metodologia

  • I Pacifici Celti Leghisti: Roma ladrona e la storia dell’antichità

    Autore: Mariangela Galatea Vaglio                                
     

    Introduzione

    La maestra aveva dato ai suoi allievi la consegna di immedesimarsi negli abitanti di un villaggio antico; e la bambina aveva scritto che ogni mattina si pettinava le lunghe trecce bionde e cantava con la cetra, nel suo villaggio celtico. Lessi questo compito su un sito, oggi irrintracciabile, di una scuola elementare friulana, negli anni ’90. Era una segno, minimo per quanto significativo a mio giudizio, dell’effetto che la propaganda politica della Lega cominciava ad avere nelle scuole. Sono passati pochi anni, già vediamo che molti adulti non ricordano più quei tempi e gli allievi delle scuole ci sorprendono del fatto che non ne sanno nulla. Così, quando ho letto la ricerca che Mariangela Galatea Vaglio - ricercatrice di storia antica, insegnante e scrittrice apprezzata (Didone, per esempio. Nuove storie dal passato, Castelvecchi editore) – aveva realizzato sull’uso politico della storia antica, le ho chiesto di condividere con il lettori di HL il capitolo dedicato ai Celti e la Lega. Non mi è mai sembrato, nemmeno negli anni caldi, un tema di storia folkloristica italiana. Per chi ha studiato i temi dell’invenzione della tradizione e dell’uso pubblico della storia (imprescindibili come dicono le Nuove Indicazioni anche per insegnare storia nella scuola di base) era evidente che si stava assistendo, quasi in diretta, ad un tentativo di invenzione della tradizione. Un fenomeno avvenuto dante nel passato. Ma questa volta, la novità era che la politica si appropriava in modo aperto del passato, e ne faceva un uso pubblico sfrontato, quasi si facesse beffe degli studiosi che, in contemporanea, mettevano in guardia i cittadini. Anche per questo è importante cominciare, fin d’ora, a costruire una memoria storica di quei tempi. (HL)

     

    I.    La Lega ed i Celti, un colpo di fulmine


     

    Tutti assieme in riva all’Eridano

    15 settembre 1996: sulle rive di un Po placido, indorato dal sole e filmato dalle televisioni di mezzo mondo si danno appuntamento per una grande catena umana i Leghisti di Umberto Bossi. Nei progetti del Senatùr il giorno dovrebbe segnare la nascita della Repubblica Federale di Padania, stato sovrano comprendente, grosso modo, Veneto, Sud Tirolo, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Trentino, Val d’Aosta, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Marche, Umbria e Toscana.

    Se sul piano della partecipazione reale la manifestazione non è un completo successo, l’eco che essa ottiene sui mezzi di informazione è enorme. Non c’è telegiornale o giornale che non mostri l’immagine di Bossi intento a raccogliere in un’ampolla di vetro la preziosa acqua della fonte del Po, l’antico Eridano, che viene versata poi in Laguna. Questo successo di pubblico è dovuto all’abilità con cui la Lega ha saputo orchestrare la campagna di lancio dell’iniziativa e l’innegabile senso teatrale che ha inspirato gli organizzatori della manifestazione stessa. A questo senso del teatro vanno certo ricondotta l’introduzione nell’immaginario leghista, appena qualche mese prima della programmazione della marcia sul Po, del ‘mito celtico’. Bossi proclama su giornali e tv che i leghisti sono diretti discendenti di quei “pacifici” Celti che, durante l’antichità, si erano stanziati nella pianura Padana ed erano stati poi travolti dalla conquista romana imperialista. La nuova simbologia celtica è il filo conduttore della Kermesse leghista. Il 15 settembre stesso Repubblica dedica a questo nuovo apparato mitologico un articolo dal titolo: “I riti presi dai Celti tra storia ed Asterix”.

    “Druidi ed ampolle. Il grande fiume che rigenera. La dea Sole - scrive Francesco Erbani, - Dovendo fondare uno Stato indipendente si hanno davanti due strade: ricostruire una storia cercando nelle sue pieghe il filo di un’identità oppure costruire una simbologia, un apparato di miti. Umberto Bossi ha imboccato ruvidamente la seconda. E ha scelto, per il battesimo padano, il repertorio rituale degli antichi Celti.”


     

     Druidi e ampolle.Qui l’articolo di Francesco Erbani

     

    Già, ma chi sono i Celti di Bossi ? E come mai compaiono proprio in questa forma e proprio in questo momento, materializzandosi pare quasi dal nulla sulla rive del Po ? L’antichista può certo sorridere davanti agli anacronismi di questi celti protoleghisti padani . La propaganda politica, però, come la pubblicità, ha regole forse capricciose ma serie. Bossi sceglie i Celti spinto di sicuro da qualcosa di più che un semplice colpo di sole, fosse pure delle Alpi. Cercare di comprenderle o almeno di individuarle aiuterà non solo a ridisegnare l’immagine dei Celti con maggiore acribia filologica, ma anche a conoscere meglio alcuni aspetti della Lega ed alcune eredità che essa ha raccolto lungo il suo cammino.


    Dal Carroccio al Sole delle Alpi.

    Quando nel 1989 la Lega  si affaccia alla ribalta nazionale il suo apparato propagandistico non contempla alcuna allusione ai Celti. Le due Leghe del Nord, cioè quella Lombarda e la Liga Veneta, si richiamavano esplicitamente non all’antichità, quanto piuttosto al Medioevo.

    Tutta la prima fase della Lega come partito di rilevanza nazionale è legata ad una propaganda che recupera le memorie dei liberi comuni contro il Barbarossa. Il simbolo della Lega diviene così Alberto da Giussano, che rimane nel logo del partito anche quando la denominazione del movimento cambia da Lega Lombarda a Lega Nord, ed orna i baveri delle giacche dei leghisti. Per i giornali Lega e Carroccio diventano sinonimi intercambiabili, lo stendardo dei comuni ribelli al Barbarossa diviene la bandiera ufficiale della Lega, le adunate del partito non possono che svolgersi a Pontida.

    Del resto già la Liga Veneta, che era presente da anni nel Veneto e aveva colto già nell’’83 significativi successi elettorali, raggiungendo, ad esempio, il 6% in provincia di Vicenza ed il 7% in quella di Treviso, si affidava anch’essa a memorie medievali, veneziane in particolare: il suo stendardo era il Leone di S. Marco, il suo riferimento storico la Serenissima. Essa era talmente affascinata da queste memorie che, in buona sostanza, prima della fusione con la Lombarda di Bossi, veniva ritenuta dai suoi stessi simpatizzanti come “una bizzarra congrega di persone impegnate a coltivare un dialetto (lingua, secondo loro) che i Veneti non riuscivano a capire e a lanciare invettive odiose contro il Sud .” 

    Nei primi tempi di successo sulla scena politica va sottolineato che forse nemmeno i bersagli della propaganda e i fini del movimento sono così chiari. La polemica si rivolge soprattutto contro il Sud e contro Roma ladrona, sede di ogni vizio in quanto sede della aborrita partitocrazia. La battaglia verte solo sul presente, al massimo sul passato prossimo, la prospettiva di recupero storico non interessa. Un certo interesse nei confronti dei Celti e dell’antico fiume-dio Eridano, tuttavia, doveva essersi sviluppato precocemente in Umberto Bossi e velocemente radicatosi, tanto da indurlo a battezzare il suo ultimo nato Eridano Sirio.

    Tuttavia fino alle elezioni del ’94 l’intero apparato propagandistico della Lega sembra rimanere nell’ambito della polemica antimeridionalista e antipartitocratica, con scarsissimi accenni a qualsivoglia recupero della storia passata. La svolta nella propaganda si verifica soltanto nel ‘96. Il mito dei Celti compare in contemporanea alle prime dichiarazioni secessioniste del movimento. Man mano che il Senatùr chiarisce, forse in primis a se stesso, quali siano i suoi obbiettivi politici, cioè man mano che si inizia a dichiarare da parte della Lega che il fine da raggiungere una è una vera e propria secessione dallo stato italiano, vi è la necessità di giustificare questo distacco dal resto dell’Italia non solo con motivi di ordine fiscale, ma con motivazioni di carattere etnico. Vi è in proposito una vera svolta ideologica: il movimento, a questo punto, si presenta come l’espressione di una etnia vessata per secoli da una dominazione straniera. La Lega mira insomma ad inserirsi nella grande tradizione di partiti politici a base regionale che rivendicano l’autonomia del loro territorio poiché esso è etnicamente e culturalmente diverso dai restanti territori dello Stato che li ingloba. La Padania diventa, nella visione leghista, comparabile al Quebec canadese, all’Irlanda del Nord o ai Paesi Baschi


    Un prontuario per la separazione

    Ma per portare avanti un discorso di separatismo su base etnica, è necessario prima convincere l’uditorio che gli abitanti del Nord Italia sono, appunto, appartenenti ad una etnia diversa da quelli del Centro Sud. Ed ecco che allora il richiamo alle antiche identità comunali del medioevo non basta più, dal momento che fin nei secoli più bui dell’evo medio, Milanesi e Palermitani (o per lo meno le élite dirigenti delle città in questione) comunque si sentivano tutti parte di una stessa cultura e cominciavano a riconoscersi in una lingua che, nata alla corte di Sicilia, era stata poi affinata dal toscano Dante e codificata dal veneziano Bembo. Il mito celtico dunque viene inventato in un momento in cui la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania - questo il nome che il gruppo ha voluto assumere a Montecitorio - ha bisogno :

    •    Di un mito fondante che giustifichi il progetto separatista.
    •    Di una giustificazione etnica, non solo fiscale, del separatismo stesso.
    •    Di un mito che sia unificante anche di tutto il Nord, in un momento in cui i leghisti del Nord Est cominciano a voler a conquistare a loro volta una autonomia e si dimostrano insofferenti all'ipotesi di un centralismo ‘lombardo’ che si sostituisca a quello romano


     

    Ai piedi del grattacielo della regione, la Lega organizza unamostra di costumi medievali


    La scelta dunque dei Celti non è casuale, ma risponde invece ad una operazione di maquillage ideologico di notevole sapienza. I Celti e la revisione leghista della storia antica entrano in scena contemporaneamente all’annuncio della secessione. Per giustificare una scelta tanto drastica, infatti, non è più sufficiente tirare in ballo la Roma Ladrona della prima Repubblica. L’idea di separarsi da Roma, per il Nord viene presentata ormai come l’unica strada di salvezza. Roma non può essere sanata dai suoi difetti, né lo Stato unitario può essere ‘bonificato’ dalle infiltrazioni malavitose del Sud. Il malaffare romano non è un prodotto incidentale, ma un portato strutturale di Roma stessa, che fin dall’antichità ha vessato i pacifici popoli celtici del Nord. Li ha conquistati con la violenza, inglobati a forza, tassati e tartassati fin dalla notte dei tempi. Per liberarsi da questa secolare sanguisuga, i celtici popoli del Nord non possono più cercare un accordo pacifico, devono giungere alla secessione.


        
    II.    I Celti di Bossi : fra Braveheart, le Rune ed Asterix

    Da John Wayne a Mel Gibson

    L’immaginario leghista spesso a primo acchito a chi ci si avvicini dà l’impressione di un calderone, forse celtico, in cui si può trovare tutto ed il contrario di tutto. Nei pochi anni di ribalta politica, alle assemblee della Lega è capitato di vedere i gadget più inconsueti e di incrociare personaggi addobbati nelle fogge più inconsulte. Oltre al Carroccio e ad Alberto da Giussano, il mito americano contava non pochi cultori. L’America, del resto, era la grande patria del federalismo, nonché la terra nutrice di John Wayne, il cowboy cui molti leghisti si inspiravano fin nell’abbigliamento (qualcuno ricorda le cravatte alla texana dell’onorevole Francesco Speroni, ministro leghista delle Riforme Istituzionali nel governo Berlusconi?).

    Con il tramontare della scelta federalista anche i modelli di riferimento cambiano. Sono, curioso notarlo, sempre dei modelli legati al cinema, cosa non incomprensibile se si tiene conto che i leghisti, in genere, non mostrano una grande inclinazione per i libri, e ad una buona lettura preferiscono, Bossi in testa, un dvd. John Wayne, ad onta del suo berretto verde che si intonerebbe con le camicie del servizio d’ordine, entra presto nel dimenticatoio. Gli subentra Mel Gibson, regista ed interprete del film Braveheart (1995). La pellicola, storia di un ribelle scozzese che si batte contro il dominio inglese, folgora Umberto Bossi. Il Senatùr a più riprese si paragona in discorsi ed interviste a Gibson. Alle convention della Lega cominciano ad apparire figuranti con lunghi capelli scarmigliati, la faccia dipinta di blu, la cornamusa ed il kilt. Siamo all’anticamera del mito celtico.  

     

    Fondendo le varie “anime storiche” della Lega, da Alberico da Giussano a Bravehart, Renzo Martinelli realizza Barbarossa(2009, Rai Production)


    La nascita del mito celtico

    I Celti fanno capolino nella propaganda leghista proprio in occasione della grande manifestazione del 15 settembre 1996. L’evento, per stessa ammissione di rappresentanti leghisti, nasce all’inizio come una boutade polemica del Senatùr. Ma l’idea di ritrovarsi tutti assieme in riva al grande fiume conquista talmente la fantasia della base che le varie sezioni cominciano a darsi da fare per organizzare quello che i leghisti battezzano subito  il loro “Indipendence Day”. Il 5 agosto 1996 si ha una prova generale di secessione nelle acque liguri: Bossi fa immergere il fido Bobo Maroni nel golfo di S.Fruttuoso (GE). La Lega in questo momento è ancora tutta unita attorno al suo leader. Irene Pivetti, da sempre rappresentante dell’ala cattolica del movimento, non partecipa alla manifestazione di persona, ma si considera presente in spirito, anche se già ha espresso qualche riserva sull’operato dei colleghi. Bossi cita come modello per le future azioni secessioniste della Lega Ghandi e Martin Luther King. Ai Celti, padani o meno, nessun accenno.

    E’ soltanto a partire dal 10 agosto che si iniziano a trovare nei discorsi di Bossi i primi accenni ai Celti. Per la prima volta viene abbozzata quella che dovrebbe essere la futura bandiera dello stato padano, il cosiddetto “Sole delle Alpi”. Lo descrive in anteprima a Sebastiano Messina della Repubblica uno dei personaggi più folcloristici dello stato maggiore leghista, Erminio Boso, un trentino rotondo soprannominato, guarda caso, “Obelix”, come il guerriero celta di Uderzo: “Il tricolore non ci piace più, è una bandiera artificiale voluta dai massoni. Torniamo alla bandiera di S. Giorgio, quella bianca con la croce rossa, e aggiungiamo la ruota del Sole delle Alpi.”

    E’ curioso che l’introduzione di questo simbolo, che si richiama alla tradizione pagana ed i primi accenni ai Celti siano concomitanti con l’espulsione dal partito della cattolica Pivetti, datata proprio al 10 Agosto.

    Contemporaneamente alla messa a punto del mito celtico, la Lega si dichiara pronta a collaborazioni con i movimenti indipendentisti d’Europa: Alleanza Libera Europea, movimento che raggruppa i movimenti autonomisti, viene invitata ufficialmente a Venezia.

    La svolta paganeggiante di Bossi non sfugge alla Chiesa. Su Repubblica del 11/9/’96 appare un articolo non firmato, dal chiaro titolo “La Chiesa non perdona Umberto il pagano”, in cui Irene Pivetti definisce il suo ex leader : “adoratore pagano del Po....istigatore di una religiosità laica, naturalista e panteista”, mentre Roberto Cartocci, docente di metodologia delle scienze politiche e collaboratore della rivista cattolica Jesus, afferma che “sostanzialmente priva di avversari, la Lega ha trovato nella Chiesa l’unico ostacolo in grado di contrastarla.” La Pivetti ritornerà sull’argomento a manifestazione indipendentista conclusa, usando toni ancor più feroci: “Bossi sta trasformando la Lega in una setta religiosa. Non fa più un discorso politico ma pseudomistico: l’ampolla del dio Po, e tutte quelle sciocchezze, lui che si comporta come un capo religioso...una pagliacciata che non cancella la gravità dell’offesa ai cattolici”.

    Ma ormai i Celti bossiani sono sbarcati su Po, fra druidi, ampolle e telecamere.


    Asterix il Gallo

    La tre giorni leghista sulle rive del Po si svolge sotto gli occhi delle telecamere e, fortunatamente, senza incidenti di rilievo. Umberto Bossi preleva dalle fonti del fiume una ampolla di acqua, “sacra acqua del Po, acqua non mafiosa, acqua che è carne di tutti noi padani, acqua magica, cristallina e pura come l’acqua dei padani”

    Il recipiente degno di contenere tanta meraviglia è stato fatto soffiare appositamente a Murano, copiandolo da un vaso celtico esposto anni prima a Palazzo Grassi.

    L’apparire dei Celti nella propaganda leghista suscita immediatamente la curiosità dei giornalisti. Il 30 agosto, non appena comincia a prender forma il programma leghista per la giornata del 15 settembre e Celti e Dio Po entrano in scena, Roberto Bianchin intervista sulle pagine di Repubblica Andrea Vitali, collaboratore del medioevalista Franco Cardini, chiedendo lumi sui Celti.

    Lo studioso asserisce che la mitologia di Bossi risulta dal punto di vista simbolico assai efficace, riprendendo alcuni temi forti come “il mito dell’acqua portatrice di vita...Bossi ripete un rito antico, con l’acqua che purifica il territorio e lo separa da ciò che è impuro.... Eridano non è solo il nome del Po, ma anche del Rodano, tipico della cultura celtica, stava nel paese degli Iperborei, dove Apollo viveva sempre giovane.”

    Il giorno prima anche Giorgio Bocca, che la manifestazione leghista seguirà da inviato, aveva preso in esame la nuova ondata celtica del Bossi-pensiero. Secondo Bocca essa va considerata come un prodotto “della vasta ondata reazionaria, desiderio di medioevo, di antimodernismo, che hanno fatto un leader di uno “che non ha mai letto un libro”... uno che non sa nulla di nulla, né di storia, né di economia né di finanza”. Continua Bocca: “Non sarà un caso che il mondo dello spettacolo abbia quasi annullato la classicità, e produca decine di film su miti celtici e nibelungici. Non è un caso che il giullare Bossi sia passato dal Ruzzante ai riti ed ai simboli della tavola rotonda.  Bossi è un personaggio di grande fama e di piccola statura, ma ha un suo fiuto nel capire gli umori o i miasmi che salgono dal passato remoto...: un certo neopaganesimo, una dissacrazione pagana, celtica della Chiesa di Roma, che dà un fremito alle memorie del sangue dei dolmen e degli dei delle foreste. E’ una violenza di Brenno che può durare finché nessuno gli rompe in testa il suo spadone di cartapesta.”

    Il 15 Settembre, a preghiera all’Eridano avvenuta, Francesco Erbani interroga sull’argomento esperti nel tentativo di rintracciare fonti più precise per questa Celtic Renaissance padana.
    Franco Cardini si stupisce: “Mi meraviglia che abbiano adottato i Celti, la cui storia rimanda più all’idea di integrazione che non di secessione”. Enzo Pace, sociologo delle religioni, parla di un “pastone, assemblaggio di frammenti”: “Nella storia dei Celti non c’è solo l’epopea della ribellione a Roma. Si sofferma lì solo chi legge unicamente i fumetti di Asterix .” Pace, dopo aver rilevato che questo bagno di paganesimo avviene poco dopo l’espulsione della cattolica Pivetti, sottolinea il fatto che la Lega ha recuperato i Celti e non i Longobardi che “arrivati in Italia abbandonarono il retroterra europeo, quei rapporti oltre le Alpi che a Bossi servono e che i Celti assicurano.”


    Il paradosso della Chiesa italiana
     
    Come vedremo più avanti, probabilmente la molla che fa scattare il recupero celtico della Lega è leggermente diversa. In ogni caso già da questa prima panoramica ‘a caldo’ le fonti di Bossi sono chiare: agli osservatori i Celti leghisti si presentano come un assemblaggio di modelli tratti dal cinema e dai fumetti, che fa sorridere gli studiosi seri ed arrabbiare la Chiesa.

    Delle prese di posizione di Irene Pivetti, cattolicissima ex presidente della Camera, si è già detto. Ma poco tenera è anche la voce ufficiale della Chiesa. L’Osservatore Romano infatti bolla come eretica la secessione di Bossi e le sue idee neopagane. Contro Bossi si schierano apertamente il cardinal Martini, arcivescovo di Milano ed il cardinal Ruini.

    Gli ambienti cattolici non mancano di mettere in evidenza l’avversione della Lega verso il Vaticano.In questo blog vengono raccolte le espressioni  anticlericali più colorite delSenatùr

     

    Eugenio Scalfari nota il paradosso di una Chiesa che diviene così la sentinella dell’Unità d’Italia, quell’unità che lei stessa nell’Ottocento aveva tenacemente osteggiato: “La gerarchia ha fiutato puzza di razzismo...di ideologia anticristiana ed ha giudicato che toccava a lei intervenire per bloccare un movimento così radicalmente e pericolosamente antitetico alla dottrina... Se si predica la divinizzazione del fiume, e si disconosce la preghiera fondamentale della cattolicità..questo non riguarda più Cesare, ma Dio, perché ferisce al cuore la dottrina e la cristianità storicamente realizzata.”

    I Celti di Bossi quindi sarebbero nati da un incontro fortuito fra Asterix, Conan il Barbaro e la tendenza neopagana insita nella società moderna che la Chiesa combatte. Ma sarà proprio tutto qui?
     

    Celti, Camice verdi, Sole delle Alpi : la cultura esoterica e le radici del nazismo.

    Asterix, Conan il Barbaro, il diffuso interesse per il mondo delle leggende celtiche e germaniche non bastano da soli a chiarire perché la Lega, dovendosi scegliersi un mito fondante, ricorra proprio a quello celtico. Tale scelta lascia spiazzati, come abbiamo visto, autorevoli storici e sociologi, che la giustificano con la necessità di trovare un collante etnico che unifichi le popolazioni del nord Italia e le metta in relazione con quelle della Germania e del Nord Europa in generale. Ma i miti, persino quelli utilizzati nella propaganda politica, ben raramente vengono scelti sulla sola base di motivazioni utilitaristiche. I Celti di Bossi fin dal loro primo apparire non hanno mancato di far correre brividi di disagio lungo la schiena di molti. La Lega con la sua ampolla druidica, i riti pagani dell’acqua, le schiere di giovani camice verdi pronte a buttarsi nel fuoco per il loro leader carismatico hanno immediatamente richiamato alla memoria altre adunate, altre schiere di giovani, in camicia, però, bruna. L’ombra del Nazismo si è stesa sulla pianura Padana. C’è un collegamento diretto od intuibile fra la scelta di un certo apparato mitologico e la struttura che la Lega si sta dando? I collegamenti fra Lega e Nazismo sono solo il frutto di isterismo collettivo, voglia di demonizzazione dell’avversario o sono invece determinati dal fatto che entrambi i movimenti hanno una  qualche origine comune, una matrice che determina la presenza di talune affinità di comportamento ? E il recupero celtico non farà parte di questa matrice comune?

    Giorgio Bocca esclude ogni possibile rapporto di diretta filiazione o di contatto fra i due movimenti: “Come ideologia, come contesto storico, il paragone con il nazismo è privo di qualsiasi serietà. Ma sul piano del folklore, della cultura reazionaria, il paragone è pertinente e impressionante. Le parate della Lega, le feste della Lega sono simili per cattivo gusto, per l’improbabilità storica, per il cheap folkloristico a quelle della Germania del ‘36”.

    Il linguaggio, spesso violento della Lega e le immagini adoperate, che richiamano la propaganda politica delle dittature novecentesche, sono analizzati dal punto di vista linguistico in questo numero di “Storia culturale”

     

    Sostanzialmente concorde ma preoccupato anche Michele Serra: “Una crisi sociale ed economica grave ha fatto da innesco ad un inquietante movimento nazionalista... guidato da un classicissimo tipo paranoico che si crede davvero l’incarnazione dello Spirito del Nord....Quando avremo finito di ridere del dio Eridanio e di altre consimili fregnacce forse ci renderemo conto che i tedeschi, prima di Hitler, sapevano di essere ariani quanto i Lombardi ed i Veneti sanno di essere Celti. Pure, allora, ci hanno creduto a milioni.” Intervistato sul Corriere della Sera George Mosse dichiara: “La mitologia leghista messa in scena sul Po è quanto di più vicino ai rituali politici fascisti io abbia sentito dalla fine della guerra... Dal momento che non ha trovato un mito bell’e pronto (Bossi) si è messo a costruirlo. Il vecchio dio Po gli serve a farne nascere uno nuovo.” Dunque i richiami ai Celti di Bossi, il suo paragonare l’ampolla del Po al Santo Graal ricorderebbero la propaganda nazista, più ancora che quella fascista legata alla ripresa della romanità, per una pura convergenza casuale. Entrambi riprenderebbero l’immagine del medioevo come luogo barbarico:“Terra vergine di sentimenti elementari, al di fuori di ogni legge, dark age per eccellenza. Ma in quel buio si desidera vedere una luce “altra”. ..Esso è per vocazione a disposizione di ogni sogno di barbarie e di forza bruta trionfante, ed ecco perché viene sempre, da Wagner a Frazetta, sospettato di nazismo. E’ nazista ogni vagheggiamento di una forza che non sappia né leggere né scrivere.”

    Dunque il punto di contatto fra nazismo e Lega sarebbe proprio questo culto della forza fine a se stessa, contraria o sospettosa della cultura, ed i Celti risulterebbero scelti a caso tra i vari popoli barbari che avrebbero potuto candidarsi al ruolo di inspiratori.


    Nazisti inventati

    Ma andando un po’ più a fondo nello studio di testi propagandistici prodotti in seno alla Lega ci si rende conto che gli sviluppi simili di Lega e partito nazista potrebbero anche essere meno casuali di quanto sembra e la scelta dei Celti connessa ad un comune ambito di riferimento culturale, bazzicato sia dai nazisti degli anni ’30 sia da alcuni appartenenti alla Lega in periodi più recenti.

    Il 7 Ottobre ’96 viene pubblicato sul foglio Lega Nord - Padania indipendente n°37, organo ufficiale della Lega Nord, un articolo di Gilberto Oneto, ministro della Cultura nel Governo Sole della Padania, “Il Sole delle Alpi sorge sulla Padania”, apparso in parte già nel 1995 sul primo numero di Quaderni Padani, rivista che cura “lo studio e la promozione della cultura padanista, con testi sulla storia e sulle varie espressioni culturali dei popoli padano - alpini”.  

    Gilberto Oneto, Giuseppe Aloé e Davide Fiorini spiegano il significato del sole padano dalle pagine di“Quaderni Padani”

     

    L’articolo presenta il nuovo simbolo della bandiera padana, il Sole delle Alpi appunto, un cerchio in cui viene inscritto un fiore a sei petali “ radicato”, a detta di Oneto, “ nella memoria popolare ( ?) e famigliare (sic !) ad una intera comunità di popoli.” Il simbolo avrebbe radici celtiche “la Ruota solare o croce celtica” sarebbe “la personificazione mitologica del dio Lug... la cui immagine è all’origine di tutti i soli che sono comuni nell’iconografia dell’area alpina.” Il sole celtico avrebbe legami con la simbologia cristiana (Cristo ha l’epiteto di Sol Invictus) e collegato alle dottrine magiche che difendono dagli spiriti cattivi nonché alla simbologia alchemica. Non pago di ciò, Oneto continua : “Legato alla ruota è il significato di rotazione che accomuna una vastissima gamma di segni antichissimi, dal Triscele alla Svastica... risulta facile ed immediato il suo accostamento con il Chrismon, monogramma formato dalle iniziali del Cristo...questo somiglia e forse deriva dalla runa Hagal che significa contente il tutto” Oltre che il Chrismon, la cultura celtica avrebbe inventato anche il concetto di trinità, poi passato al cristianesimo.

    Fermiamoci qui. I concetti riportati nell’articolo, infatti, per quanto possano apparire farneticanti, non sono di certo nuovi. Essi sono tutti ripresi (assieme alla dea Sole parimenti citata nell’articolo in un passo non riportato) dall’antica tradizione ermetica iniziatica che, presente in Europa fin dal periodo rinascimentale, è riemersa con prepotenza durante gli ultimi anni dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento. In questo arco di anni fiorisce in Europa, specialmente in Inghilterra e Germania, una pletora “di associazioni e cenacoli la cui caratteristica consisteva nel ritenersi depositari di una antica sapienza primordiale che in alcune sue manifestazioni sfociava nell’esoterismo, nell’occultismo e nel magismo...Nel 1897 un gruppo di studenti liceali viennesi fonda una associazione che assumeva la denominazione Die Telyn, un’arpa i cui suoni paramagici esprimevano la creatività delle popolazioni celtiche del Galles meridionale” In questi cenacoli si incrociano ciarlatani, intellettuali, futuri arbitri della storia d’Europa, da Madame Blavansky a Yeats a Hitler. In essi Fabre d’Olivet, un famoso occultista, “elabora una staordinaria epopea, volta a dimostrare la prevalenza dei Celti su tutti gli altri popoli ed il valore esemplare dell’impero teocratico fondato dal druido Ram seimila anni prima di Cristo. Ram diviene Rama in India, Osiride in Egitto, Dioniso in Grecia.”

    In questa cultura i Celti, legati agli Iperborei ed al mito d’Atlantide, nonché alla leggenda del Santo Graal, sono una sorta di popolo eletto. Hitler e lo stato maggiore del nazismo si formano all’interno di questi circoli, così come Yeats, poeta vate dell’indipendenza della celtica Irlanda.

    Ora, è evidente che fra Bossi ed Hitler, la Lega ed il partito Nazionalsocialista non vi sono punti diretti di contatto. Tuttavia è interessante notare come i due movimenti, che presentano analogie di struttura e di organizzazione, abbiano alle spalle anche una cultura comune. Le rune a Hitler inspirarono il logo delle SS, a Bossi inspirano il simbolo del Sole delle Alpi, l’uno amava circondarsi di camice brune, l’altro verdi.

     

    Scene di lotta di classe a Ponte di Legno.

    Oltre ai legami con questo “sottofondo esoterico” che in qualche modo fu legato anche alla nascita della cultura nazista, l’articolo di Oneto risulta interessante per indagare altri aspetti della ricostruzione leghista dei Celti. Addirittura illuminante risulta a questo proposito un passaggio finale dello scritto: “Si può sicuramente affermare che si tratta del segno  (ossia: Il sole delle Alpi) più diffuso in Padania nella cultura subalterna, in quella cultura popolare contadina, montanara ed artigiana che è ancora radicata e ricca e che rappresenta il più forte e vitale tessuto connettivo del paese. Anche per questo non ci può essere simbolo migliore del Sol per rappresentare un paese che ha sempre mantenuto una unità culturale anche sotto secolari divisioni politiche e culture dominanti, spesso forestiere ed imposte con la forza o con l’inganno...ora questa terra sta faticosamente lottando per ritrovare la sua cultura più profonda e non può darsi un sigillo più antico, ricco e popolare di questo...ritorno eterno alla propria tradizione.”

    Ancor più duro era stato, qualche giorno prima, una altro articolo sempre uscito dalla penna del “ministro” Oneto, pubblicato nel primo numero del giornale Il Nord, quello diffuso, per intenderci, lungo il Po durante la tre giorni della secessione: “Esiste innanzitutto un’origine comune: la Padania è il paese dei Celti, dei Liguri e dei Veneti che la abitavano dall’inizio dei tempi... I nostri vecchi vivevano in una sorta di età dell’oro prima che sull’Appennino si affacciassero i Romani, con tutto il loro sopraffattorio parafernale...” quella celtica era una società modernissima, con una struttura democratica (i capi venivano eletti) e paritaria (donne e uomini, poveri e ricchi avevano gli stessi diritti)”, dove addirittura l’età dei Celti diviene un regno del Bengodi.

    Oneto stesso spiega : “Il Sol non ha mai avuto utilizzi nobili: esso non esiste nell’araldica nobiliare, e se ne trovano tracce solo insignificanti su manufatti aulici prodotti da culture dominanti. La sua diffusione è invece massiccia nell’arte e nell’iconografia popolare... con particolare rilevanza per tutti i manufatti che sono vitali per la vita della comunità.”


    L’Italia fondata dai Fenici

    La Lega dunque, questa Lega celtica, si presenta come un partito di lotta sociale, che difende gli interessi di un popolo antico, operoso e da sempre vessato da dominazioni straniere. E nella dominazione forestiera che con la forza o l’inganno ha tenuto sotto il suo potere gli sventurati Celti padani non occorre una gran fantasia nel riconoscere Roma, sede nell’antichità del violento impero centralista e in anni più recenti della partitocrazia malavitosa. Uno stato che, sono ancora parole dei Leghisti, è un mostro ignobile, pensato per stroncare i popoli celtici bonari ed operosi: “Ascoltatemi bene perché vi parlerò della morte del nostro popolo, il popolo celtico delle pianure del nord della Padania. Si chiama Stato Italiota - da un ceppo di Fenici. Stanziato nell’epoca preromana nell’attuale Calabria, dispregiato dagli Achei ed abiurato dai Romani, il più gelido dei mostri”.

    In questo ultimo passo (presentato come “Una libera reinterpretazione del Così parlò Zaratustra di Nietzche”), addirittura, lo stato italico non è neppure più un prodotto di Roma, ché almeno i Latini e gli Achei, in quanto indoeuropei di origine come i Celti, un po’ di rispetto se lo meriterebbero (sentenzia ispirato Erminio Boso: “Magari i veri Romani erano persone serie. Ma poi, le infiltrazioni...quando il sangue si tara...”) ma figlio bastardo di Fenici.

    I Celti Padani, vessati da Romani, appaiono quindi nell’immaginario leghista configurati come un popolo di artigiani, magari di piccoli imprenditori che si son fatti da soli, dediti al lavoro, dotati di senso pratico, alieni da ogni grillo per la testa, che non ha tempo da perdere con le fisime della burocrazia e degli intellettuali. Sono insomma la proiezione, in epoca antica, degli elettori tipo odierni della Lega, in lotta con i grandi industriali (la vera aristocrazia del nostro tempo) e con i burocrati ‘foresti’. Lo scontro fra gli interessi di classe si colora di sfumature epiche: non è più una questione di tasse, di riforme istituzionali e federaliste, ma una battaglia storica fra due blocchi contrapposti fin dalla notte dei tempi.


    Misteri del popolo

    Precedenti diretti di questa visione da scontro epico - etnico non si trovano nella propaganda di nessun partito politico del secondo dopoguerra. Di precedenti letterari se ne rintraccia solo uno, anche se non perfettamente coincidente, nel campo del romanzo d’appendice ottocentesco. Nel 1856 Eugéne Sue, il grande inventore del romanzo d’appendice ottocentesco, inizia I Misteri del Popolo, saga storica in cui una famiglia proletaria francese (i Lebrenn, che già dal nome appaiono legati al nome del capo celta Brenno) viene seguita attraverso i secoli e la secolare lotta con la famiglia antagonista dei Plouermel, via via feudatari, legittimisti, capitalisti.

    Sue scrive la saga dal punto di vista socialista, è amico di Mazzini che farà pubblicare I Misteri del Popolo in Svizzera. Tuttavia i suoi Celti proletari vessati rimangono l’unico precedente di questa lotta di classe etnica ambientata a Ponte di Legno, che la Lega ha inventato e diffonde. E’ impossibile determinare se Bossi o qualcuno del suo entourage abbia letto Sue. Di certo la trama e l’analisi delle implicazioni politiche del romanzo sono ricordate in un saggio di Umberto Eco, che ebbe negli anni ’70 vasto successo e circolazione. Non stupirebbe, a questo punto, se l’apparato della Lega, oltre ad Asterix, Conan il Barbaro,  Mel Gibson e l’esoterismo magico, comprendesse fra i suoi padri nobili anche il romanzo d’appendice dell’Ottocento.

     

    III.   La Lega, La Liga e l’assalto a S. Marco.

    Se una notte di maggio un campanile...

    Venezia, notte dell’8 maggio 1997. Al molo di S. Marco attracca un ferry boat proveniente dal Tronchetto. Ma a scendere dalla rampa, invece dei turisti d’uso, è un piccolo tanko militare che si dirige verso il campanile. I vigili in servizio sulla piazza pensano che si tratti della scena di un film. Invece a bordo vi sono otto componenti di un sedicente commando indipendentista, che si asserragliano nel campanile stesso. Il gruppetto tiene la città e l’Italia col fiato sospeso fino alla mattina successiva. Gli occupanti, che si proclamano combattenti della Serenissima, armati ed intenzionati a resistere, dichiarano al sindaco Massimo Cacciari, intervenuto per tentare una mediazione, di essere in attesa del loro ambasciatore ufficiale, Giuseppe Segato, in arrivo a Venezia da Borgoricco, paese in provincia di Padova.

    Segato non riesce ad arrivare in tempo, perché gli otto Serenissimi vengono arrestati grazie all’intervento delle squadre speciali dei Carabinieri. Lo stesso ‘ambasciatore’ viene incarcerato qualche giorno più tardi. Le indagini successive provano che gli otto sono responsabili anche dei proclami indipendentisti diramati attraverso la televisione alcune settimane prima nell’area di Venezia, attraverso un indebito inserimento nelle frequenze della Rai.

    L’assalto al campanile di san Marco non mancò di ottenere una certa risonanza internazionale, testimoniata da questo manga – Gunslinger Girl - che intrattenne i lettori giapponesi sul tanko e le imprese dei Serenissimi


    L’assalto al campanile scatena nell’opinione pubblica vive preoccupazioni, anche se poi, alla luce delle successive scoperte, più che un attentato eversivo sembra un atto inconsulto messo in piedi da un gruppetto di esagitati molto naïf. A rimanere spiazzato è, sulle prime, lo stesso Bossi. A caldo il Senatùr dichiara che gli otto del campanile sono addirittura degli agenti provocatori al soldo dei servizi segreti. Poi, sull’onda della simpatia istantanea che i Serenissimi suscitano nel popolo leghista, cambia parere e li qualifica come patrioti ed eroi. Gli altri partiti politici, dopo un momento di allarme in cui ci si interroga se nel Nordest non si rischi la nascita di nuove forme di terrorismo formato da schegge impazzite della Lega, presto dimenticano gli otto o si limitano a considerarli sempliciotti un po’ bacati.


    Segato, la storia veneta e l’elogio di Trasea Peto.

    Che i componenti del commando-ex operai del padovano che la sera si riunivano in conclavi clandestini per pianificare una fantomatica rinascita della antica Repubblica Veneta - non brillino per astuzia è un dato incontrovertibile. Più interessante invece è il preteso ambasciatore del gruppo, Giuseppe Segato, che dai Serenissimi veniva considerato l’ideologo ufficiale ed il punto di riferimento.

    Segato risulta infatti autore di un saggio stampato e diffuso a sue spese, intitolato Il mito dei Veneti dalle origini ai giorni nostri (Borgoricco, 1996). Il libro è molto utile per comprendere non solo da quale humus sia germinata la bislacca idea dell’assalto al Campanile, ma anche quale tipo di ricostruzione dell’antica storia veneta venga divulgata presso questi gruppuscoli indipendentisti da cui poi prendono origine o spunto, in molti casi, i movimenti politici più noti.

    Segato si propone di tracciare un disegno della storia veneta dalle origini ai giorni nostri. E che la sua prospettiva storica sia rigorosamente venetocentrica (e contrapposta totalmente alla ricostruzione ‘celtica’ della Lega di Bossi) è chiaro fin dalle prime pagine. I Veneti di Segato sono infatti il vero motore della storia d’Europa : “Da alcune aree veneto-indoeuropizzate nel 2° millennio emergeranno popoli quali i Celti, i Latini, i Germani ed i Veneti dell’alto adriatico” sentenzia infatti il nostro saggista a p.9, lasciando intendere che i Veneto-Indoeuropei sono il vero ed unico popolo originario, da cui discendono tutti gli altri.

    Il modello veneto è il motore della storia : (p.22) “Con il verificarsi della consistente penetrazione veneta centroeuropea vengono a fondersi gusti e stili di svariata provenienza nel nuovo aspetto etnico culturale della regione, che da allora ha preso una connotazione così marcata da essere in grado di reagire in modo dinamico e caratterizzante ad ogni impulso della storia.”

    E questo eden primigenio non è turbato da ingiustizie sociali che invece tormentano gli altri popoli coevi: “In contrasto con il mondo indoeuropeo e quanto andava maturando verso Sud (Roma) o verso Nord Ovest (Celti) non sorgeranno caste guerriere o sacerdotali o irreggimentazioni di tipo feudale e/o monarchico, con l’egemonia di una o poche famiglie, con il culto della personalità del singolo a scapito di quella della comunità, e aggressività verso l’esterno a gloria del singolo. (p.22)”  I Veneti di Segato spingono col loro esempio i popoli vicini sulla via della culturalizzazione. Gli Etruschi stessi si civilizzano grazie a questo vivificante contatto : “La civiltà etrusca annovera nella sua essenza anche importanti aspetti Veneto-indoeuropei... a partire dal VII secolo l’Etruria, molto ricca di risorse minerarie, si trova ad essere una regione molto fortunata, perché sotto lo stimolo di civiltà più progredite i suoi abitanti seppero sfruttarle (sic) dando il via ad attività artigianali e mercantili.”(p. 40).

    L’incontro con i Romani è pacifico perché i Romani riconoscono la relativa indipendenza del Veneto, che diviene uno dei centri economici dell’impero, ma ha in sé la forza morale di non abbandonarsi alla corruzione che invece distrugge Roma: “Con la pace augustea prese vita un gran dinamismo cui tutti parteciparono ed il Veneto in modo particolare.. il linguaggio equivoco della storiografia risorgimentale ha indotto a dedurre che la romanizzazione abbia comportato la fine dei Veneti...le alleate giungono a grandi destini, ma raggiunta la ricchezza seguono due vie diverse: Roma prende la via della dissoluzione morale, e cade nei tentacoli della corruzione, Padova conserva saldezza di principi e di costumi.” (p.53)

    Un esempio di questa saldezza di principi è proprio il senatore patavino Trasea Peto, che si batte contro la corruzione dell’Urbe, e di cui Segato tesse l’elogio: “Trasea assurge a simbolo dell’ideale repubblicano (connaturato nei Veneti) con la sua inflessibile opposizione alla vocazione assolutistica della monarchia.” (p.58).


    Sul cattivo uso di fonti buone

    Tralasciando gli svarioni storici, l’esame di questo testo è interessante per chiarire il tipo di mentalità che contraddistingue questo tentativo di storiografia politicizzata a fini secessionisti. Al contrario di quanto avviene con la propaganda leghista, che le radici e le tradizioni celtiche deve, come si è visto sopra, inventarle dal nulla, i Veneti possono contare su una forte identità culturale alle spalle. Quelle di Segato sono, in larga parte, farneticazioni estremistiche. Però le fonti da cui prende spunto per ricostruire la sua fantasiosa visione storica sono reali (effettivamente i Veneti ebbero rapporti buoni con gli Etruschi, pessimi con i Celti, ottimi con i Romani). Segato stesso cita come sue basi gli studi di esperti seri (ad esempio, lo storico Lorenzo Braccesi per la parte storica, e di Aldo Prosdocimi per quella linguistica), seppure travisandone completamente argomentazioni e conclusioni. Al contrario della propaganda leghista, che inventa di sana pianta, la propaganda ‘veneta’ può contare su un background storico alle sue spalle. Del resto che un afflato filologico pervadesse fin dall’inizio il movimento leghista veneto è testimoniato dal fatto che esso nasce ufficialmente per la prima volta come Società filologica veneta, e si prefigge come scopo lo studio, la diffusione del dialetto e della cultura veneta.

    Questa differenza di origini chiarisce anche in parte il perché della spaccatura avvenuta nel 1994 fra Liga Veneta e Lega Nord. Oltre al fattore economico (il Nordest è un’area troppo forte produttivamente per accontentarsi di accettare passivamente la politica decisa dai ‘padani’ di Milano, che spesso capisce poco quanto la vituperata Roma le esigenze reali del territorio), culturalmente il Veneto si trova ad avere una identità che, per quanto confusa, travisata e creata sulla base di fraintendimenti, è reale e diversa dalla vulgata ‘celtica’ che Bossi ha costruito. Non stupisce quindi che nelle farneticanti ricostruzioni ideologiche dei gruppi come quello di Segato, - che non sono ‘schegge impazzite’ della Lega, semmai piuttosto sono nuclei che preesistevano al fenomeno Lega e non si sono mai integrati con esso - la propaganda celtica di Bossi non trovi il minimo spazio, anzi l’immagine dei Veneti sia messa in antitesi con quella dei Celti pretesi precursori di Bossi. I Celti di Bossi, in questo caso, hanno fatto il calderone, ma il coperchio no.

     

    Celti in pensione: la svolta di Salvini

    Settembre 2010: nel Comune di Andro (BS) viene inaugurata una scuola elementare destinata ad assurgere immediatamente all'onore delle cronache nazionali. Nonostante si tratti di un edificio pubblico, il sindaco Oscar Lancini non solo l'ha voluta intitolare a Gianfranco Miglio, ideologo della Lega Nord, ma si è anche premurato di fornirla di arredi con sopra stampigliato ovunque il simbolo del Sole delle Alpi. Il logo campeggia sulle finestre, sui banchi, sui muri, dove per altro vi sono esposti anche dei crocefissi “imbullonati”, per evitare che qualcuno possa tentare di toglierli. «Li abbiamo fissati con le viti - precisa il sindaco Lancini - perché a nessuno venga in testa di toglierli o di coprirli. Viviamo in uno stato laico ma la nostra religione non si discute, neppure in una scuola frequentata per il 7% da immigrati».
    La vicenda finisce sui giornali, lo scandalo è enorme, e l'anno dopo il sindaco Lancini viene condannato dal tribunale alla rimozione di tutti i simboli, e al pagamento di 800 euro di spese legali, dopo un esposto presentato dalla CIGL per discriminazione sul luogo di lavoro.

    La trovata del sindaco leghista (per altro arrestato qualche tempo dopo perché coinvolto in una indagine su appalti truccati) rappresenta anche l'ultimo episodio in cui la simbologia celtica viene riproposta dal partito. Con il passare degli anni, infatti, i riferimenti al mito celtico ed alla simbologia pagana all'interno dello stesso partito vengono scemando: persino all'interno delle feste leghiste i gruppi di militanti in costume diventano sempre più sporadici e folkloristici, mentre i big del partito non fanno più riferimento nei loro discorsi alle origini celtiche del nord Italia.

    La Lega, infatti, ha deciso per un riposizionamento ideologico: da partito “identitario” del Nord e partito genericamente di centro-destra, che vuole pescare voti ed elettori al di là della loro provenienza geografica. In questo contesto, anche la propaganda è cambiata: da un lato si sottolinea non tanto la diversità etnica fra Italiani del Sud e del Nord, come nei primi tempi, ma fra Italiani ed immigrati. In questo già il sindaco di Andro si dimostra indicativo della svolta: sebbene legato all'immaginario del Sole delle Alpi, la sua politica era poi fortemente indirizzata contro gli stranieri, che nel paese erano stati esclusi con una delibera comunale (poi abrogata e considerata illegittima dal Tribunale) sia dai contributi per l'affitto della casa sia per il cosiddetto “bonus bebé”. Inoltre la svolta è chiara anche nella dichiarazione sui crocifissi: mentre nei primi anni la Lega si era messa in aperto conflitto con la Chiesa, vagheggiando quasi la fondazione di una “religione alternativa” che recuperasse i miti e i riti celtici, adesso invece i Leghisti si presentano come i guardiani della tradizione cattolica, pronti a difendere e ad imporre il crocifisso nei locali pubblici, in funzione antislamica.

    Il nuovo corso della Lega è sicuramente legato al passaggio della segreteria in mano a Matteo Salvini. Nonostante Salvini si sia speso in passato per difendere il simbolo del Sole della Alpila sua “fede” nei miti celtici è sempre apparsa piuttosto all'acqua di rose, ed il suo intento politico pare quello di affrancare la “sua” Lega da queste zavorre ideologiche celtiche, per trasformarla in un partito di destra sul modello di quello della Le Pen in Francia.

    La politica odierna mescola simboli appartenenti a tradizioni diverse; cambia la strategia, che ormai guarda a questioni che possono interessare l’intera popolazione italiana, come la polemica contro l’euro. Questo è l’invito al raduno di Pontida del 2014. L’immagine fa riferimento ai raduni nel “pratone” tradiziona. Il nuovo raduno si svolge in un’ “area feste”


    La Lega, insomma, si presenta come il partito della difesa della tradizione e della “razza” italiana: è antislamica, cristiana, aperta ad accogliere anche gli Italiani del Sud ed e di ogni origine geografica. I celti leghisti non sono dunque più funzionali alla sua propaganda, e infatti i simboli stessi fondanti della Lega delle origini (l'Alberto da Giussano ed il Sole delle Alpi) seppure restano nel simbolo elettorale passano in secondo piano rispetto al nome del segretario, Salvini, garante e propugnatore del “nuovo corso”.

    Gli intellettuali della prima ora, che avevano contribuito con i loro scritti a fondare il “mito celtico” risultano marginalizzati ed appannati. Gianfranco Miglio è morto, Gilberto Oneto molto marginalizzato. L'intero “circolo magico”, poi, che era cresciuto all'ombra di Bossi e che pareva coltivare interessi esoterici e collegati al mito celtico, è stato falcidiato dalle inchieste della magistratura e ha perso ogni ruolo chiave nel partito. Così i pacifici Celti leghisti sembrano destinati ad andare in pensione, silenziosamente, e ritirarsi negli antri di qualche museo, senza più occupare la ribalta della politica nazionale. Forse, per loro, è meglio così.

     La “festa dei Popoli Padani” del 2014 si svolge alla presenza degli uomini politici più importanti della Lega, da Bossi a Salvini, ma “La Padania”, che ne dà notizia, non fa cenno a Celti e a Tradizioni (termini peraltro scomparsi nell’indice analitico del giornale, insieme con Pontida e Alberto da Giussano), e illustra l’articolo con un Monviso, ritornato ad essere una semplice (e bella) montagna alpina
        

    Bibliografia

    ALFONSO, D. "Bossi al mare : la secessione nautica", in Repubblica 5/8/’96, p.10
    BIANCHIN, R. “ Così il dio Po divide i buoni dai cattivi” in Repubblica 30/8/’96, p. 8.
    BOCCA, G.”Solo adesso scopriamo che Bossi - Braveheart proviene dal medioevo” in Espresso, 29/8/’96, p.7
    BRUSADELLI, S : “I  Veneti alla prima crociata”, in Panorama del 14 / 11/ 1996, p. 65-66.
    ERBANI, F. “ I riti presi dai Celti tra storia ed Asterix” , da Repubblica, 15/9/’96, p. 7
    DEL FRATE, C -SPATOLA, G., La scuola appaltata alla Lega, http://www.corriere.it/cronache/10_settembre_12/scuola-appaltata-lega_2f751f96-be42-11df-b1cc-00144f02aabe.shtml
    FERTILLO, D. “Ricorda i Miti del totalitarismo” in Corriere della Sera, 15/9/’96, p. 3.
    FUCILLO, M. :”Da Ghandi a Feltrinelli”, in Repubblica 10/8/’96, p. 1
    GALLI, G. : Hitler ed il Nazismo magico, Milano, 1989
    LAGO, G. :“ Roma dorme, Bossi corre”, in Repubblica 9/8/’96, p. 1
    MESSINA, S. : “ Auto, barche ed aerei, così la Lega prepara la marcia sul Po”, in Repubblica 10/8/’96, p.2.
    ONETO, G. in Il Nord- padania Indipendente n.1 . Cfr Stella G. A. Dio Po, cit. pp. 211-214
    PASSALACQUA, G. “Pronta la nuova Lega”, in Repubblica 30/ 8/ ’96, p. 8
    PASSALACQUA, G. “Senatùr leader unico ma il partito lega ha mille facce” in Repubblica, 31/8/’96 p.8
    SCALFARI,  E. “I nuovi pagani del Po” in Repubblica, 15/9/’96, p.1
    SERRA, M. in Unità, 14/9/’96,p.1
    STELLA, G. .A., Dio Po, Baldini e Castoldi, Milano, 1996
    STELLA, G..A. “ l’acqua è la carne di noi padani”, in Corriere della Sera, 14/9/’96, p..3

  • Il fondamentalismo e l’Islam in Europa. Definizione e diffusione del fenomeno, con qualche riflessione didattica.

    Una ricerca sul fondamentalismo europeo

    Ruud Koopmans, ricercatore nel Dipartimento “Migration, Integration, Transnationalization” del Social Science Center di Berlino"  il più grande centro di ricerca sociale europeo non legato a una specifica università (presieduto fino a poco tempo fa dall’eminente storico tedesco Jürgen Kocka), è autore di una ricerca sul fondamentalismo islamico, presentata al XX convegno degli “Europeanists”, tenutosi ad Amsterdam nel 2013. Si tratta di uno studio di qualche anno fa, beninteso, svoltosi nei paesi nordeuropei. Ne riporto ampi stralci, con qualche mia osservazione, perché può essere utile per discutere, anche fra di noi in Italia, di questo fenomeno sulla base di dati e non solo di opinioni. Al termine, propongo alcune mie riflessioni didattiche. L’originaleè Fundamentalism and out-group hostility. Muslim immigrants and Christian natives in Western Europe .

     

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    Fig. 1 Nonostante le convinzioni diffuse, il fondamentalismo non è affatto un movimento esclusivamente musulmano, come illustra magnificamente questa vignetta di David Klein 

     


    La definizione dei dizionari

    Originariamente, è un termine che si riferisce a movimenti religiosi protestanti americani del principio del XX secolo. Secondo i dizionari inglesi (Merriam-Webster e Oxford) è un movimento, o una forma di religione, specialmente musulmana o cristiana, che spinge per una interpretazione letterale dei testi sacri. Tuttavia, si tratta di un termine che solo di recente è entrato nell’uso comune, come testimonia la mia edizione Zanichelli, del 1987, che, semplicemente, non ne fa cenno.
    Oggi, però, si può consultare con frutto la voce della Treccani, particolarmente analitica. Essa parte con la descrizione del fondamentalismo cristiano, informandoci che costituì la base religiosa dell’apartheid sudafricano, passa a parlare di quello ebraico, spiegandone i rapporti mutevoli col sionismo (al principio i fondamentalisti erano in forte opposizione al ritorno in Israele; cambiarono decisamente atteggiamento nel secondo dopoguerra). Poi fa la lunga storia del fondamentalismo islamico, collegato alla reazione araba contro l’ascesa occidentale della fine del XVIII secolo, al movimento salafita della seconda metà del XIX secolo, e, infine, ai fatti più recenti e noti.

     

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    Fig. 2 La “nube di parole” di Fundamentalism, nella rielaborazione artistica di Radiantskies 

     

    La definizione scientifica

    Secondo Altemayer e Hunsberger, Fondamentalismo è “credere che esiste un’insieme di insegnamenti religiosi che contengono chiaramente le verità fondamentali, primarie, intrinseche, essenziali, sull’umanità e la divinità; che a queste verità essenziali si oppongono forze del male che devono essere vigorosamente combattute; che devono essere seguite oggigiorno in accordo con le pratiche fondamentali e immodificabili del passato; e che coloro che credono e seguono questi insegnamenti fondamentali hanno uno speciale rapporto con la divinità.” (Religious fundamentalism scale, 1992, p. 92, tradotto qui )
    Il fondamentalismo non va confuso con l’ortodossia. Secondo Bryan Laythe (et al), questa consiste piuttosto in un particolare modo di considerare le credenze religiose, e va specificata religione per religione (Religious Fundamentalismas a Predictor of Prejudice: A Two-Component Model, in “Journal for the Scientific Studies of Religion”, 2002 ).
    Infine, ma conviene ricordarlo soprattutto ai nostri giorni, Koopmans sottolinea che il fondamentalismo non va assolutamente connesso con la legittimazione della violenza, per difendere o diffondere la propria credenza religiosa. Ne consegue che dobbiamo tenere per ferma la distinzione tra fondamentalismo, terrorismo e jihadismo. Infatti, gli studi sui profili dei terroristi, di cui oggi disponiamo, mostrano giovani in origine poco religiosi, che passano attraverso le fasi della radicalizzazione (rifiuto della cultura occidentale) e della conversione, prima di approdare alla decisione della lotta armata (il jihadismo) e del terrorismo suicida: così Francesco Cascini, un magistrato impegnato nel contrasto al terrorismo, disegna il percorso di formazione dei terroristi musulmani (Il fenomeno del proselitismo in carcere con riferimento ai detenuti stranieri di culto islamico,  pp. 24 ss)

     

    Le ricerche sul fondamentalismo


    Koopmans ci spiega che, fino agli anni ’90 del secolo scorso, gli studiosi si sono occupati principalmente del fondamentalismo cristiano. Hanno messo in evidenza come questo fenomeno sia una sorta di risposta alla secolarizzazione e alla modernizzazione, spesso associata con la marginalizzazione socioeconomica dei soggetti. Questo fenomeno, hanno spiegato ancora questi studi, è in forte connessione con l’autoritarismo dei gruppi di destra, e il rifiuto dei “diversi”, come gli omosessuali e i membri di altre religioni.
    In paragone, il fondamentalismo islamico, aggiunge Koopmans, è stato poco studiato. Ci si è concentrati sulla violenza e le organizzazioni musulmane fondamentaliste. Ma non si è affrontato in generale il rapporto fra gli individui, specialmente gli immigrati e questo aspetto religioso. Inoltre, mancano studi empirici che confrontino il fenomeno musulmano con le altre religioni.

     

    La ricerca in Europa


    La ricerca della quale parliamo si è svolta presso immigrati turchi e marocchini in Germania, Francia, Olanda, Belgio, Austria e Svezia, di prima e seconda generazione. I risultati sono stati comparati con le credenze professate dai “nativi cristiani” e anche confrontati con i dati relativi a coloro che vivono in Marocco e in Turchia. Il metodo seguito è stato quello delle interviste telefoniche. Gli intervistati sono stati 9000. Le domande miravano a stabilire il grado di adesione ad alcune convinzioni, considerate rivelatrici di un atteggiamento fondamentalista. Ecco una prima serie di item:


    - Il credente (musulmano o cristiano) vuole tornare alle radici della propria religione
    - Ritiene che esista una sola interpretazione del proprio libro sacro
    - Sostiene che le leggi contenute nel libro sacro siano superiori a quelle in vigore nello stato in cui vive
    Il confronto tra cristiani e musulmani mostra una forte incidenza di tali convinzioni presso questi ultimi. Ad esempio: oltre il 70% dei musulmani è convinto che esista una sola interpretazione della propria fede e oltre il 60% ritiene che le leggi religiose debbano prevalere su quelle civili (presso i cristiani le percentuali sono contenute tra il 20 e il 10%).

     

    L’ostilità fra gruppi

    Un secondo indizio di fondamentalismo è quello dell’ostilità nei confronti dei diversi. Ecco le affermazioni chiave:


    - Non voglio avere un amico omosessuale
    - Non si può avere fiducia negli ebrei
    - I musulmani (o i cristiani) vogliono distruggere la mia religione (cristiana o musulmana)


    Anche in questo caso, le risposte non lasciano dubbi. Oltre il 60% dei musulmani è intollerante verso gli omosessuali, il 45 % pensa che non ci si può fidare degli ebrei e che i cristiani nutrano la ferma determinazione di distruggere l’Islam. Fra i cristiani le percentuali sono del 13% (omosessuali), del 9% (ebrei) e del 23 % (musulmani).

     

    Possibili spiegazioni


    Gli alti livelli di fondamentalismo e di ostilità verso gli altri gruppi, riscontrati presso i credenti islamici in occidente, sono oggetto di diverse spiegazioni. Koopmans le elenca e le valuta così:


    - Marginalizzazione e esclusione sociale? No. L’educazione e il lavoro spiegano qualche variazione tra cristiani e musulmani, ma non la grande differenza riscontrata nella ricerca.

    - Alienazione e stress da acculturazione? No. I livelli di fondamentalismo sono molto simili a quelli riscontrati nelle terre di origine degli immigrati

    - Minori diritti religiosi dei musulmani in Europa occidentale? No. Non vi è una chiara correlazione tra le politiche di inclusione e il fondamentalismo.

    - Caratteristiche insite della religione islamica? No. Molti musulmani sunniti o alauiti hanno idee simili alla religione cristiana e non nutrono ostilità verso altri gruppi. E’ vero, però, che questi non sono considerati dai loro correligionari come “buoni musulmani”.

     

    La discussione


    Come tutte le ricerche, anche questa ha sollevato un dibattito e delle obiezioni. Si è criticato, ad esempio, il metodo delle interviste telefoniche, il concetto di “nativi cristiani”, il fatto che il campione sia limitato agli immigrati marocchini e turchi, laddove il mondo musulmano è molto più vasto e variegato. Si sono citate, infine, altre ricerche (in Spagna e in Germania) dalle quali risulta che i musulmani sono meno “occidentalofobi”, di quanto non appaia dallo studio di Ruud Koopmans .
    Più dettagliate, le critiche di Martjins  riguardano – fra l’altro - il campione selezionato e lo stesso questionario utilizzato. Ma non mettono in dubbio un elemento: quello della vastità del fenomeno presso il mondo musulmano e la sua ostilità diffusa verso “diversi” e “occidentali”. Martjins, però, è un antropologo. Il suo punto di vista si discosta da quello dello “studioso della teologia”, come definisce Koopmans. Egli parte – dice – esattamente da dove il collega termina, per interrogarsi sul modo con il quale le persone mettono in pratica le loro credenze, come le vivono e come le interpretano nella vita quotidiana. Sono persone, dice ancora, che vivono in un ambiente (il nord Europa) che ha conosciuto perfettamente il razzismo e l’odio verso gli altri e che può testimoniare quanto – nonostante gli sforzi di oltre mezzo secolo di “pedagogia pubblica” – sia difficile liberarsene.
    A corroborare questo argomento, si ricorda – sempre nella discussione in rete delle tesi di Koopmans - la grande diffusione, negli Usa, di alcune convinzioni, tipiche del fondamentalismo. Per esempio, la fede nell’interpretazione letterale del testo sacro ha, presso gli americani cristiani, una dimensione pari a quella musulmana americana, e comparabile a quella rilevata in Europa da Koopmans nell’ambiente musulmano.
    Bisogna infine tenere presente, questa è la conclusione di Koopmans, che i musulmani sono una minoranza in Europa, mentre, se considerata nei numeri assoluti, la diffusione di atteggiamenti fondamentalisti presso i nativi europei è impressionante. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, chiude il ricercatore citando una massima apprezzata da entrambe le religioni.

     

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    Fig. 3 Il grafico del Manos (un istituto che studia gli orientamenti dei musulmani in America, collegato con la Stanford University) mostra come la convinzione sulla letteralità della parola divina (uno degli indizi del fondamentalismo) sia abbastanza equamente ripartita fra cristiani e musulmani americani.

     

    Revisione di un’agenda interculturale datata?


    Il quadro mi sembra avere due elementi certi: il fondamentalismo, fenomeno già non marginale nel mondo occidentale, oggi si manifesta in modo imponente nelle minoranze musulmane. All’interno dell’universo fondamentalista operano soggetti politici e culturali - a volte ben strutturati, a volte informali - che, come sperimentiamo quotidianamente, inondano la rete di messaggi, di conoscenze sul passato e sulla contemporaneità, e lavorano attivamente sia nel campo sociale che in quello politico.
    Questi elementi dovrebbero essere sufficienti per ridiscutere una pedagogia interculturale che, elaborata (almeno per quanto riguarda l’Italia) nelle fasi aurorali del movimento migratorio attuale, era centrata principalmente sul problema dell’accoglienza (un tema, evidentemente, che resta comunque all’ordine del giorno). Il nostro compito, lo sintetizza così Brunetto Salvarani, parlando della scuola di fronte all’Islam, è quello di elaborare una pedagogia “mite, accogliente e narrativa” (L’Islam nella scuola, a cura di I. Siggillino, Franco Angeli 1999, p. 18). Le linee di questa pedagogia erano ben tracciate (e in qualche modo consolidate sulla falsariga della più generale “pedagogia dell’incontro”): analisi dei manuali; ricerca di buone pratiche; valorizzazione della cultura musulmana, e così via.
    La manchevolezza di questo approccio può essere visto in quel “riduttivismo culturalista”, secondo il quale, ciascuno di “noi-altri” è definito da una “cultura”. Di qui segue l’idea che il compito della scuola consista nel salvaguardare “le culture” e favorire la loro pacifica coesistenza. Un errore frutto, in buona sostanza, di quell’abuso del concetto di “cultura”, denunciato – per quanto riguarda il nostro paese - da Marco Aime (Eccessi di cultura, Einaudi 2004 ).
    Questo assunto culturalista è riduttivo, perché non tiene conto del fatto che il “fondamentalismo” propone un approccio al mondo (moderno e passato) che non è un “aspetto di una cultura popolare”, ma, al contrario è un prodotto intellettuale sofisticato, elaborato esplicitamente da soggetti di varia appartenenza etnica o religiosa. Non tiene conto del fatto che il compito della scuola è quello di avvicinare i giovani al sapere disciplinare, formarli attraverso il suo apprendimento e di fornire qualche strumento per contrastare, di conseguenza, le tante pseudoscienze circolanti. Non tiene conto del fatto che, al centro della riflessione didattica dovremmo sempre mettere il sapere che circola a scuola - i contenuti, gli obiettivi e le pratiche del suo insegnamento - e chiederci se questo ci mette in condizione di rielaborare i problemi che affrontiamo in classe.

     

    Antidoti storici

     

    L’esaltazione del ritorno alle origini o della interpretazione letterale del testo, per ricavare un esempio dai temi fondamentalisti, tirano in ballo alcune questioni disciplinari centrali nella storia e nelle discipline umanistiche: il mito delle origini, come denunciato da Marc Bloch; oppure l’intero armamentario che la filologia ha approntato, da un paio di secoli a questa parte, relativo ai temi della tradizione e interpretazione dei testi. La “vittimizzazione” è un nervo scoperto nei rapporti fra stati e comunità odierni, non solo un cavallo di battaglia del fondamentalismo. In passato ha fornito la trama narrativa di tutti i racconti nazionali, che, quindi, possono diventare una palestra formidabile nella quale esercitare le proprie capacità critiche.


    Il racconto fondamentalista islamico non chiama in causa solo approcci e modalità di ragionamento. Esso rende sensibili alcuni fatti del passato - dalla conquista islamica, alle crociate, allo schiavismo, alla colonizzazione e alla decolonizzazione - che quindi vanno ripresi e aggiornati, storiograficamente come didatticamente. Uno degli snodi della ricostruzione fondamentalista della storia consiste nello spettacolare declino del mondo islamico, dopo i fasti dell’età medievale. “Colpa dell’Occidente!”, è il mantra islamista. E’ proprio così? la ricerca storica attuale fornisce risposte ben differenti (per queste rimando aLa Méditerranée. Une histoire à partager, a c. di M. Hassani Idrissi, Bayard 2013).
    Infine, il fondamentalismo, essendo un fenomeno esploso negli ultimi decenni, obbligherebbe il docente che voglia aiutare gli allievi a capirne qualcosa, a considerare attentamente il fenomeno della globalizzazione.

     

    Eurocentrismo e storie autocentrate


    Nella vulgata interculturale, uno dei temi più accorsati è quello della critica all’eurocentrismo. Certamente, i manuali e i programmi occidentali non sono esenti da questo vizio scientifico. Ma un buon ragionamento interculturale non può non tenere conto del fatto che la visione “autocentrata” del passato è ormai comune ad ogni stato, e ne pervade, quindi, i discorsi politici e le ricostruzioni storiche. Questo fa sì che non esista un allievo straniero “storicamente ingenuo”, potenziale vittima, perciò, del nostro eurocentrismo. E’, anche lui, più o meno consapevolmente, un portatore di arabo-indo-sino-slavo-afro-centrismo. Osservato da questa angolazione, il fondamentalismo è una ricostruzione ossessivamente autocentrata del mondo.
    Se questa è la situazione generale, la prassi del “mettere a confronto le culture” mostra tutta la sua inutilità. Non si ottiene un buon risultato sommando o smussando visioni che sono in principio sbagliate. Occorre superarle sia attivando un approccio critico nei confronti del proprio sguardo sul mondo, sia proponendo una visione del passato nella quale tutti i soggetti si possano riconoscere come attori, quale che sia la loro origine familiare. Un passato mondiale, dunque. Il “noi”, oggi, è “presente e percepibile alla scala mondiale”, come dichiararono Nicole Lautier e Henri Moniot, due punti di riferimento della ricerca storico didattica internazionale, chiudendo un seminario sull’ “incontro fra le storie”, tenutosi a Rabat al principio di questo secolo (Penser “nous”, penser “les autres”, in Rencontre de l’Histoire et rencontre de l’autre. L’enseignement de l’histoire comme dialogue interculturel, a cura di M. Hassani Idrissi, in « Horizons universitaires », 2007, p. 416).
    In sostanza: nell’officina storico-umanistica ritroviamo una notevole quantità di “antidoti” al modo fondamentalista di conoscere e di raccontare il mondo. Oggi, potremmo dire, è venuto il momento di farli funzionare.

     

    fondam4
    Fig. 4 I cattivi rapporti tra fondamentalismo e evoluzionismo

     

    L’evoluzione è una spia


    Tuttavia, non tutto si risolve nel dialogo fra allievi e professori, proprio perché non ci troviamo di fronte a “culture”, ma ad organizzazioni sociali. Lo intuiamo osservando la questione dell’evoluzione. Da noi se ne parla in terza elementare e in prima superiore. Occorrerebbe riprenderla alla fine del percorso formativo, dal momento che è diventata un tema sensibile, al confine tra scienza, filosofia, storia e religioni. I fondamentalisti di ogni colore, infatti, fanno della lotta al darwinismo un tratto distintivo. Il fondamentalismo islamico non è da meno. Lo testimoniano i numerosi libri dello scrittore turco Harun Yahya, le cui costosissime traduzioni italiane sono ben sostenute dalle comunità islamiche nazionali. In uno di questi - L’inganno dell’evoluzione. Il fallimento scientifico del darwinismo e del suo bagaglio ideologico, che nella sua bibliografia “scientifica” si rifà interamente a lavori fondamentalisti cristiani, trovo l’affermazione che gli attentatori delle Twin Towers sono dei darwinisti, perché i veri “ebrei, cristiani e musulmani” non possono essere terroristi (p. 15).
    In realtà, questo tema deve essere già stato affrontato nelle classi italiane, tanto è vero che qualche allievo musulmano chiede aiuto in rete. La rispostadel sito islamico mette in luce un risvolto della questione, che la pedagogia tradizionale non avrebbe mai sospettato, e che ci suggerisce ancora una volta di rivedere l’approccio interculturale sotto una luce “non culturalista”: “Personalmente ti consiglierei di evitare di fare lunghe polemiche con i tuoi insegnanti su questo argomento: studiala come una semplice teoria che i kuffar [gli infedeli] hanno inventato per cercare di darsi una spiegazione dell'esistenza della vita e di tutto ciò che esiste intorno a noi, e quando ti interrogano al riguardo riporta semplicemente quella che è la loro teoria; tra qualche anno non ne sentirai più parlare (a scuola, visto che il programma va' avanti; e magari nemmeno altrove)! :-)”

  • Il Laboratorio del Tempo presente

    CONVEGNO DI FONDAZIONE

    Una rete necessaria

    Lo studio della storia “molto contemporanea” è un’emergenza formativa, che, alla svolta del secolo, è diventata ineludibile. Come si constata da più parti, gran parte degli insegnanti non riesce a inserire nel curricolo lo studio strutturato degli ultimi decenni, mentre i cosiddetti “temi di attualità” sono spesso oggetto di trattazione saltuaria o vengono affrontati in discipline diverse dalla storia.

    Tempo presente

    Moltissimi allievi italiani, quindi, concludono il loro processo formativo privi di quella strumentazione storiografica che permetterebbe loro di capire fenomeni quali la globalizzazione, il rapporto fra locale e globale, i cambiamenti politici, antropologici, culturali, demografici e ambientali che segnano l’affermarsi di quello che – a giudizio concorde della comunità storiografica – è da considerarsi un periodo storico nuovo, con caratteristiche profondamente diverse da quel Novecento classico che, al momento attuale, sembra il terminus ad quem delle programmazioni di storia italiane.

    Al tempo stesso, lo studio della storia “molto contemporanea” sembra il terreno ideale per favorire il confronto fra i portati delle memorie (pubbliche e individuali) e quelli della ricostruzione storiografica. Ricerche recenti, ma ormai consolidate, mostrano come proprio in questo confronto si attivino i processi di formazione di quella “coscienza storica” che dovrebbe essere l’obiettivo centrale della formazione storica dei cittadini.

    Il laboratorio del tempo presente

    Un Laboratorio del tempo presente appare la struttura ideale dove mettere in gioco queste dinamiche formative, perché propone di lavorare sul rapporto fra l’oggi e le storie passate; fra i soggetti che studiano e i processi storici nei quali sono coinvolti. È, dunque, il luogo dove la strumentazione storiografica (ma potremmo aggiungere anche quella acquisita in altre discipline), lungamente preparata nel corso del curricolo, si mette alla prova nell’interpretazione dei fatti “caldi” – quelli che nella letteratura didattica internazionale si chiamano “questioni sensibili” – del presente.

    Il lavoro della rete

    Quest’obiettivo verrà declinato dalla rete attraverso due azioni:

    • L’allestimento di un sito presso il quale i docenti possano trovare materiali, proposte di lavoro e testi di didattica storica intorno alle questioni sensibili; presso il quale possano discutere dei problemi relativi al loro insegnamento.
    • L’allestimento di forme di aggiornamento (corsi e scuole di formazione).

    I partecipanti al progetto, dunque, si divideranno in gruppi di lavoro che:

    • cercheranno nel web materiali (libri, articoli, conferenze, dati) sui temi di particolare sensibilità (ambiente, emigrazione, pace e guerra, terrorismo ecc.);
    • produrranno proposte didattiche secondo l’ampio ventaglio di modelli che verranno proposti nel corso di fondazione: laboratori, giochi, storytelling, debate, ecc.
    • produrranno proposte di riorganizzazione dei contenuti, sia dell’ultimo anno, sia dell’intero quinquennio.

    A questo progetto partecipano le scuole che aderiscono alla rete e quelle che vorranno aderire. E porte aperte a tutti gli insegnanti e i ricercatori che vorranno dare una mano.

     

    IL LABORATORIO DEL TEMPO PRESENTE

    Il convegno

    Capalbio, 21-22-23 marzo 2019

     

    PROGRAMMA

    Giovedì, 21 marzo

    h. 14.30. Saluti e accoglienza

    h. 15.00. Antonio Brusa: presentazione del corso

    h. 15.15. Antonio Brusa: Un curricolo di storia per il Tempo presente

    h. 16.00. Alberto De Bernardi: Tra XX e XXI secolo: concetti e processi fondamentali

    h. 16.45. Break

    h. 17.00-18-30. I gruppi di lavoro: presentazione e discussione

     

    Venerdì, 22 marzo

    h. 09.00. Antonio Brusa: presentazione dei lavori della giornata

    h. 09.15. Pino Bruno: La ricerca delle fonti in rete

    h. 10.00. Lavori di gruppo

    h. 11.00. Break

    h. 11.15. Lavori di gruppo

    h. 13.00. Buffet

    h. 14.30. Plenaria: Analisi e comunicazione dei lavori di gruppo

    h. 16.00. Gita a Saturnia

    h. 20.00. Cena

     

    Sabato, 23 marzo

    h. 09.00. Antonio Brusa: presentazione dei lavori della giornata

    h. 09.15. Lavori di gruppo

    h. 11.00. Break

    h. 11.15. Plenaria: discussione e proposte di lavoro

    h. 13.00. Chiusura del corso

    Le persone

    Direttrice: Anna Maria Carbone

    Coordinatore: Antonio Brusa

    Comitato scientifico: Alberto de Bernardi (Unibo), Claudia Villani (Uniba), Pino Bruno (direttore “Tom’s Hardware”), Antonio Fini (IC Sarzana, La Spezia), David Nadery (IIS “Cassata Gattapone”, Gubbio), Francesca Alunni (Liceo Classico “Properzio”, Perugia), Lucio Bontempelli (IC “L.S. Tongiorgi”, Pisa), Carlo Firmani (Liceo Classico “Socrate”, Roma).

    Comitato tecnico e segreteria: Cristina Guidi e Giacomo Prestifilippo (Ici Manciano/Capalbio)

    Relatori e tutor: Antonio Brusa (Uniba), Alberto de Bernardi (Unibo), Pino Bruno (direttore “Tom’s Hardware”), Cesare Grazioli (IISS Blaise Pascal, Reggio Emilia), Marco Cecalupo (IC Leonardo Da Vinci, Reggio Emilia), Giuseppe Losapio (IISS Aldo Moro, Trani), Nadia Olivieri (IC 17 Montorio, Verona ).

    I partecipanti

    Il corso è rivolto sia ai docenti delle scuole che aderiscono alla rete, sia ai docenti interessati di tutto il territorio nazionale. Docenti di storia, ma anche di altre discipline che pensano di poter collaborare con noi. Saranno utilissimi anche docenti con competenze digitali, dal momento che il lavoro in rete sarà una componente fondamentale di questo progetto.

    Le modalità di lavoro

    Non aspettatevi un corso dove ci si limita ad ascoltare. In questo corso si discute, si progetta e si lavora insieme. Ci sono solo tre lezioni frontali. La maggior parte del tempo sarà destinato a lavori di gruppo, durante i quali si esporranno i mediatori didattici da adoperare nel laboratorio (nuovi materiali manualistici, laboratori, modelli di debate e di storytelling adatti alla storia, giochi per affrontare sia problemi sia per sveltire l’insegnamento curricolare) e le tecniche professionali per cercare in rete notizie affidabili. Durante i lavori, inoltre, ci si suddivideranno i compiti per la realizzazione del sito e la sua gestione. Si discuteranno le iniziative successive della rete.

    La logistica

    Capalbio, in provincia di Grosseto, è raggiungibile via treno o autostrada. L’aeroporto più vicino è quello di Roma Fiumicino. Arrivo consigliato il 21 marzo ore 14.00 circa alla stazione di Capalbio Scalo (linea Roma-Pisa). Gli spostamenti da e per la stazione saranno a cura dell’organizzazione (i partecipanti sono pregati di informare l’organizzazione degli orari di arrivo e partenza).

    • Le lezioni in plenaria si svolgeranno a Capalbio, presso “Il Frantoio”.
    • I gruppi di lavoro presso la scuola adiacente.
    • I partecipanti al corso verranno alloggiati presso l’Hotel “Valle del Buttero”, di Capalbio;
    • Il pranzo dei giorni 22 e 23 sarà a buffet.
    • La cena del 21 sarà presso il ristorante “La porta” di Capalbio.
    • La cena del 22 sarà a Saturnia.
    • Il trasferimento A/R e la gita a Saturnia sarà a cura dell’organizzazione.

    Per contatti

    Per la segreteria organizzativa e logistica: Cristina Guidi (ore 14-18 escluso sabato e domenica); tel. 3939463554:
    mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

    Giacomo Prestifilippo (ore 14-18 escluso sabato e domenica); tel. 3383623098;
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    Scarica il modulo di iscrizione

  • Il medioevo per i più piccini

    Autore: Antonio Brusa


    Ecco una bellissima serie di suggerimenti per "supportare" l'insegnamento del medioevo. Attenzione: non "per insegnare". Infatti mancano alcuni elementi chiave, fra i quali la questione della costruzione di quadri concettuali che permettano ad allievi di diverse età di comprendere il periodo, di immaginare quelle società e le loro principali trasformazioni.

    Se teniamo presenti queste avvertenze, è una bella lista di cose, che si possono cominciare a fare a partire dai cinque anni. In piena rispondenza con i nuovi programmi che, come purtroppo in molti continuano a non sapere, permette di costruire un primo ciclo storico di cinque anni, che comprende la scuola dell'infanzia e i primi tre anni delle elementari. Sono, come vedrete, attività che impegnano la manualità (disegnare, costruire, colorare ecc). Questo in piena rispondenza alle modalità empiriche dei sistemi educativi anglosassoni. Non ci sono, dunque, attività che impegnano la strumentazione concettuale: andranno costruite e progettate, per completare il quadro di una "storia per i più piccini".

    In linea, ancora, con le ideologie formative anglosassoni (qualcuno ricorderà l'organizzazione delle antiche linee di sviluppo), si riservano ai ragazzi più grandi i ragionamenti astratti, del tipo "discutere di teologia". Sappiamo da altre esperienze (la prima potrebbe essere Philosophy for children) che si può fare qualcosa del genere anche per i più piccini.

    Detto questo, e con queste precauzioni, un ottimo elenco di buone pratiche, che ci fa sognare un'Italia nella quale i docenti universitari non disdegnigno un rapporto di lavoro con la scuola dell'infanzia e primo elementare.

    http://www.medievalists.net/…/get-interactive-teach-middle

  • Il paesaggio pugliese. Una grande aula di storia e geografia

    Un master didattico per gli insegnanti

    Autore: Antonio Brusa

    Lo trasformeremo in un'aula di storia e geografia, il nostro territorio. Si partirà dalla preistoria, dai primi insediamenti neolitici, fino ad arrivare alle trasformazioni del presente e alle speranze (e battaglie) per il futuro. Ad ogni tappa si mostreranno i segni della storia e i modi per usarli in classe. E, ad ogni tappa, ci sarà un'uscita sul territorio, per una dimostrazione didattica concreta.

    Ci siamo riusciti, finalmente, a dare il via a questo master, con l'aiuto dei colleghi di Pedagogia, di Loredana Perla e di Viviana Vinci in primo luogo; dei colleghi del CRIAT (il centro di studio sul territorio che riunisce tutte le Università pugliesi); e con l'aiuto di un bel gruppo di insegnanti/esperti, che saranno i tutor didattici di questa avventura.

    Il master si svolgerà in soli quattro weekend. Ci vedremo il venerdì pomeriggio, per le lezioni storiche e pedagogiche; il sabato pomeriggio, invece, ci saranno le dimostrazioni didattiche e i lavori di gruppo. La domenica mattina si parte.

    Inizieremo a lavorare a settembre e termineremo, quindi dopo quattro settimane. A breve pubblicheremo il calendario: ma - ATTENZIONE! - se questa proposta vi interessa, pre-iscrivetevi subito, perché il 14 aprile l'Università chiuderà le adesioni. E, se non riusciremo ad arrivare alla quota minima, ahimé, il master non si farà. Nel link troverete tutti i dati per iscrivervi. Ma - ATTENZIONE BIS! - dal momento che, lo avete capito dalle date, la nostra Università fa di tutto per facilitarvi, quando tenterete di iscrivervi, a meno che non siate dei maghi digitali, non ce la farete.

    Non vi scoraggiate. Due colleghe VIviana Vinci (3202247736) e Ilenia Amati (3289626823) si prodigheranno per aiutarvi

    http://www.uniba.it/…/…/il-territorio-come-risorsa-didattica

  • Il paesaggio storico come risorsa didattica per lo studio della storia e della geografia

    Programma dettagliato

    Università degli Studi “Aldo Moro”, Bari
    Dipartimento della formazione, psicologia, comunicazione (Forpsicom) / Centro di Ricerca Interuniversitaria per l’Analisi del Territorio (CRIAT)

    Short Master presso la sede del Dipartimento per la formazione, psicologia, comunicazione, Palazzo Chiaia-Napolitano, Via Crisanzio, 42, Bari

    Direttore: Loredana Perla (Università degli Studi di Bari)
    Coordinatore: Antonio Brusa (CRIAT)

    Struttura dello Short Master:
    Il master si compone di 4 moduli costituiti da
    -    incontri teorici (venerdì pomeriggio),
    -    laboratori didattici (sabato pomeriggio): svolti sui temi delle lezioni
    -    Escursioni dimostrative (domenica mattina).

    MODULO 1 Introduzione e impianto generale
    23-24-25 settembre
    Venerdì (15.30-19.30): Introduzione e impianto del corso: Il paesaggio storico come risorsa didattica.
    Prolusione di Loredana Perla: il dialogo fra didattica generale e didattica disciplinare
    Antonio Brusa: il punto di vista della didattica della storia
    Biagio Salvemini: la prospettiva di ricerca

    Sabato (15.30-19-30): presentazione dei laboratori
            Valentina Ventura: i giochi didattici
            Giuseppe Losapio: lo storytelling e il laboratorio didattico
    Giulia Perrino: i segni sul territorio
    Giuliano De Felice: archeostorie
    Sergio Chiaffarata: le associazioni che operano sul territorio
            
    Domenica mattina: Escursione a Mola di Bari. Un paesaggio di ottomila anni: dal Neolitico a oggi.
            Valentina Ventura/Giulia Perrino/Sergio Chiaffarata (istruzioni dettagliate in sede)
            
    MODULO 2 Dalla preistoria fino all’Alto Medioevo
    7-8-9 ottobre
    Venerdì (15.30-19.30): lezioni
    Valentina Ventura: Etnogenesi e spazializzazione
    Annarosa Gallo: La territorializzazione romana
    Pasquale Favia: Come si destruttura un territorio? Il paesaggio pugliese dal tardoantico al medioevo

    Sabato (15.30-19.30): laboratori didattici sulla preistoria, storia antica e alto medievale
    Introduzione Antonio Brusa
    Lavori di gruppo (esempi, modelli e esercitazioni)
            Valentina Ventura: gioco
            Giuseppe Losapio: storytelling
    Giulia Perrino: itinerario turistico
    Giuliano De Felice: cortometraggio/app
    Sergio Chiaffarata: smartapp

    Domenica:Escursione di studio(istruzioni dettagliate in sede)
            Valentina Ventura: gioco sul Neolitico (Lama Conte Valentino)

    MODULO 3 Medioevo e prima età moderna
    4-5-6 Novembre
    Venerdì (15.30-19-30): lezioni
    Pasquale Favia: Il riemergere di logiche territoriali nel Medioevo
    Saverio Russo: I paesaggi agropastorali aperti, dall’età moderna a oggi
    Annastella Carrino: Le “quasi città”, dall’età moderna ad oggi

    Sabato (15.30-19-30): Laboratori didattici sulla storia medievale e moderna
            Introduzione Antonio Brusa
    Lavori di gruppo (esempi, modelli e esercitazioni)
    Valentina Ventura: gioco
            Giuseppe Losapio: storytelling
    Giulia Perrino: itinerario turistico
    Giuliano De Felice: cortometraggio/app
    Sergio Chiaffarata: smartapp

    Domenica mattina: escursione di studio
            Sergio Chiaffarata
    Viaggiare nel tempo attraverso lo spazio: il villaggio rupestre Bari

    MODULO 4_Tarda età moderna ed età contemporanea
    18-19-20 novembre
    Venerdì (15.30-19-30): Lemmario essenziale del paesaggio contemporaneo
    Biagio Salvemini e Rosanna Rizzi: “Insediamento”
    Angela Barbanente: “Paesaggio”
    Dino Borri: “Pianificazione”

    Sabato (16.00-19.00): laboratori didattici sulla storia recente
            Introduzione Antonio Brusa
    Lavori di gruppo (esempi, modelli e esercitazioni)            
    Valentina Ventura: gioco
            Giuseppe Losapio: storytelling
    Giulia Perrino: itinerario turistico
    Giuliano De Felice: cortometraggio/app
    Sergio Chiaffarata: smartapp
            Discussione finale sulla cittadinanza attiva

    Domenica mattina e pomeriggio: escursione di studio
            Sergio Chiaffarata
    Paesaggi di guerra e di pace, tra Altamura, Gravina e Corato (istruzioni dettagliate in sede)

    Incontro finale: Venerdì 25 novembre 2016 (15.30-19-30)
    Vittoria Bosna
    Giuseppe Agostino Poli
    Viviana Vinci
    Loredana Perla: conclusioni

  • Il Sessantotto. Un laboratorio su un anno spartiacque (parte seconda)

    di Antonio Brusa

    Nove laboratori sulla contestualizzazione storica*

    &nbsp

    A. IL LABORATORIO DELLA CONTESTUALIZZAZIONE

    In questo gruppo di laboratori inserisco quelle attività che mirano ad analizzare il fatto storico “Sessantotto”. Sono laboratori che vorrei definire “top-down”. Vanno dall’insegnante all’allievo in un percorso abbastanza tradizionale. L’insegnante prepara i materiali (lezioni, schemi) e pone agli allievi delle questioni da risolvere.

    Il campo di indagine è quello della contestualizzazione storica. Lo organizzo in due parti. La prima si occupa della complessità. Comprende cinque attività che, a partire da un modello storiografico, cercheranno di collegare l’“evento Sessantotto” a un contesto più ampio. La seconda si occupa del tempo, con quattro proposte, attraverso le quali questo evento verrà inserito in contesti temporali diversi. Questo articolo, quindi, andrebbe inteso come una sorta di antologia dalla quale un insegnante può prelevare l’attività che pensa più utile alla sua classe. A questa antologia ne seguirà una seconda, in un prossimo intervento su HL, dedicata a un tipo di laboratorio diverso (e forse più consueto fra gli insegnanti esperti), cioè il laboratorio con i documenti. Si tratta di progetti che riguardano la secondaria superiore. Per quella inferiore andranno adattati. In ogni caso, questi progetti vanno considerati dei “semilavorati”, che il docente dovrà completare, con consegne o scalette di conversazione più dettagliate, con riferimenti al manuale, eventuali altri materiali.

    Ma torniamo ai laboratori sulla contestualizzazione dell’“evento Sessantotto”. Braudel scriveva che un evento assomiglia a un vulcano dal quale si sprigionano tutti i tempi della storia. Ciò vale, in particolare, quando l’evento è talmente pesante da “dividere i tempi”. “Un evento spartiacque”, si è detto del Sessantotto. Difatti, è esattamente a metà strada fra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine della Guerra fredda. Questa espressione, usata da James Chapman, è stata ripresa da Marcello Flores e Giovanni Gozzini nel loro 1968. Un anno spartiacque (Il Mulino 2018, d’ora in poi FG: qui è possibile leggerlo), uno studio dal quale ricavo i materiali per questi laboratori.

    Da questo punto di vista, questo lavoro vorrebbe (anche) suggerire agli insegnanti un metodo di lettura dei testi storici forse diverso dal solito. Un insegnante legge un libro di storia con la segreta speranza di poterlo raccontare in classe, magari trovare qualche spunto oppure, nell’insegnamento superiore, per inserirlo in un contesto critico. Si potrebbe, secondo me, aggiungere a queste modalità di lettura senz’altro meritorie, quelle del “libro-palestra-per-pensare”. Un buon libro di storia, per me, è esattamente come una palestra, all’interno della quale si trovano macchine per fare esercizi di tipo diverso. Quindi lo leggo non solo per trovare fatti o problemi da poter raccontare; ma anche per trovare meccanismi da smontare e rimontare, con i quali giocare e inventare esercizi: cose che, fuori di metafora, non sono altro che idee, ragionamenti e storie.

    B. IL LABORATORIO DELLA COMPLESSITÀ

    b1.Un modello complesso

    Chapman utilizzava il termine watershed/spartiacque discutendo il “libro più innovativo sul Sessantotto”: 1968. The World Transformed (a cura di Carole Fink, Philipp Gassert e Detlef Junker, N.Y., Cambridge University Press, 1998). Lo utilizzo per costruire una parte del modello per lo studio di quel periodo.

    Nella loro Introduzione (pp. 1-30), Fink, Gassert e Junker espongono gli elementi fondamentali di un modello basato sul fatto che le rivolte del Sessantotto furono mondiali. Quindi inseriscono i movimenti giovanili in un quadro contrassegnato da una doppia crisi planetaria, politica ed economica.

    Modello per lo studio del Sessantotto

    La prima – la crisi politica - si era manifestata in due eventi: l’offensiva del Tet (gennaio-marzo 1968), scatenata dalle truppe nord vietnamite e dai viet-cong contro gli Usa, nella quale questi ultimi, pur vincendo militarmente, avevano capito che avrebbero perso una guerra, per la prima volta nel corso del XX secolo. A questo smacco occidentale faceva da contraltare, nel mondo comunista, la Primavera di Praga (gennaio-agosto 1968) che, in modo analogo, opponeva alla vittoria militare dell’Urss la sua evidente sconfitta sul piano del consenso fra i cittadini del Patto di Varsavia. La seconda - la crisi economica - era iniziata dopo la Guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967), che aveva messo in dubbio la facilità con la quale, fino ad allora, l’Occidente si era approvvigionato di petrolio, e si era ingigantita a causa della crisi economica americana, che allora fu giudicata “la peggiore dalla Grande Depressione”.

    Queste due crisi indebolirono strutturalmente il blocco Est/Ovest, in particolare – per ciò che riguarda questo lavoro - dal punto di vista della capacità degli Usa e dell’Urss di esercitare il controllo sulle popolazioni, e dunque sui manifestanti. Questa debolezza si manifestò su due livelli. Quello ideologico, dell’attrattività dei sistemi capitalisti e comunisti quali modelli di vita; e quello del controllo sociale, che, di fatto, consentì una relativa tolleranza nei confronti di manifestazioni, che in tempi precedenti si sarebbero ostacolate con più efficacia. Mettendo insieme a questi elementi le questioni relative ai giovani (viste nella prima parte di questo lavoro, già pubblicata su HL), otteniamo questo modello per lo studio del Sessantotto. Si compone di due parti. Quella “soggettiva”, riguardante gli studenti (con i caratteri in blu), e quella “oggettiva”, riguardante la situazione mondiale (caratteri in nero).

    b2. Come si lavora con un modello

    a. Chiamerei la prima attività “Mettere le parole”. Uno schema (o come ormai è d’uso nelle scuole, una “mappa concettuale”) viene solitamente impiegato alla fine di un percorso di studi, come sintesi. Resta lì, quasi la foto degli apprendimenti realizzati. In realtà, se noi chiediamo agli allievi di verbalizzare lo schema, ne troveremo non pochi in difficoltà. Per prevenirla, suggerirei di far leggere loro questi brevi brani, tratti dal libro di Flores e Gozzini, per cercare in quali caselle dello schema andrebbero inseriti, e per spiegare come un certo elemento dello schema influisce sugli altri (quindi, riempiendo gli spazi con i punti interrogativi).

    I mass media sono il primo fattore del modello, il secondo è la fase nuova che gli eventi del 1968 aprono nella guerra fredda, il terzo è la “rete informale di comunicazione e collaborazione” che lega fra loro gli attivisti di ogni parte del mondo e infine la quarta è il collante ideologico che tiene insieme questi ultimi. Perché i protagonisti credevano in una causa comune. Lottarono in opposizione allo status quo interno e internazionale a Est e Ovest, a Nord e a Sud, in appoggio alla libertà, alla giustizia e alla autoderminazione (FG, p. 33).

    Il tempo della guerra fredda è un tempo “artificialmente” globalizzato dalle necessità di controllo delle due superpotenze. Questa storicamente inedita forma della politica internazionale stabilisce il quadro di riferimento unitario entro cui gli studenti si muovono. E li predispone di fatto al contagio, all’imitazione, alla risonanza, in qualsiasi continente si trovino (Ibidem).

    La simultaneità globale del Sessantotto si spiega con fattori soggettivi (accesso di massa alle università) ma anche con fattori oggettivi (il prepotente potere di Usa e Urss insieme ai segni della loro crisi in Vietnam e Cecoslovacchia) (Ibidem).

    I media rappresentano una condizione indispensabile per la trasformazione delle agitazioni locali. Senza di loro, queste non avrebbero risonanza e il loro esempio non potrebbe diffondersi. Di più: i media, trasmettendo motivi e forme delle agitazioni, contribuiscono a dare nuovi significati ai contesti e a trasformare le identità personali e collettive (FG, p. 17).

    b. Chiamerei una seconda attività “Arricchire il modello”. Questo modello non spiega tutto, come – del resto - qualsiasi modello scientifico. Il suo scopo è quello di mettere a fuoco un elemento fondamentale del Sessantotto: il fatto che fu una rivolta globale e simultanea. Bene: all’inizio della prima parte di questo articolo (qui su HL), si riportano i temi della rivolta, quali furono propagandati nei manifesti dei giovani parigini:

    • La lotta contro l’autorità
    • Per una informazione alternativa e contro la censura
    • A sostegno della classe operaia
    • Contro il conformismo

    Possiamo integrarli nel modello? Quali caselle, quali connessioni nuove dobbiamo immaginare? Il modello mette in relazione gli aspetti soggettivi della rivolta (in blu) con quelli oggettivi (in nero). Possiamo fare in modo che questo modello rappresenti e spieghi meglio gli aspetti soggettivi? Oppure il modello deve essere radicalmente cambiato, e ne dobbiamo immaginare uno nuovo?

    Per quanto riguarda gli aspetti soggettivi, non si può non ricordare che tra i portati fondamentali del Sessantotto vi sono la rivoluzione sessuale e la nascita del femminismo attuale (se ne parlerà in seguito). Flores e Gozzini ne danno ampie notizie (pp. 36-40). Quali modifiche ci suggerisce, quindi, la storia di genere?

    c. Una terza attività potrebbe essere “Mettere le date”. Un modello astrae dai fatti tendenze e problemi. Per questo, normalmente, non ha delle date. Ma possiamo introdurle. La crisi politica, per esempio, si riferisce alla guerra del Vietnam e alla Primavera di Praga (e a tanti altri eventi). Chiediamo agli allievi di cercarli sul manuale e di inserirli nello schema usando gli opportuni grafismi.

    Questa ricerca porta a interrogarci sull’insieme dei fatti che sono collegabili al nostro modello (quando scoppia la Guerra del Vietnam e per quali motivi? quando i media diventano globali? Quando e perché si forma una Boom Generation? Per quali motivi scoppia la crisi economica del 1968? C’entra in questa Bretton Wood? E così via). Alla fine, avrete bisogno di un poster abbastanza grande e complicato, nel quale potrete sintetizzare buona parte della storia dopo il ’45.

    d. Regionalizzare il modello. Il Sessantotto, per quanto globale e simultaneo, fu diverso nei singoli paesi. Questo suggerisce altre modifiche al modello, in modo da rappresentare:

    • La situazione italiana e francese nella quale avvenne una saldatura fra movimento studentesco e movimento operaio. Per quali motivi questa si verificò? E in che modo la possiamo integrare nel modello? (per questo punto e il successivo possono bastare le notizie riportate in un buon manuale).
    • La situazione dell’Europa Orientale. Qui, l’obiettivo principale dei giovani è quello della critica al modello comunista e la liberazione dal dominio dell’Urss.
    • La situazione Medio-orientale. La medesima rivolta prende quattro direzioni diverse. In Egitto è, da una parte, al Nakba (la Catastrofe): il desiderio di rivincita dopo la sconfitta nella Guerra dei Sei giorni, un movimento laico, socialisteggiante e modernizzante; dall’altra è la diffusione dei Fratelli Musulmani, uno dei primi movimenti fondamentalisti musulmani. In Palestina è Karameh (Dignità), dal nome di un paesino i cui abitanti risposero con le armi all’invasione israeliana. Da questo movimento nasce Al Fatah, il gruppo del quale Yasser Arafat divenne leader. In Israele fu un movimento di sostegno alla guerra dei Sei giorni, da parte di tanti giovani che si riconoscevano in Moshe Dayan, ministro della difesa (per informazioni più particolareggiate su questo punto: FG, pp. 91-98).

    e. Valutare l’evento. “Spartiacque” è un termine metaforico. Indica che quell’evento fa in modo che il tempo successivo sia diverso da quello precedente. Ma quanto sono profondi questi cambiamenti? Autorizzano, per esempio, a pensare che ci fu una rivoluzione? Occorre fare attenzione quando usiamo questo concetto, dal momento che è cambiato parecchio dai tempi di Robespierre e di Marx. Secondo Jack Goldstone, ci stiamo avviando verso una “quarta generazione di teorie rivoluzionarie”, nella quale gli studiosi preferiscono una definizione molto più estesa di quella ottocentesca. Possiamo discutere in classe, perciò, se il “Sessantotto” (i cui protagonisti agli occhi dei classici probabilmente non avrebbero passato l’esame del buon rivoluzionario) vi sia compreso, e cioè se sia un complesso di movimenti nel quale troviamo:

    • Delle spinte a cambiare il regime politico, basate su visioni antagonistiche di un ordine giusto.
    • Un notevole livello di mobilitazione di massa, formale o informale.
    • Delle spinte a forzare il cambiamento attraverso azioni non istituzionalizzate, come dimostrazioni di massa, proteste, scioperi o violenze.

    (FG, p. 35. Dall’originale J.A. Goldstone, Toward a Fourth Generation of Revolutionary theory, in «Annual Review of Political Science», 2001, p. 141 ss. si ricaveranno altri argomenti per una discussione epistemologico-storiografica).

    f. Raccontare l’evento. Questa non è un’attività separata, ma va considerata una conclusione, direi obbligata, di ciascuna delle attività descritte sopra (le quali, lo ricordo ancora, sono a scelta del docente). Il racconto, infatti, è lo strumento principale della memorizzazione. Serve per “racchiudere” il percorso svolto in un testo che abbia un senso e che, in un certo modo, ti puoi portare via. Occorre, quindi, trasformare la mappa dei concetti, che rappresenta in sincrono la complessità di un evento, in una sequenza nella quale i vari elementi dello schema siano disposti uno dopo l’altro. Possiamo seguire una strategia cronologica o una logica. Nel primo caso, estraiamo dallo schema i fatti, li datiamo (se il caso, approssimativamente) e poi li disponiamo su un cronogramma, che funzionerà da scaletta per il testo. Nel secondo, assegniamo un numero ad ogni elemento dello schema, partendo dal punto che giudichiamo più adatto, e costruiamo il racconto basandoci sulla sequenza numerica.

    C. IL LABORATORIO DEL TEMPO

    c1. Anche il tempo storico è complesso

    La critica che si oppone a questo genere di modelli è che non curano un aspetto particolarmente caro agli storici: il tempo. In effetti, occorrerebbe mettere in moto la complessità rappresentata, osservare come si è formata, quali erano gli antecedenti e quali gli sviluppi successivi. Anche in questo caso, Braudel aveva ragione, quando ci ha spiegato che una “società nel tempo” è, in realtà, un insieme di parti che mutano e, man mano, interagiscono fra di loro. Un intrico mobile che mette in seria difficoltà le nostre capacità di comprensione. Come sempre in didattica (ma non solo), dobbiamo semplificare. Prendiamo il modello base di analisi di un evento e applichiamolo al Sessantotto.

    Modello generale di un evento

    Ogni evento è frutto di un complesso di antecedenti che assumono una certa configurazione nel tempo x nel quale si verifica. Per rappresentare questo processo, collochiamo lungo l’asse temporale alcuni aspetti sui quali il Sessantotto incide in maniera molto evidente. Scelgo, sempre dal lavoro di Flores e Gozzini, tre aspetti:

    • la questione del terrorismo
    • la questione femminile
    • il problema dei diritti umani

    Sull’asse verticale, invece, segniamo quegli aspetti “spaziali” che riguardano lo scenario mondiale alla fine degli anni ’60: la globalizzazione, i mass media, la decolonizzazione e l’indebolimento dei blocchi, perché caratterizzano il Sessantotto come momento globale e simultaneo di rivolte giovanili. L’ideale sarebbe studiare come i fattori temporali coevolvono e, a un certo momento, reagiscono con quelli spaziali. La semplificazione didattica ci consiglia di prendere un fattore per volta, e vedere che rapporto ha con il Sessantotto. La scoperta finale sarà che, ogni volta che cambiamo i fattori, cambieranno anche tempi e periodizzazione.

    c2. Il tempo del terrorismo

    Siamo abituati ad una periodizzazione del terrorismo riferita allo spazio nazionale, accostato semmai a quello tedesco. In questo spazio ristretto, il Sessantotto diventa il punto di origine di una sequenza mortifera che ha insanguinato la nazione e che aveva come un unico precedente, non sempre ricordato, gli attentati separatisti dell’Alto Adige. Se allarghiamo lo sguardo, invece, vediamo che il terrorismo non è affatto una realtà originale italiana, ma ha una lunga storia internazionale alla quale il fenomeno italiano si collega. Ecco il cronogramma.

    Cronogramma del terrorismo

    Questa cronologia allontana il rischio di far coincidere l’immagine del Sessantotto italiano con quella del terrorismo e, per estensione, ci salvaguarda dallo stereotipo di un’altra “specificità italiana”, quegli “anni di piombo” che oscurano la più profonda stagione di riforme che la Repubblica abbia conosciuto. Ecco, dunque, i quattro cicli di terrorismo, quali li riconosciamo nell’età contemporanea, con le parole di Flores e Gozzini.

    Il primo ciclo è quello “anarchico” che, soprattutto nell’Europa dell’Ottocento e del primo Novecento prende a bersaglio uomini rappresentanti delle istituzioni e raggiunge il proprio acme nel 1914 a Sarajevo.

    Il secondo è quello “anticoloniale” che va dall’insurrezione irlandese del 1916 fino alla “battaglia di Algeri” del 1962.

    Il terzo è quello “della nuova sinistra” che negli anni Sessanta si collega alla guerriglia in Vietnam e in America Latina per diffondersi in Europa occidentale, America, Medio Oriente e Giappone.

    Il quarto è quello “religioso” che si apre con la rivoluzione iraniana del 1979, colpisce in Afghanistan, Medio Oriente, India, Algeria, Stati Uniti e Giappone negli anni Novanta per poi estendersi su scala globale negli anni Duemila (FG, p. 231)

    c3. Come si lavora con un cronogramma

    Succede che i cronogrammi patiscano la stessa sventura didattica delle mappe concettuali. Si fanno alla fine, come sintesi di ciò che si è studiato. Invece andrebbero considerati strutture mobili, che crescono e si modificano man mano che si studia. Nei cronogrammi che qui presento ci sono alcuni eventi. Nel manuale, come in altri testi, ce ne saranno altri che vi possono trovare posto. Nei rettangoli sotto la cronologia ho posto i “nomi” delle periodizzazioni. Non li farei vedere agli allievi, ma porrei il problema. Posto che il Sessantotto è un evento spartiacque, come chiamare il periodo precedente e come quello successivo? “Dare nome al tempo”, cioè “periodizzare”, è una delle operazioni più interessanti che la storia ci permette. Lanciamo la sfida. Chi trova il nome più adatto. Poi, discutiamo i nomi proposti: si vedrà che ognuno di questi implica una certa lettura del periodo.

    Confrontiamo i cronogrammi. Quello che abbiamo prodotto nel laboratorio con gli altri riportati sotto, anche se non sono stati studiati. Mettiamolo a confronto, anche, con la timeline di storia generale, eventualmente presentata dal manuale. Quali relazioni intravvediamo? Riusciamo a spiegarle?

    Infine, utilizziamo il cronogramma come base per un racconto. Mettiamo in evidenza gli eventi più importanti, quelli che andranno sottolineati. Teniamo presente che il testo deve anche far risaltare il ruolo del Sessantotto. Poi raccontiamo. Basta un testo breve, purché contenga i riferimenti precisi al cronogramma. La sintassi ci rivelerà il grado di maturazione degli allievi: chi troverà connessioni complesse e cercherà di spiegarle; chi, invece, non saprà andare oltre il “e poi”.

    c4. Il tempo delle donne

    Anche la storia contemporanea delle donne è divisa in quattro periodi. Ma qui il Sessantotto gioca un ruolo chiaramente fondamentale. Costituisce, infatti, il momento di passaggio fra la fase “evolutiva” e quella “rivoluzionaria” di questa storia. È Claudia Goldin che ha elaborato questa cronologia, nella quale la prima fase, che inizia alla fine del XIX secolo, vede giovani donne impegnate in lavori generalmente di bassa qualità, che devono però abbandonare una volta sposate. La Prima guerra mondiale genera la spinta verso la seconda fase, che inizia intorno agli anni venti, nella quale il lavoro diventa più facile per le donne. Quelle che hanno studiato possono accedere anche a posti di lavoro intellettuale, ma per tutte il momento del matrimonio coincide con il ritiro dalla vita produttiva. La Seconda guerra mondiale favorisce l’avvento di una terza fase, “di transizione”, con le donne che possono studiare, ritardare l’età del matrimonio, accedere a lavori più interessanti mentre comincia a perdere di forza il vincolo della gravidanza: molte, infatti, possono continuare a lavorare anche dopo il matrimonio.

    Cronogramma della storia delle donne

    Claudia Goldin definisce “evolutive” queste tre fasi perché – per quanto si noti un lento e continuo miglioramento - non comportano cambiamenti fondamentali nell’orizzonte di vita delle donne, nel loro senso di identità e nella capacità di controllare il proprio destino. Ma, giusto alla fine di questa terza fase, troviamo un momento che Goldin definisce di “rivoluzione rumorosa”. Esso è legato alle battaglie per i diritti civili, all’uso della pillola, alla rivoluzione sessuale. È, finalmente, il Sessantotto. Questo, in modo analogo alle guerre mondiali, introduce la fase attuale della storia delle donne, quella della “rivoluzione silenziosa”, nella quale masse di donne, pacificamente, si diffondono nella società, occupandone posti che, nei tempi precedenti, erano stati loro interdetti (FG, pp. 40-41; Claudia Goldin, The Quiet Revolution that transformed Women’s employment, Education and Family, 2006).

    c5. Il tempo dei diritti

    Quando il 10 dicembre del 1948 fu proclamata la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, questa, “più che l’annuncio della nuova era, fu una corona funebre posta sulla tomba della guerra”. Con questa battuta pessimistica inizia L’ultima utopia, il libro che Samuel Moyn ha dedicato alla storia dei diritti umani (The Last Utopia, The Belknap Press of Harvard University Press Cambridge, Massachusetts and London, England 2010). Tuttavia, a quasi settant’anni di distanza, non possiamo negare che nel mondo è diffusa la convinzione che “agli esseri umani spetti di godere dei diritti umani” (FG 142). A dispetto dello scetticismo di Moyn, dunque, questa “utopia” ha avuto successo: in particolare dopo il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, che inaugurò una stagione nella quale molti sperarono che, finalmente, non ci sarebbero stati più ostacoli nell’applicazione di quella Dichiarazione. Oggi i diritti umani si sono imposti come cultura universale, soprattutto nel confronto con le nuove guerre e i genocidi (FG, p. 120 s).

    Qui ci chiediamo se il Sessantotto abbia giocato un ruolo in questa vicenda e se sia stato un ruolo di “spartiacque”. E’ una questione controversa. Ma proprio questa difficoltà può dar luogo a un interessante laboratorio di discussione (l’argomento è spiegato dettagliatamente in un lungo capitolo di FG, pp. 127-145).

    Alcuni studiosi, come Moyn, sostengono che il Sessantotto non ha inciso nella storia dei diritti umani. Di parere diverso altri, come Flores e Gozzini. Al centro della contesa c’è la questione della decolonizzazione. Infatti, i nuovi stati indipendenti si erano distinti – in particolare negli anni ’60 – nella battaglia per il riconoscimento dei diritti umani. Secondo Moyn, però, fu una battaglia viziata dall’antioccidentalismo. Per quegli stati i diritti umani non erano altro che il proprio diritto di combattere contro il colonialismo.

    L’editto di Ciro il Grande, conservato al British Museum

    La Conferenza di Teheran, tenutasi nell’aprile-maggio del 1968, è significativa. Fu inaugurata dallo Shah Reza Pahlevi (non certo un campione dell’umanità) il quale iniziò il suo discorso ricordando l’editto di Ciro il Grande del 539 a.C, suo supposto antenato, considerato spesso il primo editto di tolleranza; ma poi mise ben in chiaro che lo scopo di quella riunione era di rinsaldare i legami e le attività anti-occidentali fra i paesi del Terzo mondo (con l’Urss spettatrice interessata). Quindi, conclude Moyn, il vero decennio dei diritti umani fu quello successivo, con la Conferenza di Helsinki del 1975. E, in ogni caso, fu a Vienna, nel 1993, a venticinque anni di distanza dalla convention di Teheran, che si svolse la prima conferenza delle Nazioni Unite sui Diritti umani.

    Flores e Gozzini non sono d’accordo sul giudizio di “insincerità” espresso nei confronti dell’azione dei paesi del Terzo mondo. Si basano sul lavoro di Steven Jensen, The Making of International Human Rights: The 1960s. Decolonization, and the Reconstruction of Global Values (Cambridge, Cambridge University Press, 2016. Qui Phillipp Kandler ce ne propone una recensione critica esauriente). Secondo Jensen, sono proprio i paesi decolonizzati che spingono per l’accettazione dei Diritti umani. Questi, infatti, sono figli di culture extra-europee (orientali o africane) che preferiscono al guadagno e alla sopraffazione i valori della vita comunitaria, dell’equilibrio e della pace. Ne consegue, prosegue Jensen, che il Sessantotto – nato in un ambiente universitario occidentale - non ebbe nulla a che vedere con i Diritti umani, argomento che non era nella cima dei pensieri dei giovani in rivolta.

    Ma su questo punto il disaccordo con Flores e Gozzini è totale. Ricordano che gli anni ’60 hanno visto il fiorire di manifestazioni contro il razzismo, il machismo, a favore dell’ambiente e per i diritti umani economici. Lo stesso antiautoritarismo, una delle costanti del movimento studentesco, fu un motore nella lotta a favore dei diritti umani, dal momento che i principali conculcatori di questi diritti erano proprio gli stati. E proprio il 1968 fu proclamato dalle Nazioni Unite il primo “Anno internazionale dei diritti umani” (Marcello Flores è autore di opere fondamentali su questo argomento. Qui ne possiamo ascoltare una sintesi.

    Cronogramma dei diritti umani

    c6. Costruire timeline

    Ci sono ancora cinque argomenti, nel nostro libro-palestra: l’Islam, la finanza, il lavoro, il digitale, la cultura. Di ciascuno di questi si può tracciare un cronogramma e interrogarsi sul ruolo del Sessantotto: se fu marginale o “spartiacque”. Si tratta di leggere selettivamente il testo. Sottolineare le date. Cercare quelle parti dove si parla di periodizzazione e, infine, elaborare una timeline. Qui ho usato un programma elementare (Frisechrono). Ma ce ne sono molti che permettono soluzioni più ricche e spettacolari. In ogni caso, sarebbe un buon esercizio di lettura/palestra per gli insegnanti. Se, poi, si riesce a elaborare una timeline che, in linea di principio, sia facilmente riproducibile da un allievo, allora la si proponga loro come esercitazione. Nel caso di una classe estremamente competente, poi, si assegneranno i capitoli a gruppi diversi con il compito di costruire una timeline e spiegarla ai colleghi.

    D. SUGGERIMENTI PER IL LAVORO

    d1. Il ruolo della lezione

    Nel loro insieme queste proposte disegnano un quadro abbastanza completo della vicenda storica. Prese singolarmente ne forniranno solo un pezzettino: ma questo è il destino obbligato per qualsiasi laboratorio che contempli un minimo di attività autonoma da parte degli allievi. Tutto ciò vuol dire che il compito di fornire un quadro generale e complessivo spetta al docente, attraverso la sua lezione. Questo fino a che i discenti non saranno in grado di costruire con una certa autonomia una visione generale di un determinato problema. Giunti a questo livello potrebbero intavolare con i loro professori un dialogo formativo: ma si tratterà di un momento di lavoro scolastico sofisticato, da escludere, a mio modo di vedere, nel segmento di scolarità al quale è diretto questo insieme di laboratori.

    In questo lavoro prevedo due tipi di lezione. La lezione introduttiva, molto breve (non si dovrebbe andare oltre i 15 minuti). Questa dà agli allievi qualche notizia del campo nel quale si lavorerà e cerca di motivarli. Per prepararla, il docente potrà usare come scaletta il modello di Sessantotto che qui ho presentato, mentre dalla prima parte dell’articolo ricaverà spunti narrativi e immagini.

    Il secondo tipo di lezione è quella conclusiva, al termine dell’attività laboratoriale. Più lunga, intorno ai trenta minuti, darà al docente la possibilità di fornire un quadro completo della vicenda, mostrando come i diversi elementi studiati si interrelano fra di loro, tenendo conto, al tempo stesso, dei problemi e degli interessi e delle difficoltà emerse nel corso del lavoro.

    d2. Un modello di unità di lavoro

    L’unità di lavoro, quindi, inizia con la messa a punto del quadro generale, fatta nella lezione introduttiva. A questo punto, il docente prende la prima decisione: lavorare sulla complessità o sul tempo? Sceglie il laboratorio che gli sembra più adatto. Per questo motivo ho disposto i laboratori in una scala latamente progressiva. Per esempio, l’attività sul terrorismo è più agevole di quella sui diritti umani, che richiede letture, comprensione di testi e capacità di discutere, mentre l’ultima attività libera è decisamente riservata a classi competenti.

    I lavori, tutti, prevedono sempre un ricorso ai testi. Infatti, i modelli e le cronologie sono degli strumenti per interrogare i testi, per leggerli selettivamente e cercare le notizie che di volta in volta sono necessarie. Qui ho riportato dei brani molto brevi: saranno sufficienti per un lavoro rapido. Per un lavoro più lungo e intenso, si daranno agli allievi le parti indicate del libro. Laddove possibile (come a volte ho indicato) si faccia ricorso al manuale.

    Terminata la fase della ricerca e del completamento del modello o del cronogramma, si passa alla fase della narrazione. Qui ho descritto brevemente come ricavare un racconto da uno schema (sopra, il punto f). Per il cronogramma è più facile. Basta seguire la linea del tempo, come abbiamo già visto. Per renderla più complicata (e in connessione con l’insegnamento della lingua), si proporranno delle varianti: fai una narrazione a ritroso, partendo dall’oggi; fai una narrazione ad anello, centrata sul Sessantotto. Questa parte del modulo potrà essere svolta a casa, individualmente (anche nel caso del lavoro di gruppo).

    Infatti, posto che questo lavoro si svolge in classe con le modalità di una lezione partecipata, si suggerisce anche la formula del lavoro a gruppi, soprattutto se si dispone di una classe competente. Per quanto riguarda il lavoro sulla complessità, l’insegnante mostra come si lavora su uno schema. Sviluppa questo esempio sul caso più difficile, lasciando agli allievi i casi più facili. Di seguito, assegna ad ogni gruppo uno schema. Per quanto riguarda il lavoro sul tempo, invece, dal momento che gli esempi che ho presentato sono tre, ne adopera uno per mostrare agli allievi “come si fa”, poi divide la classe in due (o quattro) gruppi, assegnando a questi i due cronogrammi rimanenti. Si è già detto che, nel caso di una classe molto competente, si assegnerà il lavoro “libero” sui capitoli del testo che qui non sono stati trattati.

    Il modulo di lavoro termina con la lezione frontale del docente, nel quale questi, tenendo conto dei lavori dei ragazzi, del livello di comprensione che questi hanno rivelato e dei problemi emersi, espone agli allievi la sua ricostruzione del periodo.

    Qui sopra il diagramma operativo. Suggerisco di progettare un modulo di due ore. Nella prima si apre con la lezione introduttiva e si lavora con lo schema (o con la cronologia). Si assegna il compito da svolgere a casa. Nella seconda, si continua a lavorare o si discute e, nell’ultima mezz’ora, si eroga la lezione conclusiva.

     


     

    * La prima parte “L’evento e la memoria” è stata già pubblicata su HL. La terza parte e la postilla conclusiva verranno pubblicate a breve.

  • Il videoconcilio di Trento in Dad. Ovvero: se il Papa avesse avuto internet, sarebbe bastata una mezzoretta?*

    di Raffaele Guazzone

    Una premessa, doverosa, breve e (poco) polemica

    Per molti insegnanti la scuola è finita dopo le vacanze di carnevale. Per molti altri invece, è cominciato qualcosa di diverso. È arrivato quel momento terrorizzante ed eccitante in cui – per cause di forza maggiore – programmi, libri, verifiche ed interrogazioni restano nel cassetto, e bisogna inventarsi qualcosa di nuovo. Non so dire cosa resterà nel mondo della scuola di questi mesi complicati, così come non so ponderare le ricadute nel tempo di questa didattica a distanza.

    Vivo quotidianamente sulla mia pelle (e su quella dei miei ragazzi) le difficoltà della situazione, ma non ho nessuna intenzione di stare ad aspettare, di trincerarmi dietro ad un ovvio “non è lo stesso, se non siamo in classe: era meglio prima”. Un po’ perché non ci sono molte alternative alla didattica a distanza, e lo dico da docente, non da epidemiologo; un po’ perché non è che le cose andassero poi così bene nel mondo della scuola: i buchi enormi della didattica a distanza, leopardianamente, ci fanno dimenticare troppo rapidamente le criticità che abbiamo sperimentato fino a ieri.

    Distanze e tecnologie

    La chiusura delle scuole ha obbligato anche i docenti più refrattari a confrontarsi con le nuove tecnologie. Non è questa la sede per ripercorrere la cronistoria, ma confesso che ho riso e pianto tantissimo grazie ai commenti dei colleghi. Queste pagine hanno già ospitato alcune delle mie riflessioni (ad esempio a proposito del tablet o sulla didattica ludica), posso sintetizzare così il sugo di tutta la storia: secondo me la tecnologia deve permetterti di fare meglio quel che già fai in presenza, oppure permetterti di fare qualcosa che in classe non potresti fare.

    E ora che la classe, così come la conoscevamo, non c’è più, e che la tecnologia pervade la nostra quotidianità didattica, è fondamentale concentrarsi proprio su quest’ultimo aspetto: cosa puoi fare di diverso?

    Italia 2020: fuga dalla cameretta

    L’unità didattica che sto affrontando in Storia nelle mie classi terze riguarda Riforma e Controriforma.

    Papa Paolo III1 Sebastiano Ricci, <em>Papa Paolo III ha la visione del Concilio di Trento</em>. Olio su tela, 1687-1688,Piacenza, Musei Civici

    Per mia (piccola) esperienza le tesi di Lutero e più in generale le dispute teologiche non sono precisamente l’argomento più affine al sentire di un sedicenne medio, specie se ha scelto un professionale (insegno in un alberghiero), specie durante una pandemia. Ho deciso di portare comunque avanti parte del programma, partendo però da un intimo sentire che accomuna nel profondo sia me che i miei ragazzi: tutti vorremmo essere altrove, in questo momento. Vorremmo essere altro rispetto a ciò che ci detta la quotidianità.

    Solo il dove e il come ci separano veramente, e sta a me come docente, sceglierli per la mia classe: decido di portarli a Trento nel 1563 per portarli via dall’Italia del 2020, anche solo per un po’, e il compromesso mi pare accettabile sia dal punto di vista didattico che umano.

    L'attività

    Dopo un ciclo di sei video nei quali sintetizzo la questione della riforma luterana, la frattura col Papa, la scomoda posizione dell’Imperatore e le reazioni da parte di nobili e contadini tedeschi, chiudo la narrazione descrivendo i lavori e le decisioni prese dal Concilio di Trento. Affido poi alla classe due attività di approfondimento: la prima è una presentazione di gruppo online sugli altri riformatori, la seconda è un lavoro individuale di riflessione sul dibattito nato in seno alla Chiesa dopo lo strappo della protesta tedesca.

    Devo pensare però a qualcosa che obblighi i ragazzi a mettersi in gioco. Non voglio correre il rischio di leggere degli sterminati copincolla da Wikipedia: come ho già fatto diverse volte in classe, li obbligo ad interpretare un gioco di ruolo, costringendoli nello specifico ad immedesimarsi in un ipotetico partecipante al Concilio, che deve esprimersi pubblicamente davanti all’assemblea. Occorre studiare, scriversi un discorso (anche breve) e prepararsi al dibattito, sapendo che ci sarà parecchio da litigare, anche perché i lavori saranno presieduti dal Papa in persona, cioè da me.

    Questo è il testo che ho inviato in piattaforma, con la richiesta di produrre un elaborato scritto entro la data fissata per la videoconferenza nella quale avremmo fatto il gioco di ruolo.

    Simuleremo i lavori del Concilio di Trento, che vide i partecipanti dividersi e scontrarsi (anche animatamente) sulle varie proposte per reagire alla riforma luterana. Sarai chiamato ad interpretare uno dei partecipanti all'assemblea, e ad esprimerti pubblicamente sulla tua posizione in merito. Pertanto, devi prepararti come segue:

    1. Studia con attenzione la parte relativa alla situazione della chiesa nel '500
    2. Studia con attenzione la parte relativa alla dottrina di Lutero
    3. Studia con attenzione la parte relativa al Concilio di Trento
    4. Scrivi un breve discorso, ispirandoti a una delle tre seguenti linee di pensiero (prosegui la traccia che ti lascio come esempio):

    GLI INTRANSIGENTI: "Bruciamolo! La nostra santa Chiesa si è sempre comportata in maniera perfetta, perché... Lutero invece è un eretico che merita il rogo, perché..." (continua specificando perché il Papa ha ragione e Lutero torto, secondo te. Preparati a litigare con chi non sarà d'accordo). Se scegli questa posizione vestiti di NERO.

    I CONCILIANTI: "Lutero sbaglia nel suo modo di agire, ma ha ragione su molte cose, ad esempio... Il santo padre dovrebbe approfittare dell'occasione per aggiustare ciò che non funziona nella nostra Chiesa, ad esempio..." (Pur rimanendo fedele al Papa, devi indicare quali aspetti apprezzi del pensiero di Lutero e perché, oltre ad evidenziare i problemi della Chiesa, preparandoti a difenderti dagli attacchi di chi ti è contrario). Se scegli questa posizione, vestiti di BIANCO.

    GLI SCISMATICI: "Lutero ha assolutamente ragione! Era ora che qualcuno dicesse le cose come stanno, perché la Chiesa da troppo tempo ignora problemi come... Lutero invece propone risposte sicure, ad esempio..." (Sostieni le posizioni di Lutero criticando quelle del Papa e di chi lo sostiene.

    Puoi accusare duramente il pontefice e i suoi seguaci, che però non esiteranno a difendersi). Se scegli questa posizione, vestiti di ROSSO.

    Dopo aver scritto il discorso (non troppo schematico, ma nemmeno un poema! ricordati che dovrai leggerlo ad alta voce o comunque interpretarlo) caricalo in piattaforma.

    5. Prepara il tuo vestito da cardinale/vescovo/nobiluomo, utilizzando il colore della fazione che hai scelto di rappresentare. Basta anche una semplice maglietta o un asciugamano in testa, ma usa la fantasia. Ricchi premi per il costume più accurato. Per ogni dubbio, scrivimi pure. Buon lavoro.

    Il setting

    L’idea del lavoro non è semplicemente scrivere un discorso e interpretare un personaggio: è interagire, dibattere, litigare (cosa che ai miei ragazzi viene benissimo). In questo senso, il testo del Concilio di Trento diventa un pre-testo per far socializzare agli alunni sia le proprie conoscenze che le proprie capacità di comunicazione.

    Sono stato quindi particolarmente attento alla costruzione del setting, tra il serio e il faceto.

    Mi sono costruito un costume da Papa con tanto di tiara d’argento (pellicola d’alluminio, ovviamente), con quella cura meticolosa anche per le cose piccole che la quarantena ci sta finalmente insegnando ad avere, ho preparato un cartiglio ironico e una colonna sonora filologicamente accettabile per accogliere i miei alunni al momento della connessione, mi sono calato la maschera e disposto all’attesa.

    Quello che è successo lo potete vedere qui. Costume da Papa2. Il costume da Papa

    Il dibattito

    In sintesi, il dibattito è stato partecipato, serrato e divertente, anche perché la mia interpretazione spesso sopra le righe di papa Pio IV ha coinvolto i ragazzi e mantenuto saldo l’orizzonte della discussione.

    Ho dovuto fare alcune semplificazioni e forzature: nel gioco immaginiamo di essere all’ultima seduta del Concilio e parliamo di Lutero come fosse vivo, alludo all’imperatore Carlo V anche se ha abdicato da quasi dieci anni; spesso spingo sul tasto delle indulgenze come necessarie per il restauro di San Pietro, quando il cantiere era già avviato, infine la Missa Papae Marcelli di Palestrina che funge da sigla di apertura è di poco successiva alla chiusura del Concilio, ma mi piaceva cogliere l’occasione per ribadire le conseguenze della Controriforma anche in campo artistico.

    Rotta la timidezza iniziale e accettate le regole del gioco, i ragazzi si sono sciolti e hanno aperto pieghe inaspettate nella narrazione che abbiamo improvvisato insieme.

    Abbastanza inverosimile ad esempio la presenza di ortodossi al Concilio, ma il contributo dell’alunno bielorusso, che si improvvisa patriarca e fa notare a tutti come solo i cristiani orientali sappiano qual è la vera interpretazione del messaggio di Gesù, è un colpo di genio. Preziosa anche la presenza di un alunno di religione ebraica, che mi ha dato l’occasione per far riflettere i ragazzi sulle dinamiche di lungo periodo che stanno a monte dell’antisemitismo novecentesco, e per ragionare sul fatto che il desiderio di conciliare una frattura teologica sia distante anni luce dall’apertura ad una più generale tolleranza in materia religiosa.

    Papa Pio IV3. <em>Ritratto di Pio IV</em>, cerchia di Tiziano <br/>Cantalupo in Sabina (Rieti), Collezione Camuccini

    Manca il terzo monoteismo: non ho affrontato la questione della minaccia ottomana inserendo anche l’Islam nell’agone semplicemente perché non ho ancora toccato l’argomento nelle mie lezioni. Piuttosto improbabile infine la presenza di delegati luterani nella fase finale dei lavori; realistica invece la loro posizione di minoranza.

    Il debriefing

    Al termine del gioco di ruolo, ci siamo soffermati ad analizzare quanto era emerso dalla nostra discussione. Al netto delle semplificazioni operate da me per evitare la dispersione dei contributi e concentrare gli sforzi dei ragazzi verso la costruzione di un discorso coerente, il dibattito si è imperniato fondamentalmente sulla questione delle indulgenze e del ruolo delle opere, non tanto su temi dottrinali realmente al centro del Concilio di Trento. L’esito era piuttosto prevedibile, questi sono gli aspetti che maggiormente colpiscono i ragazzi quando in classe si affronta l’argomento della Riforma. In più, ho teatralizzato molto il ruolo di un papa attaccato ai soldi, semplicemente perché la cosa era divertente, e ridere aiuta ad entrare in quella dimensione di flusso che accomuna sia il gioco che lo spettacolo, come spiega l’antropologo Victor Turner (Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1982).

    La semplificazione è necessaria, per riconnettere il Concilio al più ampio gioco dei poteri politici dell’Europa cinquecentesca. Se è vero che a Trento si parla di teologia, è altrettanto vero che Riforma protestante e cattolica sono anche occasioni per prese di posizione politiche, che condizioneranno tutta la storia dell’Europa nell’età moderna: si pensi alle guerre di religione e alle motivazioni più profonde di tali conflitti.

    Il videodebriefing

    Aver registrato la videoconferenza infine fornisce uno strumento prezioso ai ragazzi: al di là del narcisismo sempre connesso quando si parla degli adolescenti e del rapporto con la dimensione pubblica della loro immagine, riascoltare la discussione è un buono strumento per valutare a posteriori la propria preparazione sui temi del dibattito, e per andare a cercare per differenza quali sono i contenuti mancanti (uno su tutti, i termini teologici della disputa fra Lutero e la Chiesa), sui quali è bene soffermarsi meglio in fase di studio individuale per la verifica finale.

    Copertina4. La copertina del libro di Victor Turner

    Quel che non puoi fare in classe

    Questa attività non sarebbe stata possibile in classe, almeno non in questa forma. Gli alunni coinvolti sono particolarmente collaborativi in linea generale, tra noi si è sviluppato un rapporto di fiducia e sono abituati ai miei istrionismi, così come alla dimensione ludica di alcune attività che ho proposto in precedenza. Ma difficilmente avrebbero accettato di camuffarsi, se fossero stati a scuola. Troppo pesante sulle spalle di un adolescente, il giudizio degli altri. Anche in un contesto accogliente come questa classe. Essere a casa, soli nella propria camera, sostanzialmente nascosti seppure visibili, ha creato invece le condizioni necessarie per rompere il tabù della vergogna.

    Quando ho proposto l’attività non ero certo che tutti avrebbero accettato di vestirsi a tema, anche se la richiesta era piuttosto semplice (indossa un capo del colore relativo alla fazione che intendi sostenere), eppure tutti hanno raccolto l’invito, sorprendendomi. Tutti hanno accettato di recitare una parte, senza remore eccessive.

    Dietro la maschera

    Indossare una maschera non è un gesto banale. Prevede, ad esempio di spogliarsi, mettere da parte la propria identità, anche solo un poco, mostrarsi nudo di fronte ai compagni, sapendo che sono nudi anche loro, perché tutti decidono di essere qualcosa che non sono. E quando ti ritrovi nudo in mezzo agli altri, inizi a mettere da parte differenze, a dimenticarti di molte cose superflue, a partire dal pesante giudizio di chi ti circonda. È un processo che in presenza costerebbe fatiche incredibili e comporterebbe tempi eterni, specie per dei ragazzi fondamentalmente fragili come gli adolescenti con cui lavoro. Ma nel recinto sicuro delle loro camerette qualcosa è successo, e una barriera è caduta: tutti, davvero tutti hanno partecipato. Anche i più timidi, i più imbranati, quelli che a parlare in pubblico vanno nel panico, quelli che appena li chiami in classe diventano paonazzi, quelli che ad interrogarli ti senti il Grande Inquisitore e devi rimandarli al posto tre o quattro volte prima di strappargli un numero di risposte sufficiente a stabilire una valutazione.

    Videoconferenza5. Uno screenshot della videoconferenza

    Questo virus ci ha chiuso in casa, ci tiene lontani, mina il nostro presente e il nostro futuro, ma apre anche piccole porte dentro di noi. C’è chi non ha il coraggio di affacciarsi, perché ha paura del vuoto; c’è chi invece sta oliando i cardini per far uscire il proprio sé – ancora nascosto, per il momento, dalla maschera di quel grande gioco di ruolo che in fondo è la scuola.

    Il teatro dentro la classe

    Ma non sono solo i ragazzi a spogliarsi, in questa attività. Ci sono anche io. Non credo di essermi dato in pasto ai loro commenti come giullare, ma ho cercato di essere una guida, una specie di master se il nostro fosse stato “solo” un gioco di ruolo. Per questo sono stato molto attento a creare un setting elaborato nei limiti delle possibilità del mio appartamento: il gioco chiede serietà e precisione per rompere la barriera dell’incredulità e coinvolgere i partecipanti. E per poter giocare a scuola – anche a distanza – la prima barriera che va infranta è proprio quella della quarta parete che separa la cattedra dai banchi. Spogliarsi delle nostre identità, mostrarsi nudi di fronte a quello che non è più pubblico, ma parte della compagnia di giro, indossare una maschera e cominciare la recita (non è un caso che l’inglese usi la stessa parola per definire le azioni della rappresentazione scenica e del gioco).

    Foto6. Bread and Puppet Circus, foto di Walter S. Wantman

    Non sto parlando del lavoro di gruppi della post-avanguardia come il Living Theater o Bread and Puppet sto parlando della scuola e di un paradigma da ridiscutere, utilizzando anche gli strumenti del teatro – o del cinema, se la distanza lo impone. E mai probabilmente avremo un’occasione, drammatica ma necessaria come quella che stiamo vivendo, per farlo davvero.

    Sopperite alle nostre deficienze
    con le risorse della vostra mente:
    moltiplicate per mille ogni uomo,
    e con l’aiuto della fantasia
    createvi un poderoso esercito.
    Quando udrete parlare di cavalli
    pensate di veder cavalli veri
    stampar l’orme dei lor superbi zoccoli
    sopra il molle terreno che le accoglie.
    Sarà così la vostra fantasia
    a vestire di sfarzo i nostri re,
    a menarli dall’uno all’altro luogo,
    saltellando sul tempo,
    e riducendo a un volger di clessidra
    gli eventi occorsi lungo diversi anni […]
    William Shakespeare, Enrico V

     

    * Esperienza realizzata nella classe 3ARP dell’Istituto di Istruzione Superiore “Luigi Cossa” di Pavia il 24 aprile 2020.

  • Incontro al Centro Internazionale Loris Malaguzzi

    Giovedì 4 Aprile, alle ore 16.00 si terrà, presso il Centro Internazionale Loris Malaguzzi, un incontro di formazione rivolto a insegnanti di scuola dell'infanzia, scuola primaria e secondaria di primo grado sul tema "LA STORIA IN GIOCO".

     

  • IX Seminario di Educazione interculturale e globale

     

    Si svolgerà il 4 e 5 settembre prossimi a Senigallia, presso la Sala Conferenze del Senbhotel il IX Seminario Nazionale di Educazione interculturale e globale dal titolo "Andare oltre: l'educazione per rigenerare la società. I nuovi curricoli della scuola".

    Il Seminario, riconosciuto dal MIUR quale attività di formazione e aggiornamento per il personale della scuola, prevede l'esonero dalle attività scolastiche degli insegnanti, ai sensi della Direttiva ministeriale n° 90 del 1 dicembre 2003.

    Qui il programma.

  • L'Atlas global

    Si può rappresentare tutto con le carte: la felicità, la bellezza, i paesi spazzatura, il sovrappeso. E, naturalmente, i fatti politici, economici, demografici. Per chi ha problemi di geostoria, ecco lo strumento ideale, curato da Christian Grataloup, che gli insegnanti italiani hanno imparato ad apprezzare al convegno su storia e intercultura di Senigallia, e del quale possono leggere il bell'articolo su Novecento.org. l'Atlante globale è scritto da un'équipe di ricercatori di storia e di geografia e si avvale della collaborazione dei disegnatori di carte di Le monde e di Alexandre Nicholas, autore de Le dessus de Cartes (HL)

  • L’insegnamento della Storia e la scuola di domani: ripensare il curriculum, ridefinire gli obiettivi

    Roma, venerdì 20 febbraio 2015
    Sala della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea
    Palazzo Mattei di Giove - via Caetani, 32


    Seminario organizzato dalla Società italiana per la storia dell’età moderna  (SISEM), in collaborazione con l’Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea e con la Biblioteca di Storia moderna e contemporanea.

    Sono passati dieci anni dalla riforma del primo ciclo d’istruzione e alcuni anni dall’avvio della riforma della scuola secondaria di primo grado e, per quanto riguarda l’insegnamento e apprendimento della Storia, il bilancio appare decisamente sconfortante. Prevalgono in larga parte della scuola italiana gli strumenti didattici tradizionali, la ripetizione identica dei contenuti nei due cicli scolastici, mancano percorsi di approfondimento tematico e pluridisciplinare, la storia di genere rimane largamente sconosciuta agli insegnanti prima che agli studenti. Il programma e il manuale sono ancora troppo spesso, come cent’anni fa, l’alfa e l’omega della “Storia a scuola”.

    Mentre si discute di ‘buona scuola’, di riordino del ciclo superiore e della formazione e del reclutamento del personale docente c’è urgenza di riaprire anche il dossier sul curriculum della Storia lungo l’intero percorso di formazione. C’è la necessità di riconsiderare i tempi, i modi e i contenuti dell’insegnamento e apprendimento di questa disciplina fondamentale per la creazione di una cittadinanza attiva. Il seminario “L’insegnamento della Storia e la scuola di domani: ripensare il curriculum, ridefinire gli obiettivi” vuole rilanciare agli insegnanti, agli storici e a tutto il mondo della scuola questa questione fondamentale. Perché il passato torni a dialogare con il presente, nelle aule scolastiche, ogni giorno.

    Programma dei lavori

    0re 14
    Saluti del Presidente della Giunta Centrale per gli Studi Storici, Andrea Giardina e del Presidente della Sisem, Marcello Verga.

    Ore 14,30
    Introduzione: Andrea Zannini, Le ragioni di una riflessione

    Ore 15,00 – 16, 15
    Luigi Cajani, L’insegnamento della Storia in Italia e in Europa
    Elvira Valleri, La visione di genere nell’insegnamento della storia
    Camilla Hermanin e Lavinia Pinzarrone: L’insegnamento della storia nella realtà della scuola italiana

    Coffee break

    Ore 16,30
    Tavola rotonda Riforma della scuola e qualità dell’insegnamento
    Interventi di: on. Luigi Berlinguer, Marina Boscaino, Antonio Brusa, Mauro Piras, on. Milena Santerini
    Introduce: Maria Pia Donato
    Coordina: Giorgio Zanchini

    Ore 18.30
    Conclusioni: Walter Panciera, Una proposta degli storici modernisti per il curriculum verticale di Storia

    Interverranno inoltre il Presidente della Società italiana di Storia medievale (Sismed), Giuseppe Petralia, il Presidente della Società italiana di Storia contemporanea (Sissco), Agostino Giovagnoli, la Presidente della Società italiana delle storiche, (Sis) Isabelle Chabot.

  • La “cultura storica”. Come mettere insieme Public History, memoria storica e storia insegnata

    di Daniele Boschi

    Che cos’è la “cultura storica”

    Se per “cultura” intendiamo l’insieme delle modalità mediante le quali una società interpreta e trasforma la realtà in generale, possiamo allora definire la “cultura storica” come l’insieme delle rappresentazioni e delle pratiche per mezzo delle quali quella società si rapporta al proprio passato. Si tratta quindi di un concetto molto ampio, che comprende non soltanto la storiografia accademica e la storia insegnata a livello scolastico, ma anche, più in generale, le memorie e i racconti del passato tramandati all’interno di una collettività, i musei, le mostre e i luoghi di interesse storico, le pratiche e i rituali commemorativi, l’attività politica nella misura in cui essa si interessa al passato.

    La cultura storica si riferisce quindi a un campo più esteso rispetto a quello della public history, della quale si è molto dibattuto, in Italia e non solo, negli ultimi anni. “Public History Weekly” è una rivista dedicata a questo particolare approccio storiografico, molto interessata anche alla didattica. In Italia si è creata da poco l’associazione dei “public historians”.

    Sebbene la riflessione teorica sul concetto di cultura storica si sia sviluppata a partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso con i lavori di studiosi come Jörn Rüsen, Bernd Schönemann e Maria Grever, è soltanto negli ultimi anni che tale concetto è stato posto al centro di un rilevante e crescente numero di iniziative, pubblicazioni, programmi di ricerca e corsi di studio universitari (qui una bibliografia esauriente).

    Cultura storica e didattica della storia

    Lo studio della cultura storica ha grande importanza anche per la didattica della storia. È evidente infatti che gli studenti del XXI secolo assumono gran parte delle loro rappresentazioni e atteggiamenti riguardanti il passato al di fuori del contesto scolastico, a causa del ruolo sempre più significativo che hanno la rete, i dispositivi elettronici e i mezzi di comunicazione di massa. L’insegnamento della storia non può non tener conto di questa situazione sociale e non può non farsi carico della necessità di fornire alle nuove generazioni gli strumenti per relazionarsi in modo critico con le rappresentazioni del passato provenienti da agenzie e attori sociali esterni alla scuola e al mondo universitario.

    Ma qual è attualmente il rapporto tra l’educazione storica formale e la cultura storica? E quali sono le nuove sfide, sul piano teorico e sul piano pratico, che la storiografia e la didattica della storia devono affrontare? Queste sfide possono essere comprese anche in un contesto transnazionale e globale, oltre che in ambito nazionale?

    Un convegno per rispondere a queste domande

    Per provare a rispondere a queste domande, una cinquantina di ricercatori e studiosi provenienti da vari paesi europei si riuniranno ad Atene nel prossimo mese di giugno in occasione della conferenza internazionale dedicata al tema Historical culture in and out of history education.

    Erodoto e TucidideErodoto e Tucidide <br> (Museo Archeologico Nazionale di Napoli)

    La conferenza è stata organizzata dalla International Research Association for History and Social Sciences Education (IRAHSSE), un’associazione nata nel 2009 con lo scopo di promuovere la riflessione e il confronto su tutti i temi relativi alla didattica della storia e delle scienze sociali.

    Come si legge all’art. 2 del suo statuto, l’Associazione si occupa dell’insegnamento scolastico e degli usi pubblici della storia e delle scienze sociali e intende favorire il dibattito fra i diversi approcci a questi temi. L’IRAHSSE pubblica una propria rivista, il primo numero della quale è consultabile sul sito dell’associazione, dove si trovano anche molte notizie relative alle conferenze internazionali tenute finora e ad altre iniziative e pubblicazioni su temi attinenti all’insegnamento della storia e delle scienze sociali.

    All’organizzazione del convegno ha collaborato la rivista online “Historein”, che si occupa di storia della storiografia, ma anche di public history. Rinviamo anche in questo caso al sito della rivista, dove si possono leggere gli articoli che essa ha pubblicato, dal primo numero edito nel 1999 fino ad oggi .

  • La Cupola di Hiroshima. Un fotoracconto della bomba

    Autore: Ilaria Sabbatini


    Il mattino del 6 agosto 1945, alle 8:15, l’Aeronautica militare statunitense sganciò la bomba atomica “Little Boy” sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno “Fat Man” su Nagasaki.

    Genbaku Dome, ossia Cupola della bomba atomica, era nata nel 1915 come edificio per ospitare la Fiera commerciale della prefettura di Hiroshima. La  Sala espositiva dei prodotti della prefettura di Hiroshima era stata progettata dall’architetto ceco Jan Letzel, che aveva realizzato la struttura in stile occidentale, usando mattoni e cemento. Il palazzo, sul lato sud, si apriva su un giardino anch’esso tipicamente all’occidentale e la cupola, oggi sventrata, aveva una copertura in rame. Nel 1933 il nome fu cambiato in  Sala promozionale dell’industria della prefettura di Hiroshima e nel 1944, a causa della guerra, l’edificio venne adibito a uffici governativi.

    Il 6 agosto 1945 l’esplosione nucleare avvenne ad appena 150 metri di distanza dall’edificio. Gli occupanti morirono all’istante mentre la struttura prendeva lentamente fuoco. Al momento dell’esplosione, avvenuta a un’altezza di circa 580 metri dal suolo, tutte le costruzioni in legno, tipiche dell’urbanistica giapponese, vennero spazzate via. Le foto aeree successive all’esplosione mostrano un panorama completamente piatto, quasi vuoto. Spiccano soltanto alcuni edifici di mattoni che, pur gravemente danneggiati, sopravvissero alla bomba. Tra le strutture che resistettero alla bomba, quella della fiera era la più vicina all’ipocentro. Essa rimane tutt’oggi nello stesso stato in cui si trovava subito dopo l’attacco atomico.
     
    La posizione dell’ex Palazzo della Fiera di Hiroshima si può vedere su Google Map

    Si può fare un tour virtuale dentro la Cupola della bomba atomica

    Questa è la visione dall’esterno della Cupola della bomba atomica

    Ecco una collezione di fotografie contemporanee, che risulta interessantissima per comprendere come oggi viene vissuta la memoria di Genbaku Dome

    Quivengono documentate le prime attività di soccorso, quelle in cui si cominciano a rilevare le proporzioni degli effetti della bomba

    A questo link dell’Hiroshima Peace Memorial Museum si possono vede una serie di di fotografie degli effetti dell’esplosionesu vari oggetti conservati

     

    Il palazzo della Fiera di Hiroshima in costruzione, completato nel 1915 su progetto dell’architetto ceco Jan Letzel

     


     Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima sul lato sinistro del fiume Motoyatsu, uno dei sette rami dell’estuario del fiume Ota

     

     
    Hiroshima Prefectural Industrial Promotion Hall seen from the west end of Motoyasu Bridge. 1933. Taken by Masao Okuno / Courtesy of Katsuhiko Okuno
     


    Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima vicino al Ponte Motoyatsu, sulla biforcazione tra il fiume Ota e il fiume Motoyatsu
     


    Il ponte Motoyatsu sulla biforcazione tra il fiume Ota e il suo effluente Motoyatsu

     

     

    Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima dopo l’esplosione atomica, 8 settembre 1945


     
    ll palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima dopo l’esplosione atomica

     


     Enola gay, bombardiere B-29 Superfortress, l’aereo che sganciò la bomba il 6 agosto 1945. Enola Gay era il nome della madre del pilota Paul Tibbets.
     


    Little Boy, la bomba Mk.1, la seconda atomica costruita nell’ambito del Progetto Manhattan, è la prima arma nucleare della storia a essere stata utilizzata in un conflitto. Si tratta dell’ordigno originale prima dell’esplosione.


    Little boy, usata su Hiroshima, era la seconda bomba atomica realizzata mentre Fat man, usata su Nagasaki, era la terza. La prima nucleare era una bomba a implosione che venne fatta esplodere nel Nuovo Messico, vicino a Sonora, il 16 luglio 1945 nel Trinity test.

     

    Il fungo atomico sopra Hiroshima circa un’ora dopo l’esplosione, 6 agosto 1945


    Si incontra un problema nella ricostruzione per immagini delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Spesso è difficile stabilire a quale luogo si riferiscano i rispettivi funghi di fallout. In alcuni video, non sufficientemente curati, Nagasaki va sotto il titolo di Hiroshima e viceversa. Altri usano addirittura il Trinity test o l’esplosione di Bikini.

    Le foto che seguono si riferiscono alle due esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Nel caso di Hiroshima la foto è avallata dal Museo della Memoria di Hiroshima, nel caso di Nagasaky dal Museo della Bomba Atomica di Nagasaky.

           Hiroshima                                Nagasaki  

                                                           

    La foto di sinistra è Hiroshima. È stata presa da un aereo che accompagnava Enola Gay con lo scopo di scattare fotografie. La foto di destra è Nagasaki, scattata il 9 agosto1945 da Charles Levy da uno degli aerei che accompagnavano l’attacco.


      Questa foto ricognizione del 1945, fornita dal Museo della Seconda Guerra Mondiale di Boston, mostra le informazioni di targeting per la missione di bombardamento atomico di Hiroshima.L’esplosione, che coinvolse il palazzo della fiera, avvenne sulla verticale dell’ospedale. Sotto il numero 22 si vede il ponte Motoyatsu sulla biforcazione tra il fiume Ota e il suo effluente Motoyatsu


     
    Diorama dell’esplosione di Little Boy. La prospettiva è con le spalle alla sorgente del fiume Ota che, dopo la prima triforcazione, a sinistra si biforca ulteriormente. Il ramo sinistro della seconda biforcazione è il fiume Motayatsu. Dopo il ponte sulla biforcazione, sulla riva sinistra, è collocato l’edificio della Fiera di Hiroshima.
     
     
    Diorama dell’esplosione di Little Boy. Sotto, a 150 metri di distanza dall’ipocentro, sulla riva sinistra del ramo sinistro dell’effluente Motayatsu (individuabile dal ponte), si trovava l’edificio della Fiera di Hiroshima, uno dei pochi a rimanere in piedi (vedi foto successiva)


     
    Sulla riva sinistra del ramo sinistro dell’effluente Motayatsu (individuabile dal ponte), si trovava l’edificio della Fiera di Hiroshima

     

     

    Vicino al ground zero, prima dell’esplosione

    Vicino al ground zero, dopo l’esplosione

     

     

     

     

    L’orario dell’esplosione, fissato da un orologio da polso esposto agli effetti della bomba


     
    L’effetto ombra creatosi durante l’esplosione

     

     
    Ragazze con le mascherine nelle strade di Hiroshima, 6 ottobre 1945

     


    Genbaku Dome, la Cupola della bomba atomica, oggi
     


    Genbaku Dome, la Cupola della bomba atomica, dall’alto, oggi

     

     

     

     

     

     

    Foto rare scattate nei giorni successivi all’evento

     

     

    Il racconto di Sunao Tsuboi sopravvissuto all’esplosione



     

  • La narrazione storica: il tema, la novella, il racconto

    Autore: Francesca Vinciotti

    Di Francesca Vinciotti abbiamo pubblicato un articolo sull’uso delle fonti, secondo la rivista inglese “Teaching History”, il sussidio degli insegnanti, pubblicato fin dal lontano 1969. Ora è la volta della narrazione. I colleghi inglesi, vedrete, sono molto attenti al percorso che guida gli allievi dalla narrazione personale a quella “impersonale” della descrizione storica, all’attivazione delle capacità di argomentare. Sono ricchi di proposte, quali “il modello hamburger”, per imparare a scrivere brani coerenti e coesi, ai giochi di carte, per imparare a scrivere e all’uso della fiction. Nel frattempo, Francesca sta preparando altri capitoli, sull’uso dei giochi, sulla storia locale e sulle tecnologie per l’apprendimento storico (HL).

     

    Indice

    Introduzione

    Perché è importante saper scrivere un tema di argomento storico?

    Le difficoltà degli alunni nello scrivere di storia

    Alcune proposte per aiutare gli studenti

    Come scrivere un paragrafo: il modello hamburger

    Un interessante esempio di ricerca di dipartimento

    Ricostruire la narrazione dal particolare al generale

    Sviluppare l’abilità di “raccontare storia”

    Leggere e scrivere novelle e racconti storici: un’attività non sempre ben vista nella scuola inglese

    Un dibattito piuttosto acceso

    Leggere Dikens per sviluppare il pensiero storico

    Un concorso di scrittura di racconti storici

    Introduzione

    Una particolare attenzione viene dedicata nella scuola inglese alla produzione scritta di argomento storico. Contrariamente a quanto avviene in Italia, in cui la storia è stata per lungo tempo[1] una disciplina prettamente orale, senza alcun obbligo di svolgere anche prove scritte, in Inghilterra la valutazione dello scritto per questa disciplina è stata finora la prassi[2].

    In particolare con il termine “essay” (che può essere reso in italiano con il generico “tema”) si intende tutta una serie di produzioni scritte quali il testo descrittivo, narrativo, la relazione ed il testo argomentativo che l’alunno del Keystage 3 dovrebbe essere in grado di svolgere.

    Perché è importante saper scrivere un tema di argomento storico?

    Già nel 1981 sulla rivista appare un articolo The importance of the essay di John Kenteleton[3] che mette in guardia sui gravi effetti che può avere il trascurare lo sviluppo delle capacità di scrittura di testi argomentativi nello studio della storia. Scrive Kentleton: “Intellectually, the essay can separate the child from the man” (a livello intellettuale la capacità di argomentare distingue il bambino dall’adulto). Secondo lui, il principale valore del testo argomentativo è quello di spingere a presentare argomentazioni coerenti e persuasive; ciascuna asserzione deve essere esaminata sotto ogni aspetto per verificarne la validità, l’insieme delle argomentazioni porta allo sviluppo del discorso ed alla inevitabile dimostrazione della tesi, non sono ammesse ripetizioni, né contraddizioni. Secondo l’autore saper comunicare in modo semplice, chiaro e persuasivo è fondamentale nella società moderna, ma non è un atto spontaneo, richiede soprattutto tanto esercizio. Inoltre la scrittura di un testo argomentativo costringe lo studente ad un esercizio di logica ed all’analisi critica, due abilità assolutamente fondamentali nello studio della storia.

    Le difficoltà degli alunni nello scrivere di storia

    Lucida, e ancora di grande attualità, è l’analisi che viene presentata da John Lally nel suo articolo del 1983 Writing History, sulle problematiche che devono affrontare gli studenti nella scrittura di testi di argomento storico[4]. L’indispensabile premessa dell’autore è che l’abilità nella scrittura e le altre tre abilità linguistiche ad essa connesse, il parlare, leggere e scrivere, sono tutte trasversali allo studio della storia, perciò non è possibile lo studio di questa disciplina se non si sviluppano in modo adeguato queste abilità.

    Quando agli studenti è richiesto di scrivere di storia, normalmente si propongono loro degli esercizi che Lally inserisce nella categoria delle produzioni transictional o più semplicemente di tipo impersonale (riassunti, descrizioni, relazioni, testi argomentativi), in cui si riferisce di eventi passati. Il linguaggio richiesto dagli insegnanti (che è anche quello più spesso utilizzato dai libri di testo) è di tipo formale, con un notevole uso di tempi passati, dei modi della possibilità e probabilità, della forma passiva, del discorso indiretto, di periodi complessi. A questo si aggiunge un lessico specifico del tutto nuovo o di parole che usate nel contesto storico assumono un significato completamente diverso e l’uso di una grande varietà di registri, anche in relazione alle tipologie di fonti consultate.

    Tutto questo crea negli alunni una notevole difficoltà nella comprensione di testi letti o ascoltati di questo genere ed una ancor maggiore difficoltà nella produzione di testi scritti di questa tipologia.

    Il passaggio dalla forma di scrittura espressiva, in cui il ragazzo racconta fatti personali con un linguaggio più vicino al parlato, a quella transazionale avviene solo verso i 12-13 anni e, puntualizza l’autore, molti studenti escono dalla scuola senza essere riusciti a portare a temine questo passaggio.

    Fin qui l’analisi di Lally è incontrovertibile e trova piena rispondenza con quanto avviene anche nella scuola in Italia: gli studenti, passando dalla scuola primaria alla scuola secondaria di primo grado, hanno grande difficoltà nella comprensione dei libri di testo di storia, le forme di scrittura di testi impersonali sono solitamente distribuite nel corso dei tre anni del programma di italiano: la descrizione e il riassunto in prima media, il testo informativo e la relazione in seconda media, il testo argomentativo in terza. Al termine della terza classe mediamente un buon numero di studenti è in grado di comporre una relazione di storia, sono pochissimi invece gli studenti che al termine della classe terza riescono a scrivere un buon testo argomentativo ed ancor meno quelli che sono in grado di affrontare la scrittura di un testo argomentativo di storia.

    Alcune proposte per aiutare gli studenti

    Lally passa quindi a fornire una serie di suggerimenti pratici, spesso condivisibili, per cercare di sviluppare le capacità di scrittura di storia degli alunni.

    In primo luogo egli sottolinea come gli studenti a dodici-tredici anni non siano ancora assolutamente pronti ad abbandonare la scrittura personale e creativa. Nello stesso tempo il docente deve però spingere lo studente anche ad imparare in modo progressivo l’uso della scrittura impersonale. Insomma è bene che gli alunni continuino a scrivere anche testi di tipo fantastico in cui possono comunicare la loro idea del passato, magari prendendo spunto da una fonte visiva (un quadro, un affresco, ecc.) ed immaginando la storia, oppure componendo un testo narrativo in cui si è testimoni o protagonisti di eventi storici (per esempio “Scrivi la tua storia dell’esecuzione di Luigi XVI. Scegli se sei fedele al re o un rivoluzionario. Puoi essere un osservatore che guarda e descrive oppure tu stesso parte della storia…”), oppure sotto forma di lettera o diario.

    Occorre ricordare che per quanto attiene la scrittura di testi di argomento storico i docenti inglesi sono molto svantaggiati rispetto ai loro colleghi italiani che, nella scuola secondaria di primo grado usualmente e quasi sempre almeno nella classe terminale, insegnano italiano, storia, educazione alla cittadinanza e geografia, disponendo quindi di un monte orario maggiore e di una continua interdisciplinarità.

    Lally suggerisce inoltre di proporre l’esercizio di scrittura come esigenza di riportare un’esperienza personale a seguito dell’ascolto di una storia o di una discussione sulle fonti. Inoltre deve essere cura dell’insegnante individuare le parole chiave ed i termini più importanti da utilizzare nella scrittura, spiegarli attentamente e fare in modo che gli alunni li memorizzino. E’ bene proporre, come attività ordinaria e soprattutto all’inizio, solo brevi esercizi di scrittura: scrivere frasi, stendere liste, scrivere domande, rispondere alle domande con una frase, comporre brevi descrizioni. Queste sono comunque tutte attività che aiutano a sviluppare la capacità di scrittura impersonale e le abilità nel comunicare.

    In sostanza occorre guidare gli studenti nei progressivi passaggi che portano poi alla scrittura di un tema storico. Per fare questo, è in primo luogo il docente che deve avere chiari i diversi obiettivi legati a ciascun esercizio di scrittura, indicando in modo preciso il registro da utilizzare di volta in volta, se si richiede di comporre frasi semplici o complesse ed in questo caso quali connettivi impiegare; se si tratta di comporre paragrafi deve essere indicata la lunghezza, il registro e le parole da inserire obbligatoriamente nel testo ed eventualmente anche i tempi verbali o i modi nel caso in cui si trattasse di interpretazioni storiche.

    Come scrivere un paragrafo: il modello hamburger

    Molto specifico l’articolo di Maria Bakalis[5] Direct teaching of paragraph cohesion(Insegnare in modo semplice a scrivere un paragrafo coeso), apparso sulla rivista Teaching History nel 2003[6], fornisce un contributo molto dettagliato su come scrivere il singolo paragrafo, considerandolo l’unità base sulla quale poi costruire un testo di argomento storico. Anche la Bakalis parte dal presupposto che quella della scrittura per lo studio della storia non è un’abilità aggiuntiva, ma parte del processo del ragionamento e del pensiero storico.

    Quando in un testo scritto gli alunni non riescono a mettere insieme in modo coerente e chiaro dei fatti storici, ciò in primo luogo è dovuto ad una non comprensione del valore di quei fatti e delle relazioni che tra essi sussistono. Il processo di scrittura aiuta proprio a pensare ed interpretare gli eventi storici e quindi, secondo l’autrice, deve essere curato e guidato dall’insegnate passo passo. Quindi la Bakalis indica un percorso che è possibile seguire per costruire un paragrafo di storia.

    In primo luogo si possono usare le “card-sorting” (delle carte di genere e di ordinamento) su un dato evento, che forniscono allo studente un supporto mnemonico dei fatti e lo lasciano libero di concentrarsi sull’organizzazione degli eventi che le carte riportano: in tal modo egli può scoprire i differenti modi in cui un argomento storico può essere strutturato. Una volta stabilita l’organizzazione dei fatti, l’insegnante, che nel caso specifico stava lavorando con una classe del settimo anno sulle Crociate, ha fatto svolgere ai suoi studenti in modo progressivo tre attività di scrittura differenti.

    La prima l’ha chiamata the Stating and expanding game (gioco delle affermazioni ed espansioni). Si tratta semplicemente di aggiungere all’affermazione storica una frase coordinata o subordinata che espanda il periodo. Il ruolo dell’insegnante è molto importante nell’analizzare con gli studenti i tipi di connettivi ed i modi verbali impiegati e dedurne il tipo di relazione costruito rispetto all’affermazione principale (è stata aggiunta ad esempio una causa, o una conseguenza o un chiarimento e così via).

    Il secondo step è quello che la Bakalis chiama Sticky burgers and sandwiches that don’t fall apart (Hamburger ben appiccicati e sandwiches che non perdono pezzi).

    L’obiettivo dell’insegnante è quello di far comprendere ai suoi studenti l’importanza della coesione di un paragrafo. Ha quindi scelto di utilizzare come termine di paragone l’hamburger: la fetta di pane superiore corrisponde all’affermazione generale che deve rimandare al titolo del tema, la carne è l’affermazione specifica sostenuta nel paragrafo, il formaggio e l’insalata sono le espansioni dell’affermazione principale che servono a sostenerla e possono anche essere costituite da fonti che vengono riportate; c’è poi l’ultima fetta di pane, la base dell’hamburger, che corrisponde alle riflessioni e conclusioni che lo studente ha ricavato dall’analisi dell’affermazione principale. La salsa che lega gli ingredienti rappresenta i connettivi che servono a unire le diverse frasi in modo chiaro e coerente e consentono di mordere il panino senza che nessun pezzo cada.

    Alla spiegazione è poi seguito un momento di esercitazione di scrittura di un paragrafo.

    Il paragone con l’hamburger potrebbe apparire del tutto superfluo, ma l’autrice ricorda che spesso non è sufficiente spiegare un argomento come la struttura di un paragrafo e poi magari fornire uno schema scritto da consultare durante l’esercizio di scrittura, perché spesso i ragazzi neppure lo guardano ed anche se hanno ascoltato la spiegazione poi scordano i diversi passaggi; fornire quindi un modello che colpisca la loro fantasia è molto importante proprio per aiutarli nella memorizzazione. Infine, una strategia utile per rendere evidente i diversi “strati” da cui è composto il paragrafo è stata quella di chiedere loro di utilizzare colori differenti, in modo da verificare a colpo d’occhio che non mancasse “alcun ingrediente” (chiaramente questo esercizio riesce meglio se si utilizza la videoscrittura).

    La Bakalis in fondo non suggerisce niente di nuovo ma, proprio come Lally, ricorda che prima di poter scrivere un tema storico, occorre un continuo e progressivo esercizio di scrittura ed il paragrafo costituisce sicuramente un’ottima unità di misura; inoltre i ragazzi tra gli 11 ed i 13 anni amano ancora utilizzare la scrittura in modo creativo, per cui ha la sua importanza anche proporre in modo divertente un tipo di scrittura, come quella impersonale di argomento storico, solitamente ritenuta dagli alunni “difficile e noiosa”.

    Un interessante esempio di ricerca

    Alex Scott[7] presenta nel suo articolo[8] Essay writing for everyone: an investigation into different metohds used to teach Year 9 to write an essay (Saggistica per tutti: un’indagine sui diversi metodi usati per insegnare a scrivere un tema agli studenti del nono anno) una sintesi chiara e completa della ricerca svolta dal suo dipartimento sui diversi metodi utilizzati per costruire un tema storico nel Key Stage 3. L’articolo ha il merito di non proporre semplicemente una formula sperimentata in classe e con la quale il docente si è trovato bene, ma di censire le metodologie sperimentate nella sua scuola e, stabiliti dei criteri comuni, di provare a verificare quale sia la più efficace.

    La ricerca di Scott e del suo dipartimento di storia trae origine dalle numerose e continue discussioni tra docenti sull’incapacità dei loro allievi di scrivere dei temi di storia, nonostante l’impegno profuso dagli insegnanti nell’applicare metodi diversi ed innovativi per spiegare le varie fasi di scrittura. L’autore riporta non senza autoironia il senso di frustrazione nel leggere i testi dei suoi alunni dello Year 8 svolti sulla traccia Why was the Civil War in 1640s?(Perché scoppiò la guerra civile nel 1640?). Ecco il tipico inizio dello svolgimento di una sua studentessa: “Hello, my name is Leah and here is my essay telling you everything about the Civil War” (Ciao, il mio nome è Leah ed in questo mio tema vi racconterò tutto sulla Guerra Civile). Qui, al di là del registro informale adottato, si evince già dalle prime righe che l’alunna non ha assolutamente compreso qual era la richiesta del docente.

    Gli insegnanti del dipartimento hanno deciso che dovevano trovare un modo per risolvere due problemi:

    1. come aiutare gli studenti a rispondere in modo corretto alle domande poste e sviluppare le loro capacità di scrivere un buon tema storico?
    2. come aiutarli a comprendere le varie fasi del processo di scrittura, in modo da poterle ripetere ogni volte che serva?

    Il primo passo è stato quello di predisporre una solida base comune per illustrare agli studenti le diverse forme di scrittura di testi storici. Sono stati quindi realizzati e disposti in ciascuna classe 4 poster indicanti le caratteristiche principali del testo narrativo, descrittivo, esplicativo (relazione) ed argomentativo (vd. fig. 1). I poster possono essere usati dallo Year 7 all’11 ed occupano un posto centrale in ciascuna aula. I docenti dovevano ovviamente spiegare ciascuna tipologia di testo e per far questo nel dipartimento erano stati studiati dei giochi di ruolo, per rendere questa fase meno arida e più accattivante.

    I docenti hanno quindi suddiviso tutti gli studenti dello Year 9 (sia quelli inclusi nelle classi di differenti livelli di abilità, sia quelli nelle classi formate solo con alunni di livello alto) in due gruppi A e B, ai quali sono state proposte strategie diverse per rispondere alla domanda “Why was Hitler so popular in the 1930s?” (Perché Hitler era così popolare nel 1930?). Naturalmente tutta questa parte di storia era già stata trattata dai rispettivi docenti nelle varie classi. Il compito finale, identico per i due gruppi, era quello di scrivere una relazione che rispondesse al quesito sopra illustrato.

    Al gruppo A è stata assegnata una serie di “cards” (vd. fig. 2) e con la guida degli insegnanti gli studenti, lavorando in gruppi, dovevano organizzare le card in una mappa concettuale, disponendo i temi per ciascun paragrafo del tema.

    Per il gruppo B è stato invece organizzato un brainstorm su alcune domande principali ed è stato proposto e discusso insieme con i docenti uno schema da seguire nella scrittura del tema (vd. fig. 3).

    Naturalmente era stata predisposta anche una griglia di correzione comune suddivisa in livelli[9].

    Complessivamente tra i due gruppi A e B non vi è stata grande differenza nei risultati, mentre nelle classi di livello più alto vi è stata una notevole differenza tra i due gruppi, a vantaggio di quelli che avevano utilizzato le “sorting cards”.

    Questo sembrerebbe indicare che, se le cards aiutano gli studenti a richiamare alla mente i fatti principali per strutturare il loro tema, d’altro canto esse presentano lo svantaggio di rendere lo studente dipendente dall’insegnante e meno sicuro delle proprie conoscenze. In aggiunta a ciò si nota che solo il gruppo di allievi di livello più alto è riuscito ad utilizzare correttamente le cards, mentre quelli con minore abilità si sono spesso limitati a copiare il contenuto delle cardssenza riuscire ad organizzare il discorso, anzi spesso le cards hanno ingenerato in loro ancora più confusione.

    Scott non dà però una preziosa informazione, se cioè il livello dei temi sia risultato complessivamente superiore rispetto ai precedenti svolti dagli stessi alunni; forse questo dato non era valutabile in modo oggettivo, o forse, più semplicemente la risposta è negativa.

    Sicuramente questo tipo di attività, come sottolinea lo stesso autore, ha giovato ai docenti, che hanno provato a collaborare per risolvere un comune problema, approntando un progetto, con schemi di lavoro, attività comuni e tante possibilità di confronto. Mi sembra poi abbastanza scontato che i miglioramenti in un’abilità complessa come quella della scrittura siano lenti e progressivi e che questi progetti possano avere una certa efficacia solo se ripetuti su tutto il percorso scolastico e la loro reale ricaduta possa essere valutata solo nel corso degli anni.

    E’ comunque, al di là dei limiti di questa esperienza, un buon esempio di come dovrebbe lavorare un dipartimento di storia.

     


    Fig. 1 Poster utilizzati per illustrare i diversi tipi di scrittura (TH 2006 n. 123)

     
     

    Fig. 1 bis Traduzione del poster

     

    Fig. 2 Esempio di Sorting Cards (TH 2006 n. 123)

     

     

    La gente era arrabbiata per il Trattato di Versailles del 1919.

    Hitler ricostruì l’esercito.

    Hitler aveva promesso di restituire le terre perse dalla Germania nella Prima Guerra Mondiale.

    Hitler voleva conquistare altri paesi per dare alla Germania più spazio.

    Molti tedeschi persero il loro lavoro negli anni ‘30 durante la Depressione.

    I comunisti volevano eliminare i proprietari delle fabbriche.

    Molti tedeschi persero molti soldi nella Crisi di Wall Street del ’29.

    Hitler era visto come un leader forte.

    Hitler si impadronì dell’Austria nel 1939.

    Hitler conquistò la Cecoslovacchia.

     

    Hitler promise di interrompere il pagamento del debito di guerra contratto a seguito della sconfitta nella Prima Guerra Mondiale.

    Hitler promise di eliminare i comunisti.

     

    Fig. 2 bis Traduzione delle Sorting Cards

     

     

    Fig. 3 Schema di lavoro per scrivere una relazione di argomento storico (TH 2006 n. 123)

     

     

    Anno 9 Valutazione: perché Hitler era così popolare negli anni ’30?

    Compito

    Questa è un tema di spiegazione (relazione) del perché Hitler fosse tanto popolare negli anni ’30.

    Che cosa è una relazione?

    Finalità

    • Quale è il suo scopo?
    • A chi è rivolta?
    • Come sarà utilizzata?
    • Quale tipo di scrittura deve essere scelto?
    • Per spiegare qualcosa che è accaduto
    • Rispondere alla domanda “perché?”
    • A qualcuno interessato all’argomento
    • Sile formale
    • Chiaro e semplice da leggere
     

    Testo

    • Impaginazione
    • Struttura/organizzazione
    • Introduzione, parte centrale e conclusione
    • Ciascun paragrafo deve riguardare un tema
    • Spiegare come una cosa si lega ad un’altra
     

    Frasi

    • Uso dei tempi verbali
    • Struttura e lunghezza delle frasi
    • Connettivi
    • Tempi passati
    • Frasi legate tra loro tramite connettivi quali prossimo, sebbene, perciò, allo stessomodo, come risultato, d’altra parte, infine
    • Passaggi per mostrare come sono avvenuti i fatti.
     

    Lessico

    • Riserva di parole e frasi
    • Lessico e fatti

     

    • Trattato di Versailles 1919
    • Comunismo e dittatori
    • Crollo della borsa di Wall Street 1929, Depressione
    • Propaganda di Hitler
    • Politica estera di Hitler

    Struttura

    Idee

    Fonti e fatti

    Introduzione

    Primo argomento

    Secondo Argomento

    Terzo argomento

    Conclusione

    Fig. 3 bis Traduzione dello schema di lavoro per scrivere una relazione di argomento storico

    Ricostruire la narrazione dal particolare al generale

    Molto interessante anche l’articolo[10] Building memory and meaning: supporting Year 8 in shaping their own big narratives (Costruire la memoria ed il significato: come aiutare gli studenti dell’ottavo anno nel dar forma ad un proprio testo narrativo esteso) di Sarah Gadd[11], che parte da presupposti completamente differenti.

    Nella scuola di Essex dove insegna la Gadd, il Key Stage 3 è di soli due anni, per cui nel suo dipartimento di storia si è scelto di far emergere per lo Year 7 prevalentemente gli aspetti socio economici dei periodi affrontati e per l’ottavo anno invece gli aspetti politici.

    Con i suoi alunni dell’ottavo anno la docente ha scelto di non presentare un quadro generale del periodo Vittoriano, ma di svolgere in classe una sequenza di 11 lezioni incentrate su tre indagini storiche riferite a temi specifici sull’Inghilterra vittoriana e la rivoluzione indiana, affidando poi agli studenti il compito di ricostruire in un tema scritto un quadro generale del periodo, collegando gli eventi delle diverse ricerche tra loro e deducendone anche un’interpretazione sull’epoca[12]. L’insegnante ha scelto come riferimento teorico quello proposto da Banham[13], secondo il quale studiare in modo approfondito almeno un singolo argomento storico (e poi presentare in modo anche molto sintetico gli altri eventi del periodo oggetto di studio) consente poi di ricostruire meglio ed in modo più veloce il quadro d’insieme.

    La Gadd, pur rendendosi conto che la sua esperienza non poteva consentire di trarre conclusioni su vasta scala, ha comunque provato ad analizzare le strutture dei temi degli alunni, per capire come avevano proceduto nelle loro deduzioni ed ha riscontrato alcuni elementi comuni. La docente di proposito non aveva fornito agli studenti nessuno schema o griglia per costruire il tema, per vedere come avrebbero strutturato il discorso in modo autonomo. Molti studenti hanno posto al centro del loro testo solo uno dei temi relativi alle ricerche svolte e poi lo hanno collegato con gli altri due, riportando infine le conclusioni. Molti altri invece hanno riportato in modo molto frammentato e confuso i vari fatti storici, ma nelle conclusioni hanno dimostrato di aver ben interpretato il quadro complessivo del periodo. Per cui l’insegnante nella conclusione dell’articolo sostiene di essere comunque piuttosto soddisfatta: per quanto infatti la qualità dei temi non fosse eccezionale, l’obiettivo di far conoscere il quadro generale della situazione economica e politica del periodo era stato nella maggior parte dei casi raggiunto.

    Le esperienze fin qui raccolte mostrano tutte tristemente un dato comune: sia che si fornisca agli studenti una schema della struttura del tema per procedere dal generale al particolare, sia che al contrario vengano svolti con gli alunni degli studi approfonditi su temi specifici, per poi invitarli a risalire dal particolare al generale, costruendo con i propri strumenti la struttura del tema, alla fine la maggior parte delle loro produzioni scritte risulta comunque disorganica nell’organizzazione delle informazioni e delle riflessioni.

    Sviluppare l’abilità di “raccontare storia” in ambiente digitale

    In un recente[14] articolo Robin Kemp[15] interviene in proposito rimarcando come le difficoltà nella scrittura siano state in anni recenti ancor più aggravate dall’abitudine all’uso da parte degli studenti della video scrittura e dell’ipertesto. Infatti gli allievi facilmente scivolano nel “copia-incolla” e, se faticano meno a cogliere i collegamenti, trovano più faticoso ideare un testo unitario e coeso. Lo sforzo di far scrivere temi storici, rimane tuttavia fondamentale, perché anche secondo Kemp è solo con la pratica e l’esercizio che si sviluppa l’abilità “di raccontare storia”, abilità fondamentale anche per aiutare lo studente a memorizzare e costruire organici quadri storici, per cui l’autore conclude citando un contributo di Byrom[16] di una decina di anni fa “if we feed pupils a diet of source evaluation only, without supporting them in the challenge of turning their new historical understanding into a coherent, constructive whole, we are ultimately limiting their reward from history” (se nutriamo gli alunni una dieta basata solo sulla valutazione delle fonti, senza supportarli nella sfida a trasformare la loro nuova comprensione storica in un intero coerente costruttivo, stiamo alla fine limitando la loro conoscenza della storia).

    Leggere e scrivere novelle e racconti storici: un’attività non sempre ben vista nella scuola inglese

    Una riflessione a parte merita invece la lettura e scrittura di novelle e racconti storici.

    Questa tipologia di testi narrativi è più strettamente legata allo studio della lingua inglese, per cui i docenti l’affrontano quando vi sia una possibilità di strutturare un progetto comune tra i dipartimenti di storia e di inglese. Inoltre la stessa lettura di racconti o romanzi storici come fonte non è sempre ben vista ed accettata dagli insegnanti di storia; ancor più malvista è naturalmente la scrittura di questo genere di testi.

    Mi sembra comunque utile riferire le voci e le esperienze discordanti in proposito, anche in relazione alla possibilità di un confronto con la scuola italiana, in cui l’interdisciplinarità dell’insegnamento di lettere consente invece molte esperienze in tal senso.

    Un dibattito piuttosto acceso

    Su questo tema inizia ad apparire qualche articolo già alla fine degli anni ’80. Interessante in proposito l’articolo di Clive King[17]The Historical Novel: an under-used resource[18], in cui si sostiene che l’immaginazione dello scrittore spesso “illumina” il passato, aiutando gli studenti a vedere gli eventi storici che studiano dalla prospettiva della gente del passato, un compito spesso difficile. Per questo, sebbene all’insegnante richieda tempo e fatica scegliere una novella o un racconto o una parte di esso da leggere in classe, tale lettura fornisce un ottimo stimolo iniziale per affrontare lo studio di un nuovo periodo, oppure un’ottima conclusione per rinforzare la comprensione dell’epoca che è stata studiata. Come si vede si tratta ancora di timidi tentativi, ma dal 2000 in poi si sviluppa invece un ampio dibattito su questo tema.

    Dave Martin e Beth Brook[19] riferiscono[20] ad esempio la loro esperienza di un progetto sviluppato in Dorset tra il dipartimento di storia e quello di inglese ed incentrato proprio sulla scrittura di “historical fiction”. L’obiettivo era quello di fare in modo che i ragazzi riuscissero a scrivere racconti storici che tenessero conto sia di una rigorosa ricerca storica, sia ponessero attenzione allo stile ed al genere. Il progetto è iniziato nell’ottobre del 1993 ed ha coinvolto differenti scuole nel Dorset. Martin e Brook riferiscono abbastanza nel dettaglio lo svolgimento del progetto e i suoi risultati per alcune scuole, per altre si tengono più sul vago. Nella Wareham Middle School il progetto ha coinvolto tre classi dello Year 7: il primo passo è stato quello di far leggere agli studenti la novella storica A Little Lower Than The Angels di Gerladine Mc Caughran, ambientata in epoca medievale. In seguito gli studenti dovevano scrivere il loro racconto storico, ambientato nello stesso periodo. I principali punti emersi dalla valutazione degli elaborati degli alunni e dalle riflessioni dei docenti sono piuttosto interessanti. In primo luogo gli autori dell’articolo fanno notare come gli studenti abbiano avuto un atteggiamento entusiasta verso il progetto ed abbiano apprezzato l’interdisciplinarità dello stesso. In secondo luogo essi hanno sviluppato conoscenze molto approfondite sul racconto storico sia come genere letterario sia come fonte storica. Terzo punto e più dolente, gli alunni hanno trovato molto difficile sia la lettura e comprensione del racconto storico, sia la sua scrittura. In effetti Martin e Brooks non riportano alcuno stralcio dei temi svolti, quindi i risultati non devono essere stati positivi.

    Dello svolgimento del progetto in un’altra scuola (dalla lettura dell’articolo non si riesce a capire quale esattamente) non si danno altri dettagli se non lo schema proposto ai ragazzi per strutturare il racconto storico: la sua lettura è comunque piuttosto interessante perché indica in modo preciso luoghi, tempi, personaggi, trama del racconto, in modo da aiutare gli alunni nel loro compito, focalizzandolo esattamente su quello che è stato studiato ed approfondito nelle lezioni di storia. La storia doveva essere ambientata il 3 giugno del 1480 e poteva avere una durata di massimo 48 ore.

    La città dove ambientare la vicenda era Firenze. Il racconto doveva includere non più di tre luoghi da scegliersi tra quelli studiati. I personaggi dovevano essere tre, tra cui almeno una donna; essi potevano essere reali (come Leonardo da Vinci, Lorenzo dei Medici ecc.) oppure immaginari. Doveva essere incluso almeno un animale. La trama doveva iniziare con un problema (per esempio sei appena arrivato a Firenze, ma hai perduto la lettera di presentazione per la famiglia Medici), indicare cosa avveniva ai personaggi a seguito di questo problema iniziale e poi descrivere la soluzione finale. Seguivano poi i consigli per le ulteriori ricerche storiche da svolgere per rendere più realistica la storia.

    Nel terzo caso riportato da Martin e Brook gli studenti del settimo anno (anche qui non è chiaro di quale scuola) hanno lavorato sul periodo romano: In questo caso i risultati degli elaborati prodotti dai ragazzi sono stati evidentemente di migliore qualità, in quanto nell’articolo ne vengono riportati diversi estratti[21], a onor del vero piuttosto ben scritti, ma non viene spiegato né come sono state svolte le lezioni, né quale fosse la traccia del racconto. Quest’ultima è stata sicuramente l’esperienza più positiva, in quanto i materiali e i temi scritti dai ragazzi sono poi confluiti nel libro di testo scritto dagli autori stessi[22] ed intitolato Write Your Own Roman Story. (Scrivi il racconto ambientato in epoca romana).

    L’articolo nel complesso presenta degli spunti interessanti; tuttavia nelle varie scuole sono stati utilizzati metodi diversi per proporre lo studio e la scrittura del racconto storico ed inoltre sono stati analizzati periodi storici differenti e questo ha reso impossibile un confronto tra i risultati ottenuti; inoltre sarebbe stato utile riferire in modo più rigoroso e dettagliato come si sono svolti i progetti nelle diverse scuole, invece l’articolo tende ad enfatizzare gli aspetti positivi, lasciando in ombra quelli negativi.

    La via indicata da Martin e Brook nell’articolo sopracitato e nel loro libro “Write your Own Roman Story” ed in quello del 2005 di Christine Counsell, sempre sullo stesso tema, intitolato “History and Literacy in Y7” ed ampiamente pubblicizzato dalla rivista (vd. fig. 4), è stata poi d’ispirazione per numerose altre esperienze interdisciplinari.

     

     

    Fig. 4 Pubblicità del volume “History and Literacy in Y 7” di Christine Counsell (TH 2005 n. 118).

    Leggere Dikens per sviluppare il pensiero storico

    Esemplificativi in tal senso i progetti riportati nei due articoli Having Great Expectations of Year 9. Inter-disciplinary work between English and history to improve pupils historical thinking[23](Grandi Speranze per il nono anno: un’attività interdisciplinare tra storia ed inglese per promuovere lo sviluppo del pensiero storico negli studenti) e Dickens…Hardy…Jarvis?! A novel take on the industrial Revolution[24] ( … Un racconto ambientato durante la Rivoluzione Industriale), entrambi del 2010 e caratterizzati da un’estrema precisione nel riferire sia lo schema delle lezioni svolte, sia i risultati delle stesse.

    Nel primo articolo l’autore, Michael Monaghan[25], racconta come i due dipartimenti di storia e letteratura inglese abbiano deciso di collaborare nel difficile compito di analizzare il testo di Charles Dickens’ Great Expectations(Grandi Speranze) e di far scrivere poi agli studenti un racconto storico. I dipartimenti avevano obiettivi diversi. Quello di inglese mirava ad incoraggiare la lettura di narrativa di alta qualità e la scrittura di storie. Il dipartimento di storia si era posto come obiettivo quello di ricostruire in modo più complesso un quadro del diciannovesimo secolo: “the novel would, it was hoped, provide a window in the ninetheenth century, a vivid picture of the past[26] (Il romanzo dovrebbe, questa era la speranza, aver aperto una finestra sul diciannovesimo secolo, fornendo una immagine vivida del passato).

    Molto importante è stato il lavoro svolto insieme dai dipartimenti per costruire il progetto (vd. fig. 5) e la logistica nel coordinare le lezioni. Le classi cui è stato rivolto il progetto erano quelle del nono anno, suddivise in 5 gruppi di abilità mista per la storia e nove gruppi per l’italiano. I docenti di storia avevano programmato per il progetto 9 ore di lezione ed i docenti di letteratura inglese 18 ore. Gli insegnanti coinvolti non erano tutti specialisti della materia, alcuni erano senior managers impegnati anche in numerose altre attività della scuola ed altri erano PGCE students che insegnavano per la prima volta. Inoltre molti insegnanti non avevano letto il libro.

    La sfida più grande secondo l’autore è stata proprio quella dell’organizzazione del progetto: i dipartimenti hanno svolto più incontri insieme ed ogni insegnante ha dovuto sviluppare una parte del progetto, in modo che i carichi di lavoro fossero equamente suddivisi e che tutti si sentissero non solo coinvolti, ma anche responsabili del buon esito dell’attività.

    Gli studenti di livello più alto hanno letto l’intero libro, mentre gli altri ne hanno letto ampi brani, in modo da avere comunque una visione complessiva del testo.

    Un grandissimo vantaggio per il dipartimento di storia è stato proprio quello di poter utilizzare l’intero libro come fonte, poiché il romanzo è stato letto nelle ore di inglese, nelle quali gli studenti si sono focalizzati sull’analisi della trama, dei personaggi, dei luoghi, dello stile ecc.

    I vantaggi dell’interdisciplinarità si sono manifestati a poco a poco, man mano che il progetto procedeva. Inizialmente gli alunni non erano troppo entusiasti, specialmente quelli che avevano difficoltà in letteratura, ma già nella lezione successiva il loro atteggiamento è cambiato. Nel corso di questa lezione infatti gli studenti sono stati suddivisi in gruppi e ciascuno doveva occuparsi di una dato aspetto della società nell’800, per esempio il crimine e le pene, oppure la vita rurale, l’istruzione ecc. I ragazzi dovevano ritrovare le informazioni utili per il tema loro assegnato nei primi otto capitoli del romanzo di Dickens (di cui avevano affrontato la lettura nelle precedenti 4 lezioni di letteratura inglese) ed inserirle in uno schema predisposto. Monaghan è rimasto piacevolmente stupito dalla rapidità con la quale gli alunni riuscivano a selezionare le informazioni, al punto che dopo una mezz’ora di lavoro tutti i gruppi avevano portato a termine l’attività senza troppa fatica e con gran soddisfazione nell’essere riusciti a “rileggere” il testo in così breve tempo.

    Anche la quinta lezione di storia dal titolo How do the characters in Great Expectations help us to understand society (Come i personaggi in “Grandi Speranze” ci aiutano a comprendere la società) è stata secondo l’autore veramente positiva. Gli alunni utilizzando come promemoria delle sorting cards sui personaggi del libro dovevano costruire una society line secondo il classico schema del loro libro di testo di storia. Monagham si è quindi stupito quando gli studenti, analizzando i personaggi del libro, sono riusciti a costruire moltissime osservazioni ricavandone poi un quadro molto approfondito della società dell’epoca e delle sue contraddizioni; in altre parole secondo il docente il romanzo ha reso the history more historical.

    Il compito finale consisteva quindi nella scrittura di un racconto di argomento storico. Su questo punto i due dipartimenti di storia e inglese si sono trovati in forte divergenza, perché gli insegnanti di storia avrebbero preferito che i racconti fossero riferiti in modo specifico al periodo della rivoluzione industriale in cui è ambientato il romanzo di Dickens, mentre poi è passata la linea degli insegnanti di letteratura, che hanno preferito concedere maggiore libertà agli studenti, consentendo loro di ambientare i racconti in qualsiasi periodo storico. La maggior parte degli studenti (in particolare quelli di livello più alto) ha ambientato i propri racconti in periodi diversi dalla rivoluzione industriale e come era prevedibile i risultati non sono stati buoni, invece molti studenti di livello basso si sono sentiti più a loro agio e sicuri nell’usare l’ambientazione ottocentesca che avevano studiato in modo approfondito ed hanno scritto i loro migliori compiti dell’anno.

     

    Fig. 5 Schema delle lezioni interdisciplinari svolte sul libro “Having Great Expectations” di Dickens (TH 2010 n. 138)


    Un concorso di scrittura di racconti storici

    Nel secondo articolo Dickens …Hardy…Jarvis…?! l’autore Gary Hillyard[27], ispirandosi alla filosofia della “Empathy with edge” (affinare l’empatia) di Martin e Brooke sull’uso della historical fiction in classe ed al concorso annuale da loro creato Write Your Own Historical Competion, illustra il progetto interdisciplinare tra inglese e storia da lui portato avanti in due scuole: alla Ashfield School e alla Manor school a Nottinghamshire.

    In primo luogo è interessante notare come un docente, spostandosi da una scuola ad un’altra, trovi la possibilità di riproporre un progetto interdisciplinare che ha avuto un buon esito in una scuola anche in un’altra senza troppe difficoltà. La seconda osservazione riguarda la durata pluriennale del progetto: esso è iniziato nel 2006 ed è stato ripetuto annualmente fino al 2010. Hillyard riferisce quindi i risultati del 2010, ma descrive anche i cambiamenti che i professori hanno adottato nel corso degli anni, perfezionando i punti deboli che si erano manifestati nella pratica didattica.

    Lo schema delle lezioni (vd. fig 6) specifica anche le Personal and Thinking Skills[28] richieste agli alunni di volta in volta ed integra la lettura di romanzi o racconti storici con l’uso di altre fonti storiche. Il periodo di studio oggetto del progetto è quello della Rivoluzione Industriale. Il progetto ha coinvolto gli studenti dello Years 8 di abilità miste. Gli studenti hanno lavorato per 15 lezioni alla costruzione della loro conoscenza storica sulla Rivoluzione Industriale, analizzando personaggi, ambientazioni, trama e stile di due romanzi storici: Mill Girl.A Victorian Girl’s Diary 1842-1843 di Sue Reid e North and South di Elizabhet Gaskell.Gli studenti si sono esercitati a scrivere e descrivere loro stessi luoghi e personaggi, hanno sviluppato la trama di un loro racconto, hanno provato sulla base di vari esempi a scrivere inizi e finali di racconti. Il compito finale (obbligatorio) era quello di scrivere un racconto ambientato nel contesto dei cambiamenti portati dalla Rivoluzione industriale, con il quale gli studenti hanno partecipato ad un concorso interno alla scuola.

    Complessivamente gli studenti nei loro racconti hanno mostrato una buona comprensione di come si vivesse nel periodo della Rivoluzione Industriale. Le lezioni di storia su questo periodo storico sono state effettivamente solo due, di cui una di ricerca autonoma sul sito web Spartacus Educational sul lavoro dei bambini in fabbrica; la maggior parte delle informazioni sono poi state ricavate dagli alunni leggendo i due romanzi. Il docente ha inoltre proposto ai ragazzi la visione del film musicale “Oliver!” ed immagini tratte dal Black Country Museum per gli studenti con speciali bisogni educativi.

    I testi degli alunni sono stati valutati in relazione ai livelli del National Curriculum. Al termine del percorso 79 alunni hanno completato il loro racconto: di questi 29 hanno migliorato il loro livello, 34 hanno mantenuto il loro livello, mentre 16 non hanno raggiunto gli obiettivi prefissati.

    Queste due esperienze sopra riportate ed il fatto che i progetti siano anche stati ripetuti e sperimentati in più scuole sembrerebbero indicare, in anni più recenti, una maggiore attenzione e “minore” paura dei docenti di storia verso il genere dell’historical fiction, una maggiore attenzione testimoniata anche dall’attenzione che viene prestata dalla rivista “Teaching History” al concorso nazionale The young Quills (Giovani Penne) nel quale gli studenti votano i migliori romanzi storici dell’anno (vd. fig. 7).

     

    Fig. 6 Schema delle lezioni interdisciplinare sulla Rivoluzione Industriale (TH 2010 n. 140)

     Fig. 7 Resoconto dei vincitori del concorso “The young Quills 2011-2012”: gli studenti hanno votato i migliori romanzi storici pubblicati nell’anno (TH 2012 n. 149)

    Note

    [1] Un cambiamento in tal senso è fornito proprio dalle Indicazioni Nazionali del 2012,delle quali riporto gli obiettivi sulla produzione scritta e orale, al termine della secondaria di primo grado

    – Produrre testi, utilizzando conoscenze selezionate da fonti di informazione diverse, manualistiche e non, cartacee e digitali.

    – Argomentare su conoscenze e concetti appresi usando il linguaggio specifico della disciplina

    [2]Nel National Curriculum inglese infatti tra le principali abilità, almeno fino al 2007, era inserita quella relativa a “Communicating about the past”, secondo la quale “Pupils should be able to:

    a) present and organise accounts and explanations about the past that are coherent, structured and substantiated, using chronological conventions and historical vocabulary;

    b) communicate their knowledge and understanding of history in a variety of ways, using chronological conventions and historical vocabulary”.Le note poi specificano che “Pupils develop writing, speaking and listening skills as they recall, select, classify and organise historical information, use historical terminology and language appropriately and accurately, and provide well-structured narratives, explanations and descriptions of the past. Pupils should use existing and emerging technologies where appropriate”. In contro tendenza il National Curriculum 2013si limita ad indicare che gli studenti “should use historical terms and concepts in increasingly sophisticated ways”.

    [3] TH 1981 n. 29, pp. 25-27; l’articolo è un estratto della più ampia versione presentata dall’autore alla “Conference for Heads of History Departments” tenuta nell’aprile del 1980 ed organizzata dalla “ University of Liverpool School of History and the Livepool Branch of the Historical Association”.

    [4] TH 1983 n. 35, pp. 34-39.

    [5] Maria Bakalis insegna storia alla Hasmonean High School (11-18 comprehensive), North London.

    [6] TH 2003, n. 110, pp. 18-25.

    [7] Alex Scott insegnante di storia presso la Eltham Hill Technology College (11-16 compre.hensive) South London.

    [8] TH 2006 n. 123, pp. 26-33.

    [9] Mark scheme for the essay:

    Level 1 Basic and sometimes inaccurate understanding of a couple of aspects of Germany 1919-1945 (knowlwdge).

    Level 2 Give some factual knowledge about Germany 1919-1945 , gives a simple and unsubsatantiated reasons why Hitler came to power (comprehension)

    Level 3Describes Germany 1919-1945. in some detail or tells a story of the period, make some more developed links to reasons why Hitler come to power (application).

    Level 4Explains reasons why Hitler was popular, using developed sentences and knowledge about the period to support explanations (analysis).

    Level 5Analyses reasons why Hitler was popular, showing the relative importance of different reasons and coming to synthesized conclusion (synthesis).

    [10] TH 2009 n. 136, pp. 34-41.

    [11] Sarah Gadd insegna storia alla Saffron Walden County school in Essex.

    [12] Riporto di seguito lo schema delle lezioni:

    Enquiry 1: what was “Victorian Britain ? (tre lezioni); enquiry 2: when was Britain closest to revolution? (tre lezioni); enquiry 3: when was India closest to revolution? (tre lezioni); Narrative writing task: Telling the story of Victorian Britain and India (due lezioni).

    [13] Banham D., The return of king Jhon: using depth to strengthen overwiwv in the teaching political change” in TH 2000 n. 99, Curriculum Planning Edition.

    [14] TH 2011 n. 145, Thematic or sequential analysis in causal explanations?, pp. 32-42.

    [15] Robin Kemp è Lead Teacher of History alla Bury ST Edmunds County Upper School (13-18 comprehensive), Suffolk.

    [16] TH 1998 n. 91, Evidence and Interpretation Edition, pp. 32-35

    [17] All’epoca Clive King era insegnante di storia presso la Johon Archer School di Londra.

    [18] TH 1988 n. 51, pp. 24-26.

    [19] Dave Martin è un freelance history advisor e Beth Brook è Key stage English Consultant per il Dorset.

    [20] TH 2002 n. 108, Getting personal: making affective use of historical fiction in the history classroom, pp. 30-35.

    [21]Riporto solo un esempio degli estratti di temi citati nell’articolo.

    Extract 3: “And now, ladies and gentlemen, I show you a battle of gore, a battle of death, a battle of gladiatooooorrrrssssss!”.

    The crowd went completely wild with enthusiasm as twelve men ran out into the sand covered arena. Five of them were Thracians, four were Retarius and the last three were Samnites. They all stood in a polygon shape around the arena, eache the same distance awey from the next. At the signal they all charged towards each other, swinging axes, swords and nets in all directions with the aim of killing someone to amuse the crowd.

    My best friends was in the battle.

    [22] Brooke B. Martin D. & Dawson I, Write Your Own Roman Story, Jhon Murray 2001.

    [23] TH 2010 n. 138, pp. 13-19.

    [24] TH 2010 n. 140, pp. 16-25

    [25] Michael Monaghan insegna storia presso la Bishop’s Stordford High School (11-18 boy’s comprehensive) in Essex.

    [26] TH 2010 n. 138, p. 15.

    [27] Gary Hillyard è capo del dipartimento di Humanities and History alla Manor School (11-18 comprehensive) alla Manor School (11-18 comprehensive) a Nottinghamshire.

    [28]Personal, learning and thinking skills (PLTS) provide a framework for describing the qualities and skills needed for success in learning and life. The PLTS framework has been developed and refined over a number of years in consultation with employers, parents, schools, students and the wider public.The framework comprises six groups of skills: independent enquirers, creative thinkers, reflective learners, team workers, self-managers, effective participants (National Curriculum 2007).

  • La normalità dello sterminio. I nazisti, gli ebrei e gli altri

    Autore: Luigi Cajani

     

    Introduzione

    E’ ben noto il proverbio arabo, fatto proprio da Marc Bloch nell’ Apologia della storia, secondo il quale siamo figli più dei nostri tempi che dei nostri padri. E’ un detto che, quando si affronta il tema doloroso e difficile della comprensione della Shoah, suggerisce riflessioni dirimenti per uno storico. In molte ricostruzioni, infatti, si tende a privilegiare “l’asse dei padri”, cioè il lungo periodo dell’antisemitismo, invocato come la spiegazione predominante dello sterminio. Questo asse, tuttavia, va incrociato con l’asse della contemporaneità, e, quindi, con la specificità del Nazismo. Non è una differenza da poco. Nel primo caso, la Shoah è il culmine tragico di un antisemitismo secolare. Nel secondo, è l’applicazione agli ebrei della logica dello sterminio nazista.  E’ una differenza importante dal punto di vista dello storico, attento alla natura dei fenomeni che analizza. Lo è dal punto di vista della conoscenza diffusa e dell’uso sociale della storia, perché la specificità del fenomeno nazista è il baluardo più forte contro la banalizzazione della Shoah  e contro le continue analogie con situazioni tragiche del nostro mondo. Lo è, infine, dal punto di vista dell’insegnante di storia, perché riconduce all’interno di un territorio metodologicamente determinato un tema che, nelle scuole, è diventato un contenitore estremamente variegato. In questa prospettiva, hl pensa utile ripubblicare questo articolo di Luigi Cajani, uscito nella rivista “Giano”, nel 1996, la cui analisi resta valida nonostante gli anni trascorsi e le ricerche successive. (A.B.) *

     

    Le strategie naziste di occupazione

    Durante la Seconda guerra mondiale, la Germania perseguì due diverse strategie di occupazione, distinte a seconda degli ambiti territoriali  e razziali a cui si applicavano. Per l’Europa occidentale era prevista un’occupazione che, pur sfruttando le risorse locali, lasciasse però sostanzialmente immutata la struttura demografica e sociale e garantisse alla popolazione un discreto livello di vita. Per l’Europa orientale, abitata da slavi, che erano considerati razzialmente inferiori non solo ai tedeschi, ma anche agli altri europei occidentali di stirpe latina, era invece prevista un’occupazione di tipo coloniale, con l’insediamento di popolazione tedesca e con uno sfruttamento senza scrupoli delle risorse. Il popolo tedesco, secondo la propaganda nazista, mancava di Lebensraum (spazio vitale), e se lo sarebbe conquistato con la guerra in Europa orientale, dove sarebbe diventato lo Herrenvolk (popolo dei signori).

     

    Fig. 1. Il nuovo Atlante Scolastico del 1942 insegna ai bambini tedeschi “lo spazio vitale” del loro popolo 

     

    I progetti  di espansione vennero formulati nel cosiddetto Generalplan Ost (piano generale per l’est), il quale prevedeva che la zona comprendente la Polonia, la Bielorussia e l’Ucraina occidentale fosse svuotata della maggior parte dei suoi abitanti: su circa 45 milioni, 31 milioni sarebbero stati deportati al di là degli Urali, mentre gli altri sarebbero rimasti a disposizione dei coloni tedeschi che vi si sarebbero insediati1 .


    L’asservimento della Russia

    Si trattava dunque di modificare radicalmente la struttura demografica e sociale dei paesi occupati ad oriente, in funzione dell’asservimento ai tedeschi. Le conseguenze che questo sconvolgimento avrebbe avuto sulle popolazioni locali non preoccupavano affatto la dirigenza nazista, se non, appunto, nell’ottica dell’interesse del Terzo Reich. L’assoluto disinteresse per la sorte degli Untermenschen, gli uomini inferiori, emerge da più parti. Un esempio significativo è rappresentato da un progetto per lo sfruttamento delle risorse alimentari della Russia, redatto circa un mese prima dell’inizio delle ostilità. Dal punto di vista della produzione di generi alimentari la Russia presentava due zone: una eccedentaria, cioè la parte meridionale (la Russia nera) e quella caucasica, e una deficitaria, cioè la parte settentrionale, o delle foreste, e i bacini industriali di Mosca e Leningrado. Le eccedenze della prima zona sarebbero state totalmente assorbite dalla Germania, che avrebbe lasciato alla popolazione locale solo di che sopravvivere. Ciò significava che la zona deficitaria sarebbe rimasta totalmente priva dei suoi consueti rifornimenti, e pertanto i suoi abitanti, soprattutto quelli delle città, sarebbero stati ridotti alla fame.

    Di fronte a questa prospettiva - scriveva l’estensore del progetto - “l’amministrazione tedesca può certo cercare di mitigare le conseguenze della carestia... e accelerare il processo di ritorno ad un’economia di natura. Ci si può sforzare di sviluppare queste regioni nel senso di estendere la coltivazione delle patate e delle altre piante più importanti per il consumo alimentare. Ma comunque la carestia non può essere evitata. In queste regioni molte decine di milioni di uomini diverranno superflui e moriranno oppure dovranno emigrare in Siberia. Tentativi di salvare questa popolazione dalla morte per fame importando il surplus dalla Russia nera possono essere realizzati solo a spese dell’Europa. Ma così si mina la capacità di tenuta della Germania in guerra, la capacità della Germania e dell’Europa di resistere al blocco continentale.  Ciò deve essere assolutamente chiaro”2.

     

    Fig.2. Hitler e Mussolini studiano la carta geografica europea con il Feldmaresciallo Wilhelm Keitel e il generale Jodl.

     

    Lo sterminio dei prigionieri di guerra sovietici

    Lo stesso disprezzo per la vita umana ispirò il trattamento dei prigionieri sovietici: considerati solo bocche inutili da sfamare, essi vennero lasciati morire in massa di fame, di maltrattamenti e di malattie (soprattutto tifo petecchiale), quando non venivano direttamente fucilati al momento della cattura. Dei 3.350.000 prigionieri sovietici catturati dall’inizio dell’attacco all’Unione sovietica, al 1 febbraio 1942 circa il 60% aveva perso la vita3.

    Il tasso di mortalità cominciò ad abbassarsi solo quando la dirigenza nazista si rese conto che in tal modo stava dilapidando un utile capitale di forza lavoro: pertanto i prigionieri di guerra sovietici cominciarono ad essere trattati un po’ meglio, per essere impiegati nell’industria pesante e soprattutto in miniera. Nonostante questo cambiamento di politica, la loro sorte rimase comunque molto dura, la più dura fra i prigionieri in mano tedesca: si calcola che alla fine del conflitto su un totale di circa 5.700.000 prigionieri di guerra sovietici i morti siano stati circa 3.300.0004.

     

    Gli ebrei: deportazione e sterminio

    Deportazione e sterminio erano dunque due misure complementari e contigue nella politica nazista nei confronti degli slavi. Lo sterminio non era in questo caso un obiettivo diretto e autonomo, ma semplicemente la conseguenza di misure come la deportazione in Siberia o la requisizione delle risorse alimentari. Si può parlare di uno sterminio indiretto, come elemento di passaggio dalla deportazione allo sterminio diretto.

    Deportazione e sterminio fecero parte della politica nazista nei confronti degli ebrei, che prima dello sterminio aveva preso in considerazione alcune ipotesi di deportazione. Dapprima, dopo la vittoria  sulla Polonia, si era pensato di concentrare gli ebrei polacchi in una “riserva” vicino a Lublino. La deportazione in quella regione implicava consapevolmente uno sterminio: infatti, come notava Arthur Seyss-Inquart, si trattava “di una regione molto paludosa... il che avrebbe portato ad una grande decimazione degli ebrei”5.

    Questa prima idea di deportazione si rivelò inadeguata e venne sostituita, dopo la vittoria sulla Francia, dal progetto di deportazione degli ebrei in Madagascar, che venne però abbandonato nel settembre del 1940, a causa della mancata vittoria sulla Gran Bretagna, che era necessaria alla realizzazione del nuovo progetto. Il passaggio dalla deportazione allo sterminio si realizzò con la guerra contro l’Unione sovietica, iniziata il 22 giugno 1941.

     

    Lo sterminio degli ebrei

    Il rapporto fra questa guerra e lo sterminio degli ebrei è molto complesso. Un elemento di cui tener conto è che si trattava non soltanto di una guerra di espansione territoriale, ma anche di una guerra ideologica, che aveva lo scopo di annientare il comunismo, che i nazisti consideravano il loro nemico mortale, insieme all’ebraismo. Dunque all’interno di questa guerra, oltre ai piani di deportazione o eliminazione della popolazione slava, c’era un piano di sterminio mirato, una vera e propria caccia all’uomo, degli elementi politicamente pericolosi. A questo scopo vennero impartiti ordini per l’eliminazione della dirigenza comunista sovietica: la Wehrmacht, prima dell’inizio delle ostilità, emanò il cosiddetto Kommissarbefehl, che prevedeva l’eliminazione di tutti i commissari politici dell’Armata Rossa;  e subito dopo vennero organizzate quattro Einsatzgruppen, reparti  speciali incaricati della “pacificazione” delle retrovie attraverso l’eliminazione di tutti i funzionari di partito, di tutti gli elementi pericolosi (come sabotatori e agitatori) e di tutti gli ebrei nel partito e nell’amministrazione statale.

    Gli ebrei rientravano dunque, in quanto politicamente pericolosi, in questo primo piano di sterminio. Ma ben presto l’annientamento degli ebrei venne esteso oltre questo ambito politico, e investì l’intera popolazione ebraica in quanto tale. Infatti le Einsatzgruppen già dalla metà di agosto del 1941 iniziarono a fucilare in massa gli ebrei, senza distinzione di sesso o di età6, e intensificarono la loro attività nei mesi successivi: a metà aprile del 1942 il numero degli ebrei uccisi era arrivato a circa mezzo milione7.

    Gli ebrei sovietici diventavano così oggetto di sterminio totale. E la loro sorte divenne quella di tutti gli ebrei europei. Infatti proprio in quei mesi venne decisa e messa a punto la “soluzione finale del problema ebraico”. Nel dicembre del 1941 entrò in funzione il primo campo sterminio, Bełzec, seguito ben presto da Chełmno, Sobibór e Treblinka, e il processo di sterminio fece un salto tecnologico, passando dalle fucilazioni delle Einsatzgruppen ai camion a gas e alle camere a gas. Infine il 20 gennaio 1942 si tenne infatti la conferenza di Wannsee, che definì le modalità della deportazione degli ebrei europei. Le Einsatzgruppen continuavano intanto i loro massacri, utilizzando anch’esse i camion a gas, oltre alle fucilazioni: nella primavera del 1943 - secondo alcune stime - avevano ucciso complessivamente 1.250.000 ebrei, oltre ad altre centinaia di migliaia di cittadini sovietici non ebrei8.

     

    Fig. 3. In questa cartina interattiva, realizzata dall’Istituto Maiorana di Bergamo, le notizie sintetiche sui principali campi di concentramento tedeschi

     

    Problemi aperti: la tesi di Browning

    Se è indubbio che la “soluzione finale” venne decisa durante la prima fase della guerra contro l’Unione sovietica, nell’estate o nell’autunno del 1941, ci sono ancora questioni irrisolte riguardo alla cronologia e alle motivazioni di questa decisione, e al ruolo avuto non solo da Hitler, ma anche dai vari esponenti della dirigenza nazista. Non sono infatti stati rintracciati ordini scritti, ed è anche possibile che non siano mai esistiti, dato il segreto di cui si voleva circondare la materia. Gli storici si dividono sostanzialmente intorno a due ipotesi. Christopher Browning, ad esempio, sostiene che Hitler decise di sterminare gli ebrei intorno alla metà di luglio del 1941, quando la vittoria definitiva sull’Unione sovietica sembrava facile e imminente. Sarebbe stata dunque l’euforia del successo a spingerlo a compiere il salto di qualità nella persecuzione degli ebrei, facendogli abbandonare ogni esitazione rispetto alle misure estreme9. In questo contesto va inserito un documento, recante una data imprecisata del  luglio 1941, nel quale Göring conferiva a Heydrich i pieni poteri per la “soluzione globale” (Gesamtlösung) della questione ebraica in Europa10, e  la prima gasazione sperimentale con lo Zyklon B, fatta ad Auschwitz il 3 settembre su un gruppo di prigionieri di guerra sovietici.

     

    Problemi aperti: la tesi di Mayer

    Opposta è invece l’ipotesi di Arno Mayer, secondo il quale Hitler avrebbe deciso di sterminare gli ebrei non durante la prima fase dell’attacco all’Unione sovietica, ma  durante l’autunno, di fronte alle prime serie difficoltà, che facevano fallire il sogno di un nuovo Blitzkrieg. Secondo Mayer, dopo l’euforia delle prime due settimane di guerra già a fine luglio la dirigenza nazista doveva ammettere che l’avanzata rallentava e si faceva sempre più costosa, contrariamente a quanto previsto. I primi insuccessi militari avrebbero spinto dunque Hitler a eliminare intanto coloro che considerava i principali responsabili di tutti i mali della Germania: gli ebrei.

    Mayer sostiene che i primi massacri di ebrei sovietici, nel luglio, furono opera non tanto delle Einsatzgruppen, ma degli antisemiti locali, che scatenavano dei pogrom appena arrivavano le truppe tedesche. I reparti tedeschi - egli scrive - iniziarono i grandi massacri di ebrei solo “dopo l’autunno del 1941, quando l’Armata Rossa aveva rallentato l’avanzata tedesca imponendo i più tremendi e sanguinosi combattimenti.... Da quel momento, i comandanti della Wehrmacht e delle Einsatzgruppen denunciarono specificatamente gli ebrei come mandanti, membri e fiancheggiatori delle attività partigiane dietro le linee tedesche e si servirono di queste accuse per giustificare il fatto di averli scelti come capri espiatori dell’ostinata resistenza sovietica....”.  

    Secondo Mayer,  per Hitler e la dirigenza nazista lo sterminio degli ebrei fu un’opzione che venne adottata solo a causa del fallimento dei piani legati alla guerra contro l’Unione sovietica. Egli scrive infatti: “Non si può... affermare che lo sterminio degli ebrei sovietici sia stato parte integrante del grande disegno di Hitler di creare un Reich millenario. Dopo una breve e vittoriosa campagna; i nazisti si proponevano di trasferire gli ebrei d’Europa, compresi quelli russi, in una riserva come quella di Lublino, al di là del Volga o degli Urali. E’ soltanto dopo aver preso coscienza dell’enorme difficoltà di vincere la guerra e di ”liberare” Mosca... che i fanatici nazisti concentrarono la loro attenzione sugli ebrei, la più accessibile e vulnerabile incarnazione del “giudebolscevismo”...” 11.

    Secondo Mayer sarebbero dunque state l’”angoscia” e la “paura” di fronte al fallimento dei suoi sogni di potere a spingere Hitler a decidere lo sterminio degli ebrei.

     

    Le obiezioni di Vidal-Naquet

    Questa tesi non ha mancato di suscitare perplessità: in particolare Pierre Vidal-Naquet, nella prefazione all’edizione francese del libro di Mayer, ha messo in discussione proprio la cronologia della consapevolezza del fallimento da parte della dirigenza nazista, rimproverando a Mayer di non essere stato chiaro in proposito: “Quando è cominciata la sconfitta? - scrive Vidal-Naquet - Negli ultimi giorni di luglio? In agosto? Il 19 settembre, giorno in cui fu conquistata a caro prezzo Kiev? Il 1° dicembre, con le dimissioni di von Rundstedt? Oppure l’8 dicembre, quando venne sospesa l’offensiva? Lo storico può certo stabilire qual è stato il momento della sconfitta,  e Arno Mayer ha tutto il diritto di ritenere che  sia stato l’autunno del 1941, e non l’autunno-inverno del 1942 (Stalingrado e sbarco il Africa settentrionale), a segnare il punto di svolta nella guerra. Ma dovrebbe anche provare... che già a settembre, o al più tardi in ottobre, Hitler e i suoi crociati erano consapevoli di essere ormai sconfitti”12.

     

    La normalità dello sterminio

    Al di là di queste due ipotesi, se la decisione di sterminare gli ebrei sia stata in frutto di un delirio di onnipotenza o di un senso di frustrazione, dell’euforia o della rabbia, ipotesi che rimangono aperte e che non necessariamente si escludono totalmente l’un l’altra, mi sembra che ci sia comunque un punto fermo: e cioè che la dimensione dello sterminio, già insita nella cultura nazista, divenne proprio nel contesto della guerra contro l’Unione sovietica un’opzione tranquillamente accettata e praticata. Si sterminarono gli slavi e si sterminarono gli ebrei, perché inutili o pericolosi. Ma prima di allora erano stati sterminati oltre 70.000 malati mentali, tedeschi, questa volta, e non appartenenti a razze inferiori, ma comunque “lebensunwerte Leben”, vite senza valore13. E poi sarebbe venuto il momento degli Zingari.

     


    Fig. 4. “Il trasporto del ricordo”, è il titolo del monumento eretto a Pirna, una delle località tedesche dove, fra il 1940 e il 1941, si compì l’Aktion T4, con l’uccisione sistematica di oltre 70mila malati psichici

     

    Questi stermini, pur tanto diversi fra loro nelle motivazioni e nelle modalità di esecuzione, hanno in comune il fatto di essere  “normali”. Se fra una deportazione e uno sterminio diretto esiste un salto di qualità, esiste però anche, ed è forse più importante, un elemento di continuità, se osserviamo queste due strategie dal punto di vista nazista, per i quali l’obiettivo era quello di una pulizia etnica del Reich e dell’Europa occidentale, eliminandone la presenza ebraica, e di una pulizia ancora più radicale, un vero e proprio svuotamento etnico, nei territori dell’est. La scelta delle due opzioni, deportazione o sterminio, non rappresentava tanto un salto culturale, la brusca radicalizzazione di una strategia, ma dipendeva piuttosto dalla loro efficacia e dalla loro praticabilità. In questo senso la guerra contro l’Unione sovietica, che faceva aumentare considerevolmente il numero degli ebrei nella zona di influenza tedesca, ma rendeva impraticabile, almeno a breve, l’opzione di una deportazione al di là degli Urali, fece diventare l’opzione dello sterminio come l’unica praticabile.

     

    Tra le letture più recenti, si consigliano

    Enzo Traverso, Simon Levi Sullam, Marcello Flores, Marina Cattaruzza (a cura di), Storia della Shoah, Torino, UTET, 2005-2006
    Christopher Browning, Le origini della soluzione finale: l'evoluzione della politica antiebraica del nazismo: settembre 1939-marzo 1942, Milano, Il Saggiatore, 2008

     

    Note

    1. Cfr. DIETRICH EICHHOLTZ, Geschichte der deutschen Kriegswirtschaft 1939-1945, II, Berlin, Akademie Verlag, 1985, pp. 434-435.

    2.  Bericht des Wirtschaftsstabes Ost, Gruppe Landwirtschaft vom 23. Mai 1941: Richtlinien für die Wirtschaftspolitik zur Ausnutzung russischer Quellen für die Ernährung der deutschen Wehrmacht und zum Teil für die deutsche Zivilbevölkerung (doc. 126 EC), in Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem Internationalen Militärgerichtshof. Nürnberg 14. November 1945 - 1. Oktober 1946, Nürnberg, 1949, XXXVI, pp. 135-157, qui pp. 144-145.

    3.  CHRISTIAN STREIT, Keine Kamaraden. Die Wehrmacht und die sowjetischen Kriegsgefangenen 1941-1945, Bonn, Verlag J.H.W. Dietz Nachf., 1991, p. 136.
    4.  Ibidem, p. 244.

    5.  Bericht über eine Inspektionsreise Seyss-Inquarts in Polen vom 17. bis 22. November 1939  (doc.  2278-PS), in Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher..., cit.,  XXX, pp. 84-101, qui p. 95.
    6.  Cfr. PHILIPPE BURRIN, Hitler and the Jews. The Genesis of the Holocaust, London, Melbourne,Auckland, Edward Arnold, 1994, p. 110 (ed. orig. Hitler et les juifs. Genèse d’un génocide, Paris, Seuil, 1989).
    7.  Cfr. GERT ROBEL, Sowjetunion, in Dimension des Völkermords. Die Zahl der jüdischen Opfer des Nationalsozialismus, a cura di Wolfgang Benz, München, Oldenbourg, 1991, p. 543.
    8.  Cfr. Einsaztgruppen, in Enzyklopädie des Holocaust, München - Zürich, Piper, I, 1995, p. 399. L’edizione originale di questa enciclopedia è stata pubblicata contemporaneamente in ebraico in Israele, col titolo  Entsiklopedja shel ha-shoa, e in inglese negli USA, col titolo Encyclopedia of the Holocaust.
    9.  CHRISTOPHER BROWNING, L’origine de la solution finale: du contexte militaire et politique à la prise de décision (1939-1941), in La politique nazie d’extermination (a cura di François Bédarida), Paris, Albin Michel, 1989, pp. 156-176.
    10.   Auftrag Görings an Heydrich vom Juli 1943 zur Vorbereitung einer Gesamtlösung der Judenfrage im deutschen Einflussgebiet in Europa (doc. 710-PS), in Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher..., cit.,  XXVI, pp. 266-267.
    11.  ARNO MAYER, Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, Milano, Arnoldo Mondadori, 1990, pp. 242-243 (ed. orig. Why Did the Heavens not Darken? The “Final Solution” in History, New York, Pantheon Books, 1988).
    12.  ARNO MAYER, La “solution finale” dans l’histoire, Paris, Éditions La Découverte, 1990,  p. VI.
    13.   Cfr. MICHAEL BURLEIGH, WOLFGANG LIPPERMANN, Lo stato razziale, Germaia 1933-1945, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 127-151.

  • La storia con le infografiche


    Raffaele Guazzone arriva all'insegnamento dopo anni di lavoro nell'editoria. E' stato mio allievo a Pavia, al TFA, e poi ha lavorato con me nei corsi successivi, dandomi una mano in un settore nel quale sono del tutto impacciato, quello delle tecnologie.
    Raffaele ha preso dati e materiali dall'articolo di Cesare Grazioli, sulle migrazioni (lo trovate su Novecento.org, e su HL) e l'impianto dei laboratori, così come l'ho sviluppato in questi decenni (basato sui livelli operativi di "cercare", "elaborare", "valutare" "scrivere"). Alla fine del corso gli ho chiesto di mettere per iscritto quello che aveva fatto (prima nella sua classe, poi con i corsisti del TFA). Ora abbiamo uno strumento utilissimo, applicabile a tante serie di dati.

    http://www.novecento.org/didattica-in-classe/lavorare-con-i-dati-e-la-tecnologia-1410/

  • La storia molto contemporanea. Come realizzare, rapidamente, l’ultima parte del programma.

    Autore: Antonio Brusa
    Appunti da Dan Smith

    In questa cartina, tratta dall’atlante di Dan Smith, le nazioni in viola scuro (paesi arabi, Guyana e Brunei) hanno oltre il 30% di immigrati.Seguono Usa, Canada, Arabia, Australia, Libia e paesi europei centro settentrionali con una percentuali di migrazione fra il 20 e il 30%. L’Italia è fra i paesi con meno del 10%.

     

    Perché studiare gli ultimi decenni

    L’atlante di Dan Smith,The State of the World (New Internationalist, Oxford 2014), è un magnifico aiuto per il docente in difficoltà  alla fine del percorso formativo. L’intoppo nel quale si trova solitamente è ben conosciuto: da una parte si vorrebbe finire il programma arrivando ai giorni nostri; dall’altra, fra prima e seconda guerra mondiale, fascismi, comunismi e giornate della memoria, aggiungiamoci gli esami da preparare, il tempo è risicatissimo. La sintesi di Dan Smith permette di tracciare in poche battute le linee dell’ultima parte di questo programma. E’ una sintesi aperta che consente, al docente che voglia (come spero) dedicare a questo periodo un tempo non residuale, di inserire in questo quadro approfondimenti e studi di caso coinvolgenti. 

    Partiamo con le motivazioni (e quindi con gli obiettivi) per studiare questo periodo. Da qualsiasi parte ci voltiamo, dice Smith, troviamo cose che cambiano. Si annunciano ad ogni piè sospinto cose nuove, che, immediatamente dopo, svaniscono. Professori e allievi ne ricavano un senso di incertezza frustrante. Abbiamo bisogno di qualche appiglio; ma soprattutto, abbiamo il dovere di verificare la sensazione, che attanaglia tutti, di avvicinarsi all’orlo di un baratro.

    Come tutti i punti di vista sul periodo che stiamo vivendo, anche questo è oggetto di discussione. Ma non è un difetto. Il tempo presente impone la capacità di problematizzare, proprio con questi suoi aspetti controversi. Esso  richiede il coinvolgimento nella discussione, dal momento che gli allievi sono attori della storia che si studia, al pari dei loro professori e degli autori dei testi che compulsano.

    Una volta aperta la discussione, Dan Smith dispiega i suoi strumenti: una rapida cronologia e l’individuazione di cinque temi che considera fondamentali. Per la conoscenza puntuale di questo dispositivo, rinvio naturalmente all’originale. Qui ne presento una sintesi, con i rimandi sitografici che consentiranno, anche a chi non può consultare l’Atlante, di approfondire questo o quello dei temi che vi sono descritti.

     

    La cronologia

    La mappa sintetica della contemporaneità si articola intorno a tre momenti chiave.


    a.    Il tornante degli anni ’89-91: con il crollo del mondo comunista, finisce anche l’età della guerra fredda, del mondo diviso in blocchi. Dal punto di vista degli Usa (ma certamente non solo) inizia una sorta di età dell’oro, nella quale si afferma la loro centralità. La prima Guerra del golfo li vede nelle vesti di guida di una coalizione di stati, che si mobilita per ripristinare l’ordine internazionale


    b.    Il 2001: gli attentati delle Torri gemelle, ma più ancora il modo aggressivo con il quale gli Usa vi rispondono, segna la fine di questa età effimera. Inizia un periodo più instabile, che tuttavia non ostacola il forte sviluppo economico, durante il quale decollano nuovi centri economici del mondo, come la Cina e l’India, altri segnano il passo. Ma tutti, anche i più poveri, godono di qualche briciola di questo banchetto.


    c.    Il 2008. La crisi finanziaria innesta una nuova spaccatura nel mondo: c’è chi la supera e ricomincia a crescere, c’è chi invece precipita nella stagnazione, se non nella recessione (su questo potranno essere di aiuto i lavori sulle crisi qui su Historia Ludens, e su Novecento.org). 


    E’ una ricostruzione della quale va sottolineato il pregio della facilità (al di là delle discussioni di cui sopra). Si basa su avvenimenti forti, anche facili da raccontare, ben circoscritti. Si può calcolare un tempo abbastanza rapido per spiegarli e studiarli.

    Dentro questa cornice cronologica Dan Smith disegna la struttura del mondo nel quale viviamo: la popolazione, giunta a 7 miliardi di persone, la cui vita è organizzata in Stati (l’ultimo è il Sud Sudan, nel 2010); diverse per istruzione, speranza di vita, religione e etnia. Indica la forma di insediamento principale di questa massa immensa, le città e le megacittà, ma, al tempo stesso avverte che questa popolazione è caratterizzata dalla forte mobilità delle migrazioni.

     

    I temi di studio

    Dan Smith, inoltre, propone cinque temi di studio. Li descrivo brevemente, mettendo in evidenza alcuni aspetti che li rendono problematici. Ciascuno di essi, infatti, presenta aspetti positivi e negativi. E’ fondamentale aiutare gli allievi a passare da una percezione uniforme ad una variegata, che eviti il rischio di essere “o apocalittici o integrati”.  Ad ogni tema ho fatto seguire alcuni sottotemi esemplari, che segnalo anche per il loro carattere fortemente interdisciplinare, a partire naturalmente dalla Geografia e dall’Educazione civile. E’ evidente che, nell’economia di una programmazione, questo sarà il campo dei lavori opzionali, magari assegnati per gruppi.

     

    Benessere e povertà 

    La sperequazione fra le diverse aree geografiche è drammatica. La ricchezza, con il benessere conseguente, è concentrata in alcune regioni del mondo. Tuttavia, l’ultimo ventennio ha visto la rivoluzione delle gerarchie mondiali di questa ricchezza. La Cina balza al primo posto, gli Usa retrocedono al secondo (per la prima volta da un secolo a questa parte), l’India è la terza potenza. L’Europa, come spazio geografico, è ancora il primo mercato mondiale. Le sue divisioni politiche, tuttavia, le impediscono mettere a frutto questo vantaggio. Per quanto riguarda i paesi più poveri, va notato con forza che la quota di umanità che vive con meno di un dollaro al giorno sta diminuendo.

    Sottotemi: crescita e povertà; qualità della vita; ineguaglianza; il debito; obiettivi mondiali dello sviluppo

     

    In questa infografica, che riproduco come esempio, si mostra come i Miliardari, colpiti dalla crisi del 2008, “rimbalzino”, per aumentare nel periodo successivo sia per numero sia per ricchezza complessiva


    Guerra e pace

    Tutti abbiamo negli occhi immagini atroci di guerra. Proprio per questo, occorre rimarcare il fatto che “il periodo che viviamo è il più pacifico dai tempi della Prima guerra mondiale e, come alcuni sostengono, di tutti i tempi” (p.11). Se, poi, ci limitiamo agli ultimi trent’anni, si deve ricordare che si è passati dai 50 conflitti degli anni ’80, ai 37 del decennio successivo, fino ad arrivare ai 30 nei primi dieci anni di questo secolo (pp. 58-59). Certamente le spese militari restano altissime e la guerra rimane la prima causa di morte. Si deve sottolineare (si veda su HL il testo di Yves Michaud), il cambiamento radicale e terribile, imposto dalle nuove guerre, e il fatto che i civili ne sono le vittime principali. Va ancora evidenziato l’incremento dei conflitti religiosi e etnici.

    Sottotemi: i signori della guerra; la corsa agli armamenti; i nuovi fronti di guerra (cibernetica, media); rifugiati; le operazioni di peacekeeping, conflitti religiosi.

     

    Diritti e rispetto

    Nel brevissimo periodo fra il 2008 e il 2012 i paesi stabilmente democratici sono passati dal 43% al 48%. Un dato positivo che va subito immesso in un contesto nel quale le democrazie non sono mai un bene garantito per sempre; che spesso l’esercizio delle libertà viene confiscato da “falsi amici della democrazia” e che le fasi di transizione verso la democrazia (laddove si attivino) sono difficoltose e irte di pericoli.

    Sottotemi: diritti religiosi; conflitti religiosi; diritti umani; diritti dei bambini; diritti delle donne; diritti dei gay


    Salute degli uomini

    Se guardiamo la curva dell’Aids (pp. 13 e 98-99) si vede che le infezioni hanno cominciato a decrescere a partire dalla metà degli anni ’90, e le morti dal 2005. Nel ventennio che fa dal 1990 al 2010, la popolazione mondiale sottonutrita è passata dal 20% al 15%. Ci sono progressi evidenti anche nella cura del cancro. Per converso, si deve tenere conto del fatto che il successo nella lotta contro le malattie varia sensibilmente da regione a regione; così come le regioni più ricche sono esposte a patologie che un tempo non erano epidemiche, come l’obesità.

    Sottotemi: il fumo; obesità e fame; aids e cancro; handicap e società.

     

    Salute del pianeta  

    La scala dei temi, sulla base della quale valutare la salute del pianeta eccede i pochi decenni della contemporaneità immediata. Gli analisti ci danno alcune certezze. La prima è che la natura del problema “Terra”, richiede che la cura sia approntata dall’umanità nel suo complesso. L’aspetto positivo, paradossalmente, è proprio nella gravità della situazione, la cui soluzione impone solidarietà sempre più profonde fra gli umani. Si può fare molto, conclude, Smith: ma ogni giorno che passa aumenta la scala delle difficoltà da superare.

    Sottotemi: i segnali di allarme; l’acqua; i rifiuti; la biodiversità; l’energia, le variazioni climatiche.

     

    Sitografia

    Dall’atlante di Smith, estraggo alcuni siti, dai quali si può partire per un lavoro scolastico. Non elenco i più citati, come quello della Cia o della Banca Mondiale, perché possono essere consultati per la maggior parte delle voci che seguono.

     

    Acqua: www.fao.org
    Alfabetizzazione:  www.uis.unesco.org
    Aspettativa di vita: www.who.int
    Biodiversità: www.iucnreditlist.org
    Crisi alimentari: www.iiss.org
    Debito: www.imf.org
    Diritti dei bambini: www.childinfo.org
    Diritti delle donne: www.ipu.org
    Diritti religiosi: www.religiousfreedom.com
    Disastri naturali: www.ifrc.org
    Ecologia planetaria: www.ecologyandsociety.org
    Guerre: www.pcr.uu.se
    Ineguaglianza economica: www.forbes.com
    Minoranze, diritti: www.minorityrights.org
    Minoranze, lingue del mondo: www.Ethnologue.com
    Pace mondiale: www.visionofhuanity.org
    Religioni, distribuzione: www.cia.gov
    Rifiuti: www.unep.org
    Rifugiati: www.unhcr.org
    Sviluppo, obiettivi: www.un.org
    Urbanizzazione: www.unhabitat.org

  • Le migrazioni fra dibattito pubblico e didattica in classe

    Autore: Antonio Brusa

     

    Introduzione

    Abbiamo lavorato un anno intero, ad Alessandria, sul tema delle migrazioni. Un bel gruppo di scuole, organizzate dall’Isral (Istituto per la storia della resistenza di Alessandria), guidato da Luciana Ziruolo. Il materiale, composto da alcune riflessioni storico-pedagogiche, dallo studio di caso, provato in decine di classi, e dalle valutazioni sulla sua efficacia, è stato pubblicato in volumetto: Didattica. Storia. Intercultura. Una sperimentazione nella provincia di Alessandria (Falsopiano, Alessandria 2015). Qui ne riporto il mio contributo, con alcune modifiche, in modo che – insieme agli altri articoli su questo argomento pubblicati su HL – il docente abbia a sua disposizione un panorama ampio della questione, dagli aspetti teorici, come in questo caso, alle applicazioni pratiche come nei lavori didattici che troverete nel sito.


    Indice

    La migrazione diventa un tema centrale del dibattito pubblico
    Il dibattito pubblico elimina la complessità del fenomeno
    La sottovalutazione politica del fenomeno migratorio
    La sottovalutazione didattica
    La migrazione odierna e la “fine dei territori”
    Un dilemma che attraversa la scuola
    La mobilità non è un’eccezione della storia
    La migrazione odierna e l’educazione civile

     

    La migrazione diventa un tema centrale del dibattito pubblico

    Barconi gremiti di uomini scivolano davanti ai nostri occhi, quando parliamo di migrazione. Impossibile fermarli nel pensiero, come impossibile è arrestarne in mare la flotta. Sono l'icona di un fenomeno le cui proporzioni angosciano tutti. Noi, come il resto del mondo. Appena una quindicina di anni fa si sosteneva che il disorientamento degli italiani fosse dovuto al fatto che, da paese di emigranti quale fu e aveva ormai dimenticato di essere stato, era improvvisamente diventato una meta di immigranti. Era una società impreparata, si disse, a differenza delle popolazioni dell'Europa del nord che, al contrario, avevano avuto il tempo di approntare strutture sociali, economiche e mentali per fronteggiare il flusso degli stranieri, fra i quali centinaia di migliaia di nostri connazionali. Le reazioni odierne mostrano che la paura di essere sommersi da uno tzunami umano coinvolge senza distinzione paesi di vecchia e di nuova immigrazione.

    La dimensione del fenomeno è tale che ha spiazzato il repertorio argomentativo, elaborato nel  dibattito pubblico novecentesco, in Europa come in Italia. Me ne accorgo leggendo il manualetto di Pierre-Yves Bulteau, En finir avec les idées fausses propagées par l'extrême droite (Les éditions de l'Atelier, 2014), una raccolta di argomentazioni di sinistra, sollecitata dalla grande avanzata dell'estrema destra in Francia. Questo libro mostra come l'intero fronte dell’opposizione fra "reazionari" e "progressisti" si sia dislocato pienamente nel campo della migrazione. I temi tradizionali della polemica fra destra e sinistra (libertà/autorità, estensione dei diritti civili, femminismo o diritti dei lavoratori) occupano poche pagine. La quasi totalità del nuovo "prontuario per la discussione pubblica" è focalizzata sul tema della migrazione: l'accoglienza, l'incidenza degli stranieri sul lavoro, sull'identità nazionale, le difficoltà di convivenza civile, ecc.


    Il dibattito pubblico elimina la complessità del fenomeno

    La destra coglie un'angoscia diffusa delle popolazioni europee. La sinistra risponde con una batteria analitica di argomenti: smonta qualche preoccupazione come quella della concorrenza sul posto di lavoro, ne attenua altre, come nel caso dell'ordine pubblico, alcune le rovescia (come per esempio quella sul razzismo degli stranieri nei confronti dei locali), di altre ne sposta le cause (non è colpa dell'emigrazione, ma delle politiche internazionali neoliberali). Fa largo uso di cifre e largo appello ai valori della solidarietà, in un contrasto speculare con i valori dell'identità, sostenuti dalla destra. Al dunque, le due tesi si attestano su azioni politiche elementari: respingere o accogliere. Una contrapposizione che riflette le antinomie primordiali fra bontà e cattiveria; fra egoismo e altruismo. Così rozze nella loro elementarità, da metterci in guardia: lungo questo fronte non si costruisce nessuna politica e, per quanto riguarda i compiti della scuola, nessuna didattica.

    Quando si parla di migrazione, dunque, sembra instaurarsi una sorta di parallelismo fra le scissioni dell'opinione pubblica e le pratiche dell'insegnamento. Ciò avviene sia perché il fenomeno migratorio è uno dei temi caldi, una delle "questioni sensibili", al centro delle attenzioni degli studiosi di didattica della storia ormai da tempo; sia perché le strutture dell'argomentazione transitano con grande facilità dal campo del quotidiano a quello dello studio. Ne deriva la sensazione spiacevole di non riuscire a scorgere una differenza apprezzabile fra un lavoro sull'emigrazione, svolto in classe, e una discussione in famiglia o al bar, in un talk show o nella contesa politica. L'alternativa secca e inevitabilmente tendente al moraleggiante, fra accoglienza e respingimento, ne è, a mio parere, una delle prove più evidenti. Ma forse proprio questo problema, uno dei più insidiosi nei processi di formazione, ci permette di intuire una strada didattica capace di aggredire in profondità il fenomeno, perché attraverso la messa a fuoco delle le analogie e delle differenze fra discorso pubblico e scientifico si riescono a intravvedere strategie di formazione più aggressive ed efficaci.


    Stereotipi diffusi sulla migrazione

    Una riprova della osmosi fra discorso pubblico e pratica didattica può essere verificata dal docente con un semplice lavoro di ricognizione delle preconoscenze (quello che nella vulgata didattica si chiama ormai brainstorming). Si vedrà, quasi certamente, l’emergere di qualcuno di questi stereotipi diffusi, che qui riporto nella versione di Cesare Grazioli. Su Novecento.org e su Historia Ludens


    1.    “Le migrazioni sono un fenomeno anomalo, la regola dovrebbe essere che ognuno stia a casa propria!”

    2.    “Siccome gli immigrati arrivano a causa della povertà e del sottosviluppo dei loro paesi, il rimedio è di favorire lo sviluppo interno dei paesi del Sud, cioè aiutarli a non avere bisogno di emigrazione”

    3.    “Qui in Italia si fanno pochi figli, mentre gli immigrati vengono da paesi dove ne fanno tanti, come l’Africa, perciò ci sommergeranno, l’Italia perderà la sua identità e in poche generazioni saremo tutti neri!”

    4.    “Con tutta la disoccupazione, soprattutto giovanile, che c’è in Italia (e nei paesi europei mediterranei),non è possibile accettare l’immigrazione, che toglie il lavoro a noi italiani”

    5.    “Qui in Italia (o in Europa) siamo già in troppi: non solo non c’è spazio per accogliere altra immigrazione, ma anzi, sarebbe meglio che la popolazione calasse; ne guadagnerebbe anche la qualità dell’ambiente.”


    La sottovalutazione politica del fenomeno migratorio

    La sottovalutazione mi sembra una caratteristica che accomuna discorso didattico e pubblico. E' una consapevolezza, questa, che comincia a farsi largo anche nei media: se ne fa interprete, ad esempio, Ernesto Galli della Loggia in un suo editoriale nel "Corriere della Sera". Nel pubblico, la sottovalutazione si mostra laddove si lascia intendere che esista un numero ristretto di soluzioni immediatamente efficaci (leviamo di mezzo i barconi; costruiamo più campi di accoglienza all'estero;  e, per contro, mettiamo a punto un'accoglienza più umana...). Questa sottovalutazione è consolatoria, perché autorizza la speranza che si tratti di un fenomeno episodico o tutt'al più contingente. Quindi risolvibile – per la destra come per la sinistra - con provvedimenti puntuali e limitati nel tempo, il che vuol dire con risorse contenute, rispetto a quelle che vanno, invece, destinate ai problemi di fondo delle nostre società.  


    La sottovalutazione didattica

    A questa sottovalutazione pubblica corrisponde, nel discorso scolastico, l'abitudine a ridurre il tema della migrazione ad un'apposita unità didattica; oppure a risolverlo nella questione dell'accoglienza dell'eventuale immigrato; oppure, ancora, ad confinarlo nel curricolo parallelo dei progetti a latere del curricolo formale, in una delle tante “educazioni” che stanno progressivamente spogliando le discipline tradizionali della loro capacità di mettere in discussione gli aspetti più inquietanti della realtà.

    La sottovalutazione trae origine, anche, da un errore intellettuale: quello di considerare il fatto migratorio come un accidente spiacevole dei nostri tempi. Una valutazione corretta, invece, dovrebbe muovere dalla constatazione che si tratta di un fatto strutturale. Al fondo del fenomeno migratorio, infatti, ci sono rivoluzioni straordinarie, che riguardano le coordinate storiche fondamentali: lo spazio e il tempo. Dal punto di vista dello spazio, vediamo che i “territori” si connettono in un continuum mondiale, e che sempre più gli individui fanno coincidere l'orizzonte di risoluzione dei propri problemi con quello planetario. A questa rivoluzione spaziale corrisponde un'altrettanto violenta rivoluzione temporale, che genera un tempo diverso, talmente ben delineato, da imporsi come una delle chiavi di volta della costruzione didattica del passato e della definizione del presente.

    In estrema sintesi, potremmo descrivere questa rivoluzione con queste parole:

    "Nel corso dell'età moderna gli europei appresero a risolvere i loro problemi all'interno di territori ben definiti: gli Stati. Fra Ottocento e Novecento questi territori hanno cominciato ad rivelarsi insufficienti. Milioni di europei hanno deciso di affrontare la questione della propria sopravvivenza negli spazi mondiali. Non fu una necessità unicamente europea. Contemporaneamente, infatti, si attivavano altri due focolai migratori: l’India e la Cina. Negli ultimi decenni del Novecento, questi tre focolai tradizionali di migrazione si sono sfrangiati e moltiplicati, diffusi nel mondo. Oggi, al principio del secolo XXI, la "mobilità nel pianeta" si propone come un'opzione per sette miliardi di persone".


    La migrazione odierna e la “fine dei territori”

    Per quanto essenziale, questo racconto mette in risalto alcuni problemi storico-didattici di grande rilevanza, non solo per la formazione storica ma anche per quella alla cittadinanza. Il prima, "il mondo che abbiamo perduto", per riprendere il titolo di un vecchio libro di Peter Laslett (Jaka book, 1973), fu caratterizzato da quel processo che molti storici chiamano "la formazione dei territori".

    E' un processo che prende le mosse dal cuore del Medioevo, intorno al X-XI secolo, quando i multiformi centri di potere riuscirono ad affermare il loro controllo su terre, che fino ad allora erano state semplicemente in loro possesso.  Si definì nell'età moderna, a partire dal XVI secolo, con la creazione dei territori europei (gli Stati moderni) e delle loro componenti: strutturali (istituzioni, governo, leggi) e umane, il cittadino con il suo corredo di diritti e doveri. All’interno degli Stati si elaborarono i dispositivi ideologici per la comprensione del mondo ma anche per la produzione scientifica e per la formazione dei cittadini. E, per quello che riguarda da vicino gli insegnanti, è dentro questo processo che nasce la storia, nel suo doppio ruolo di disciplina scientifica e formativa.

    E' dunque, ai "territori" che noi leghiamo l'insieme dei problemi connessi con il tema dell'emigrazione e che, potremmo dire, sono il succo di ogni educazione civile: chi ha diritto a vivere in un determinato territorio? Quali sono le norme per trasferisi da un territorio all'altro? Quali sono i costrutti culturali, necessari per vivere in un determinato territorio e quali le norme e le abitudini che ne regolano la convivenza degli abitanti?

    Per converso, il dopo potremmo definirlo, sulla falsariga di Bertrand Badie, "La fine dei territori" (Asterios, 1996). E' il momento storico, lungamente preparato nel Novecento, nel quale il potere degli Stati sugli elementi costitutivi del proprio territorio viene meno o comincia a indebolirsi, dal dominio sull'ambiente, al controllo dei flussi di ricchezza e di uomini, alla costruzione della "famiglia nazionale" dei sudditi prima e dei cittadini poi. E' questo insieme di dispositivi che entra in crisi, nel corso del Novecento, lasciando a noi l'immane compito di rivederli e aggiornarli. Un compito che dobbiamo affrontare comunque (migrazione o no) e il cui costo è enorme, sia se lo osserviamo dal punto di vista dei conservatori sia da quello dei progressisti.
     
    Perciò, il cambiamento investe prepotente anche il campo della formazione, soprattutto quello della formazione storica. Pone domande stringenti alle sue strutture di base (scopi, contenuti e metodi), per come furono elaborate nel corso della formazione degli stati ottocenteschi, sulla loro reale efficacia nella situazione odierna. Questa considerazione, apparentemente teorica e lontana da quelle che il docente considera le urgenze del quotidiano, è talmente pressante che si manifesta ogni volta che si tenta di sperimentare qualche innovazione, come, in questo caso, “il tema della migrazione”. Ogni volta, infatti, dietro la denuncia del tempo che manca e che è sempre troppo poco, si intuisce una sorta di rigetto, messo in atto dal dispositivo didattico vigente.


    Un dilemma che attraversa la scuola

    Non si tratta di peculiarità italiane, né di casi locali. Pressocché in tutte le nazioni è ormai di prassi il dibattito fra i sostenitori della conservazione e i ricercatori di nuovi assetti didattici. In Italia, poi, l'alternanza dei governi di centro-destra e di centro sinistra ha mostrato magnificamente la diversità e la distanza fra le due opzioni. La destra (Moratti-Gelmini), infatti, ha prodotto un programma dalla chiara matrice nazionale (2003) finalizzato alla costruzione diffusa di un' "identità giudaico-cristiana", evidentemente da far assimilare a tutti, nativi italiani e stranieri. La sinistra ha elaborato un' ipotesi di programma di storia mondiale (De Mauro 2001) e programmi di storia multiscalari per la scuola di base (Fioroni-Profumo 2007 e 2011), con una parte di storia mondiale obbligatoria per tutti, e quadri di storia a scale più ridotte, da scegliersi a seconda delle programmazioni locali, con l'invito a un largo uso di strutture di insegnamento diverse dalla lezione (dai laboratori, agli studi di caso, alle indagini sul territorio ecc).  La constatazione che un'oscillazione così marcata sia pressocché ignota agli insegnanti è la palese dimostrazione del fatto che la messa in opera dei due programmi è talmente costosa, che non è stata presa in seria considerazione dall'Amministrazione, che si è limitata, nel corso dell’ultimo quindicennio, a progetti di aggiornamento limitati e tutto sommato ininfluenti.


    La mobilità non è un’eccezione della storia

    Nella visione storica dei programmi tradizionali  - ancora largamente, per quanto inconsapevolmente, condivisa dai docenti – la vicenda italo-europea è "la storia normale". Tutto ciò che si propone di diverso, come in questo caso la migrazione, costituisce una sorta di "interruzione di percorso".

    Ora, proprio il caso della mobilità umana dimostra la fallacia di questa convinzione. Ciò  che noi pensiamo come "modello normale" (l'Europa degli Stati e dei cittadini), in realtà, è un eccezione, una sorta di luogo esotico, nell’ “enciclopedia delle storie”. La traiettoria della cronologia ci mostra che questa "normalità" ebbe un prima, costituito dall'Europa medievale, un'area di intensa mobilità, i cui centri di sedentarietà (città e villaggi) furono caratterizzati da una forte inclusività, certamente fino al XIII secolo. Anzi: secondo i teorici del Global Middle Age, fino a tutto il XVI secolo . Ed ebbe un dopo, nel quale l'Europa degli Stati cedette il passo a un doppio territorio, uno – l'Unione Europea - caratterizzato da una quasi totale mobilità interna, che costituisce una frazione notevole dell'attuale movimento migratorio; l'altro frammentato in una pluralità di stati contrassegnati da una forte mobilità in uscita.

    L'identica sensazione di estrema particolarità della "normalità europea" la otteniamo, ancora, se inseriamo il nostro subcontinente in un quadro mondiale. Non solo perché, come abbiamo accennato sopra, per tutta l'Età moderna furono tre i centri di espansione demografica planetaria (e l’Europa fra questi); ma perché l'intera vicenda della specie umana mostra come il suo evolversi sia caratterizzato dal gioco continuo fra mobilità e sedentarietà; fra i processi di deriva genetica e culturale, connessi con la separazione dei gruppi umani, e quelli inversi del meticciato, connessi con le diverse modalità dell’interazione umana (su questo si veda Manning, Migration in World History, Routledge 2013). La ricerca storica, dunque, ribalta il senso comune: la   "normalità" è un mondo nel quale la migrazione è contemplata fra le possibilità dell'esistenza. L'Europa degli Stati, con il disciplinamento rigoroso degli spostamenti, è una autentica interruzione di questa "normalità".

    Trasferiti nella concretezza del curricolo, questi ragionamenti ci inducono a pensare che la migrazione non può essere trattata come un incidente saltuario (se ne parla a proposito di indoeuropei, barbari medievali, migranti italiani e extracomunitari). Essa è un elemento strutturale della vicenda umana sul pianeta terra. Quando giunge una crisi (alimentare, demografica, politica o ambientale), l'alternativa di fondo si ripresenta inderogabile: morire o spostarsi. Questa alternativa si articola sia all'interno delle aree definite dalla politica o dalla cultura (per esempio all'interno dell'Impero romano, o nel mondo ellenico), sia fra regioni vicendevolmente esotiche (per esempio, fra Europa e America). Ad ogni spostamento, ai gruppi umani si pone la questione della convivenza fra diversi che, a sua volta, ci consegna una gamma pressocché infinita di soluzioni, pacifiche o conflittuali: dalle città doppie dell'antichità mediorientale, a quelle aperte del medioevo europeo, a imperi tolleranti e no, alle città munite di ghetti, inaugurate nella nostra modernità, alla strage dei nativi, come nel caso della Conquista dell’America, al melting pot delle città americane del Novecento.


    La migrazione odierna e l’educazione civile

    Tuttavia, proprio il confronto dei fatti che viviamo con la strutturalità del fenomeno migratorio, mette in evidenza le caratteristiche peculiari dei nostri giorni. Queste emergono in un forte intreccio con gli altri elementi costitutivi della storia mondiale novecentesca, quali: la sbalorditiva crescita demografica, che in un secolo ha portato gli umani da una parte a moltiplicarsi per sette, dall'altra a occcupare la terra in modo totalmente squilibrato (su questo rinvio al lavoro che Cesare Grazioli ha ricavato dalle ricerche fondamentali di Livi Bacci, citato sopra); l'inedito rapporto con l'ambiente che questa massa umana instaura col mondo globalizzato; l’abbattimento dei costi del trasporto;  la distribuzione tragicamente ineguale delle ricchezze e il retaggio del colonialismo europeo; fino a portati della storia più recente, fra i quali la proliferazione delle "nuove guerre" e la debolezza politica delle Organizzazioni internazionali.

    Comprendere il fenomeno migratorio, dunque, consisterà nella capacità di ricostruire questo intreccio di fattori, di breve e lungo periodo. Di capire che l’attuale processo migratorio fa parte del faticoso tornante storico, attraverso il quale stiamo entrando nel mondo del XXI secolo.

    Questa consapevolezza non porterà i docenti, né tantomeno gli allievi, a elaborare soluzioni miracolose. Potrebbe metterli entrambi, invece, in grado di valutare la credibilità di quelle circolanti, di destra o di sinistra. Di capire se costituiscono degli impegni di prospettiva lunga, delle soluzioni limitate, oppure delle operazioni di propaganda. La percezione viva della novità del nostro mondo, e in questo del tema della migrazione, sarà il miglior antidoto contro i luoghi comuni del dibattito pubblico.

    A loro volta, gli insegnanti dovrebbero cominciare a formulare strategie articolate nella cosiddetta educazione interculturale. Lo sconvolgimento provocato da questi fenomeni è tale da aver favorito la rapidissima comparsa di una enciclopedia di stereotipi, con la quale la società tenta di comprendere un fenomeno che le appare nuovo e distruttivo. E’ dunque illusorio pensare di modificare questi costrutti con “l’unità didattica interculturale”. Si tratta di un lavoro difficile e lungo, perché, da una parte, come abbiamo visto, implica una buona revisione del modo con il quale guardiamo il passato in genere; dall’altra mette in crisi degli strumenti di vita quotidiana, quali in definitiva sono gli stereotipi sulla migrazione, ai quali gli allievi sono tenacemente attaccati.

    Il sentirsi, infine, dentro un processo comune - gli allievi come gli insegnanti, gli stranieri come gli italiani - potrebbe far capire a tutti che in gioco non è soltanto la convivenza ordinata nel presente (un bene che dovrebbe essere condiviso), quanto piuttosto la progettazione di un futuro che già richiede la compartecipazione di tutti.

    In questa somma di consapevolezze, probabilmente, consiste l'apporto all'educazione civile che la conoscenza storica può offrire.

  • Manifesto per la rinascita delle discipline umanistiche

     

    Nessuno di noi è entusiasta dello stato delle discipline umanistiche. Partecipano, come tutte le altre, del vasto programma di riduzione della spesa nazionale per la scuola, ma subiscono in colpi particolari, a partire dal governo Moratti. Forse significativamente dal principio del secolo.

    Le reazioni a questo stato sono episodiche, frammentate. Covano in silenzio, ci sembra. Sono di vario genere: chi vorrebbe tornare ai tempi passati (i teorici dell' “orologio fermo che almeno segna l'ora esatta due volte al giorno”); i millenaristi del digitale; quelli che semplicemente vorrebbero fare il lavoro in santa pace, e quelli, infine, che dicono che la cultura umanistica è demodèe, la vera cultura è quella scientifica.

    A Senigallia, al seminario nazionale che i "volontari" della scuola buona fanno ormai da 8 anni, si è pensato di lanciare questo manifesto per punti. E' stato già pubblicato in Francia, nel sito di Mediapart. Lo pubblichiamo anche noi di HL.

     

    Nell’ottavo anno di lavoro, gli insegnanti, i ricercatori e gli operatori delle Ong, impegnati nel progetto di rinnovamento delle discipline di studio umanistiche nel loro rapporto con le grandi trasformazioni del mondo attuale, ritengono utile proporre ai colleghi delle scuole, ai responsabili dell’Amministrazione scolastica e al grande pubblico, sette punti, che ritengono essenziali, in vista della riapertura di un necessario dibattito sulla riforma scolastica.

    1.    Le materie umanistiche devono recuperare la loro capacità interpretativa del mondo, attraverso un profondo rinnovamento, epistemologico, dei contenuti di studio e delle metodologie di insegnamento.

    2.    Questa capacità interpretativa è diminuita progressivamente negli ultimi anni anche per l’effetto combinato di due fenomeni, solo in apparenza eterogenei: da una parte, la rigidità delle materie umanistiche, incapaci di staccarsi da assetti disciplinari costituitisi del XIX secolo; dall’altra la diffusione di pratiche e di “nuove discipline”, conosciute solitamente come “educazioni”, che sottraggono di fatto alle discipline tradizionali gli argomenti strategici della formazione del cittadino.

    3.    Questa perdita di capacità interpretativa del mondo sta portando lentamente, ma inesorabilmente, alla marginalizzazione delle materie umanistiche, sia in termini di orario e di personale, sia in termini di considerazione da parte degli allievi, sia in termini  di investimenti sociali.

    4.    Il gruppo di lavoro riconosce che, nel recente passato, l’Amministrazione ha compiuto alcuni passi in una direzione positiva, i cui risultati non dovrebbero essere dimenticati nelle attuali discussioni sul rinnovamento scolastico.

    5.    In particolare, segnala come, a partire dalle Nuove Indicazioni per la scuola di base, siano state recepite – specialmente in storia e geografia – alcune istanze apprezzabili, quali uno sguardo mondiale e pluriscalare scientificamente aggiornato, un’attenzione ai processi fondamentali della storia umana, un’interazione stretta fra le due discipline e fra queste e la formazione del cittadino, un approccio moderno alle procedure di insegnamento.

    6.    Segnala, al tempo stesso, come questi atti amministrativi non abbiano prodotto gli effetti sperati, sia a causa della quasi inesistente formazione professionale sul territorio, il cui profilo continua a rimanere poco definito, per le incertezze e le contraddizioni riguardanti la formazione iniziale e in servizio; sia a causa della indifferenza ostentata dalle case editrici, attente solo alla ripartizione annuale delle materie e alla messa in rete di siti sempre più faraonici, quanto incapaci nel loro complesso di progettare materiali adeguati alle richieste dell’Amministrazione.

    7.    Si rileva, infine, come questa apertura al mondo delle Indicazioni della scuola primaria e secondaria di primo grado è contraddetta dalle Indicazioni per le superiori, che ripete in molti tratti contenuti e metodi dei programmi in vigore negli anni ’60.

    Questi, per il gruppo di lavoro, sono elementi fondanti per la rinascita delle discipline umanistiche:  nuovi contenuti e nuovi approcci di studio, metodi di insegnamento adeguati, un curricolo organico dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado, una formazione professionale efficace, una produzione appropriata di materiali di studio. Attualmente, questo compito immane è preso in carico da insegnanti, ricercatori e associazioni di buona volontà. E’ tuttavia evidente che  potrà essere affrontato solo se viene assunto, come obiettivo centrale, delle istituzioni preposte alla formazione nazionale – Università e Scuola – e che questo risultato possa essere raggiunto solo con un serio impegno del governo.

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