Negazionismo

  • Conoscere, Pensare, Insegnare la Shoah

    Autori: Damiano Costantino, Ugo Di Rienzo, Claudio Monopoli

    Del tutto ignara di quelle che nella scuola si chiamano correntemente “le buone pratiche”, e incapace perciò di valorizzarle, l’Università italiana, e in particolare l’Università di Bari, lascia svanire nel disinteresse il Corso di Storia e Didattica della Shoah, organizzato da Francesca Romana Recchia Luciani, il 18 e 19 ottobre, in concomitanza con le analoghe manifestazioni di altre 13 università. C’erano oltre duecento partecipanti, fra insegnanti, studenti e cittadini interessati. Queste note – scritte da tre studenti, giovani collaboratori dell’Associazione del Centro Studi Normanno Svevo - servono a lasciare una traccia del loro impegno. Historia Ludens, nei prossimi giorni, ne metterà a disposizione dei lettori materiali e riflessioni. (HL)

     

     

     Confronto con il nostro passato e passaggio dal ricordo alla memoria e alla storia: questi sono stati i due temi fondamentali della seconda edizione del Corso sulla Shoah, intitolato Conoscere, Pensare, Insegnare la Shoah, e dedicato specificatamente alle scuole.
    E’ difficile credere, per un non addetto ai lavori, quanto possa essere problematico ricostruire il genocidio ebraico, nonostante le fonti a disposizione, e nonostante se ne parli tanto e se ne vedano continuamente immagini e trasmissioni. Questo accade per vari motivi. Per un problema di fonti, innanzitutto: all’indomani della guerra, i superstiti del popolo ebraico preferivano non ricordare gli orrori dei campi di sterminio e la gente, in genere,  non amava soffermarsi sulle vicende terribili che aveva vissuto. D’altra parte, i nazisti avevano cercato in ogni modo di cancellare le tracce del loro genocidio. Le fonti, paradossalmente, sono venute alla luce col tempo e, anche, sotto la spinta di alcuni fenomeni culturali più generali, come la pubblicazione dei diari di Anna Frank e il processo ad Eichmann e, naturalmente, durante quel processo complicato e tormentato che ha visto la nascita dello Stato di Israele.  Ciò che noi sappiamo della Shoah, dunque, viene quasi inevitabilmente filtrato dallo straordinario uso sociale e pubblico che si fa di quell’evento. Anche a questa particolare situazione sono legati i tre atteggiamenti cognitivi erronei, sui quali la scuola è chiamata a intervenire: la banalizzazione, la sacralizzazione e la negazione.

    Per contrastare questi tre atteggiamenti è necessaria una solida formazione storica, che non punti solo a conoscere ciò che è sicuramente avvenuto e non può essere messo in discussione, ma a indagarne e ricostruirne la complessità e, soprattutto, a saper ragionare sui fatti, sulle fonti e sulle interpretazioni, distinguendo quelle storiograficamente accettabili da quelle di esclusivo uso pubblico. L’assetto scolastico italiano  non sembra favorire questo processo formativo. Infatti, da una parte, le ore di storia diminuiscono al punto che, spesso, non si riesce a insegnare adeguatamente la storia più recente; dall’altra, questo evento è consegnato alla Giornata della Memoria, da celebrarsi una volta all'anno, ogni 27 gennaio.

    Legata alla complessità del tema, la questione didattica risulta estremamente delicata. Maria Angela Binetti, docente presso il "Giulio Cesare" di Bari, ha condiviso la sua esperienza con il suo intervento centrato sull’uso delle testimonianze filmate. Applicando i metodi elaborati dallo Yad Vashem (vi converrà leggere il suo contributo già pubblicato su HL), la docente ha illustrato strategie didattiche che risultano efficaci in un insegnamento rivolto alle nuove generazioni, sfruttando anche l’approccio empatico che una testimonianza filmata può creare attraverso l’esperienza narrata in prima persona da protagonisti (vittime) della Shoah.

    Fra gli atteggiamenti in grado di ostacolare una corretta analisi storica, diametralmente opposta al negazionismo è la sacralizzazione della vittima. L’orribile tragedia di cui i perseguitati sono stati protagonisti è innegabile, ma l’eccessiva drammatizzazione ha portato spesso a non considerare la loro natura umana, e a collocarli sul un piano astratto della “vittima ingenua e pura”. Il proposito di una ricostruzione storica della Shoah richiede innanzitutto l’abbandono di tali atteggiamenti e pregiudizi. Tale approccio metodologico emerge non soltanto nei saggi storiografici, ma anche in lavori di ricostruzione e rievocazione appartenenti ad un particolare genere letterario: il graphic novel. Ne ha parlato Elena Musci, che ha illustrato non solo come dietro la creazione di un graphic novel di argomento storico si celi un autentico approccio scientifico, ma anche come queste narrazioni forniscano chiavi di lettura e prospettive di analisi, metodologicamente valide e contenutisticamente interessanti. Il capolavoro di Art Spiegelman, Maus, è un modello di trattazione della storia non sacralizzante, ma, al contrario, umanizzante. Ad esempio, il padre di Art (il protagonista della storia) non è estraneo a comportamenti decisamente razzisti. L’esempio del graphic novel di Davide Toffolo L’inverno d’Italia, invece, ha dimostrato come il tratto dei disegni, unito a dialoghi e situazioni vissute dai personaggi, possa creare sia un effetto di empatia, sia un decentramento cognitivo, favorito dal fatto che i protagonisti, dei bambini slavi, sono vittime di carnefici italiani.

    L’ultima parte del corso, sul tema “I Luoghi della Memoria”, ha avuto come protagonisti il Campo di Torre Tresca e il palazzo De Risi, in via Garruba n 63. Nato come campo di prigionia nel 1941, Torre Tresca è stato attivo per due anni prima della cacciata dei tedeschi, fino all’8 settembre 1943. Successivamente, finita la guerra, la comunità ebraica, insieme con migliaia di altri profughi, lo utilizzò come campo di transito. Nel giro di vent’anni il campo è stato gradualmente abbandonato, e già negli anni ‘60 ha smesso di funzionare. A ricordo del Campo di Torre Tresca oggi restano ormai soltanto un pezzo di muro, probabilmente parte originaria di una delle case del campo, e una chiesa, attualmente sotto sequestro, unici testimoni di quei giorni. La presentazione di questi luoghi e la loro visita è stata curata da Sergio Chiaffarata, esperto di strutture ipogee e di interesse storico nel territorio. Il sito, abbandonato alla totale incuria, giace in una situazione di estrema sporcizia e degrado, che mette a rischio sia gli stessi resti del Campo di Torre Tresca sia altri siti ipogei nei dintorni.
    Più emblematica – in tema di memoria -  è la vicenda del Palazzo De Risi in via Garruba, n.63. Negli ultimi anni della guerra, il Palazzo divenne sede della comunità ebraica, diventandone centro di vita sociale politica e religiosa. Nonostante la sua  importanza, non c’è neppure una targa commemorativa in ricordo della sua storia e della famiglia Levi, che ebbe un ruolo importante nella vita della comunità ebraica di Bari attraverso la cura sia del Palazzo di via Garruba, sia del cimitero ebraico di Bari. La memoria non conservata è inesorabilmente distrutta, e i cittadini continuano a passare nei pressi del Palazzo De Risi ignorandone la storia. (Ma su entrambi questi luoghi di memoria rimandiamo alla descrizione dettagliata che ne fa lo stesso Sergio su HL) .

  • Il Negazionismo di Stato

    Bari 17 ottobre

     

    Autore: Marcello Flores


    Ecco perché è sbagliato fare una legge sui negazionismi


    L’approvazione sembra unanime, al di là di qualsiasi larga intesa. Tutti applaudono alla modifica dell’articolo di una legge del 1975, che commina fino a tre anni di carcere per chi fa apologia di crimini quali il genocidio e così via. In questo clima stranamente euforico, vedo con preoccupazione che non ci sia nessuno che inviti alla prudenza.

    Da storici e insegnanti di storia, penso dovremmo esprimere il desiderio che si possa mettere un bel due allo studente che dice castronerie, tipo negare la Shoàh, senza il timore che, all’uscita dalla scuola, due carabinieri lo portino in galera. Nessuna tregua nella lotta al razzismo e alle bestialità negazioniste. Ma un po’ d’attenzione quando si propongono le leggi la dobbiamo pretendere, nonostante i tempi di crisi e la spettacolarizzazione dei funerali di Priebke.

    Per questo, HL ripropone un articolo che Marcello Flores, presidente del Comitato scientifico dell’Insmli (la rete degli Istituti della Resistenza), ha pubblicato sul “Corriere della sera” il 26 febbraio del 2012,  in occasione della presentazione della proposta di legge che ieri è stata approvata dalla Commissione Giustizia del Senato.

     

     

    Nel 2007 la protesta degli storici

    Nel 2007 circa duecento storici italiani si mobilitarono contro il disegno di legge Mastella che intendeva punire la negazione della Shoah, seguendo una decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea che si muoveva nella stessa direzione. La legge venne riformulata evitando ogni riferimento al negazionismo e inasprendo le pene per chi diffonde idee razziste.

     

    La proposta di legge attuale

    Nel 2012 era stato presentato un ddl che riproponeva la questione della negazione della Shoah e dei genocidi e che adesso, nella nuova legislatura, è stato ripresentato come primi firmatari da Silvana Amati del PD e da Lucio Malan del PDL, e firmato da cento deputati di ogni gruppo, compreso il M5S, con l’esclusione della Lega. L’Agenzia di stampa ASCA, nel dare la notizia, sostiene che il ddl si prefigge “di punire le nuove forme di negazionismo dell'Olocausto e dei crimini contro l'umanità, perpetrate anche attraverso i nuovi media” e così ha ribadito in più occasioni la Senatrice Amati.

     

    Il testo

    Prima di riprendere il tema assai serio e complesso delle leggi antinegazioniste – su cui in Francia vi è da anni una battaglia della maggior parte degli storici e che anche in Italia ha visto questa categoria esprimersi in modo nettamente contrario – bisognerebbe leggere per esteso cosa propone il ddl di ''Modifica all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654” ora riproposto. Si tratta, infatti, di un nuovo comma che punisce “con la reclusione fino a tre anni chiunque, con comportamenti idonei a turbare l’ordine pubblico o che costituiscano minaccia, offesa o ingiuria, fa apologia dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232, e dei crimini definiti dall’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945, ovvero nega la realtà, la dimensione o il carattere genocida degli stessi.”

     

    Un testo ambiguo

    Si tratta di un testo – diversamente dalle leggi antinegazioniste di Germania, Francia e altri paesi – che è ambiguo come la maggior parte delle nostre leggi, soggette sempre a una battaglia di interpretazioni che permette sovente disparità anche grande di giudizi e comportamenti dentro la stessa magistratura. A parte il rapporto (necessario?) tra il turbamento dell’ordine pubblico o l’offesa con l’apologia di reati (tra cui, l’art.7 dello statuto della Corte che prevede anche la tortura, reato ancora esistente nel nostro ordinamento!) che già rientrano in quelli esistenti e relativi al razzismo, la “negazione” riguarderebbe la realtà, la dimensione o il carattere genocida.

     

    Chi riconosce il genocidio?

    Quali sono i genocidi riconosciuti come tali? Esiste un dibattito che dura da decenni e che vede divisi giuristi e storici: come bisognerà comportarsi? Per Srebrenica, una corte internazionale ha stabilito trattarsi di genocidio (con contraddizioni palesi riguardo alla responsabilità dei serbi) ma molti giuristi ritengono fosse solo un crimine contro l’umanità. La Cambogia lo è stato o no? Il genocidio degli armeni (al di là della definizione) ha riguardato un milione o un milione e mezzo di persone? E i crimini di guerra e contro l’umanità che nessun tribunale ha stabilito tali o sanzionato – i crimini del Gulag; i crimini del regio esercito italiano prima dell’8 settembre 1943 in Africa, nei Balcani, in Russia; i crimini che hanno costellato il XX secolo quasi in ogni luogo e sotto ogni ideologia – saranno presi in considerazione? E verso chi scatterà la denuncia, verso tifosi razzisti, verso ignoranti che ripetono stereotipi menzogneri e fasulli, verso docenti che fanno studiare Mein Kampf, verso siti neonazisti e razzisti di cui è pieno il web?

     

    Una legge troppo ampia

    Il ddl prevederebbe anche, secondo l’agenzia ASCA, la pena non solo per l’apologia o la negazione, ma anche per la “minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra''. Anche in questo caso fanno testo soltanto le decisioni dei tribunali? Cosa facciamo dei libri non solo che negano i genocidi (non solo la Shoah, ma anche gli scritti negazionisti sulla Cambogia o sul Rwanda, ad esempio, che hanno visto in prima fila personalità come Noam Chomsky e altri “democratici”) ma che li ignorano (e quindi minimizzano) come una gran parte dei libri di storia contemporanea?
    Nel congresso degli studiosi di genocidio  che si tenne a Buenos Aires nel 2011 questo tema fu affrontato a lungo e con posizioni diverse e contraddittorie; e anche nel congresso successivo, che si aprirà il 19 giugno a Siena vi saranno almeno due panel destinati a discutere, con punti di vista divergenti, queste “leggi della memoria” e l’atteggiamento degli stati nei loro confronti.


    A cosa serve mandare in galera un negazionista?

    La questione, a mio avviso, si pone molto semplicemente: una legge simile favorisce la diminuzione degli atteggiamenti razzisti che sono spesso presenti nei discorsi negazionisti e minimizzanti? Assolutamente no, perché sarà usata – forse – in pochi casi esemplari che daranno risonanza e rischieranno di far passare per vittime o eroi della libertà di espressione coloro che li avranno pronunciati. Ma nello stesso tempo segneranno un pericoloso passo verso l’idea di verità storiche di stato, stabilite per legge e garantite dalla magistratura, invece che dal dibattito aperto, dalla formazione di una coscienza collettiva civile e storica e dall’educazione permanente.

     

    Che cosa si potrebbe fare, e non si fa

    Se il Parlamento si impegnasse davvero a compiere alcuni passi per rendere più facile raggiungere gli obiettivi che si prefigge con questo ddl (l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento e la creazione, come richiestoci da tempo dalle istituzioni internazionali, di una agenzia indipendente sui diritti umani, affondata in extremis da forze trasversali nell’ultima legislatura; programmi educativi e formativi efficaci; produzione di film, spettacoli e programmi TV in cui la storia sia degnamente rappresentata, mentre si chiude ad esempio “La Storia siamo noi”) questo vorrebbe dire chiamare a raccolta la società civile in una battaglia che solo essa può riuscire a vincere in nome di tutti. Non è la minaccia di una repressione che difficilmente ci sarà (e che rischia di essere pericolosa per la libertà d’espressione e di ricerca) a risolvere un problema di cultura, di educazione, di coscienza.

    I deputati e senatori, forse, invece di tacitare le proprie coscienze in una unanimistica approvazione di un testo ambiguo, poco applicabile e pericoloso, dovrebbero chiedersi come mai le leggi esistenti contro la propagazione e l’apologia di odio razziale sono da noi così platealmente ignorate e perché molto spesso la magistratura ne ignori l’applicazione o trovi difficile eseguirla.
    Il razzismo si sconfigge con l’educazione e la cultura; e con le leggi che già esistono e sono purtroppo raramente utilizzate.

    (Nel testo si cita questo convegno, tenutosi presso l’università  di Siena: il X congresso della International Association of Genocide Scholars(IAGS). Il tema del congresso è The Aftermath of Genocide: Victims and Perpetrators, Representations and Interpretations  (Le conseguenze dei genocidi: vittime e carnefici, rappresentazioni e interpretazioni). Ha visto la presenza di oltre duecento studiosi da ogni parte del mondo. E’ intervenuto Adama Dieng, Special Advisor per le Nazioni Uniti per la prevenzioni del genocidio mentre le lezioni magistrali sono state tenute dallo storico Jay Winter e da Nur Kholis, Commissario per i diritti umani in Indonesia).

     

  • La tua Kitty

    Laboratorio di scrittura dedicato ad Anne Frank, per la Giornata della Memoria 2014

    Autore: Marco Cecalupo
         
    Introduzione
    Cara Kitty,... La tua Anne. Così tutti abbiamo letto milioni di volte nel libro Het Achterhuis (Il retrocasa), più noto come il Diario di Anna Frank. E se Kitty fossi tu? Da questa semplice consegna a studenti di seconda media in una scuola di Reggio Emilia, si sviluppa la partecipazione alla Giornata della Memoria 2014.

     
    Abstract
    La tua Kitty è un laboratorio di scrittura epistolare empatica, nel quale gli studenti di due classi di seconda media di una scuola di Reggio Emilia hanno simulato di ricevere una pseudolettera inviata da Anna Frank alla sua migliore amica immaginaria Kitty. Dopo aver assunto il ruolo di Kitty, gli studenti hanno scritto delle lettere di risposta ad Anna. Le lettere di risposta sono state esposte in una biblioteca pubblica di quartiere in occasione della giornata della memoria 2014. Sono stati realizzati anche dei segnalibro con estratti delle lettere.

     

    Il Laboratorio

     

    E se Kitty fossi io, oggi?
    Quest'anno le mie classi di terza media (3D e 3E della scuola DaVinci di Reggio Emilia) hanno partecipato alla giornata della memoria con un lavoro... dell'anno scorso; studiavamo le scritture private/pubbliche (lettere, diari, blog, chat, ecc...) e ci siamo imbattuti nel cosiddetto Diario di Anna Frank, un insieme di pseudo lettere (inviate appunto da Anne a Kitty, un'amica immaginaria) scritte, riscritte, riviste, corrette, censurate e infine pubblicate in un libro da un certo numero di persone (autrice, papà, amici di famiglia, curatori, editore, ecc.), che milioni di altre persone hanno letto in tutto il mondo; abbiamo allora provato uno dei tanti nostri esperimenti di scrittura, e ci siamo chiesti: "E se Kitty fossi io, oggi?". Allora ho dato agli alunni una pseudolettera di Anne ciascuno, con la seguente consegna: "Tu sei Kitty, oggi ti è arrivata questa lettera, rispondi" (per la verità c'erano altre indicazioni tecnico-letterarie, per esempio incrociare la microstoria con la macrostoria, o fingere di non sapere cosa sarebbe accaduto ad Anne).

     

    I segnalibro
    In allegato trovate i segnalibro che pubblicizzano l'esposizione delle cinquanta lettere integrali scritte ad Anna Frank nel laboratorio di italiano dalle due attuali terze, che negli scorsi pomeriggi con un gruppo di alunni della 3D (Manal, Virginia, Tyrone, Francesca, Luisa, Amin e Antonio, che ringrazio) abbiamo sistemato su due grandi cartelloni nella Biblioteca Ospizio, la nostra biblioteca di quartiere che in questi tre anni ci ha ospitato spesso (per scegliere, leggere, scrivere, discutere, ascoltare, giocare, cercare, immaginare insieme), e dunque arricchito tantissimo.

    Per il fronte, abbiamo scelto insieme dal web le foto: Anna che sorride, Anna quasi mai sola, Anna all'aperto. Sul retro, ci sono degli estratti delle lettere di risposta, selezionati dagli studenti del gruppo, con non poca difficoltà (la consegna era: scegliete le dieci righe che vi fanno più emozionare, o che farebbero più emozionare la mamma o il papà di Anne, se le potessero leggere).


    Il senso della memoria
        
    Mi sono chiesto tante volte in questi giorni il senso di questa operazione, l'insegnamento che ne possono trarre i miei studenti, e ne ho parlato anche un po' con loro già l'anno scorso. Dunque una giornata della memoria senza campi, con ebrei e nazisti sullo sfondo, con parole e faccine che in un gioco di realtà/finzione (verosimile), rimbalzano dalla penna di un'adolescente alla tastiera di altri adolescenti di un altro spazio-tempo, che dimostrano di stare al gioco, cioè di saper dialogare. Che senso ha? Non ho trovato una risposta, ma le lettere mi piacevano, e sono andato avanti.

    Intanto gli studenti stanno già risolvendo due nuovi compiti: ricostruire lo sfondo di quella macrostoria e intervenire nel proprio presente. Il 27 gennaio 2014 la lezione/commemorazione è stata l'analisi di una pagina di un sito negazionista, sulla - a suo dire - controversa questione della cosiddetta "colonna di Kula", cioè il dispositivo meccanico per l'erogazione del Zyklon-B nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.

    Qualche giorno dopo i miei studenti dovevano spiegare alla prof di scienze (che ha commemorato la giornata con una lezione di genetica sull'inesistenza delle razze) come era stato facile mettere in crisi l'intero l'impianto argomentativo del saggio di tale Robert Countess, specialista in greco del Nuovo Testamento.

    Qualcuno dal fondo dell'aula ha riassunto così: “Prof, il testo si incarta da solo!”. Forse il risultato sarà aver voglia di scrivere in inglese sul blog di Malala, fare meno "mi piace", indignarsi quando è necessario, aver voglia di partecipare?


     La parola agli studenti
        
    Questa è la presentazione del progetto scritta da due studentesse della classe 3D:

    La tua Kitty è stato un progetto che ci è servito per capire molte cose.

    Innanzitutto abbiamo dovuto immedesimarci in Kitty, provando a dare risposte ad Anna. Cosa che ci ha messi molto alla prova, perché tutti volevamo rispondere ad Anna nel migliore dei modi. Quindi abbiamo svolto questo ruolo di migliore amica ed abbiamo capito quanto fosse difficile per Anna vivere in quei tempi.

    Due giorni prima della giornata della memoria ci siamo riuniti in un piccolo gruppo, ed abbiamo fatto dei cartelloni. Dedicandoli ad Anna. Abbiamo messo solo le nostre risposte, primo perché le lettere di Anna sono famosissime, secondo per suscitare l'interesse delle persone nel momento in cui avessero letto le risposte.

  • Negazionismo e fake news: un tema pluridisciplinare di Storia e di Educazione Civica, dal medioevo a oggi.

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    Corso di formazione a cura di Antonio Brusa
    Cosa deve fare un insegnante di storia di fronte a quella congerie di falsità che comprendiamo nel termine “Fake news”. Correggerle con la matita rossa e blu? Oppure insegnare agli allievi a muoversi in una “piazza conoscitiva” dove non mancheranno mai imbonitori e truffatori? Proveremo a capire come, in un corso rapido, in tre sole sessioni, centrate intorno a tre esempi, dal Medioevo ad oggi.

    Mercoledì 15 febbraio, h 17 - 19
    IL MEDIOEVO DEI FALSI E DEI FALSIFICATORI
    Antonio Brusa, Introduzione al corso
    Marina Gazzini, Il Medioevo dei falsi e le cronologie impossibili
    Discussione
    Conclusioni

    Mercoledì 22 febbraio, h 17 - 19
    CRISTOFORO COLOMBO: TRA INVENZIONI POPOLARI ED EPISTEMOLOGIE INDIGENE
    Antonio Brusa, Il mito di Colombo e i suoi significati
    Discussione
    Conclusioni

    Mercoledì 1 marzo, h 17 - 19
    IL NEGAZIONISMO. ISTRUZIONI DI LAVORO DIDATTICO
    Luigi Cajani, Che cos’è il negazionismo
    Antonio Brusa, Aspetti cognitivi e didattici relativi al negazionismo
    Discussione
    Luigi Cajani, Il negazionismo e le leggi memoriali
    Conclusioni

    I relatori:
    Marina Gazzini è docente associata di Storia medievale all’Università Statale di Milano
    Luigi Cajani ha insegnato Storia moderna e Didattica della storia presso l’Università La Sapienza di Roma
    Antonio Brusa ha insegnato Didattica della storia presso l’Università “Aldo Moro” di Bari

    Di fake news si fa cenno nella nuova legge sull’Educazione Civica. Presentato come un fatto tipico della comunicazione in rete, questo argomento corre il rischio di essere visto e studiato solo dal punto di vista etico/morale, come un’incidente negativo nella vita di un ideale villaggio globale, nel quale tutti dovrebbero comunicare correttamente. Le fake news, invece, sono un fatto storico profondo. Il falso, la comunicazione falsa, la rappresentazione falsa di una realtà non sono una distorsione, ma, come la guerra (fucina da sempre di fake news, basti pensare alla più celebre di tutte, quella del Cavallo di Troia), fanno parte di quel sistema complesso e mobile di relazioni umane, che è la storia.
    Dunque, così come la guerra DEVE far parte del curricolo formativo, dal momento che è parte – purtroppo - costitutiva della vicenda umana, anche di fake news si dovrebbe parlare in classe. Ma come, se vogliamo evitare moralismi o facili dietrologie? Come inserire questo argomento nei curricola in modo non episodico? Questa domanda impone la ricerca di strumenti scientifici e di strategie didattiche capaci di trasformare le fake news in oggetto di analisi e, quindi, di insegnamento.
    Il percorso che proponiamo si chiude col fenomeno del negazionismo che potremmo considerare matriciale di ogni fake news attualmente circolante. È un fenomeno/matrice, perché nella negazione del Genocidio ebraico troviamo molti fattori capaci di “generare” fake news: l’enormità del fatto da negare; l’uso di tecniche storiche per provare la verità della negazione; l’uso di tecniche retoriche per affermare la propria verità e destrutturare le smentite; la creazione di comunità di “credenti” e l’impatto che, in questa, ha la rete (e così via). Passeremo, poi, all’analisi di negazioni/falsificazioni esemplari e dei fenomeni sociali legate a queste, come le mitologie che presiedono alle credenze sulle origini delle nazioni, le falsificazioni legate al proliferare odierno di movimenti identitari e quelle tipiche dei fatti bellici o di fatti socialmente rilevanti, come le epidemie. Le notizie false, infine, hanno sempre uno scopo. E, questo scopo ha spesso risvolti politici. Dunque, le notizie false investono la società anche dal punto di vista del suo governo e della sua tenuta democratica e, perciò, la loro analisi è un fatto doveroso, nella formazione del cittadino.
    Questo studio ci porterà ogni volta a viaggiare tra passato e presente, passando da una disciplina all’altra: dalla storia, all’arte, all’italiano, alle scienze. Un reale argomento di Educazione Civica, declinato in forma disciplinare e non moralistica.

     

    Informazioni/Prenotazioni
    Consigliato per insegnanti della scuola primaria e secondaria di I e II grado
    Seminario di 3 incontri da 2h ciascuno
    Costo: 60 € (è possibile utilizzare il bonus della card docenti)
    Su prenotazione a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – tel. 010 8171642

  • Un’enciclopedia sulla violenza di massa nella storia. Il sito web Mass Violence & Resistance

    di Antonio Prampolini

    Indice

    1. Il progetto di una Enciclopedia sulla violenza di massa

    2. Il sito web Mass Violence & Resistance

    3. Una selezione di articoli

    3.1 Studi di caso

    3.1.1 Il genocidio degli armeni e la pulizia etnica in Turchia

    3.1.2 Le violenze di massa del nazismo in Germania e nei territori occupati

    3.1.3 Le violenze di massa nella Russia di Stalin

    3.1.4 I civili vittime dei bombardamenti aerei nelle guerre del '900

    3.2 Contributi teorici: genocidio e pulizia etnica

     

    1. Il progetto di una Enciclopedia sulla violenza di massa

    Nel 2004, lo storico e politologo francese Jacques Semelin si era fatto promotore, presso il centro di ricerca e studi internazionali Sciences Po, con sede a Parigi, di un progetto per una Encyclopédie des violences de masse con l’obiettivo di indagare, in un’ottica globale, comparativa e multidisciplinare (storica, antropologica, psicologica), i massacri e i genocidi perpetrati nel corso del Novecento, spesso oggetto di negazionismi di varia natura.1
    Dopo un lungo lavoro preparatorio, nel 2008 il progetto si concretizzò in un sito web bilingue, francese e inglese, aperto ai contributi della ricerca internazionale e accessibile da tutti gli utenti della rete (Online Encyclopedia of Mass Violence - OEMV).2
    Da allora ad oggi, il sito ha visto crescere i propri contenuti, allargando sia il periodo storico di riferimento, non più limitato al secolo XX, che il campo d’indagine, esteso anche ai fenomeni di resistenza. Ha assunto, pertanto, la nuova denominazione di Mass Violence and Resistance - Research Network.3

     

    SCIENCES PO Mass Violence Resistance Immagine 1Fig.1: home page del sito MV&R Fonte

     

    2. Il sito web Mass Violence & Resistence (MV&R)

    Il sito MV&R si avvale di una rete accademica interdisciplinare con sede presso il Centre de Recherches Internationales (CERI) e il Centre d'histoire de Sciences Po (CHSP).4 Pubblica contributi, sottoposti a revisione paritaria, che coniugano ricerca empirica e riflessione concettuale. Tuttavia si rivolge, in modalità open access, non solo agli studiosi, ma al vasto pubblico di coloro che sono interessati ad approfondire la conoscenza dei fenomeni di violenza di massa nel mondo.

    Il sito si presenta con una home page (abbiamo qui scelto la versione in lingua inglese) dove vengono visualizzate in una mappa interattiva (Map of Online Contributions) le aree geografiche, gli stati o le località del mondo in cui si sono verificati gli eventi analizzati, ed è strutturato in quattro sezioni principali: Articles, Biographies, Glossary, Locations.

    La sezione Articles comprende tre sottosezioni: Studi di caso, Contributi teorici, Recensioni.Negli Indici cronologici gli articoli sono ordinati per data di pubblicazione, a partire da quella più recente.

    Nella sezione Biographies troviamo un indice alfabetico delle persone a cui il sito dedica delle schede informative sulle loro vite.

    La sezione Glossary contiene anch’essa un indice alfabetico per segnalare i principali termini/concetti utilizzati nei contributi pubblicati sul sito e per consultare le relative schede di approfondimento (si tratta di testi autoriali scritti da specialisti).

    La sezione Locations elenca gli stati e i territori in cui sono avvenute le violenze di massa e, per ogni stato/territorio, i contributi che lo riguardano.

     

    3. Una selezione di articoli

    3.1. Studi di caso

    SCIENCES PO Mass Violence Resistance Immagine 2Fig.2: Civili armeni in marcia forzata verso il campo di prigionia di Mezireh, aprile 1915. Fonte3.1.1 Il genocidio degli armeni e la pulizia etnica in Turchia

    Diyarbekir (1915-1916): le uccisioni di massa degli armeni a livello provinciale
    di Ungor Ugur Umit, 25 marzo 2009.

    Il genocidio degli armeni ottomani fu la conseguenza dell'interazione dinamica di tre distinti eventi/processi storici: la profonda crisi politica che colpì l'Impero ottomano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la rivoluzione dei “Giovani Turchi” e la Prima guerra mondiale.
    Questo studio di caso esplora il genocidio così come si sviluppò nella provincia ottomana sud-orientale di Diyarbekir (Altopiano del Kurdistan), fornendo una panoramica del contesto e concentrandosi sulla memoria di quella tragedia.

     

    L'espulsione di gruppi etnici e religiosi non turchi dalla Turchia alla Siria negli anni '20 e all'inizio degli anni '30
    di Tachjian Vahe, 5 marzo 2009.

    Conclusasi la Prima guerra mondiale con il crollo dell’Impero ottomano e la sua frammentazione, il movimento guidato da Mustafa Kemal Pasha (Atatürk) si era posto come obiettivo principale la riconquista di tutte le regioni dell'Anatolia che erano ancora sotto la giurisdizione delle potenze vincitrici e l’espulsione delle minoranze non turche che vivevano nella regione di confine tra la Turchia e la Siria.
    Espulsione che, a partire dagli anni Venti, fu eseguita non per un ordine diretto del governo turco ma con metodi nel complesso più sottili. Molteplici vessazioni e pressioni furono esercitate contro le comunità prese di mira spingendo le popolazioni di etnia non turca a lasciare l’Anatolia e a trovare rifugio nella vicina Siria.
    Lo studio di caso affronta l’argomento in sei capitoli (Contesto, Decisori, Organizzatori e Attori, Vittime, Testimoni, Memoria, Interpretazioni generali), e gli dedica un’ampia Bibliografia.

     

    SCIENCES PO Mass Violence Resistance Immagine 3Fig.3: Manifesto della propaganda nazista a favore dell’eutanasia dei disabili e malati di mente Fonte3.1.2 Le violenze di massa del nazismo in Germania e nei territori occupati

    Lo sterminio dei malati di mente e dei disabili sotto il dominio nazionalsocialista
    di Gerrit Hohendorf, 6 maggio 2016.

    Tra il 1939 e il 1945, circa 300.000 malati mentali e handicappati (donne, uomini e bambini) furono assassinati dal regime nazista con il pretesto di praticare la "eutanasia". Morirono nelle camere a gas di centri di sterminio appositamente allestiti o, con la partecipazione di medici e personale infermieristico, in sanatori e case di cura attraverso privazioni alimentari e overdose di farmaci. Nei territori occupati della Polonia e dell'Unione Sovietica, furono fucilati, gasati o brutalmente uccisi dalle forze speciali delle SS. Anche se l'organizzazione e la responsabilità degli omicidi differivano, l'intenzione era comune: la distruzione più o meno pianificata della "vita indegna di essere vissuta" con il pretesto di alleviare le sofferenze dei presunti malati incurabili. In questa prospettiva, l’eliminazione di massa dei malati mentali e degli handicappati nel Reich tedesco e nelle zone occupate durante la Seconda guerra mondiale non può essere compresa senza tener conto del dibattito sulla "eutanasia" che si andava delineando in Europa dalla fine del XIX secolo.
    Sette sono i capitoli in cui si articola lo studio di caso: Contesto e storia: i dibattiti sulla "eutanasia" in Germania dal 1895; Il crimine: lo sterminio di massa; Gli autori del crimine; Le vittime; Le reazioni dei parenti, della società e della resistenza; La storia del dopoguerra: le reazioni della magistratura; Il ricordo delle vittime.

     

    Le marce della morte naziste, 1944-1945
    di Daniel Blatman, 28 agosto 2015.

    Oltre a costituire il capitolo conclusivo della storia dei campi di concentramento, le “marce della morte” rappresentano anche il capitolo conclusivo del genocidio nazista degli ebrei. Nelle “marce della morte” le vittime non erano più esclusivamente ebrei e, in molti casi, non erano nemmeno principalmente ebrei. Questo spiega perché è così difficile collocare questo capitolo nel contesto più ampio della “soluzione finale” della questione ebraica.
    Durante gli ultimi mesi del regime nazista, lo sterminio degli ebrei divenne un processo completamente decentralizzato, con l’intervento di una molteplicità di decisori. Mai prima di allora era stato messo nelle mani di così tanti individui il potere di decidere, a loro discrezione, della vita e della morte dei prigionieri.
    Lo studio di caso affronta l’argomento utilizzando una vasta documentazione costituita da studi, testimonianze e deposizioni.

     

    La violenza delle guardie nei campi di concentramento nazisti (1939-1945): riflessioni su dinamiche e logiche del potere
    di Elisa Milano, 5 febbraio 2015.

    Per i sopravvissuti, ed anche per molti ricercatori, il campo di concentramento era un’istituzione in cui il terrore veniva organizzato dai nazisti in modo sistematico, nel rispetto di regole precise. I carcerieri non avevano, ufficialmente, il diritto di usare arbitrariamente la violenza sui prigionieri. Al contrario, dovevano seguire un rigido codice di punizioni. Ma, nonostante questi regolamenti, svolgevano i loro compiti quotidiani in modo brutale e sanguinario. C'era un notevole divario tra le regole e la prassi.
    Utilizzando un approccio microanalitico, questo studio di caso esplora la violenza fisica come esperienza quotidiana nel campo di concentramento e sterminio di Majdanek (località nei pressi di Lublino in Polonia), dove 28 donne delle SS hanno lavorato tra l'autunno del 1942 e la primavera del 1944.

     

    SCIENCES PO Mass Violence Resistance Immagine 4Fig.4: Ucraina: popolazione in cerca di cibo, 1932-1933 Fonte3.1.3 Le violenze di massa nella Russia di Stalin

    Dekulakizzazione come violenza di massa
    Werth Nicolas, 23 settembre 2011.

    La “dekulakizzazione” avviata da Stalin nel gennaio 1930 aveva in realtà un duplice obiettivo: “estrarre” (termine utilizzato nelle direttive della polizia segreta) elementi intenzionati a resistere alla politica di collettivizzazione delle campagne e “colonizzare” i vasti e inospitali territori della Siberia, degli Urali e del Kazakistan. Il primo obiettivo corrispondeva all'opinione, chiaramente espressa dai bolscevichi quando presero il potere, che la società contadina contenesse “elementi sfruttatori” irrimediabilmente ostili al regime comunista, e che, prima o poi, avrebbero dovuto essere liquidati come classe. La politica ufficiale di eliminazione dei kulaki, adottata da Stalin alla fine del 1929, non implicava, tuttavia, la liquidazione fisica di tutti i kulaki. La grande maggioranza di loro doveva essere espropriata e deportata, realizzando così il secondo obiettivo della “dekulakizzazione”: fornire manodopera a basso costo per la colonizzazione e lo sviluppo economico delle zone disabitate del paese, ricche di risorse naturali. In tre anni (1930-1932), più di 5 milioni di kulaki furono espropriati o ridotti in miseria dopo essere stati costretti a svendere le loro proprietà (le autorità chiamarono questo processo “autodekulakizzazione”); 2,3 milioni di uomini, donne e bambini furono deportati in condizioni terribili; oltre 300.000 le persone arrestate e internate; tra 20.000 e 30.000 i condannati a morte.
    Lo studio di caso ricostruisce il contesto storico e analizza i processi decisionali delle campagne staliniste di “dekulakizzazione” interrogandosi sulla natura genocidiaria di tale politica (un genocidio di classe?).

     

    La grande carestia ucraina del 1932-33
    di Werth Nicolas, 18 aprile 2008.

    Oltre quattro milioni di persone morirono di fame tra l'autunno del 1932 e l'estate del 1933 in Ucraina e nel Kuban (regione del Caucaso settentrionale popolata in gran parte da ucraini). Fino alla perestrojka di Gorbaciov di questa tragedia non si era mai parlato in URSS. La carestia del 1932-33 fu ufficialmente riconosciuta in Ucraina solo nel dicembre 1987 durante un discorso tenuto da Shcherbytskyi, il primo segretario del Partito comunista ucraino, nel 70° anniversario della fondazione della Repubblica ucraina. Da allora, l'apertura di archivi un tempo inaccessibili ha portato alla luce una serie di documenti che hanno permesso di analizzare e comprendere meglio i meccanismi politici dietro la genesi e l'aggravarsi della carestia in Ucraina e nel Kuban.
    Lo studio di caso, dopo avere esaminato le diverse fasi della carestia e le responsabilità del regime stalinista, si chiede se essa possa essere considerata una forma di genocidio.

     

    Kurapaty (1937-1941): uccisioni di massa dell'NKVD nella Bielorussia sovietica
    di Goujon Alexandra, 27 marzo 2008

    Kurapaty è il nome di una località alla periferia di Minsk (capitale della Bielorussia) dove ufficiali sovietici appartenenti al NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni) uccisero, tra il 1937 e il 1941, non meno di 30.000 civili bielorussi. Uccisioni che fanno parte della repressione su vasta scala del regime stalinista durante gli anni '30 in Bielorussia e negli altri territori dell’URSS.
    Il termine “genocidio” per qualificare i crimini stalinisti è apparso pubblicamente per la prima volta in Bielorussia durante la manifestazione promossa da organizzazioni giovanili non ufficiali il 1° novembre 1987. Un termine che nel linguaggio politico sovietico era stato usato esclusivamente per condannare i crimini commessi dai nazisti contro gli “eroici” popoli dell’URSS durante la Seconda guerra mondiale.
    Lo studio di caso si articola in sei capitoli (Contesto, Istigatori e autori dei massacri, Vittime, Testimoni, Memorie, Interpretazioni generali e giuridiche dei fatti) e segnala nella Bibliografia numerosi fonti sull’argomento.

     

    SCIENCES PO Mass Violence Resistance Immagine 5Fig.5: Conseguenze di un massiccio bombardamento alleato sulla città di Amburgo nel corso della Seconda guerra mondiale Fonte3.1.4 I civili vittime dei bombardamenti aerei nelle guerre del ‘900

    Difendere i civili contro i bombardamenti aerei: una storia comparativa/transnazionale dei fronti interni giapponese, tedesco e britannico, 1918-1945
    di Sheldon Garon, 10 dicembre 2016.

    Negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale era diventato "normale" distruggere intere città. Il modo in cui ciò era avvenuto rientra in una storia transnazionale, che coinvolge la circolazione globale dell’idea di "bombardamento strategico". Altrettanto transnazionale era stato il processo attraverso il quale molte nazioni avevano riconosciuto la necessità di proteggere città, fabbriche e case dai bombardamenti aerei. Riflettendo sugli insegnamenti della Prima guerra mondiale, gli strateghi di tutto il mondo avevano insistito sul fatto che la prossima guerra sarebbe stata vinta o persa non solo sul campo di battaglia, ma anche sul fronte interno. I civili dovevano continuare a produrre nelle fabbriche e nelle campagne; avevano la necessità di essere nutriti con l’adozione di opportune politiche annonarie; il loro morale non doveva crollare.
    Questo studio di caso vuole evidenziare l’importanza di un approccio transnazionale nell’indagare la mobilitazione del fronte interno per la difesa aerea in Giappone, Germania e Gran Bretagna durante la Seconda guerra mondiale. Sorprendentemente, le operazioni di protezione civile nel Giappone imperiale, nella Germania nazista e nella Gran Bretagna democratica si assomigliavano pur con differenze che derivavano dalla diversa natura dei regimi politici.

     

    Bombe che esplodono in aria: risposte dello Stato e dei cittadini al bombardamento statunitense e al bombardamento atomico del Giappone
    di Marco Seden, 1 ottobre 2014.

    La Seconda guerra mondiale è stata una pietra miliare nello sviluppo e nel dispiegamento di tecnologie di distruzione di massa associate alle forze aeree, in particolare: il bombardiere B-29, il napalm, i bombardamenti incendiari e la bomba atomica. In Giappone, la guerra aerea statunitense raggiunse il suo culmine con il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945.
    Questo studio di caso valuta e confronta l'impatto e il significato storico dei bombardamenti incendiari e del bombardamento atomico delle città giapponesi nel corso della Seconda guerra mondiale. Particolare attenzione viene rivolta alla presenza di tali eventi distruttivi nella memoria storica sia giapponese che americana.

     

    Napalm nella dottrina e nella pratica dei bombardamenti statunitensi, 1942-1975
    di Marino Guillaume, 10 dicembre 2016.

    Se negli studi di storia militare la dottrina del “bombardamento strategico” è stata oggetto di molta attenzione, non altrettanto è avvenuto per i mezzi impiegati nei bombardamenti. Tuttavia, questi mezzi sono cruciali per comprendere tre aspetti decisivi della dottrina e della pratica del “bombardamento strategico”: come sono stati approntati; come sono stati utilizzati dai militari, percepiti dall’opinione pubblica e dalle istituzioni internazionali; come sono cambiati nel tempo.
    Questo studio di caso analizza le problematiche collegate all'impiego del napalm da parte delle forze armate statunitensi, evidenziando come l'uso massiccio di quest'arma, dalla sua creazione nel 1942 alla guerra del Vietnam, sia al centro di un cambiamento nella dottrina e nella pratica del “bombardamento strategico” americano.

     

    SCIENCES PO Mass Violence Resistance Immagine 6Fig.6: Monumento alla memoria delle vittime dell’Olocausto a Berlino Fonte3.2 Contributi teorici: genocidio e pulizia etnica

    Una teoria del genocidio: alla ricerca del significato
    di Huttenbach Henry R., 4 novembre 2007.

    Dopo una iniziale esitazione ad esplorare l'Olocausto nell’immediato dopoguerra, e’ durante gli anni '60 e '70 che gli studi sul genocidio degli ebrei presero slancio, lasciando però nell’ombra gli altri genocidi. l'Olocausto divenne automaticamente il paradigma di tutti i genocidi nell’errata convinzione che bastasse sondare quel fenomeno per comprendere le altre violenze di massa del Novecento. Dopo il doppio shock della disintegrazione della Jugoslavia e dello spargimento di sangue in Ruanda negli anni '90, gli studi sul genocidio sono usciti dall'ombra inibente dell'Olocausto.
    L’autore offre in questo articolo un importante contributo alla conoscenza del fenomeno genocidiario nel secolo scorso e nel tempo presente.

     

    Guerra e genocidio: un approccio sociologico
    di Shaw Martin, 4 novembre 2007.

    Strette sono le connessioni tra genocidio e guerra. Prendendo in esame il nazismo, è evidente come questo movimento genocidiario sia stato influenzato dall'ideologia militarista e dall'esperienza della guerra. Se è vero che le politiche genocidiarie erano iniziate già negli anni '30, quando il regime nazista aveva consolidato il proprio controllo sulla società tedesca, il passaggio agli omicidi di massa si ebbe solo con l’avvio del conflitto mondiale. Durante la Prima guerra mondiale, nell'Impero ottomano, il regime dei “Giovani Turchi” aveva preso di mira gli armeni, massacrandoli o costringendoli a lunghe “marce della morte” verso il deserto siriano, in quanto considerati potenziali alleati del nemico russo ed anche un ostacolo alla creazione di una nazione turca etnicamente omogenea. I ceceni e i tedeschi del Volga erano stati deportati in massa dal regime sovietico durante la Seconda guerra mondiale, nella convinzione che avrebbero potuto allearsi con il nemico nazista.
    Il genocidio può quindi essere considerato una variante della guerra, diretta contro determinati gruppi sociali o etnici piuttosto che contro i nemici armati. Per cui, a parere dell’autore dell’articolo, le sole politiche potenzialmente efficaci per prevenire il genocidio necessitano di essere collegate alle più generali politiche per evitare le guerre nella società globale.

     

    Pulizia etnica
    di Naimarca Normanno, 4 novembre 2007.

    Lo scopo della pulizia etnica è l'allontanamento forzato di una popolazione da un determinato territorio. Sebbene le campagne di pulizia etnica si traducono spesso in un genocidio, esse costituiscono un tipo fondamentalmente diverso di azione criminale. Il genocidio e la pulizia etnica occupano posizioni adiacenti in uno spettro di attacchi contro nazioni o gruppi religiosi ed etnici. Ad un estremo, la pulizia etnica è più vicina alla deportazione forzata e a quello che è stato chiamato “trasferimento di popolazione”. All'estremo opposto, la pulizia etnica e il genocidio sono distinguibili solo dall'intento ultimo. In questo caso, la pulizia etnica sfocia nel genocidio, poiché vengono commessi omicidi di massa per liberare un territorio da una popolazione che non vuole lasciare le proprie case e i luoghi delle proprie tradizioni, della propria identità. A complicare ulteriormente la distinzione tra pulizia etnica e genocidio è il fatto che la deportazione forzata spesso avviene nel contesto violento di una guerra (civile o di aggressione).
    Chiarita sul piano teorico la distinzione tra pulizia etnica e genocidio, l’autore prende in esame alcuni recenti casi di pulizia etnica e i tentativi di pacificazione della comunità internazionale, constatando come sia molto difficile separare pacificamente popolazioni contrapposte quando hanno sperimentato le devastazioni della pulizia etnica, e che uno degli errori fondamentali di coloro che giustificano la pulizia etnica è la convinzione che la pace viene promossa creando con la forza stati-nazione etnicamente omogenei.

     


    Note

    1 Su Jacques Semelin:fr.wikipedia.org/wiki/Jacques_Semelin.

    2 Sul progetto dell’enciclopedia:sciencespo.fr/ceri/en/ouvrage/oemv.

    3 Sulla nuova versione del sito:sciencespo.fr/mass-violence-war-massacre-resistance/fr/content/propos.html.

    4 Sull’organizzazione e sulle attività del Centre de Recherches Internationales (CERI):sciencespo.fr/ceri; sul Centre d'histoire de Sciences Po (CHSP):sciencespo.fr/histoire.

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