mitologia

  • Chi è veramente Perseo? Qualche riflessione sull’uso pubblico della storia antica.

     
    Improvvisamentetutti si sono ricordati di Leonida, di Teseo e di Cassandra in uno “scialo ginnasiale di ricorsi al repertorio greco”, nel quale, sostiene Adriano Sofri, nessuno si è tirato indietro. Non lo ha fatto nemmeno il suo direttore, Ezio Mauro, che, proprio il giorno dopo questa folgorante battuta, si è abbandonato al paragone con Telemaco, i Proci e Ulisse, che per qualche misteriosa ragione dovrebbe farci capire qualcosa di più del conflitto fra Tzipras e la Troika (i due articoli sono apparsi rispettivamente il 6 e il 7 luglio, su “Repubblica”: le citazioni alle pp. 13 e 25).

    Sofri suggerisce che si tratti dell’effetto di un linguaggio intriso di cultura greca, ormai assimilato sia dagli avversari di Tzipras, freddi sostenitori della tecnica economica e finanziaria (la “techné”), sia dai suoi seguaci, i difensori battaglieri della “politica”, eredità, questa, di Aristotele. Un linguaggio, continua Sofri, che tuttavia soffre della lacerazione, causata dall’assenza di quelle parole “liberté, egalité, fraternité”, di discendenza “nordica” (lascio a lui questa qualificazione). Conclude dicendo che quest’orgia di riferimenti trova la spiegazione nella divisione politico-culturale-geografica europea: è il Nord (indubbiamente“troika” rimanda a climi boreali) contro il Sud. Ovvero, l’Europa contro il Mediterraneo.

    Lo stesso giorno, Guido Vitiello invita a restare coi piedi a terra, allo “scialo ginnasiale”, perché ciò a cui assistiamo non è che il prodotto di “un liceo classico fatto a cazzo di cane”, responsabile di quell’apprendimento posticcio della cultura antica, incapace di ostacolare in modo razionale il “guazzabuglio di stereotipi turistici, marketing del territorio, millanterie e tradizioni inventate”, che infesta il dibattito politico. I Greci, prosegue l’articolista, si sarebbero comportati diversamente. Per sapere come, rinvia il lettore al saggio di Paul Veyne: Les Grecs ont-ils cru à leurs mythes? (Seuil, Paris 1983).

    In effetti (ora leggo Veyne) i Greci un po’ ci credevano, un po’ non ci credevano. Presso di loro avevano eguale diritto di circolazione sia i discorsi critici - secondo i quali i miti contenevano solo falsità o, al massimo, poche notizie “vere” -  sia quelle eziologie, che dotavano di “personalità” una città, legandone l’origine al passaggio di un eroe o all’intervento creatore di un dio. Lo sapevano tanto bene, che si prendevano bellamente in giro a vicenda. “Voi ateniesi, dicevano, siete un popolo di gonzi. Quando gli ambasciatori delle città soggette vi vogliono ingannare, iniziano col lodare  “Atene la splendida”, e voi, ascoltando queste parole, vi impettite orgogliosi”. (Per amore di verità, Veyne traduce: vous vous asseyiez sur la pointe de vos fesses, “vi sedete sulla punta del culo”, p. 92). Questa disposizione alla falsità, fece sì che il mito diventò una risorsa inesauribile del discorso politico. Una “langue de bois”, un linguaggio contorto e oscuro, fatto apposta per non dire nulla (p.89). Il che ci permetterebbe un’analogia fra passato e presente, che oltrepassa la metafora del “centauro Varoufakis” e il paragone fra Tzipras e Perseo,  e più seriamente ci invita, come dovrebbe fare sempre la storia, a qualche precauzione critica in più.

    Paul Veyne spiega che i Greci cambiarono atteggiamento nei confronti dei loro miti, nel corso del tempo, passando dalle nebulose genealogie originarie, fino ai “manuali” scolastici compilati in età ellenistica e da questa consegnati alle generazioni successive, fino a quella pletora di “esegeti”, autentici falsari che rimestavano incessantemente gli antichi racconti, a favore di questo o di quello. E, poiché quasi duemila anni si frappongono fra noi e quei mitie non abbiamo nessuna ragione per ritenere che questo processo di rielaborazione si sia arrestato, ci dobbiamo chiedere – noi che veniamo dopo il Medioevo e l’Età moderna – se quell’universo nel quale la Grecia libera si batte contro il despota imperiale appartenga all’età classica, o a qualcuno dei tempi successivi.

    Una buona risposta ce la dà un grande tedesco, Wilhelm von Humboldt, che sotto i colpi del vincente impero napoleonico scrisse la Storia del declino e della caduta degli Stati liberi della Grecia (1807), diventando uno dei promotori di quella revisione nazionalistica del mito greco, portata a compimento dagli intellettuali e dai politici del suo paese.  Partendo da lui, Sandrine Kott e Stéphane Michonneau (Dictionnaire des nations et des nationalismes dans l’Europe contemporaine, Hatier, Paris 2006, pp. 197 e ss.) ci esortano a volgere la nostra attenzione alla storia scolastica. Fu a cominciare da Humboldt, scrivono, che venne messo a punto quel canovaccio narrativo, sul quale le diverse nazioni europee hanno imbastito la loro storia insegnata, quella che nella sua trama essenziale ritroviamo ancora oggi, nei nostri manuali. Quella, appunto, dove la Grecia funge da riferimento privilegiato per i moderni campioni della libertà.

    Se le cose stanno in questo modo, potremmo ricavarne tre insegnamenti. Il primo è sul paradosso di un’immagine di libertà che fu elaborata per esaltare la Germania e che ora viene utilizzata in chiave antitedesca. Il secondo insegnamento è che questa immagine introduce due narrazioni, una palese e l’altra sottostante. Nella prima il Perseo greco lotta contro la Medusa tedesca, con la speranza di tagliarle la testa; nella seconda gli stati nazionali si ripresentano, a duecento anni dall’invenzione del mito e a settant’anni dal carnaio della seconda Guerra mondiale, come i difensori della libertà contro l’oppressore, impersonato questa volta dall’Unione Europea.

    Il terzo insegnamento ci riporta a quella cultura classica liceale, chiamata in causa da Vitiello (e in un certo modo anche da Sofri). Ci autorizza a pensare che il deficit non stia tanto nel “non funzionamento” della macchina trasmissiva scolastica. Al contrario, proprio il fatto che il linguaggio pubblico strabordi di riferimenti alla storia e alla mitologia greche dimostra una certa sua efficacia. E’ indubbio che un tessuto di riferimenti storico-classici sia comune a una parte consistente di quelli che oggi leggono, votano e discutono di politica in Europa. Il malfunzionamento risiede, invece, in un approccio a questo patrimonio culturale estremamente elementare, privo di quella “sintassi temporale” (l’espressione è di Luciano Canfora) che metterebbe in grado i cittadini colti di articolare meglio il proprio rapporto col passato. E' la povertà di questo approccio che, da un lato, abbassa le loro difese critiche, e, dall’altro, alimenta questo spettacolare scialo pubblico della storia antica.

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