capito che avrebbero perso una guerra, per la prima volta nel corso del XX secolo. A questo smacco occidentale faceva da contraltare, nel mondo comunista, la Primavera di Praga (gennaio-agosto 1968) che, in modo analogo, opponeva alla vittoria militare dell’Urss la sua evidente sconfitta sul piano del consenso fra i cittadini del Patto di Varsavia. La seconda - la crisi economica - era iniziata dopo la Guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967), che aveva messo in dubbio la facilità con la quale, fino ad allora, l’Occidente si era approvvigionato di petrolio, e si era ingigantita a causa della crisi economica americana, che allora fu giudicata “la peggiore dalla Grande Depressione”.

    Queste due crisi indebolirono strutturalmente il blocco Est/Ovest, in particolare – per ciò che riguarda questo lavoro - dal punto di vista della capacità degli Usa e dell’Urss di esercitare il controllo sulle popolazioni, e dunque sui manifestanti. Questa debolezza si manifestò su due livelli. Quello ideologico, dell’attrattività dei sistemi capitalisti e comunisti quali modelli di vita; e quello del controllo sociale, che, di fatto, consentì una relativa tolleranza nei confronti di manifestazioni, che in tempi precedenti si sarebbero ostacolate con più efficacia. Mettendo insieme a questi elementi le questioni relative ai giovani (viste nella prima parte di questo lavoro, già pubblicata su HL), otteniamo questo modello per lo studio del Sessantotto. Si compone di due parti. Quella “soggettiva”, riguardante gli studenti (con i caratteri in blu), e quella “oggettiva”, riguardante la situazione mondiale (caratteri in nero).

    b2. Come si lavora con un modello

    a. Chiamerei la prima attività “Mettere le parole”. Uno schema (o come ormai è d’uso nelle scuole, una “mappa concettuale”) viene solitamente impiegato alla fine di un percorso di studi, come sintesi. Resta lì, quasi la foto degli apprendimenti realizzati. In realtà, se noi chiediamo agli allievi di verbalizzare lo schema, ne troveremo non pochi in difficoltà. Per prevenirla, suggerirei di far leggere loro questi brevi brani, tratti dal libro di Flores e Gozzini, per cercare in quali caselle dello schema andrebbero inseriti, e per spiegare come un certo elemento dello schema influisce sugli altri (quindi, riempiendo gli spazi con i punti interrogativi).

    I mass media sono il primo fattore del modello, il secondo è la fase nuova che gli eventi del 1968 aprono nella guerra fredda, il terzo è la “rete informale di comunicazione e collaborazione” che lega fra loro gli attivisti di ogni parte del mondo e infine la quarta è il collante ideologico che tiene insieme questi ultimi. Perché i protagonisti credevano in una causa comune. Lottarono in opposizione allo status quo interno e internazionale a Est e Ovest, a Nord e a Sud, in appoggio alla libertà, alla giustizia e alla autoderminazione (FG, p. 33).

    Il tempo della guerra fredda è un tempo “artificialmente” globalizzato dalle necessità di controllo delle due superpotenze. Questa storicamente inedita forma della politica internazionale stabilisce il quadro di riferimento unitario entro cui gli studenti si muovono. E li predispone di fatto al contagio, all’imitazione, alla risonanza, in qualsiasi continente si trovino (Ibidem).

    La simultaneità globale del Sessantotto si spiega con fattori soggettivi (accesso di massa alle università) ma anche con fattori oggettivi (il prepotente potere di Usa e Urss insieme ai segni della loro crisi in Vietnam e Cecoslovacchia) (Ibidem).

    I media rappresentano una condizione indispensabile per la trasformazione delle agitazioni locali. Senza di loro, queste non avrebbero risonanza e il loro esempio non potrebbe diffondersi. Di più: i media, trasmettendo motivi e forme delle agitazioni, contribuiscono a dare nuovi significati ai contesti e a trasformare le identità personali e collettive (FG, p. 17).

    b. Chiamerei una seconda attività “Arricchire il modello”. Questo modello non spiega tutto, come – del resto - qualsiasi modello scientifico. Il suo scopo è quello di mettere a fuoco un elemento fondamentale del Sessantotto: il fatto che fu una rivolta globale e simultanea. Bene: all’inizio della prima parte di questo articolo (qui su HL), si riportano i temi della rivolta, quali furono propagandati nei manifesti dei giovani parigini:

    • La lotta contro l’autorità
    • Per una informazione alternativa e contro la censura
    • A sostegno della classe operaia
    • Contro il conformismo

    Possiamo integrarli nel modello? Quali caselle, quali connessioni nuove dobbiamo immaginare? Il modello mette in relazione gli aspetti soggettivi della rivolta (in blu) con quelli oggettivi (in nero). Possiamo fare in modo che questo modello rappresenti e spieghi meglio gli aspetti soggettivi? Oppure il modello deve essere radicalmente cambiato, e ne dobbiamo immaginare uno nuovo?

    Per quanto riguarda gli aspetti soggettivi, non si può non ricordare che tra i portati fondamentali del Sessantotto vi sono la rivoluzione sessuale e la nascita del femminismo attuale (se ne parlerà in seguito). Flores e Gozzini ne danno ampie notizie (pp. 36-40). Quali modifiche ci suggerisce, quindi, la storia di genere?

    c. Una terza attività potrebbe essere “Mettere le date”. Un modello astrae dai fatti tendenze e problemi. Per questo, normalmente, non ha delle date. Ma possiamo introdurle. La crisi politica, per esempio, si riferisce alla guerra del Vietnam e alla Primavera di Praga (e a tanti altri eventi). Chiediamo agli allievi di cercarli sul manuale e di inserirli nello schema usando gli opportuni grafismi.

    Questa ricerca porta a interrogarci sull’insieme dei fatti che sono collegabili al nostro modello (quando scoppia la Guerra del Vietnam e per quali motivi? quando i media diventano globali? Quando e perché si forma una Boom Generation? Per quali motivi scoppia la crisi economica del 1968? C’entra in questa Bretton Wood? E così via). Alla fine, avrete bisogno di un poster abbastanza grande e complicato, nel quale potrete sintetizzare buona parte della storia dopo il ’45.

    d. Regionalizzare il modello. Il Sessantotto, per quanto globale e simultaneo, fu diverso nei singoli paesi. Questo suggerisce altre modifiche al modello, in modo da rappresentare:

    • La situazione italiana e francese nella quale avvenne una saldatura fra movimento studentesco e movimento operaio. Per quali motivi questa si verificò? E in che modo la possiamo integrare nel modello? (per questo punto e il successivo possono bastare le notizie riportate in un buon manuale).
    • La situazione dell’Europa Orientale. Qui, l’obiettivo principale dei giovani è quello della critica al modello comunista e la liberazione dal dominio dell’Urss.
    • La situazione Medio-orientale. La medesima rivolta prende quattro direzioni diverse. In Egitto è, da una parte, al Nakba (la Catastrofe): il desiderio di rivincita dopo la sconfitta nella Guerra dei Sei giorni, un movimento laico, socialisteggiante e modernizzante; dall’altra è la diffusione dei Fratelli Musulmani, uno dei primi movimenti fondamentalisti musulmani. In Palestina è Karameh (Dignità), dal nome di un paesino i cui abitanti risposero con le armi all’invasione israeliana. Da questo movimento nasce Al Fatah, il gruppo del quale Yasser Arafat divenne leader. In Israele fu un movimento di sostegno alla guerra dei Sei giorni, da parte di tanti giovani che si riconoscevano in Moshe Dayan, ministro della difesa (per informazioni più particolareggiate su questo punto: FG, pp. 91-98).

    e. Valutare l’evento. “Spartiacque” è un termine metaforico. Indica che quell’evento fa in modo che il tempo successivo sia diverso da quello precedente. Ma quanto sono profondi questi cambiamenti? Autorizzano, per esempio, a pensare che ci fu una rivoluzione? Occorre fare attenzione quando usiamo questo concetto, dal momento che è cambiato parecchio dai tempi di Robespierre e di Marx. Secondo Jack Goldstone, ci stiamo avviando verso una “quarta generazione di teorie rivoluzionarie”, nella quale gli studiosi preferiscono una definizione molto più estesa di quella ottocentesca. Possiamo discutere in classe, perciò, se il “Sessantotto” (i cui protagonisti agli occhi dei classici probabilmente non avrebbero passato l’esame del buon rivoluzionario) vi sia compreso, e cioè se sia un complesso di movimenti nel quale troviamo:

    • Delle spinte a cambiare il regime politico, basate su visioni antagonistiche di un ordine giusto.
    • Un notevole livello di mobilitazione di massa, formale o informale.
    • Delle spinte a forzare il cambiamento attraverso azioni non istituzionalizzate, come dimostrazioni di massa, proteste, scioperi o violenze.

    (FG, p. 35. Dall’originale J.A. Goldstone, Toward a Fourth Generation of Revolutionary theory, in «Annual Review of Political Science», 2001, p. 141 ss. si ricaveranno altri argomenti per una discussione epistemologico-storiografica).

    f. Raccontare l’evento. Questa non è un’attività separata, ma va considerata una conclusione, direi obbligata, di ciascuna delle attività descritte sopra (le quali, lo ricordo ancora, sono a scelta del docente). Il racconto, infatti, è lo strumento principale della memorizzazione. Serve per “racchiudere” il percorso svolto in un testo che abbia un senso e che, in un certo modo, ti puoi portare via. Occorre, quindi, trasformare la mappa dei concetti, che rappresenta in sincrono la complessità di un evento, in una sequenza nella quale i vari elementi dello schema siano disposti uno dopo l’altro. Possiamo seguire una strategia cronologica o una logica. Nel primo caso, estraiamo dallo schema i fatti, li datiamo (se il caso, approssimativamente) e poi li disponiamo su un cronogramma, che funzionerà da scaletta per il testo. Nel secondo, assegniamo un numero ad ogni elemento dello schema, partendo dal punto che giudichiamo più adatto, e costruiamo il racconto basandoci sulla sequenza numerica.

    C. IL LABORATORIO DEL TEMPO

    c1. Anche il tempo storico è complesso

    La critica che si oppone a questo genere di modelli è che non curano un aspetto particolarmente caro agli storici: il tempo. In effetti, occorrerebbe mettere in moto la complessità rappresentata, osservare come si è formata, quali erano gli antecedenti e quali gli sviluppi successivi. Anche in questo caso, Braudel aveva ragione, quando ci ha spiegato che una “società nel tempo” è, in realtà, un insieme di parti che mutano e, man mano, interagiscono fra di loro. Un intrico mobile che mette in seria difficoltà le nostre capacità di comprensione. Come sempre in didattica (ma non solo), dobbiamo semplificare. Prendiamo il modello base di analisi di un evento e applichiamolo al Sessantotto.

    Modello generale di un evento

    Ogni evento è frutto di un complesso di antecedenti che assumono una certa configurazione nel tempo x nel quale si verifica. Per rappresentare questo processo, collochiamo lungo l’asse temporale alcuni aspetti sui quali il Sessantotto incide in maniera molto evidente. Scelgo, sempre dal lavoro di Flores e Gozzini, tre aspetti:

    • la questione del terrorismo
    • la questione femminile
    • il problema dei diritti umani

    Sull’asse verticale, invece, segniamo quegli aspetti “spaziali” che riguardano lo scenario mondiale alla fine degli anni ’60: la globalizzazione, i mass media, la decolonizzazione e l’indebolimento dei blocchi, perché caratterizzano il Sessantotto come momento globale e simultaneo di rivolte giovanili. L’ideale sarebbe studiare come i fattori temporali coevolvono e, a un certo momento, reagiscono con quelli spaziali. La semplificazione didattica ci consiglia di prendere un fattore per volta, e vedere che rapporto ha con il Sessantotto. La scoperta finale sarà che, ogni volta che cambiamo i fattori, cambieranno anche tempi e periodizzazione.

    c2. Il tempo del terrorismo

    Siamo abituati ad una periodizzazione del terrorismo riferita allo spazio nazionale, accostato semmai a quello tedesco. In questo spazio ristretto, il Sessantotto diventa il punto di origine di una sequenza mortifera che ha insanguinato la nazione e che aveva come un unico precedente, non sempre ricordato, gli attentati separatisti dell’Alto Adige. Se allarghiamo lo sguardo, invece, vediamo che il terrorismo non è affatto una realtà originale italiana, ma ha una lunga storia internazionale alla quale il fenomeno italiano si collega. Ecco il cronogramma.

    Cronogramma del terrorismo

    Questa cronologia allontana il rischio di far coincidere l’immagine del Sessantotto italiano con quella del terrorismo e, per estensione, ci salvaguarda dallo stereotipo di un’altra “specificità italiana”, quegli “anni di piombo” che oscurano la più profonda stagione di riforme che la Repubblica abbia conosciuto. Ecco, dunque, i quattro cicli di terrorismo, quali li riconosciamo nell’età contemporanea, con le parole di Flores e Gozzini.

    Il primo ciclo è quello “anarchico” che, soprattutto nell’Europa dell’Ottocento e del primo Novecento prende a bersaglio uomini rappresentanti delle istituzioni e raggiunge il proprio acme nel 1914 a Sarajevo.

    Il secondo è quello “anticoloniale” che va dall’insurrezione irlandese del 1916 fino alla “battaglia di Algeri” del 1962.

    Il terzo è quello “della nuova sinistra” che negli anni Sessanta si collega alla guerriglia in Vietnam e in America Latina per diffondersi in Europa occidentale, America, Medio Oriente e Giappone.

    Il quarto è quello “religioso” che si apre con la rivoluzione iraniana del 1979, colpisce in Afghanistan, Medio Oriente, India, Algeria, Stati Uniti e Giappone negli anni Novanta per poi estendersi su scala globale negli anni Duemila (FG, p. 231)

    c3. Come si lavora con un cronogramma

    Succede che i cronogrammi patiscano la stessa sventura didattica delle mappe concettuali. Si fanno alla fine, come sintesi di ciò che si è studiato. Invece andrebbero considerati strutture mobili, che crescono e si modificano man mano che si studia. Nei cronogrammi che qui presento ci sono alcuni eventi. Nel manuale, come in altri testi, ce ne saranno altri che vi possono trovare posto. Nei rettangoli sotto la cronologia ho posto i “nomi” delle periodizzazioni. Non li farei vedere agli allievi, ma porrei il problema. Posto che il Sessantotto è un evento spartiacque, come chiamare il periodo precedente e come quello successivo? “Dare nome al tempo”, cioè “periodizzare”, è una delle operazioni più interessanti che la storia ci permette. Lanciamo la sfida. Chi trova il nome più adatto. Poi, discutiamo i nomi proposti: si vedrà che ognuno di questi implica una certa lettura del periodo.

    Confrontiamo i cronogrammi. Quello che abbiamo prodotto nel laboratorio con gli altri riportati sotto, anche se non sono stati studiati. Mettiamolo a confronto, anche, con la timeline di storia generale, eventualmente presentata dal manuale. Quali relazioni intravvediamo? Riusciamo a spiegarle?

    Infine, utilizziamo il cronogramma come base per un racconto. Mettiamo in evidenza gli eventi più importanti, quelli che andranno sottolineati. Teniamo presente che il testo deve anche far risaltare il ruolo del Sessantotto. Poi raccontiamo. Basta un testo breve, purché contenga i riferimenti precisi al cronogramma. La sintassi ci rivelerà il grado di maturazione degli allievi: chi troverà connessioni complesse e cercherà di spiegarle; chi, invece, non saprà andare oltre il “e poi”.

    c4. Il tempo delle donne

    Anche la storia contemporanea delle donne è divisa in quattro periodi. Ma qui il Sessantotto gioca un ruolo chiaramente fondamentale. Costituisce, infatti, il momento di passaggio fra la fase “evolutiva” e quella “rivoluzionaria” di questa storia. È Claudia Goldin che ha elaborato questa cronologia, nella quale la prima fase, che inizia alla fine del XIX secolo, vede giovani donne impegnate in lavori generalmente di bassa qualità, che devono però abbandonare una volta sposate. La Prima guerra mondiale genera la spinta verso la seconda fase, che inizia intorno agli anni venti, nella quale il lavoro diventa più facile per le donne. Quelle che hanno studiato possono accedere anche a posti di lavoro intellettuale, ma per tutte il momento del matrimonio coincide con il ritiro dalla vita produttiva. La Seconda guerra mondiale favorisce l’avvento di una terza fase, “di transizione”, con le donne che possono studiare, ritardare l’età del matrimonio, accedere a lavori più interessanti mentre comincia a perdere di forza il vincolo della gravidanza: molte, infatti, possono continuare a lavorare anche dopo il matrimonio.

    Cronogramma della storia delle donne

    Claudia Goldin definisce “evolutive” queste tre fasi perché – per quanto si noti un lento e continuo miglioramento - non comportano cambiamenti fondamentali nell’orizzonte di vita delle donne, nel loro senso di identità e nella capacità di controllare il proprio destino. Ma, giusto alla fine di questa terza fase, troviamo un momento che Goldin definisce di “rivoluzione rumorosa”. Esso è legato alle battaglie per i diritti civili, all’uso della pillola, alla rivoluzione sessuale. È, finalmente, il Sessantotto. Questo, in modo analogo alle guerre mondiali, introduce la fase attuale della storia delle donne, quella della “rivoluzione silenziosa”, nella quale masse di donne, pacificamente, si diffondono nella società, occupandone posti che, nei tempi precedenti, erano stati loro interdetti (FG, pp. 40-41; Claudia Goldin, The Quiet Revolution that transformed Women’s employment, Education and Family, 2006).

    c5. Il tempo dei diritti

    Quando il 10 dicembre del 1948 fu proclamata la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, questa, “più che l’annuncio della nuova era, fu una corona funebre posta sulla tomba della guerra”. Con questa battuta pessimistica inizia L’ultima utopia, il libro che Samuel Moyn ha dedicato alla storia dei diritti umani (The Last Utopia, The Belknap Press of Harvard University Press Cambridge, Massachusetts and London, England 2010). Tuttavia, a quasi settant’anni di distanza, non possiamo negare che nel mondo è diffusa la convinzione che “agli esseri umani spetti di godere dei diritti umani” (FG 142). A dispetto dello scetticismo di Moyn, dunque, questa “utopia” ha avuto successo: in particolare dopo il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, che inaugurò una stagione nella quale molti sperarono che, finalmente, non ci sarebbero stati più ostacoli nell’applicazione di quella Dichiarazione. Oggi i diritti umani si sono imposti come cultura universale, soprattutto nel confronto con le nuove guerre e i genocidi (FG, p. 120 s).

    Qui ci chiediamo se il Sessantotto abbia giocato un ruolo in questa vicenda e se sia stato un ruolo di “spartiacque”. E’ una questione controversa. Ma proprio questa difficoltà può dar luogo a un interessante laboratorio di discussione (l’argomento è spiegato dettagliatamente in un lungo capitolo di FG, pp. 127-145).

    Alcuni studiosi, come Moyn, sostengono che il Sessantotto non ha inciso nella storia dei diritti umani. Di parere diverso altri, come Flores e Gozzini. Al centro della contesa c’è la questione della decolonizzazione. Infatti, i nuovi stati indipendenti si erano distinti – in particolare negli anni ’60 – nella battaglia per il riconoscimento dei diritti umani. Secondo Moyn, però, fu una battaglia viziata dall’antioccidentalismo. Per quegli stati i diritti umani non erano altro che il proprio diritto di combattere contro il colonialismo.

    L’editto di Ciro il Grande, conservato al British Museum

    La Conferenza di Teheran, tenutasi nell’aprile-maggio del 1968, è significativa. Fu inaugurata dallo Shah Reza Pahlevi (non certo un campione dell’umanità) il quale iniziò il suo discorso ricordando l’editto di Ciro il Grande del 539 a.C, suo supposto antenato, considerato spesso il primo editto di tolleranza; ma poi mise ben in chiaro che lo scopo di quella riunione era di rinsaldare i legami e le attività anti-occidentali fra i paesi del Terzo mondo (con l’Urss spettatrice interessata). Quindi, conclude Moyn, il vero decennio dei diritti umani fu quello successivo, con la Conferenza di Helsinki del 1975. E, in ogni caso, fu a Vienna, nel 1993, a venticinque anni di distanza dalla convention di Teheran, che si svolse la prima conferenza delle Nazioni Unite sui Diritti umani.

    Flores e Gozzini non sono d’accordo sul giudizio di “insincerità” espresso nei confronti dell’azione dei paesi del Terzo mondo. Si basano sul lavoro di Steven Jensen, The Making of International Human Rights: The 1960s. Decolonization, and the Reconstruction of Global Values (Cambridge, Cambridge University Press, 2016. Qui Phillipp Kandler ce ne propone una recensione critica esauriente). Secondo Jensen, sono proprio i paesi decolonizzati che spingono per l’accettazione dei Diritti umani. Questi, infatti, sono figli di culture extra-europee (orientali o africane) che preferiscono al guadagno e alla sopraffazione i valori della vita comunitaria, dell’equilibrio e della pace. Ne consegue, prosegue Jensen, che il Sessantotto – nato in un ambiente universitario occidentale - non ebbe nulla a che vedere con i Diritti umani, argomento che non era nella cima dei pensieri dei giovani in rivolta.

    Ma su questo punto il disaccordo con Flores e Gozzini è totale. Ricordano che gli anni ’60 hanno visto il fiorire di manifestazioni contro il razzismo, il machismo, a favore dell’ambiente e per i diritti umani economici. Lo stesso antiautoritarismo, una delle costanti del movimento studentesco, fu un motore nella lotta a favore dei diritti umani, dal momento che i principali conculcatori di questi diritti erano proprio gli stati. E proprio il 1968 fu proclamato dalle Nazioni Unite il primo “Anno internazionale dei diritti umani” (Marcello Flores è autore di opere fondamentali su questo argomento. Qui ne possiamo ascoltare una sintesi.

    Cronogramma dei diritti umani

    c6. Costruire timeline

    Ci sono ancora cinque argomenti, nel nostro libro-palestra: l’Islam, la finanza, il lavoro, il digitale, la cultura. Di ciascuno di questi si può tracciare un cronogramma e interrogarsi sul ruolo del Sessantotto: se fu marginale o “spartiacque”. Si tratta di leggere selettivamente il testo. Sottolineare le date. Cercare quelle parti dove si parla di periodizzazione e, infine, elaborare una timeline. Qui ho usato un programma elementare (Frisechrono). Ma ce ne sono molti che permettono soluzioni più ricche e spettacolari. In ogni caso, sarebbe un buon esercizio di lettura/palestra per gli insegnanti. Se, poi, si riesce a elaborare una timeline che, in linea di principio, sia facilmente riproducibile da un allievo, allora la si proponga loro come esercitazione. Nel caso di una classe estremamente competente, poi, si assegneranno i capitoli a gruppi diversi con il compito di costruire una timeline e spiegarla ai colleghi.

    D. SUGGERIMENTI PER IL LAVORO

    d1. Il ruolo della lezione

    Nel loro insieme queste proposte disegnano un quadro abbastanza completo della vicenda storica. Prese singolarmente ne forniranno solo un pezzettino: ma questo è il destino obbligato per qualsiasi laboratorio che contempli un minimo di attività autonoma da parte degli allievi. Tutto ciò vuol dire che il compito di fornire un quadro generale e complessivo spetta al docente, attraverso la sua lezione. Questo fino a che i discenti non saranno in grado di costruire con una certa autonomia una visione generale di un determinato problema. Giunti a questo livello potrebbero intavolare con i loro professori un dialogo formativo: ma si tratterà di un momento di lavoro scolastico sofisticato, da escludere, a mio modo di vedere, nel segmento di scolarità al quale è diretto questo insieme di laboratori.

    In questo lavoro prevedo due tipi di lezione. La lezione introduttiva, molto breve (non si dovrebbe andare oltre i 15 minuti). Questa dà agli allievi qualche notizia del campo nel quale si lavorerà e cerca di motivarli. Per prepararla, il docente potrà usare come scaletta il modello di Sessantotto che qui ho presentato, mentre dalla prima parte dell’articolo ricaverà spunti narrativi e immagini.

    Il secondo tipo di lezione è quella conclusiva, al termine dell’attività laboratoriale. Più lunga, intorno ai trenta minuti, darà al docente la possibilità di fornire un quadro completo della vicenda, mostrando come i diversi elementi studiati si interrelano fra di loro, tenendo conto, al tempo stesso, dei problemi e degli interessi e delle difficoltà emerse nel corso del lavoro.

    d2. Un modello di unità di lavoro

    L’unità di lavoro, quindi, inizia con la messa a punto del quadro generale, fatta nella lezione introduttiva. A questo punto, il docente prende la prima decisione: lavorare sulla complessità o sul tempo? Sceglie il laboratorio che gli sembra più adatto. Per questo motivo ho disposto i laboratori in una scala latamente progressiva. Per esempio, l’attività sul terrorismo è più agevole di quella sui diritti umani, che richiede letture, comprensione di testi e capacità di discutere, mentre l’ultima attività libera è decisamente riservata a classi competenti.

    I lavori, tutti, prevedono sempre un ricorso ai testi. Infatti, i modelli e le cronologie sono degli strumenti per interrogare i testi, per leggerli selettivamente e cercare le notizie che di volta in volta sono necessarie. Qui ho riportato dei brani molto brevi: saranno sufficienti per un lavoro rapido. Per un lavoro più lungo e intenso, si daranno agli allievi le parti indicate del libro. Laddove possibile (come a volte ho indicato) si faccia ricorso al manuale.

    Terminata la fase della ricerca e del completamento del modello o del cronogramma, si passa alla fase della narrazione. Qui ho descritto brevemente come ricavare un racconto da uno schema (sopra, il punto f). Per il cronogramma è più facile. Basta seguire la linea del tempo, come abbiamo già visto. Per renderla più complicata (e in connessione con l’insegnamento della lingua), si proporranno delle varianti: fai una narrazione a ritroso, partendo dall’oggi; fai una narrazione ad anello, centrata sul Sessantotto. Questa parte del modulo potrà essere svolta a casa, individualmente (anche nel caso del lavoro di gruppo).

    Infatti, posto che questo lavoro si svolge in classe con le modalità di una lezione partecipata, si suggerisce anche la formula del lavoro a gruppi, soprattutto se si dispone di una classe competente. Per quanto riguarda il lavoro sulla complessità, l’insegnante mostra come si lavora su uno schema. Sviluppa questo esempio sul caso più difficile, lasciando agli allievi i casi più facili. Di seguito, assegna ad ogni gruppo uno schema. Per quanto riguarda il lavoro sul tempo, invece, dal momento che gli esempi che ho presentato sono tre, ne adopera uno per mostrare agli allievi “come si fa”, poi divide la classe in due (o quattro) gruppi, assegnando a questi i due cronogrammi rimanenti. Si è già detto che, nel caso di una classe molto competente, si assegnerà il lavoro “libero” sui capitoli del testo che qui non sono stati trattati.

    Il modulo di lavoro termina con la lezione frontale del docente, nel quale questi, tenendo conto dei lavori dei ragazzi, del livello di comprensione che questi hanno rivelato e dei problemi emersi, espone agli allievi la sua ricostruzione del periodo.

    Qui sopra il diagramma operativo. Suggerisco di progettare un modulo di due ore. Nella prima si apre con la lezione introduttiva e si lavora con lo schema (o con la cronologia). Si assegna il compito da svolgere a casa. Nella seconda, si continua a lavorare o si discute e, nell’ultima mezz’ora, si eroga la lezione conclusiva.

     


     

    * La prima parte “L’evento e la memoria” è stata già pubblicata su HL. La terza parte e la postilla conclusiva verranno pubblicate a breve.

  • Io non condivido

    Autore: Antonio Brusa

    Immagini di guerra, social e didattica della storia

     

    Indice
    •    Introduzione
    •    Testimonianze da una guerra passata, ancora moderna
    •    La globalizzazione del fronte interno
    •    Il ruolo dell’insegnante di storia


    Introduzione
    In tempi angosciosi, nei quali i social network sono invasi da immagini di guerra, vorrei discutere sull’impulso di indignazione e di compassione che mi spinge a condividerle sulla mia bacheca. Ci vorrei ragionare, però, non come cittadino, utente di Fb. Qui ognuno fa la sua scelta. Il tasto “mi piace” serve apposta per sottometterla all’approvazione degli altri. E penso che funzioni, tutto sommato. Ci vorrei discutere come storico e insegnante di storia. C’entra il mio mestiere in questo giro di immagini, mi chiedo; mi aiuta a vedere la questione da un punto di vista particolare, e da questa angolazione mi permette di suggerire qualche riflessione, forse utile per chi fa il mio lavoro?

    La prima considerazione è quasi automatica. Le immagini di guerra fanno parte della guerra. Da sempre. Da quelle graffite nelle grotte neolitiche, a quelle dei raffinati decoratori della ceramica greca, ai bassorilievi romani, ai monaci che adornavano i loro manoscritti con teste mozzate, combattimenti e città sotto assedio: non proseguo una lista che molti saprebbero completare meglio di me. Ritorno, invece, sulla frase di sopra, perché non è a effetto. Le immagini di guerra FANNO parte della guerra, e lo hanno fatto da SEMPRE. L’eroe che uccide, è il campione che ci libera dai malvagi. Noi lo vediamo in azione e ci esaltiamo nella sua ammirazione. E se quella scena la vedono gli altri, i nemici, che stiano ben attenti, rappresentati come sono nella loro prostrazione umiliante. Tutta un’altra storia, invece, se sono loro a uccidere. In questo caso diventano barbari e feroci, e noi le vittime innocenti che suscitano compassione. Sono tanto cattivi, che uno non può non condividere il fatto che bisogna proprio ammazzarli.

    E dagli, con la tua storia antica e medievale, mi direte. Oggi siamo in un’altra epoca, quella della documentazione della realtà. Quelle antiche sono immagini costruite. Nascono con un messaggio “politico” dentro. Sono fatte per eccitare gli animi, incutere paura, giustificare il massacro. Queste no. Ecco il morto, ecco il reporter, tu vedi quello che accade sul campo di battaglia. Tu HAI diritto a vedere quello che succede. Nei tempi andati, era il “potere” che decideva quello che potevi vedere. Oggi è diverso, perché i media sono gli strumenti della democrazia visiva. E i social sono ancora più democratici, perché mettono nelle tue mani questi mezzi. Che ti sei messo in testa, vuoi discutere la democrazia della rete? Vuoi mettere in dubbio il lavoro meritorio di tanti reporter, che, a rischio della vita, documentano i fatti più atroci dei nostri tempi?

    No. Non ne voglio parlare. Non mi avventuro nella diatriba intricatissima, se questa sia o meno la democrazia cognitiva che tutti aspettiamo. Io voglio solo ragionare sul gesto personale della condivisione.


    Testimonianze da una guerra passata, ancora moderna

     

     

     

    Alcuni anni fa, in una piccola e bella mostra sulla Prima Guerra mondiale, organizzata nelle Marche da Costantino Di Sante,  quando ancora non si erano accesi i riflettori del centenario, vidi questa foto di Cesare Battisti, scattata dai suoi carnefici subito dopo la sua esecuzione. La didascalia non ricorda l’eroicità di Cesare Battisti, il “martire purissimo”, come veniva celebrato nei discorsi ufficiali, nella stampa e perfino nei manuali, ma denuncia l’oltraggio del cadavere. Il massimo della barbarie. Quella era una guerra giusta – veniva a dire così la foto - mossa da genti civili contro gli imperi barbari che schiavizzavano dei popoli europei.

    Quell’immagine ebbe una grandissima diffusione. Me ne colpì la versione trovata da Di Sante, perché era stata riprodotta su una cartolina postale. Dunque, venne utilizzata in quello stesso circuito comunicativo, attraverso il quale ormai passavano le rappresentazioni delle bellezze locali (non solo paesaggistiche); si tenevano in vita i rapporti affettivi e ci si diceva spesso delle futilità. Le cartoline postali erano molto meno impegnative di una lettera, e perciò più rapide da scrivere. Oggi sono pressoché scomparse, ma fino a poche decine di anni fa costituivano una fetta importante della comunicazione sociale. Tessevano una sorta di rete meccanica, che funzionava con i treni e le biciclette dei postini. Un social network a pedali.

    In questo modo gli italiani reimpiegarono una fotografia austriaca, scattata per onorare la memoria di un’uccisione, che al di là delle Alpi venne considerata sacrosanta. Battisti, eroe per l’Italia, era un traditore per l’Impero e - a giudicare dalla letteratura successiva e dalle vicende commemorative in quel di Trento - la questione non si chiuse affatto con la pace di Versailles. Non so quanto quella foto circolasse in Austria. La notizia dei fatti, sì. Ne ho trovato una traccia stupefacente nella mostra Am meine Völker, che si visita alla Biblioteca Nazionale di Vienna. Questa esposizione si apre con l’appello alla guerra di Francesco Giuseppe a austriaci, ungheresi, italiani e alle numerose altre genti dell’Impero, “i miei popoli”, e si chiude malinconicamente con il proclamacon il quale Carlo I, il suo successore, annunciò l’autonomia di quegli stessi popoli, un mese prima della capitolazione del novembre 1918.

    Vi ho appreso che, al principio della guerra, qualcuno ebbe l’idea di creare un centro di documentazione al quale i cittadini potessero inviare le loro testimonianze, scritte, visive o materiali del conflitto. Subito il successo fu tale che i depositi non bastavano. Poi, con il declinare degli eventi, l’entusiasmo scomparve e quei centri vennero dimenticati. Furono riscoperti ai nostri giorni dagli storici, che solitamente mostrano grande soddisfazione quando – di un fatto epocale – trovano le testimonianze della gente comune, come questa raffigurazione del supplizio di Battisti.

     

     

     

    Si tratta di un compito. Il disegno di uno scolaro di Graz. Molto probabilmente non conosce la nostra foto. Ce lo dicono il paesaggio, l’atteggiamento dei presenti e la forca, disegnata come fanno sempre i bambini. Ha sentito un racconto. Cesare Battisti marcia, vestito da “cacciatore delle Alpi”, come il ragazzo avrà visto in tante sfilate, questa volta verso il patibolo, dove un prete lo attende con un ufficiale che legge la condanna. Non ho nessun elemento per immaginare i sentimenti e i pensieri profondi di quel ragazzo. Ma ne ho qualcuno per ipotizzare un contesto di quel disegno. Siamo in una scuola. L’insegnante avrà parlato della cattura di Battisti, del processo e dell’esecuzione. Ha pensato che fosse suo dovere di educatore e, probabilmente, gliene giunsero esortazioni pedagogiche autorevoli. Poi ha dato le consegne, e l’allievo si è ingegnato per eseguirle. Forse il compito è stato svolto in classe; oppure a casa, dove lo avranno visto i genitori, ai quali il ragazzo potrà aver riferito il giudizio (“visto!”, se leggo bene) dell’insegnante.

    Quante volte abbiamo visto i disegni dei bambini in tempo di guerra? Quelli strazianti dei piccoli prigionieri di Terezin e quelli delle vittime degli innumerevoli altri conflitti dell’ultimo secolo? Ci commuovono. Li sentiamo come nostri, quei ragazzini. Ma questo ragazzo e quella rivoltante pedagogia di guerra ci turbano. Ci fanno percepire, a un secolo di distanza, l’enorme differenza che intercorre fra una società che vive in guerra, e una, come la nostra, che non la sperimenta da quasi settant’anni. Quello scolaro è lontano da noi, esattamente come quel fidanzato che, pensando di fare una cosa carina, inviò alla sua ragazza la cartolina postale con un boia e un cadavere.

    Quelle immagini, infatti, sono – per uno storico – le fonti (alcune delle tante) che testimoniano della costruzione del fronte interno. Sono strumenti attraverso i quali la gente dietro le trincee venne compattata e schierata contro un nemico, che quelle stesse figurine contribuivano a creare. Il nostro ipotetico fidanzato italiano e lo scolaro austriaco combattevano, per quanto in abiti civili. Senza imbracciare il fucile, ma usando mezzi della vita pacifica e quotidiana, come la posta e la scuola. Perché questi, in guerra, vengono trasformati in armi.


    La globalizzazione del fronte interno

    Sento l’obiezione. Ancora fatti d’altri tempi? Quel fronte interno (della Prima, come della Seconda Guerra mondiale) era strettamente legato al nazionalismo e alle sue aberrazioni. Roba vecchia, che non conta più come allora. Per lo meno, ha una presa assai minore nell’Europa occidentale, laica, civile, imbelle, secolarizzata, disincantata.

     È vero. Le cose sono cambiate, ma in modo sorprendente. Considerate una fotografia celebre, quella del bambino di Varsavia. Fu scattata da un gerarca che si voleva far bello alla corte di Hitler; diventò una denuncia del massacro ebraico. Decontestualizzata, si trasformò in simbolo generico di violenza contro i bambini; fino ad essere capovolta, ai nostri giorni e proprio nel gioco ideologico generato dai conflitti vicino-orientali, e costretta a diventare il simbolo dell’oppressione israeliana nei confronti dei palestinesi. Una vicenda complessa e lunga, raccontata da Frédéric Rousseau , che ha portato quella foto, testimonianza di un’azione di sterminio, a diventare un’icona, ormai scollegata dalla sua origine, comprensibile in ogni parte del mondo, adattabile ad ogni situazione violenta. Un’icona globale. (Ilenia Rossini e Anna Vera Sulam Calimani ne fanno delle recensioni esaurienti (http://www.unive.it/media/allegato/dep/n10-2009/Schede/Recensione_Sullam.pdf; http://www.officinadellastoria.info/magazine

    /index.php?option=com_content&view=article&id=352:recensione-f-rousseau-il-bambino-di-varsavia-storia-di-una-fotografia&catid=68:fotografia-e-storia )

      Un disegnatore danese, Per Marquard Otzen, accosta il disegno del bambino palestinese alla celebre immagine del bambino di Varsavia

     

    E’ vero, dunque. Quel meccanismo, che abbiamo visto attivarsi al tempo di Battisti, è cambiato, perché è diventato pervasivo e potente. Ciascuno di noi se ne rende conto, sfogliando un album di icone globali che vanno dall’insegna di Auschwitz, ai carri merci, ai mucchi di cadaveri, alle fosse comuni, fino ai Che Guevara indossati dai ragazzi di estrema destra.
    E’ cambiato anche un altro aspetto di queste immagini: la loro efficacia nella creazione di un fronte interno. Anche in questo caso, si tratta di una potenza che non ha fatto che crescere, man mano che avanzavano i processi di globalizzazione. Ci basta rammentare – per tutte - la napalm girl, la bambina vietnamita che fugge impaurita dai bombardamenti americani. Entrambe contribuirono potentemente alla creazione di un fronte antiamericano le cui dimensioni coincisero con il pianeta, e con il quale gli Usa, prima potenza militare del mondo, dovettero scendere a patti.

    Ecco:  potenti, duttili e globali, queste sono le nuove armi iconiche a disposizione dei signori delle guerre odierne. Il social è uno dei campi preferiti di questa battaglia. Tu clicchi “condividi” e vieni arruolato. Il signore vanterà un fronte interno smisurato, incomparabilmente più vasto dei bacini ai quali si rivolsero le nazioni del secolo scorso.

    Immagino che la sera, quando si tirano le somme, i capi contino le bombe lanciate sulla testa del nemico, i razzi scagliati, i nemici ammazzati (militari o no, vanno tutti nel mucchio) e le immagini condivise. Trecento razzi, dice uno; duecentomila condivisioni, dice l’altro. Il capo (o il team delle teste pensanti) approva, decide la strategia per il giorno dopo. Vaglia le immagini che hanno avuto più successo: la mamma straziata, la bambina che cerca i libri fra le macerie, il mucchio di cadaveri. Soggetti che una guerra produce con generosità. Non importa come siano state realizzate: se da un reporter coraggioso o da una persona qualunque con lo smartphone, o da un fotografo embedded. Si tratta di individuare quelle che funzionano di più, che hanno iscritto più gente al proprio fronte interno globalizzato. Non importa il motivo per il quale, domani, uno le condividerà: per informare, testimoniare, vendicarsi, indignarsi, chiedere la pace e la fine del massacro. Domani, ognuno combatterà con le sue armi. Uno con il lanciarazzi e l’Ak47, il Raphael o l’Iron Dome. L’altro col tasto “condividi”.

    Ecco perché esito a condividere. Ecco perché non condivido, per quanto il mio primo impulso sia quello di comunicare agli amici la mia rabbia e la mia pietà per gli uccisi, pensando che quella foto dia forza e verità al mio sentimento. Non lo faccio per lo sdegno piccato di chi sospetta di essere strumentalizzato. Perché “non mi va di essere arruolato a mia insaputa”. Ma, perché – come mi ha insegnato il disegno della ragazzino di Graz – io vivo in un altro mondo, che in questo momento è fortunatamente in pace. Posso scegliere il mio ruolo. Entrare nel conflitto, a sostegno dell’uno o dell’altro, o dire basta. Cessate le armi. Ma con quale credibilità chiederò il passo indietro di entrambi, se faccio parte di uno dei fronti? Come posso chiedere la pace, se entro in guerra?

    Perché non contribuire a creare un altro fronte interno, a sostegno di quelli – palestinesi e israeliani – che chiedono la pace, l’hanno chiesta in passato, e oggi sono stati messi in minoranza,  vittime di nemici e di connazionali? Perché non incoraggiarli con la consapevolezza di avere alle spalle un fronte interno grande e potente?

    Non è necessario essere pacifisti, per valutare questa opzione. Non so che cosa farei se gli italiani fossero coinvolti direttamente in un conflitto. Non sono dentro una guerra, quindi non posso giudicare chi si trova nell’inferno e ne segue la logica. Né giudico chi, animato da intenzioni generose, si schiera sul web. Credo, però, che un buon compito per chi si trova momentaneamente in pace, per chi da settant’anni non sperimenta la guerra sulla propria pelle (privilegio unico nella storia), sia quello di aiutare gli altri ad abbassare le armi. E questo non si fa applaudendo i guerrieri, né brandendo le vittime.


    Il ruolo dell’insegnante di storia

    Condividere o no è una scelta personale. Ne ho esposto i miei motivi. Penso che gli autori di moltissime condivisioni ne avranno di altrettanto validi e che se ne possa discutere. In fondo, è il lusso che ci concede lo stato di pace. Quello che so, per certo, è che – essendo una scelta personale – questa non può essere oggetto di valutazione, e quindi di una qualche direttività didattica. Libera per me, libera anche per gli studenti.

    Allora, che cosa insegnare di questa vicenda?
    La storia della circolazione sociale delle immagini, che ho ricordato senza alcuna pretesa di completezza (per questa occorre studiare i lavori di chi se ne è occupato professionalmente, come Giovanni De Luna  o Peppino Ortoleva),  pur nella sua brevità, è sufficiente per alcune risposte. Provo a suggerirne cinque.

    Costruire la profondità temporale dell’evento. La storia fornisce una prospettiva temporale a ciò che sembra un tipico prodotto del presente. C’è un passato, nell’uso bellico delle immagini, che mi permette di riflettere sul fatto che io sono in grado di vedere qualcosa di un evento bellico che si svolge a distanza. Questa vicinanza al fronte di chi sta nel retroterra non è “naturale”. E’ costruita, ha i suoi scopi, le sue regole, i suoi problemi, a volte i suoi controllori. Questo sistema complesso, attivato nelle società fin da tempi lontanissimi, si è modificato nel tempo. Oggi ne viviamo una fase molto particolare e molto efficace. Per mettere in grado il soggetto di valutare questa specificità, occorre che egli sia in grado di ricostruire questa prospettiva. Di conseguenza è importante, proprio per prepararlo a gestire il flusso di immagini belliche odierne, insegnargli a leggere quelle del passato.

    - Comprendere il meccanismo della diffusione sociale delle conoscenze. La storia ci mostra come funziona questo meccanismo intricato, che lega il fronte al retroterra. Quali sono gli interessi, gli attori, gli strumenti della comunicazione, gli effetti. Ti avvisa che accedere a questo sistema è entrare nel gioco, diventarne un soggetto attivo – anche se non lo si vuole. Lo era in passato. Oggi, con i sistemi di computo delle visualizzazioni, e con la possibilità di contribuire alla circolazione delle informazioni, lo è ancora di più.

    - Saper gestire criticamente le fonti. La disciplina storica è il più antico deposito di tecnologia dell’informazione che l’umanità abbia costruito. Lo facciamo da 2500 anni, da quando Erodoto cominciò a raccogliere notizie e a interrogarsi quale fosse verosimile, quale vera e quale invece una fandonia. La storiografia ha elaborato un sistema di critica delle notizie, che ci permette di costruire un’immagine ponderata della realtà, a dispetto della loro fallacia, voluta o inconsapevole (Elena Musci ha mostrato come si possano utilizzare in classe anche le “foto false” del fascismo).  Nessuno di noi “vede” le atrocità della guerra. Noi vediamo documenti visivi di queste atrocità. L’effetto di realismo di queste immagini, accentuato dal movimento e dal suono, ha lo straordinario potere di ingannare il suo fruitore. Il suo disinganno è la premessa insostituibile per un uso corretto delle immagini. Oggi, fornire gli allievi degli strumenti elementari per valutare le notizie, diventa un compito che qualifica l’utilità civile dell’insegnamento della storia.

    - Avere un approccio critico ai media. C’è un’educazione ai media alla quale la storia può fornire un contributo specifico.  Per valutare criticamente un’immagine, occorre sapere chi l’ha scattata, per quale scopo, attraverso quali agenti è stata messa in circolo, qual è l’uso che se ne sta facendo. Senza queste notizie, l’immagine non riuscirà mai a funzionare come documento che aiuta il fruitore a capire quello che succede. E, mentre diminuisce il suo potenziale informativo, aumenta parallelamente il rischio che si presti a essere ingrediente di un discorso politico, ideologico, o di altro genere. Potremmo dire, allora, che un soggetto è educato ai media non solo quando sceglie per sé le immagini dotate di questi requisiti; ma anche quando se ne fa tramite attraverso la rete.

    - Conoscere la storia sociale della guerra e della pace. La storia può (deve) insegnare la differenza che esiste fra una società in guerra e una in pace. Non, come si fa solitamente, le cause, lo svolgimento, i protagonisti e l’esito di una guerra. Deve far capire quanto distanti siano le due società. Quanto diversamente funzionino le rispettive logiche; come si pensi diversamente, la scala diversa dei sentimenti, e gli ordini morali ribaltati.


    C’è infine, una forma di condivisione della quale non parlano mai i guru del web, ma che interessa la scuola da vicino: quella che inzeppa tesine, ppt e ogni genere di elaborato-compito multimediale. Mi capita spesso di vederne, in giro per le scuole. Solitamente i docenti me li mostrano con gli occhi lucenti di soddisfazione. Ne ricordo uno per l’imbarazzo che mi procurò. Era un 25 aprile. Il prof aveva curato, con i suoi allievi, un ppt sulla Liberazione, intitolato Democrazia contro Dittatura. Un montaggio ammirevole, veloce. La musica hard, sparata a mille, commentava una collezione di poveri impiccati, torturati, bruciati vivi, come se ne trovano a bizzeffe nella rete. Immagini scattate dagli stessi boia o con gli smartphone da chi si assiepava a vedere lo spettacolo. Di grande presa emotiva. Osservavo i ragazzi, catturati dai ritmi musicali e iconici. Per quello che riesco a capire era tecnicamente inappuntabile. Per quello che so, era una grave opera di diseducazione.

  • L'assalto alle statue di Colombo

    di Daniele Boschi

     

    Immagine 1. Colombo BostonFig.1: La statua di Cristoforo Colombo a Boston (Massachusetts) decapitata lo scorso 10 giugno. Fonte Un corposo dossier sulla Guerra delle statue

    Historia Ludens è intervenuta più volte sulla questione dell’abbattimento delle statue, con articoli sugli attacchi ai monumenti avvenuti a partire dal giugno scorso, sul dibattito sviluppatosi intorno alla cosiddetta “guerra delle statue” e sulla proposta di abbattere la statua di Costantino il Grande; abbiamo pubblicato inoltre una sitografia analitica e la presa di posizione degli storici che lavorano al progetto Contested Histories dell’IHJR (Institute for Historical Justice and Reconciliation). Ma l’analisi degli eventi più recenti rimarrebbe sicuramente incompleta, se tralasciasse il fatto che la principale vittima della furia iconoclasta, scatenatasi negli USA dopo l’uccisione di George Floyd lo scorso 25 maggio, non è stata il generale Robert Lee, né Jefferson Davis, né alcun altro dei Confederati, ma piuttosto Cristoforo Colombo.
    Il navigatore genovese, pur non avendo mai messo piede sul territorio attuale degli Stati Uniti, è considerato infatti dai suoi detrattori come una figura simbolo del colonialismo, dello schiavismo e del genocidio dei nativi americani. Per questo motivo, circa trenta statue di Colombo sono state vandalizzate, abbattute o rimosse tra il 9 giugno e il 31 luglio di quest’anno, un numero molto più alto di quelle di ognuno dei Confederati preso singolarmente. E non è affatto detto che la vicenda si chiuda così, dato che ci sono ancora svariate decine di monumenti dedicati a Colombo ancora al loro posto, sparsi sul territorio statunitense (lo si deduce confrontando questo elenco con quello delle statue abbattute o rimosse).

     

    Colombo nella memoria degli Stati Uniti

    Gli attacchi alle statue di Colombo negli Stati Uniti hanno alle spalle una lunga storia, che credo sia utile ricostruire sommariamente (per una analisi più approfondita si veda A. Brusa, Colombo eroe o malfattore? in M. Gazzini, Il falso e la storia, Feltrinelli, Milano 2020, in corso di stampa).
    Va tenuto presente anzitutto che la figura di Cristoforo Colombo ha avuto un ruolo molto importante nella definizione dell’identità e delle origini degli Stati Uniti d’America. Nel corso dell’800 Colombo è divenuto l’oggetto di un autentico culto, sia da parte delle élites sia nella cultura popolare della nuova nazione nordamericana. Un importante e ben noto contributo alla costruzione del mito di Colombo fu la celebre biografia di Washington Irving, A History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828), alla quale si devono buona parte degli elementi costitutivi dell’immagine eroica e romantica del navigatore genovese, tramandata a generazioni di scolari fino a non molto tempo fa. A ciò si aggiunge il fatto che, a partire dalla fine del XIX secolo, Cristoforo Colombo è stato innalzato a figura simbolo degli immigrati italiani negli USA e della loro travagliata integrazione in quel paese. Fu anche in seguito alle pressioni esercitate da un influente uomo d’affari italo-americano, Generoso Pope, che il Presidente degli Stati Uniti F. D. Roosevelt riconobbe nel 1934 il Columbus Day (12 ottobre)come festa nazionale[1].

    A Colombo sono dedicate strade, piazze e monumenti in tutti gli Stati Uniti. Numerose contee e città – tra le quali le capitali dell’Ohio e della South Carolina – e una prestigiosa università – la Columbia University di New York - portano il suo nome, o quello da lui derivato di Columbia. In suo onore il territorio della capitale degli Stati Uniti si chiama, appunto, District of Columbia.
    In netto contrasto con questo glorioso passato, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso la figura dell’esploratore genovese è divenuta oggetto di dure critiche, sia da parte della cosiddetta storiografia ‘revisionista’, sia da parte degli attivisti dei movimenti che si battevano per i diritti dei nativi americani e di altre minoranze[2]. Si è cominciata allora a diffondere una nuova immagine di Colombo, visto non più come il grande navigatore che ha scoperto l’America, ma come l’uomo che ha avviato lo sfruttamento e il genocidio degli abitanti originari del Nuovo Mondo. 

    La decostruzione del mito di Colombo ha avuto varie ripercussioni, anche per effetto delle campagne organizzate dalle associazioni dei nativi americani. Come è ben noto, numerose città e stati, a partire dal 1990, hanno abolito il Columbus Day, rimpiazzandolo in molti casi con l’Indigenous Peoples’ Day(o Native Americans’ Day)[3]. E gruppi di attivisti hanno cominciato a chiedere la rimozione delle statue e dei monumenti dedicati a Colombo, che sono stati talora oggetto di vandalismo, soprattutto in questi ultimi anni, fino all’escalation avvenuta a partire dal giugno scorso.

     

    Immagine 2. Washington IrvingFig.2: Washington Irving (1783-1859), autore della History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828), alla quale risalgono buona parte degli elementi costitutivi dell’immagine eroica e romantica del navigatore genovese. Fonte Colombo nella memoria storica dell'America latina

    È utile ricordare che anche nell’America latina la fortuna di Colombo ha seguito una parabola abbastanza simile a quella descritta negli USA. A partire dal secondo decennio del ‘900, diversi Stati dell’America centro-meridionale hanno celebrato il 12 ottobre come Día de la Raza, per ricordare l’incontro e la contaminazione tra spagnoli e nativi americani come elemento fondante della propria identità nazionale. Ma a partire dalla fine del secolo scorso, molti governi hanno cambiato il nome di questa ricorrenza, che è diventata ad esempio in Venezuela il Día de la resistencia indígena e in Argentina il Día del Respeto a la Diversidad Cultural. Inoltre, alcune statue di Cristoforo Colombo sono state abbattute o rimosse, per essere poi sostituite con monumenti dedicati ai protagonisti della resistenza dei nativi contro i colonizzatori europei. Nel 2015, a Buenos Aires, una statua di Juana Azurduy de Padilla, che lottò per l’indipendenza della Bolivia, ha sostituito un monumento del navigatore genovese. E nello stesso anno a Caracas è stato inaugurato un monumento a Guaicaipuro, leader della resistenza ai conquistadores, sullo stesso posto dove prima si ergeva una statua di Colombo, abbattuta nel 2004.
    La trasformazione dell’immagine di Colombo avvenuta negli ultimi decenni è un fenomeno molto complesso. Infatti, come ha messo in evidenza Antonio Brusa (nel saggio che ho già citato) l’azione demistificatrice, tipica di una storiografia critica, è stata accompagnata da un curioso processo di mitopoiesi “che mentre distrugge il vecchio mito – del Colombo modello di cittadinanza – ne produce uno nuovo, del Colombo simbolo del dominio occidentale sul pianeta e concentrato di crimini contro l’umanità”[4]. C’è inoltre un evidente rapporto – secondo Brusa – tra questo processo e lo stretto connubio tra storia e identità, che si è affermato in tutte le società nel passaggio dall’età della guerra fredda al caotico mondo globale dei nostri tempi. Come vedremo, il dibattito statunitense sugli assalti alle statue di Colombo conferma questa interpretazione.

     

     Colombo nei media americani

    Per esaminare le reazioni e i commenti ai recenti attacchi alle statue di Colombo negli Stati Uniti, diamo un rapido sguardo ad alcuni dei principali quotidiani statunitensi: essi rivelano un’opinione pubblica divisa e non di rado perplessa.
    Alcuni commentatori e, soprattutto, molti amministratori locali non sembrano nutrire molti dubbi sul fatto che i monumenti a Cristoforo Colombo vadano rimossi. Ad esempio, lo scorso 23 luglio, il “Chicago Tribune”, di fronte alle pressanti richieste di rimuovere le statue del navigatore genovese dagli spazi pubblici della città, ha pubblicato un editoriale il cui titolo dice già tutto: “Christopher Columbus was a fraud. He doesn’t deserve statues or a holiday in his honor” (Su Cristoforo Colombo ci hanno ingannati. Non merita statue né una festa in suo onore). L’autrice dell’articolo, Dahleen Glanton, afferma che i libri scolastici, sui quali lei stessa e i suoi concittadini si sono formati, sono pieni di bugie riguardo alla cosiddetta “scoperta dell’America”; e fornisce questa breve ma densa descrizione della figura e delle imprese di Colombo:

    Egli fu certamente un esploratore coraggioso e di successo, ma fu anche un uomo malvagio e brutale che non mise mai piede in quel posto dove ora sono gli Stati Uniti. Sbarcò per caso nei Caraibi, lasciando un retaggio di razzie e schiavitù, per poi essere alla fine arrestato e tornare in Spagna in catene, privato della sua nobiltà. Per la maggior parte dei bianchi americani, Colombo è l’intrepido conquistatore che diede inizio alla colonizzazione transatlantica, che ha reso possibile la loro presenza qui. Ma per molti nativi americani, egli rappresenta il perfetto esemplare di un barbaro colonizzatore. Il sanguinoso processo dell’occupazione coloniale delle Americhe cominciò con lui. Sulla scia della colonizzazione un numero enorme di nativi americani furono uccisi, ridotti in schiavitù o altrimenti cacciati dalla loro terra” (le traduzioni di questo e degli altri brani sono mie).

    Altri editorialisti si sono espressi con maggiore cautela. Per esempio, sullo stesso quotidiano (“Chicago Tribune”, 22/07/2020), Blair Kamin aveva manifestato forti perplessità circa la richiesta di rimuovere le statue di Colombo:

    | Per i suoi difensori, che comprendono molti membri della comunità italo-americana di Chicago, Colombo è ben rappresentato come un audace, pioneristico esploratore che aprì la strada alla prosperità e al progresso sia in America che in Europa. Eppure alcuni recenti studi storici lo dipingono come uno spietato colonizzatore e sfruttatore dei nativi. Per alcuni storici, egli è entrambe le cose. Data questa diversità di opinioni, la questione se sia giusto onorarlo si colloca, almeno a mio giudizio, in una zona grigia, diversa dal caso, facile da risolvere, dei monumenti dei capi dei Confederati, che combatterono sia per distruggere l’Unione, sia per perpetuare la schiavitù.

     

    Colombo e le associazioni dei nativi americani

    D’altro canto, come era logico aspettarsi, l’abbattimento o la rimozione delle statue di Colombo sono stati appoggiati, o addirittura promossi, dalle associazioni dei nativi americani.
    Per esempio, dopo che una statua di Colombo è stata decapitata a Boston il 10 giugno scorso, Jean-Luc Pierite, presidente del North American Indian Center, ha dichiarato che quel monumento rappresentava “la violenza di stato subita dai neri e dai nativi americani per oltre 500 anni” e che qualsiasi tentativo di restaurarlo avrebbe incontrato l’opposizione di queste due comunità. A St. Paul nel Minnesota, Mike Forcia, esponente dell’American Indian Movement, ha promosso e organizzato lui stesso l’abbattimento della statua di Cristoforo Colombo nei pressi dello State Capitol. A Baltimora, dopo lo smantellamento di un’altra statua del navigatore genovese il 4 luglio scorso, Jessica Dickerson, rappresentante dell’associazione Indigenous Strong, ha commentato l’evento con queste parole: “Noi non otteniamo molte vittorie, giusto? Questa è una piccola, ma grande vittoria, [Colombo] è stato un assassino per il mio popolo”.

     

    Immagine 3. Colombo Baltimora 1Fig.3: La statua di Cristoforo Colombo nella zona di Little Italy a Baltimora (Maryland), prima che fosse abbattuta il 4 luglio scorso. Fonte Colombo e le comunità italiane

    Vigorose sono state invece le lamentele e le proteste dei rappresentanti delle comunità italo-americane.
    A Baltimora John Pica Jr., presidente dell’associazione Little Italy’s Columbus Day Commemoration, ha dichiarato che la statua di Colombo appena abbattuta era un monumento agli italo-americani e che questi continueranno comunque a celebrare il Columbus Day. A Columbus, capitale dell’Ohio, dopo l’annuncio che la statua dell’esploratore genovese sarebbe stata rimossa dalla West Broad Street, il Columbus Piave Club ha rilasciato una vibrante dichiarazione di protesta, lamentando di non essere stato nemmeno consultato dalle autorità municipali e ricordando il contributo dato dalla comunità italo-americana all’acquisto e alla manutenzione della statua. Non poteva mancare, anche in questo caso, un riferimento al Columbus Day, una ricorrenza con la quale – si legge nella dichiarazione - si celebrano “gli italo-americani e le positive realizzazioni con le quali gli italiani hanno dato il loro contributo alla nostra società”.
    A questo genere di interventi si replica dal fronte opposto sostenendo che gli italo-americani potrebbero benissimo scegliere, come simbolo della propria identità, un altro personaggio storico meno controverso; tra i nomi proposti ci sono Dante Alighieri, Marco Polo, Michelangelo, Garibaldi, Sacco e Vanzetti, Enrico Fermi[5].
    Lo scontro tra i due opposti gruppi etnici (o tra due gruppi che si presumono tali) e tra le loro storie e memorie contrapposte, è talmente forte da condizionare – come abbiamo visto - anche il giudizio di osservatori indipendenti, e conferma in pieno le osservazioni di Antonio Brusa circa il ruolo centrale che ha assunto la questione dell’identità etnica o nazionale nella cultura storica diffusa.

     

    La voce degli storici: la revisione del mito

    Anche gli storici hanno partecipato al dibattito pubblico sulle statue e sulla figura di Colombo, pur svolgendo in esso un ruolo meno importante rispetto a quello che hanno avuto nelle discussioni sui monumenti dei Confederati[6].
    Tra i commenti dedicati agli attacchi alle statue del navigatore genovese, troviamo ad esempio quello dello storico Michael D. Hattem sul “Washington Post”. Hattem ha posto l’accento sul fatto che la storia del mito di Colombo “rivela in che modo la nostra memoria collettiva del passato venga costruita e cambi col passare del tempo, piuttosto che essere una intrinseca espressione del passato”. Egli ha quindi rievocato le principali tappe dell’evoluzione del mito di Colombo negli Stati Uniti: dall’uso del termine Columbia come personificazione femminile dell’America fin dagli anni ’60 del Settecento alle grandi celebrazioni organizzate nel 1792 in occasione del tricentenario della scoperta del Nuovo Mondo; dall’esaltazione di Colombo nella letteratura e nei libri di testo scolastici fino all’uso politico della sua figura nel corso dell’Ottocento, sia per legittimare l’espansione degli Stati Uniti verso Ovest, sia per facilitare l’assimilazione culturale e politica della sempre più numerosa comunità italo-americana. Ma proprio perché la memoria collettiva si evolve nel tempo, non c’è da sorprendersi se personaggi che per un certo periodo sono stati ingigantiti e celebrati cadano poi in disgrazia quando cambia il contesto culturale o politico.
    Ci si può chiedere, però, se la sostituzione dell’ottocentesca immagine eroica di Colombo con l’antitetica rappresentazione del navigatore genovese come una specie di assassino e mostro genocida sia veramente utile alla comprensione della storia di questo personaggio e dei suoi tempi.
    Il giudizio degli storici, naturalmente, è più cauto e sfumato rispetto a quello totalmente negativo che si è diffuso in una parte dell’opinione pubblica. Kris Lane, che insegna storia alla Tulane University di New Orleans, è intervenuto più volte negli ultimi anni nel dibattito pubblico attorno alla figura di Colombo. Nel 2015 ha scritto un editoriale sul “Washington Post” per confutare ‘cinque miti’ riguardanti l’esploratore genovese, tra i quali vi è quello secondo cui egli sarebbe responsabile del genocidio dei nativi delle isole dei Caraibi. In proposito, Lane ha riconosciuto che non vi sono dubbi sul fatto che Colombo abbia oppresso la popolazione di quelle isole e abbia ridotto in schiavitù quasi 1500 nativi per deportarli e venderli in Europa. Peraltro, Colombo non dovette inventare nulla di nuovo, poiché non fece altro che seguire l’esempio dei Portoghesi e degli Spagnoli, che già da molto tempo erano attivi nel commercio degli schiavi. L’accusa di genocidio, invece, va circostanziata, perché Colombo non aveva nessuna intenzione di sterminare i nativi dei Caraibi: voleva piuttosto avere dei sudditi da tassare e governare. Si può parlare quindi di genocidio solo come risultato involontario delle decisioni prese da Colombo e dai suoi familiari.
    Dopo gli attacchi ai monumenti avvenuti nel giugno scorso, Lane ha rilasciato una lunga e interessante intervista, nella quale ha distinto con precisione le caratteristiche di Colombo come personaggio storico da quelle del mito costruito nell’Ottocento attorno alla sua figura: Colombo fu certamente un grande navigatore, anche se sbagliò nel ritenere di poter arrivare in Asia; cercava l’oro, ma forse più per dimostrare ai sovrani spagnoli l’utilità della sua impresa che per avidità personale; diede inizio nel Nuovo Mondo al commercio degli schiavi, ma questa era una pratica molto diffusa - anche se non universalmente accettata - alla fine del ‘400; fu un uomo del suo tempo, ma fece comunque delle scelte in base alla sua personale visione del mondo. Attorno alla sua figura è stato costruito un mito e ora che esso si è rivelato in buona parte privo di fondamento, è naturale che gran parte della gente non senta più il bisogno di celebrare il navigatore genovese e che molti vogliano disfarsi delle sue statue.

     

    La rilevanza storica di Colombo

    Molto diverso è invece il giudizio dello storico italiano Matteo Casini, che insegna all’Università del Massachusetts. Intervistato dal “Boston Globe”, Casini ha affermato che la figura di Colombo “non deve essere vista per ciò che egli ha fatto più di 500 anni fa, ma, prima di tutto, come un simbolo per gli italiani che cominciarono ad arrivare qui alla fine dell’Ottocento”. Ed ha aggiunto:

    Essi combatterono, come tutti sanno, una battaglia estremamente dura per l’uguaglianza razziale e per il riconoscimento sociale, molto simile a quella degli africani e dei nativi americani. La festa del ‘Columbus Day’ e le statue a dedicate a Colombo negli ultimi 150 anni, devono essere considerate come ‘armi dell’orgoglio’ di una minoranza che voleva conquistare il suo posto nella ‘terra delle opportunità’, mediante il duro lavoro, l’accettazione delle regole comuni e una piena integrazione.

    Fa notare poi un altro storico, William J. Connell, che anche se tutti i monumenti dedicati a Colombo dovessero scomparire, il navigatore genovese rimarrebbe ancora con noi: “E la ragione è molto semplice: il 12 ottobre del 1492 è la data più importante nella storia dell’umanità, a partire almeno dall’invenzione dell’agricoltura”. È infatti da quella data che ha avuto inizio il mondo globalizzato nel quale oggi viviamo. È vero, Colombo diede inizio nel Nuovo Mondo alla deportazione degli schiavi e alla spoliazione delle terre dei nativi. Ma queste colpe non sono soltanto sue: sono infatti i due ‘peccati originali’ della Conquista e degli stessi Stati Uniti d’America.
    Data la vivacità del dibattito, e considerando la grande quantità di statue del navigatore genovese che sono tuttora in piedi, tutto lascia prevedere che negli Stati Uniti le discussioni su Colombo e sul Columbus day si protrarranno ancora per molto tempo.

     

    Immagine 4. Contro il Columbus DayFig.4: Studenti di origine messicana manifestano contro il “Columbus Day”. Fonte Il dibattito italiano: il "processo" a Colombo

    Gli attacchi alle statue e alla figura di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti hanno avuto più di una eco anche in Italia. Se in alcuni casi vi è stata una piena adesione alla demolizione della figura eroica dell’esploratore genovese, non sono però mancate diverse voci critiche rispetto a questo completo capovolgimento dell’immagine tradizionale di Colombo e alle sue implicazioni per il tipo di cultura storica veicolata dai media e dalle università.
    Citerò come esempio del primo atteggiamento il Processo a Cristoforo Colombo messo in scena da Jacopo Fo e Mario Pirovano presso la Libera Università di Alcatraz e diffuso in occasione del Columbus Day del 2017. Secondo i promotori dell’iniziativa “Cristoforo Colombo, un italiano, era un assassino, torturatore, schiavista, e bisogna rompere questa italica censura sulla verità dei fatti e insegnare ai ragazzini che di Colombo c’è da vergognarsi che fosse italiano, tale quale a Totò Riina” (così si legge nella presentazione del video). Il processo – molto ben realizzato e facilmente spendibile a livello didattico - vede Mario Pirovano nel ruolo dell’avvocato difensore, mentre Jacopo Fo sostiene l’accusa. Documenti alla mano, Jacopo Fo presenta tutti i principali capi d’accusa contro Colombo, mentre Pirovano cerca inutilmente di difenderlo. Il tutto si conclude con la damnatio memoriae del genovese, eseguita coprendo la sua statua con un sacco della spazzatura.
    In una diversa prospettiva, il “processo a Colombo” è stato di recente oggetto di un saggio dello storico Antonio Musarra. Lo stesso autore ha fornito sul web una accurata presentazione del suo libro (farò qui riferimento soltanto ad essa). Musarra parte dal fatto che il giudizio degli storici su Cristoforo Colombo negli ultimi trent’anni è cambiato radicalmente: Colombo non è più visto ormai come il sognatore dedito ad oltrepassare i limiti del mondo conosciuto, ma come il primo dei conquistadores, come colui che ha dato inizio all’occupazione delle Americhe, che avrebbe poi provocato lo sterminio di milioni di persone. E tuttavia l’assalto alle statue di Colombo, che si configura come una vera e propria damnatio memoriae, suscita – secondo Musarra - molte perplessità. In primo luogo perché processare la storia non è soltanto sbagliato, anzi si può rivelare pericoloso. In secondo luogo perché le accuse mosse a Colombo sono, sotto vari aspetti, esagerate: non ha senso, ad esempio, accusarlo di genocidio, dato che non gli passò mai per la testa di sterminare i nativi americani. In realtà, a coloro che deturpano o abbattono le statue del navigatore genovese, così come a molte amministrazioni americane, la figura storica di Colombo non interessa veramente: egli è assurto a simbolo della violenza colonizzatrice dell’uomo bianco e la generale condanna nei suoi confronti rivela anche la persistente difficoltà degli Stati Uniti di fare i conti col proprio passato.

     

    Immagine 5. Colombo ProvidenceFig.5: Una statua di Cristoforo Colombo a Providence (Rhode Island) vandalizzata in occasione del “Columbus Day” dell’ottobre 2019. Fonte Il "relativismo totalitario"

    Un approccio critico, ma di altra natura, è stato poi quello di Raffaele Romanelli, che in una lettera al presidente e al comitato direttivo della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (pubblicata sul “Foglio” del 24/06/2020) ha denunciato il “relativismo totalitario” che starebbe prendendo piede nel mondo accademico anglosassone. Con riferimento proprio ai recenti attacchi alle statue e alla figura di Cristoforo Colombo, Romanelli ha messo in evidenza come addebitare a Colombo tutti i crimini e le sopraffazioni che hanno fatto seguito alla sua “scoperta” significa cancellare il principio della responsabilità personale - che è uno dei capisaldi dello stato di diritto e dei diritti dell’uomo e del cittadino – per sostituirlo col concetto di una responsabilità di gruppo: un gruppo, quello dei bianchi occidentali, che tende ad assumere connotati genetici e razziali, e che quindi diventa, nel suo insieme, colpevole dello sterminio dei nativi americani e della schiavitù dei neri. Secondo Romanelli questa tendenza si collega a un più generale clima di intolleranza, che si sta diffondendo negli ambienti universitari americani, canadesi e britannici, e che si manifesta anche con la messa al bando di chiunque non accetti il dogma imperante secondo cui le differenze di genere non hanno una base biologica. Si sta affermando, insomma, una sorta di “relativismo totalitario”, nel senso che la verità viene presentata come relativa/soggettiva, in quanto insensibile ai dati (storici o biologici), ma viene al tempo stesso imposta con le tecniche della persecuzione totalitaria.
    È appena il caso di ricordare che la lettera di Romanelli ha preceduto di sole due settimane la Letter on Justice and Open Debate (pubblicata il 07/07/2020 sullo “Harper’s Magazine”) nella quale 153 intellettuali americani hanno denunciato il pericolo che le giuste richieste di una maggiore giustizia, eguaglianza ed inclusione nella società statunitense possano generare anche una crescente intolleranza nel mondo della cultura, dai giornali alle case editrici alle università. Un’analisi di questa lettera e del dibattito che ha suscitato ci porterebbe molto lontano dall’argomento di questo articolo. Ma riprenderemo certamente, su Historia Ludens, la questione della “cancel culture” (sulla quale si veda intanto The Harper’s ‘Letter,’ cancel culture and the summer that drove a lot of smart people mad, sul “Washington Post” del 23/07/2020).

     

    Piste di lavoro didattico

    L’attacco alle statue di Colombo e il capovolgimento del mito costruito attorno alla sua figura sono anzitutto un’espressione del malessere, delle contraddizioni e dei mutamenti che si sono sviluppati nella società e nella cultura degli Stati Uniti e del mondo occidentale negli ultimi decenni. Sebbene la richiesta di una maggiore giustizia sociale e di un definitivo superamento dell’interpretazione tradizionale delle imprese di Colombo sia assolutamente condivisibile, la furia vendicatrice che si è scatenata nei mesi scorsi sembra essere un ostacolo a una riflessione equilibrata.
    A livello didattico, gli assalti alle statue di Colombo possono rappresentare un’ottima occasione per sviluppare ricerche e dibattiti tra gli studenti, non solo negli Stati Uniti ma anche in Italia, dato che il navigatore genovese è stato a lungo celebrato anche da noi come una figura simbolo della storia e dell’identità nazionale. Molti sono gli interrogativi e i problemi che potrebbero essere posti al centro di un percorso didattico. Ad esempio i seguenti: ha ancora senso parlare di una “scoperta” dell’America? è fondata l’accusa di genocidio mossa nei confronti dell’esploratore genovese? È giusto abbattere o rimuovere le statue di Colombo? Che cosa dovremmo fare se anche qui in Italia qualcuno proponesse di rimuoverle? Fino a che punto i libri di testo scolastici hanno superato l’immagine tradizionale di Colombo e delle sue imprese? È legittimo fare processi ai grandi protagonisti della storia?
    Una seconda occasione, collegata a questa, è data dalla possibilità di riflettere sul nesso storia-memoria-politica. Il caso americano mostra come non solo lo stato, ma anche le comunità (in questo caso etniche) facciano pressione sulla memoria collettiva (i monumenti, le festività) e la storia scolastica (le “bugie dei manuali”) e come la storia e gli storici siano in reale difficoltà a far sentire la propria voce. In ogni caso, questo argomento si aggancerebbe al filone didattico del rapporto fra storia e memoria che, in Italia, rischia di essere circoscritto alle celebrazioni del 27 gennaio e dell’11 febbraio.
    Infine, sono di grande interesse le riflessioni sviluppate, in margine al “processo” a Colombo, da Antonio Musarra e da Antonio Brusa sugli stereotipi, sull’epistemologia naïve e sulla difficoltà di far comprendere, anche al di fuori di ristrette cerchie intellettuali, la complessità dei processi storici. A partire dagli stessi fatti e documenti riguardanti la vicenda di Colombo, il dibattito storico e il dibattito pubblico giungono a conclusioni differenti:

    | Quest’ultimo si conclude con una condanna senza appello, mentre la controversia storica può giungere a conclusioni differenziate, di comprensione varia del “fenomeno Colombo”, e – soprattutto – rifiuta a priori l’alternativa eroe/malfattore, che tanto appassiona la gente[7].

    La comunicazione fra ricerca accademica e società – sostiene Brusa - sembra aver funzionato nella divulgazione di alcune conoscenze, ma non nella trasmissione delle capacità di elaborarle. Si è costretti ancora una volta a constatare una preoccupante divaricazione tra storiografia e senso comune storico, tra sapere accademico e cultura popolare, tra una concezione della società e dello sviluppo storico come fenomeni complessi e una visione semplicistica della storia basata su poche convinzioni e sull’importanza decisiva di singoli eventi e personaggi chiave.
    È davvero auspicabile quindi che l’insegnamento della storia possa tener conto delle problematiche e delle contraddizioni che il “processo” a Colombo, e più in generale la “guerra delle statue”, hanno fatto emergere nel dibattito pubblico, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo occidentale.

     

    [1] Il Columbus day divenne poi una vera e propria festa federale nel 1968 (vedi ancora la voce di Wikipedia citata nel testo).

    [2] Oltre al saggio già citato di Antonio Brusa, vedi H. Schuman, B. Schwartz, H. d’Arcy, Elite Revisionists and Popular Beliefs: Christopher Columbus, Hero or Villain?, “Public Opinion Quarterly”, vol. 69, No. 1, Spring 2005, pp. 2-29.

    [3] Vedi Luke O'Neil, Goodbye, Columbus: holiday in decline as brutal legacy re-evaluated, “The Guardian (International Edition)”, 08/10/2018, e la già citata voce di Wikipedia sul Columbus Day.

    [4] A. Brusa, Colombo eroe o malfattore?, cit.

    [5] Vedi ad esempio: Eric Zorn, Ethnic pride, yes. Columbus Day? No, “Chicago Tribune”, 03/03/2020; Chris Leblanc, As Italian Americans in Boston debate the legacy of Christopher Columbus, some want his statue – recently beheaded – permanently gone, “Chicago Tribune”, 17/06/2020; The false narrative about Christopher Columbus, “Chicago Tribune”, 21/07/2020. 

    [6] Questa è l’impressione che ho ricavato dalle fonti più facilmente accessibili sul web. Ma naturalmente è impossibile passare al setaccio lo smisurato numero di quotidiani e riviste online, blog e siti internet che trattano argomenti storici.

    [7] A. Brusa, Colombo eroe o malfattore?, cit.

  • L'Orologio dell'Apocalisse e le humanities


    Quando i sovietici installarono i missili SS20 e gli Usa i Pershing, avemmo tutti paura. Erano "armi di teatro" si diceva. Cioè potevano essere usati senza scatenare una Mutua Distruzione Assicurata (MAD), cosa che aveva trattenuto le superpotenze di allora dall'usare le bombe all'idrogeno. Naturalmente non ci credette nessuno, nemmeno in Italia, dove notoriamente siamo di bocca buona, anche perché i Pershing li avevano piazzati proprio qui. Era il 1984. Non so più a quante manifestazioni per la pace partecipai (io e tantissimi altri, di tanti orientamenti politici) e quanti documenti firmammo; ma ricordo che ogni notte, andando a letto, provavo un certo senso di angoscia.

    Il fatto era che i tg avevano parlato dell' "Orologio dell'Apocalisse", il Doomsday Clock, che certi scienziati aggiornavano, spostando le lancette verso la mezzanotte o allontanandole, a seconda della vicinanza o meno dalla Fine del Mondo, l'ora dell'Apocalisse. Era il 1984 e quest'orologio segnava tre minuti alla mezzanotte. Ci stavamo, quasi. Perciò andavamo a letto senza sapere se ci sarebbe stato un giorno dopo.

    Quell'orologio esiste dal secondo dopoguerra, quando un gruppo di scienziati, afferenti al "The Bulletin of Atomic Scientists" ha cominciato ad aggiornarlo annualmente, mettendolo in bella vista sulla prima pagina della loro rivista. E' stato una volta sola vicino ai due minuti, nel 1953, quando gli Usa sperimentarono la bomba all'idrogeno e l'URRS non ce l'aveva ancora. Poi, per ben tre volte è stato a tre minuti: nel 1947, quando l'URSS sperimentò la sua, di bomba atomica; nel 1984, quella che ricordo io e, sorpresa assai poco piacevole, nel 2015.

    Apprendo quest'ultimo aggiornamento dall'articolo di Giovanni Spataro, su "Le Scienze" di questo mese (Luglio 2015, pp. 44 s). E questa è la prima grande differenza con gli anni '80: oggi devo leggere una rivista scientifica per saperlo, perché i media traboccano di Grexit, Isis, Triton e Flegetonte (per non parlare del teatrino italiano, ma questo anche allora faceva spettacolo). La seconda differenza è che quelle lancette diventarono un problema caldissimo dal punto di vista politico. Per motivi diversi, certamente, scatenarono un dibattito, del quale oggi non mi sembra di rilevare qualche traccia. La terza differenza è che il rischio, in passato, fu esclusivamente militare, mentre oggi ha diverse componenti.

    Infatti, il rischio militare non si è affatto attenuato: il numero delle bombe nucleari è esorbitante; gli investimenti che le due (ex?) superpotenze vi destinano sono ingentissimi; i possibili lanciatori di bombe si sono moltiplicati e agiscono tutti su fronti molto caldi (Israele- Iran; India-Pakistan; Corea del Nord ecc). Accanto a questo, inoltre, agiscono due altri fattori di rischio: quello ambientale-climatico e quello del controllo difficile delle tecnologie (armi biologiche, ciberterrorismo ecc.). Entrambi, dicono quegli scienziati, sono prossimi alla deflagrazione.

    Oggi, dunque, agisce una miscela molto più pericolosa di quelle che ci hanno terrorizzato in passato: ma non riesce a diventare un problema politico centrale. Nel passato, infatti, la gestione politica del conflitto ebbe successo, spostando all'indietro le lancette fatidiche. Oggi, invece, per quanto ogni tanto qualcuno ne parli in giro e si facciano convegni qua e là, anche di grande risonanza, è indubbio che l'idea della prossimità alla Fine non tocchi la sensibilità diffusa, politica e no.

    Questo non fa che aumentare i fattori di rischio.

    Dice Spataro che ogni volta che le lancette si avvicinano alla fine, la questione fondamentale fu politica. Quella era la causa del rischio e fu a livello politico che si trovarono delle risposte. Questo è vero anche oggi, e ad un grado superiore, potremmo dire, perché si tratta di discutere di interessi, scelte, individuali e collettive, di dirottare investimenti da un settore all'altro, di prevedere che, con l'aggravarsi della crisi, diventeranno inevitabili le esplosioni di conflitti sociali; di costruire capacità di esercitare governo anche al di fuori dei propri confini nazionali.

    Una buona politica non chiede solo delle persone perbene e competenti nel proprio settore (come vorremmo tutti). Esige una buona capacità di leggere i problemi, di capire la società, di parlare con le persone, di istruire i cittadini in modo che sappiano stabilire gerarchie credibili dei mille problemi che travolgono la loro esistenza. E questo vuol dire: "humanities" (passi il termine inglese, visto che si tratta di un problema internazionale). L'incapacità diffusa, infatti, dei governanti come dei cittadini, di riconoscere i problemi di una società, è rivelatrice, a mio modo chiarissima, di uno straordinario deficit di "humanities".

    Per questo è sorprendente osservare l'attuale "attacco alle humanities", sferrato in modo particolare nel settore formativo. Seguendo, invece, il ragionamento di Spataro ( e degli scienziati del "Bullettin"), essendo la questione politica, ci si dovrebbe impegnare in tutto ciò che aumenta la nostra capacità di comprendere la società. Se si potesse, perciò, fare una postilla al loro lavoro meritorio, vorrei aggiungere, come quarto fattore di rischio, l'insensibilità dei governi verso la formazione storico sociale dei loro cittadini.

    http://thebulletin.org/timeline

  • La forza dell’Europa.

    Riflessioni sull'invasione dell'Ucraina.

    di Giovanni Gozzini

     

    L'Europa e la guerra

    01Fig.1: Nel 1957 vengono firmati i Trattati di Roma, che danno il via alla prima comunità europea, che diventò UE col trattato di Maastricht del 1992. La promozione della pace e della sicurezza e il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali sono tra i valori fondanti dell’Unione EuropeaNoi nasciamo come Unione Europea contro la guerra. Siamo la parte del pianeta che ha combattuto più guerre negli ultimi cento anni, se non vogliamo scomodare i secoli sanguinosi dell’età moderna. Nasciamo sull’idea che la guerra è inutile, e che i problemi si possono risolvere con la diplomazia e i negoziati. Questo lo dobbiamo dire ai Catalani, così come agli Ucraini. Noi dobbiamo rappresentare questo modo di essere al mondo anche per i cittadini russi. Siamo quelli che propongono un’alternativa alla risoluzione violenta dei conflitti.

    Dobbiamo tenere i nervi saldi. Non cedere alle provocazioni muscolari che Putin farà, per coinvolgerci sul terreno della guerra. Questo accadde dopo l’attentato delle Torri gemelle. Oggi, invece, dobbiamo essere capaci di esercitare una capacità egemonica che si fonda su quello che siamo, sul nostro stile di vita, sulle nostre idee, sulla difesa dei diritti.

    Se c’è questo, nel medio-lungo periodo vinceremo. Perché questa nostra posizione solleciterà la formazione delle opposizioni, come accadde in Sud Africa. Putin credo che lo sappia. Le sue scelte tendono ad allontanare indefinitamente una resa dei conti che mostrerà quanto debole sia un sistema autoritario.

    Ma saremo capaci di essere attendisti?

    Non ci piace la guerra, non andiamo in guerra anche perché abbiamo abbandonato l’idea che uno stile di vita vada difeso con le armi. Ci siamo adagiati. Siamo diventati un po’ pigri. Questo è il lato oscuro della faccenda. Il lato positivo è proprio nel modello di risoluzione dei conflitti che proponiamo. Le sanzioni. Cioè: l’isolamento completo del colpevole. La sua riduzione a “paria dell’umanità”, come ha detto Biden, perché si è macchiato del delitto più grave, l’uccisione degli innocenti.

    Se si riesce a stare saldi – come ci hanno insegnato Gandhi e Martin Luther King – e si riesce a stare uniti, si vince. Certo, pagheremo di più, ma è questo che ci garantirà che non ci succeda quello che sta accadendo agli ucraini.

    Non è facile. Ci vuole molta politica. Molta Europa. Molta capacità di leadership. Dobbiamo saper guardare oltre il nostro naso, perché stiamo difendendo qualcosa di molto più importante del costo del gas: la nostra storia e la nostra identità europea. Non è facile, soprattutto per un paese, come il nostro, nel quale i politici si orientano con i like dei social. Ma le emergenze cambiano la politica. E l’Italia ha dimostrato che, nelle situazioni difficili, riesce a dare il meglio di sé.

    La civiltà occidentale è contagiosa

    Dalla nostra parte c’è il fatto che questo nostro modo di essere al mondo è contagioso. Sono tanti i motivi che hanno spinto Putin a fare la guerra. Ma non è sbagliato pensare che uno dei più importanti sia stata la scelta filooccidentale della maggioranza del popolo ucraino. Non solo per l’Ucraina, ma anche per la Russia: Putin teme che il contagio si diffonda anche in Russia.

    A molti è sfuggito il dettaglio di gran lunga più inquietante di questa guerra in Ucraina. Qualche giorno fa Putin ha lanciato un appello ai militari ucraini, invitandoli a ribellarsi al loro governo di "drogati e nazisti". Nei decenni passati quando l'Unione Sovietica invadeva un paese straniero (la lista è lunga: Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968, Polonia 1981 - anche se allora il generale polacco Jaruzelski fa un'auto-colpo di stato per evitare l'invasione - Afghanistan 1979) aveva sempre pronta la soluzione alternativa: cittadini dei paesi invasi pronti a collaborare con le forze di invasione.

    Questi si facevano avanti, dicevano che i governi in carica nei loro paesi erano illegittimi e che i russi-sovietici avevano ragione. L'Armata Rossa dava loro in mano il governo. Stavolta no. Putin non ha in mano l'alternativa. O se l'aveva, qualcuno gliel'ha tolta (il presidente ucraino Zelenski ha fatto qualche velato accenno in proposito, parlando di arresti di spie). Dal punto di vista di Putin ciò complica molto le cose e forse contribuisce a spiegare il rallentamento di operazioni militari che i russi avevano pensato più rapide. Se non c'è un governo civile alternativo, l'esercito russo sarà costretto a presidiare un paese molto grande per lungo tempo. Si profila uno scenario simile a quello che la Russia ha sperimentato in Afghanistan e Cecenia: stillicidio di attentati terroristici in tutto il paese, morti tra i soldati russi, malcontento crescente nel paese. Un cocktail che rischia di diventare micidiale.

    Ma l'Europa e l'Occidente hanno perso un'occasione

    02Fig.2 e Fig.3: Fondata nel 1949, con il Patto atlantico, la Nato riunisce attualmente 30 paesi, dei quali 14 appartenevano al mondo comunista (Russa e Balcani). Fondato nel 1946, come risposta al piano Marshall, il Comecon riuniva i paesi dell’area sovietica in un patto di mutuo soccorso. Sciolto nel 1991. Nel 1955 venne siglato il patto di Varsavia, che stabiliva una cooperazione militare parallela alla Nato. Nel 2004, tutti i paesi del patto di Varsavia, esclusa la Russia, erano entrati nella Nato. Anastasia Buscicchio, Cosa resta del Patto di Varsavia

    Qualche volta il senno di poi può servire a evitare errori in futuro. O almeno in teoria questo dovrebbe essere lo scopo della storia. La guerra di oggi forse poteva essere evitata e il cammino di Putin verso la guerra non sarebbe stato così scontato.

    Tra 1989 e 1991 abbiamo commesso un errore capitale. Persa la guerra fredda, la Russia, sorta dalle ceneri dell’Unione Sovietica, finisce nelle mani di un governante abbastanza incapace come El'cin. L'economia diventa preda di una privatizzazione selvaggia che apre la strada ai famosi oligarchi. Chi sono questi oligarchi di cui si parla tanto? Un buon esempio è Roman Abramovic, (ex) padrone della squadra di calcio londinese del Chelsea. Negli anni Novanta fa soldi a palate acquistando azioni delle compagnie petrolifere di stato a prezzi bassissimi con denaro prestato dalle banche occidentali (El’cin ha un disperato bisogno di soldi freschi). Poi rivende a peso d’oro quelle stesse azioni alla Gazprom, la nuova società per l’energia nazionalizzata da Putin, e scappa all’estero. In quel momento potevamo e dovevamo fare qualcosa di più.

    03 2Fig. 4 e Fig. 5: Helmut Schmidt, Cancelliere della Repubblica Federale tedesca, Erich Honecker, primo segretario del Partito Socialista Unificato della Germania Orientale, Gerald Ford, Presidente degli Usa, Bruno Kreisky, cancelliere austriaco, firmano il trattato di Helsinki, 1 Agosto 1975. (Bundesarchiv/Horst Sturm) Nata nei primi anni della distensione fra Usa e Urss, all’inizio degli anni ’70, la Csce divenne OSCE nel 1994. Con 57 Stati partecipanti del Nord America, dell’Europa e dell’Asia, l’OSCE è la più grande organizzazione regionale per la sicurezza al mondo impegnata a garantire la pace, la democrazia e la stabilità a oltre un miliardo di persone.

    Invece di allargare egoisticamente la NATO verso est, potevamo ritenere chiusa quella alleanza (insieme alla guerra fredda che l'aveva originata) e aprire una nuova alleanza aperta anche all'ex nemico sovietico. C'era già un vecchio formato disponibile: la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa definita dagli accordi di Helsinki (1975) che includeva URSS, USA e tutti i paesi europei. Uno degli articoli di base era l'inviolabilità delle frontiere del tempo: cooperazione economica nella sicurezza reciproca, senza guerre. Si poteva applicare questo format alle nuove frontiere uscite dalla dissoluzione dell'URSS. El'cin avrebbe accettato. Noi siamo stati egoisti e abbiamo voluto stravincere.

    L'Occidente deve imparare come si fanno le paci

    Non è un vizio nuovo di noi europei, purtroppo. Siamo un po' specializzati nel fare paci che preparano nuove guerre per l'egoismo dei vincitori.

    Nel 1919 a Versailles facemmo una pace per chiudere la Grande Guerra che dava tutte le colpe alla Germania e le imponeva di pagare 230 miliardi marchi in riparazioni. La Germania, piegata dalla guerra e dalla sconfitta, cominciò a stampare cartamoneta e in breve il marco (la moneta tedesca) non ebbe più valore: un francobollo costava un miliardo di marchi. Così un omino coi baffi chiamato Hitler cominciò la sua propaganda per la rinascita di una grande Germania, dando la colpa della sconfitta e dell’aumento dei prezzi agli ebrei.

    Nel 1945 – uguale - anche se gli egoisti allora furono soprattutto gli USA, con la bomba atomica in mano (mentre l'URSS ancora non l'aveva). E via con la guerra fredda, invece di coinvolgere e includere l'URSS in un nuovo governo mondiale paritetico delle due superpotenze.

    Oggi come allora, riconoscere i confini reciproci è la prima condizione per fare accordi e trattati di pace. Ed è proprio quello che oggi Putin nega all'Ucraina. Ma se nel 1991 l'avessimo fatto noi, oggi la storia sarebbe diversa. E anche la Russia, probabilmente.

  • La lunga guerra tra uomo e microbi

    Con una postilla sul “Laboratorio del tempo presente” (di HL)

    di Salvatore Adorno*

    Illustrazione di apertura dell’articolo di Salvatore Adorno, pubblicato da «La Sicilia», 20 marzo 2020

    Domesticazioni riuscite e no

    La vicenda del corona virus ci permette di utilizzare come chiave di lettura della storia dell’umanità il conflitto tra uomo e microbi.

    I microbi, virus e batteri, hanno una storia più lunga di quella dell’uomo. L’uomo è comparso sul pianeta 4 milioni di anni fa, quando i virus e i batteri erano già presenti da due miliardi di anni. Erano allora le più numerose forme di vita, i veri padroni della terra. Da quel momento l’uomo a grandi tappe ha forgiato il pianeta e ha riorganizzato il mondo degli altri esseri viventi in funzione del suo dominio: alcuni sono stati addomesticati come il cane e il cavallo, altri sono risultati restii al processo, come il bisonte che è stato così sterminato, altri sono rimasti ribelli come i virus e i batteri, i cosiddetti microbi: i nemici più pericolosi della specie umana.

    Per lungo tempo la forza di virus e batteri stava nel loro essere invisibili e quindi nella possibilità di agire indisturbatamente, uccidendo l’uomo. La scoperta del cannocchiale (siamo con Galileo nella prima metà del XVII secolo) e quindi del microscopio ha permesso di individuarli. Successivamente Pasteur e Kock, nel corso dell’Ottocento, hanno definito il loro ruolo nella trasmissione delle malattie, arrivando alla preparazione dei vaccini. Fleming nel primo Novecento ha scoperto gli antibiotici.

    La guerra degli uomini ai microbi

    Vaccini, antibiotici e risanamento dell’ambiente (si pensi alle bonifiche dei terreni malarici) sono state le armi con le quali l’uomo nel Novecento ha compiuto un vero “colpo di stato” nei confronti della maggioranza delle forme di vita fino ad allora dominanti, i microbi, che nella storia dell’umanità hanno ucciso mille volte più uomini di quanti ne abbiano ucciso guerre e disastri naturali.

    Non a caso, la ricerca scientifica e l’organizzazione dei sistemi sanitari nazionali hanno portato al ridimensionamento dell’azione di virus e batteri e in particolare all’eliminazione del virus del vaiolo e all’eradicazione di quello della difterite, del morbillo e di altre malattie endemiche. Tutto ciò ha contribuito in modo rilevante ad allungare la vita delle persone, migliorandone il controllo sanitario e la qualità. Un solo esempio: il vaiolo nel XX secolo, prima di scomparire definitivamente nel 1980, ha fatto 300 milioni di vittime.

    La risposta dei microbi

    La nostra epoca dei consumi di massa individuali, che inizia dopo la seconda guerra mondiale ed evolve nella globalizzazione, ha visto così un netto miglioramento delle condizioni di vita e lo sterminio dei più feroci nemici dell’uomo. Nei principali libri di storia della medicina si legge come nella seconda metà del Novecento siano diminuite le patologie legate alla trasmissione e al contagio e siano aumentate quelle tumorali e cardiopatiche legate all’inquinamento, all’alimentazione allo stress, ovvero all’attività umana. Il paradosso sta nel fatto che questa vittoria è avvenuta in un’epoca in cui si sono moltiplicate vertiginosamente le condizioni che favoriscono la diffusione e il contagio di batteri e virus: l’aumento dell’irrigazione, la crescita esponenziale dei trasporti, il deterioramento degli ecosistemi, il cambiamento delle relazioni tra animali e uomini, la nascita delle megalopoli e il moltiplicarsi all’infinito dei contatti quotidiani tra gli uomini.

    Ecco allora che la vittoria strategica sui microbi, realizzata tra la fine del XIX secolo e la seconda metà del XX secolo, risulta sempre più instabile, anche perché i batteri hanno risposto all’attacco degli antibiotici diventando resistenti MDR (multi drug resistence), producendo così nuove forme di malaria e di tubercolosi, e i virus, approfittando del sovvertimento ecologico del pianeta, sono mutati sfuggendo al controllo dei vaccini. Nel 1977, ad esempio, circa 50 milioni di esseri umani sono stati affetti da tubercolosi MDR. Per cui oggi la transizione epidemiologica che sembrava portare al trionfo dell’uomo pare essersi fermata e il nemico ritorna più pericoloso che mai nelle forme dell’HIV, della Sars, del corona virus.

    La coevoluzione tra uomo e microbi sembra di nuovo sfuggire al controllo dell’uomo.

    Una guerra che cambia la storia

    L’epidemia attuale di corona virus rappresenta l’altra faccia del dominio dell’uomo sulla natura, è la risposta della natura alla pretesa superiorità biologica dell’uomo. Un microbo sta mettendo a repentaglio il sistema dell’economia, della cultura e della società globale. L’uomo con la sua intelligenza riuscirà probabilmente a vincere questa guerra (così ormai viene rappresentata dei media) che però è anche l’ennesimo e forse più netto segnale del nostro essere entrati in un’altra fase della storia della specie. La pandemia di oggi per un verso si pone in continuità con la guerra infinita tra uomini e microbi, per un altro segna una cesura profonda perché agisce, per la prima volta e quindi in modo imprevedibile, in un pianeta iperconnesso e ipertecnologico che l’uomo ha forgiato come non mai a sua misura.

    Ambiente, migrazioni e virus

    C’è infatti uno stretto nesso tra l’emergenza ambientale, quella migratoria e quella sanitaria. Tutte e tre sono il frutto della globalizzazione e sono strettamente connesse tra loro. Tutte e tre pongono alla società globale una doppia sfida: mantenere la sicurezza e modificare gli stili di vita.

    Fino ad oggi il tema della sicurezza è stato affrontato polarizzando la paura e alzando barriere di odio nei confronti dei migranti, che tolgono lavoro, portano malattie e violenza. Questo atteggiamento spinge così a blindare il nostro stile di vita basato sui consumi di massa individuali e sull’uso indiscriminato delle risorse naturali.

    Il corona virus ribalta questa narrazione e ci dimostra all’improvviso che l’insicurezza, sanitaria ed economica, viene dalle aree più ricche ed è il prodotto della nostra società dei consumi e dell’alterazione degli equilibri ambientali che noi stessi abbiamo creato. Oggi per bloccare il virus tutte le autorità richiedono di rimodulare temporaneamente il nostro stile di vita rendendolo più controllato e più parco. A ben vedere è la stessa richiesta di Greta Thumberg, che ci invita a un cambiamento strutturale delle nostre modalità di produzione, di mobilità, di alimentazione e di svago, per salvare il pianeta dal riscaldamento globale e dall’esaurimento delle risorse.

    Di fronte all’insicurezza e alla precarietà prodotta dalla globalizzazione possiamo rispondere individuando un nemico esterno, trincerandoci nella certezza della bontà del nostro modello di vita, oppure prendendo atto che è il nostro modello di vita che genera instabilità e insicurezza, spingendoci a ripensarlo. La pandemia da corona virus e il riscaldamento globale, sono due facce di un pianeta iperconnesso e profondamente alterato nelle sue matrici naturali (acqua, suolo, aria, vita animale e vegetale), che la specie umana ha messo sotto stress.

    I segnali di questa malattia della terra sono ormai molti, forse è arrivato il momento di fermarsi a riflettere sul nostro futuro come individui, come società e come specie. Forse la politica dovrebbe occuparsi proprio di questo.

    *****
    ***

    Una postilla sul “Laboratorio del tempo presente” (di HL)

    Un’infermiera della Croce Rossa indossa una mascherina durante la pandemia del 1918 (da Jstor)

    A cosa serve parlare a scuola di corona virus? Certo, non ad aggiungere dati e polemiche a quelle che già inondano i media. Non c’è bisogno di una tabella in più o di una ulteriore raccomandazione a comportarsi correttamente. Quello che manca, e che i media non sono molto interessati a dare (comprensibilmente, vista l’emergenza), è la risposta a una folla di domande, che – per quanto inespresse – ci angosciano quanto quelle quotidiane, perché riguardano il destino della nostra società. Dopo, ci chiediamo, che cosa succederà? Ci stiamo accorgendo, infatti, che questo evento sta agendo nel nostro modo di vivere in modo molto profondo. Quindi, intuiamo, più o meno confusamente, che “il dopo” sarà diverso.

    È fondamentale cominciare a capire che cosa questo evento sta mettendo in discussione. La storia è uno degli strumenti a nostra disposizione. Lo fa in due direzioni. Quella del tempo, in primo luogo. La storia mette il nostro evento in una prospettiva temporale che, in questo caso, è lunghissima. Dura quanto l’intera vicenda umana. Coinvolge l’idea stessa di evoluzione. Adorno richiama il concetto di “coevoluzione”: quella dell’uomo e quella del virus. Se non conosciamo bene la dinamica di questo confronto, non potremo mai immaginare quale “mossa” ci convenga fare contro un avversario, adattabile almeno quanto lo siamo stati noi.

    La seconda direzione è quella della contestualizzazione. In quale contesto inserire questo evento? In quello del piccolo paese, della regione o del singolo stato? C’è una risposta ovvia: nel contesto dell’ambiente globale. C’è, infatti, una seconda coevoluzione che viene messa in gioco oggi: quella fra umanità e ambiente. E questa chiama in causa – come sottolinea Adorno – la globalizzazione con i suoi aspetti più visibili, quali le migrazioni, le crisi climatiche e i nostri stili di vita (ma potremmo aggiungere anche la finanza mondiale, le politiche internazionali e così via). Anche in questo caso, nessuna previsione futura, ma solo la lettura di una situazione con le possibili scelte: rispondiamo chiudendoci (e cioè cercando di conservare i vecchi assetti)? Oppure proveremo a modificare quegli aspetti che sembrano incidere negativamente nel dialogo fra noi e il nostro pianeta?

    Un laboratorio di cittadinanza

    Sono problemi che riguardano la vita di tutti. Quindi, è fondamentale, in una società democratica, che diano luogo a una discussione pubblica. Discuterne a scuola significa affermare il principio che, per essere buoni cittadini, occorre intervenire nel dibattito con cognizione di causa. Usando gli strumenti giusti. Quelli della storia, per esempio.

    Le piattaforme, che molti docenti usano o stanno affannosamente imparando a usare, consentono di discutere, di inviare materiali. Un laboratorio è possibile. Anzi, è molto più adatto alle tecnologie digitali di una lezione in video. L’articolo di Adorno può essere il punto di partenza. È certamente leggibile in una secondaria superiore. È una possibile apertura del dibattito. Il tempo e la contestualizzazione, come ho suggerito sopra, costituiscono la guide della discussione. All’insegnante il compito di ricondurvi i discorsi dei ragazzi che, come può succedere quando si tratta di “temi caldi”, tenderanno a scivolare nella “ricerca del colpevole” o nei “buoni o cattivi sentimenti”. Sempre in rete potremo trovare materiali da far leggere, da assegnare per gruppi, con i quali far lievitare il discorso e tenerlo aderente ai fatti e alle problematizzazioni storiche. Jstor, la più grande raccolta di riviste storiche, ne ha messi online parecchi (alcuni molto belli). Sono in inglese (ma Google traduttore si rivela una delle più grandi invenzioni del XXI secolo!). Vi permetteranno excursus nel passato e approfondimenti nelle problematiche del presente. Vi permetteranno, se saprete organizzarvi, di lavorare trasversalmente su molte discipline, da storia a scienze a letteratura.

    Insomma: anche su questo versante il “durante” – ciò che facciamo oggi – può annunciare un “dopo” alquanto diverso.

     


     

    * Questo articolo è stato scritto da Salvatore Adorno, docente di Storia dell’ambiente presso l’Università di Catania, per “La Sicilia” del 19 marzo 2020. HL ringrazia l’autore per averci consentito di riprenderlo qui, con qualche modifica, e di rilanciarlo fra i docenti.

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