storia attuale

  • Guardare nel retrovisore: stiamo diventando puritani?

    di Joan Santacana Mestre

    Statua di Jefferson Davis1. Dussert, De Zeus à Neymar, comment le selfie illustre notre besoin de marquer l'histoire. (Fonte)

    Il mondo attuale pare rivivere una nuova tappa di puritanesimo. È come un ritorno all’era vittoriana. Questa volta, però, il puritanesimo, come un virus terribile, non si limita al territorio britannico, ma si espande per ogni dove. Vorrei presentare un esempio paradigmatico di questa epidemia: l’esposizione a Parigi di Stéphane Simon. Questo giovane artista aveva deciso, fin dal 2012, di esplorare il campo della scultura con la stampante 3D. Una nuova strada di indagine artistica. Nell’installazione intitolata In ricordo di me(In memory of me), l’artista ha voluto dar conto di una realtà innegabile del mondo dell’arte e della museografia: il proliferare dei selfie (qui l’artista illustra il suo progetto).

    Il selfie realizzato con lo smartphone rappresenta il desiderio delle persone di ridefinire la propria identità, di associare il proprio volto alle immagini di ciò che consideriamo bello, interessante, sorprendente o semplicemente simpatico. Le autofoto creano uno spazio nel quale ci esprimiamo liberamente come persone. Questa esplosione mondiale di istantanee genera milioni di immagini al minuto, creando un fenomeno che non ha paragoni possibili. Non è mai successo qualcosa di simile. La gente si fa selfie in coppia, con amiche e amici, in costume da bagno, facendo esercizi, nei ristoranti e nei musei, a casa e in qualsiasi altra situazione. Stéphane Simon, a partire da questo fatto, costruisce una installazione con una serie di immagini, di fine texture bianca, nella quale uomini nudi ripetono i gesti che si stanno continuamente riproducendo su scala universale quando facciamo un selfie. È un’arte del nostro secolo e per il nostro secolo.

    Questa installazione è stata allestita nei padiglioni della sede Unesco di Parigi. Nulla di anormale, fin qui. Ma ecco che si leva la voce del puritanesimo: voci anonime, che vogliono imporre il decoro. Quegli uomini nudi offendono la vista di qualche frequentatore. E Stéphane Simon, l’artista che per due decenni ha centrato il suo lavoro sulla rappresentazione corporea dell’essere umano, è stato obbligato a censurare le sue statue. Com’è accaduto tante volte nella storia, si tratta di persone la cui mente è così corrotta da una ripugnante sensazione di pudore, che non possono sopportare di vedere una statua umana nuda.

    Anche nella Cappella Sistina, nel secolo XVI, in una di queste tappe dell’oscurantismo, fu deciso di mettere le braghe ai personaggi nudi dipinti da Michelangelo. Dopo la sua morte, Daniele da Volterra fu obbligato da Pio V a coprire i genitali dei corpi nudi che si vedono nelle volte, cosa che gli valse il soprannome de Il Braghettone. Il povero pittore è passato alla storia con questo soprannome ridicolo. Ma il vero responsabile fu Antonio Michele Ghisleri, che diventò papa col nome di Pio V. Prima di essere eletto pontefice, questo individuo fu inquisitore a Como e commissario generale dell’Inquisizione romana. E quando fu innalzato al soglio pontificio, fra i tanti decreti, promosse quelli contro gli omosessuali, che secondo lui dovevano essere condannati al rogo. Cosa che avvenne. E poi represse il carnevale, e affidò all’Inquisizione il compito di estirpare, insieme con la sodomia, la divinazione, l’astrologia, la negromanzia, la stregoneria, la magia e le pratiche alchemiche.

    La Francia lo ricorda perché finanziò una guerra contro i protestanti locali, gli Ugonotti, che culminò con uno sterminio, paragonabile a un genocidio dei nostri tempi. E, per finire, ampliò notevolmente le carceri dell’Inquisizione romana.

    Non mi sembra strano che un tale individuo abbia obbligato a ridipingere l’opera di Michelangelo. Lo immagino come un uomo di mente stretta, corroso dalla repressione sessuale, che si eresse a repressore perché il suo sguardo impuro non poteva sopportare i nudi più impressionanti della storia dell’arte occidentale.

    Oggi sta accadendo qualcosa di simile. È risorto il Braghettone. Vive nella sede dell’Unesco. Comanda e dirige le strategie culturali di tutto il mondo. E, come Pio V, non sopporta la contemplazione dei testicoli di plastica di un complesso di sculture il cui messaggio va al di là delle sue capacità di comprensione. E non lo dobbiamo dimenticare: questa gente che ama censurare l’arte, prova gusto anche nel bruciare i libri, nel censurare la rete e, se potesse, ristabilirebbe l’Inquisizione romana.

    Statua di Jefferson Davis2. Le statue col tanga all’Unesco. (Fonte)

    Ma la risposta dell’artista è stata geniale. Obbligato da questo stupido ordine a censurare le sue figure, ha escogitato qualcosa che solo una mente geniale poteva pensare: ha fatto indossare alle sue sculture mutandine bianche e tanga impudichi. Ora sì che la gente si fa i selfie di fronte a loro! L’intenzione delle statue non era erotica, non avevano nulla di lubrico. Ma ora, con mutandine e tanga, sì che lo sono diventate!

    (Come spesso accade quando lo scandalo scoppia, un portavoce dell’Unesco si è affrettato a precisare che si è trattato di uno “sfortunato equivoco”: Rob Picheda, Artist 'humiliated' after UN cultural agency put underwear on his nude sculptures.)

    Viviamo in un’epoca puritana, o semplicemente governata da imbecilli?

    Statua di Jefferson Davis3. Le mutande come attrazione artistica. (Fonte)
  • Il Laboratorio del Tempo presente

    CONVEGNO DI FONDAZIONE

    Una rete necessaria

    Lo studio della storia “molto contemporanea” è un’emergenza formativa, che, alla svolta del secolo, è diventata ineludibile. Come si constata da più parti, gran parte degli insegnanti non riesce a inserire nel curricolo lo studio strutturato degli ultimi decenni, mentre i cosiddetti “temi di attualità” sono spesso oggetto di trattazione saltuaria o vengono affrontati in discipline diverse dalla storia.

    Tempo presente

    Moltissimi allievi italiani, quindi, concludono il loro processo formativo privi di quella strumentazione storiografica che permetterebbe loro di capire fenomeni quali la globalizzazione, il rapporto fra locale e globale, i cambiamenti politici, antropologici, culturali, demografici e ambientali che segnano l’affermarsi di quello che – a giudizio concorde della comunità storiografica – è da considerarsi un periodo storico nuovo, con caratteristiche profondamente diverse da quel Novecento classico che, al momento attuale, sembra il terminus ad quem delle programmazioni di storia italiane.

    Al tempo stesso, lo studio della storia “molto contemporanea” sembra il terreno ideale per favorire il confronto fra i portati delle memorie (pubbliche e individuali) e quelli della ricostruzione storiografica. Ricerche recenti, ma ormai consolidate, mostrano come proprio in questo confronto si attivino i processi di formazione di quella “coscienza storica” che dovrebbe essere l’obiettivo centrale della formazione storica dei cittadini.

    Il laboratorio del tempo presente

    Un Laboratorio del tempo presente appare la struttura ideale dove mettere in gioco queste dinamiche formative, perché propone di lavorare sul rapporto fra l’oggi e le storie passate; fra i soggetti che studiano e i processi storici nei quali sono coinvolti. È, dunque, il luogo dove la strumentazione storiografica (ma potremmo aggiungere anche quella acquisita in altre discipline), lungamente preparata nel corso del curricolo, si mette alla prova nell’interpretazione dei fatti “caldi” – quelli che nella letteratura didattica internazionale si chiamano “questioni sensibili” – del presente.

    Il lavoro della rete

    Quest’obiettivo verrà declinato dalla rete attraverso due azioni:

    • L’allestimento di un sito presso il quale i docenti possano trovare materiali, proposte di lavoro e testi di didattica storica intorno alle questioni sensibili; presso il quale possano discutere dei problemi relativi al loro insegnamento.
    • L’allestimento di forme di aggiornamento (corsi e scuole di formazione).

    I partecipanti al progetto, dunque, si divideranno in gruppi di lavoro che:

    • cercheranno nel web materiali (libri, articoli, conferenze, dati) sui temi di particolare sensibilità (ambiente, emigrazione, pace e guerra, terrorismo ecc.);
    • produrranno proposte didattiche secondo l’ampio ventaglio di modelli che verranno proposti nel corso di fondazione: laboratori, giochi, storytelling, debate, ecc.
    • produrranno proposte di riorganizzazione dei contenuti, sia dell’ultimo anno, sia dell’intero quinquennio.

    A questo progetto partecipano le scuole che aderiscono alla rete e quelle che vorranno aderire. E porte aperte a tutti gli insegnanti e i ricercatori che vorranno dare una mano.

     

    IL LABORATORIO DEL TEMPO PRESENTE

    Il convegno

    Capalbio, 21-22-23 marzo 2019

     

    PROGRAMMA

    Giovedì, 21 marzo

    h. 14.30. Saluti e accoglienza

    h. 15.00. Antonio Brusa: presentazione del corso

    h. 15.15. Antonio Brusa: Un curricolo di storia per il Tempo presente

    h. 16.00. Alberto De Bernardi: Tra XX e XXI secolo: concetti e processi fondamentali

    h. 16.45. Break

    h. 17.00-18-30. I gruppi di lavoro: presentazione e discussione

     

    Venerdì, 22 marzo

    h. 09.00. Antonio Brusa: presentazione dei lavori della giornata

    h. 09.15. Pino Bruno: La ricerca delle fonti in rete

    h. 10.00. Lavori di gruppo

    h. 11.00. Break

    h. 11.15. Lavori di gruppo

    h. 13.00. Buffet

    h. 14.30. Plenaria: Analisi e comunicazione dei lavori di gruppo

    h. 16.00. Gita a Saturnia

    h. 20.00. Cena

     

    Sabato, 23 marzo

    h. 09.00. Antonio Brusa: presentazione dei lavori della giornata

    h. 09.15. Lavori di gruppo

    h. 11.00. Break

    h. 11.15. Plenaria: discussione e proposte di lavoro

    h. 13.00. Chiusura del corso

    Le persone

    Direttrice: Anna Maria Carbone

    Coordinatore: Antonio Brusa

    Comitato scientifico: Alberto de Bernardi (Unibo), Claudia Villani (Uniba), Pino Bruno (direttore “Tom’s Hardware”), Antonio Fini (IC Sarzana, La Spezia), David Nadery (IIS “Cassata Gattapone”, Gubbio), Francesca Alunni (Liceo Classico “Properzio”, Perugia), Lucio Bontempelli (IC “L.S. Tongiorgi”, Pisa), Carlo Firmani (Liceo Classico “Socrate”, Roma).

    Comitato tecnico e segreteria: Cristina Guidi e Giacomo Prestifilippo (Ici Manciano/Capalbio)

    Relatori e tutor: Antonio Brusa (Uniba), Alberto de Bernardi (Unibo), Pino Bruno (direttore “Tom’s Hardware”), Cesare Grazioli (IISS Blaise Pascal, Reggio Emilia), Marco Cecalupo (IC Leonardo Da Vinci, Reggio Emilia), Giuseppe Losapio (IISS Aldo Moro, Trani), Nadia Olivieri (IC 17 Montorio, Verona ).

    I partecipanti

    Il corso è rivolto sia ai docenti delle scuole che aderiscono alla rete, sia ai docenti interessati di tutto il territorio nazionale. Docenti di storia, ma anche di altre discipline che pensano di poter collaborare con noi. Saranno utilissimi anche docenti con competenze digitali, dal momento che il lavoro in rete sarà una componente fondamentale di questo progetto.

    Le modalità di lavoro

    Non aspettatevi un corso dove ci si limita ad ascoltare. In questo corso si discute, si progetta e si lavora insieme. Ci sono solo tre lezioni frontali. La maggior parte del tempo sarà destinato a lavori di gruppo, durante i quali si esporranno i mediatori didattici da adoperare nel laboratorio (nuovi materiali manualistici, laboratori, modelli di debate e di storytelling adatti alla storia, giochi per affrontare sia problemi sia per sveltire l’insegnamento curricolare) e le tecniche professionali per cercare in rete notizie affidabili. Durante i lavori, inoltre, ci si suddivideranno i compiti per la realizzazione del sito e la sua gestione. Si discuteranno le iniziative successive della rete.

    La logistica

    Capalbio, in provincia di Grosseto, è raggiungibile via treno o autostrada. L’aeroporto più vicino è quello di Roma Fiumicino. Arrivo consigliato il 21 marzo ore 14.00 circa alla stazione di Capalbio Scalo (linea Roma-Pisa). Gli spostamenti da e per la stazione saranno a cura dell’organizzazione (i partecipanti sono pregati di informare l’organizzazione degli orari di arrivo e partenza).

    • Le lezioni in plenaria si svolgeranno a Capalbio, presso “Il Frantoio”.
    • I gruppi di lavoro presso la scuola adiacente.
    • I partecipanti al corso verranno alloggiati presso l’Hotel “Valle del Buttero”, di Capalbio;
    • Il pranzo dei giorni 22 e 23 sarà a buffet.
    • La cena del 21 sarà presso il ristorante “La porta” di Capalbio.
    • La cena del 22 sarà a Saturnia.
    • Il trasferimento A/R e la gita a Saturnia sarà a cura dell’organizzazione.

    Per contatti

    Per la segreteria organizzativa e logistica: Cristina Guidi (ore 14-18 escluso sabato e domenica); tel. 3939463554:
    mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

    Giacomo Prestifilippo (ore 14-18 escluso sabato e domenica); tel. 3383623098;
    mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

     

    Scarica il modulo di iscrizione

  • La libertà di espressione nelle università e nei college americani/1

    di Daniele Boschi1

    Immagine 1 Laura KipnisFig.1: Laura Kipnis, docente universitaria messa sotto inchiesta per un articolo pubblicato su una rivista FonteNel febbraio del 2015 Laura Kipnis, docente alla Northwestern University di Chicago, pubblicò un articolo nel quale deprecava la ‘paranoia sessuale’ che a suo dire si era diffusa nei campus americani. Alcuni studenti chiesero e ottennero che l’università aprisse un’indagine su di lei per le opinioni che aveva espresso nel suo saggio. L’accusa era quella di creare un ambiente ostile nei confronti delle donne vittime di molestie e violenze sessuali e di scoraggiare le denunce per questo tipo di abusi2.

    Nell’ottobre dello stesso anno Nicholas e Erika Christakis, marito e moglie, entrambi docenti all’università di Yale, furono aspramente criticati da un gruppo di studenti dopo che Erika Christakis aveva scritto una e-mail nella quale si diceva perplessa circa le raccomandazioni date dall’amministrazione universitaria agli studenti riguardo ai costumi da indossare per Halloween. Nicholas Christakis fu aggredito verbalmente e insultato da alcuni studenti. Successivamente gli studenti organizzarono una ‘Marcia di Resilienza’ e chiesero la destituzione dei due docenti dall’incarico di master e associate master del Silliman College. In seguito a queste proteste i due coniugi si dimisero da quel ruolo ed Erika Christakis abbandonò anche il suo posto di insegnante all’università di Yale3.

    Nell’aprile del 2017 Heather Mac Donald avrebbe dovuto presentare agli studenti del Claremont McKenna College (in California) il suo nuovo libro, The War on Cops, molto critico nei confronti del movimento Black Lives Matter. Sulla pagina Facebook dedicata all’evento la scrittrice fu accusata di essere un’esponente del suprematismo bianco e dell’ideologia fascista e fu annunciata l’intenzione di impedire lo svolgimento della conferenza. In effetti una folla di circa 170 manifestanti impedì poi alla Mac Donald di entrare nell’edificio dove avrebbe dovuto parlare e lei non poté far altro che tenere la sua presentazione in una sala vuota dalla quale fu trasmessa in streaming4.

     

    Cancel culture o lotta contro i pregiudizi e le discriminazioni?

    Questi tre eventi che ho sommariamente rievocato sono soltanto alcuni tra gli innumerevoli episodi dello stesso tipo accaduti negli ultimi anni nei campus americani: una controversia o uno scontro verbale portano qualcuno a pretendere, e talvolta ad ottenere, una qualche forma di censura o sanzione nei confronti di qualcun altro accusato di aver fatto un commento, o espresso un’opinione, giudicati offensivi.

    Perciò molti analisti hanno visto nei college e nelle università statunitensi uno dei principali terreni di coltura del ‘politicamente corretto’ e della cancel culture. Non pochi commentatori hanno espresso serie preoccupazioni riguardo alla crescente intolleranza e alle restrizioni alla libertà di espressione, che sembrano essersi instaurati nei campus americani. Altri osservatori pensano invece che questo allarme sia eccessivo, o addirittura fuorviante, perché ciò che sta accadendo nelle università americane è semplicemente una ulteriore tappa della lunga lotta per il riconoscimento dei diritti di minoranze e gruppi sociali storicamente discriminati e svantaggiati, ad esempio le persone di colore, gli omosessuali e le donne.

    Immagine 2 Greg LukianoffFig.2: Greg Lukianoff, presidente della Foundation for Individual Rights and Expression (FIRE) FonteIl dibattito che si è sviluppato su queste problematiche negli Stati Uniti è molto ricco e articolato e prosegue tuttora. In questo articolo, e in quello che seguirà a breve, intendo rendere conto di due differenti e autorevoli punti di vista sul tema della libertà di espressione nei college e nelle università statunitensi. Entrambi gli approcci sono supportati da originali e approfondite ricerche sui cambiamenti e sugli eventi avvenuti negli ultimi anni nei campus americani. Il primo punto di vista è quello proposto da Greg Lukianoff, da Jonathan Haidt e dalla Foundation for Individual Rights and Expression (FIRE). Il secondo punto di vista è quello proposto dalla associazione PEN America in due importanti rapporti pubblicati nel 2016 e nel 2019.

     

     

    La Foundation for Individual Rights and Expression (FIRE)

    La FIRE è una organizzazione nata nel 1999, col nome di Foundation for Individual Rights in Education, con lo scopo di difendere e promuovere la libertà di espressione e di pensiero nelle università e nei college americani. Per oltre vent’anni ha perseguito questo obiettivo con campagne di informazione, con un’attività di ricerca e pubblicazione di dati, col sostegno offerto anche sul piano legale a docenti e studenti i cui diritti erano stati violati e con proposte di riforme legislative.

    Dal 2006 la presidenza della FIRE è stata assunta da Greg Lukianoff, che nel 2015 ne è diventato anche l’amministratore delegato. Nel 2022 l’organizzazione ha assunto la nuova denominazione di Foundation for Individual Rights and Expression e ha annunciato di volere estendere il suo raggio d’azione al di fuori del mondo universitario allargandolo all’intera società statunitense.

     

    The Coddling of the American Mind

    Greg Lukianoff, oltre a dare il suo importante contributo alla FIRE, ha analizzato il tema delle restrizioni alla libertà di espressione nei campus americani sotto due diversi aspetti. In un saggio pubblicato nel 2015 con il titolo The Coddling of the American Mind, scritto insieme allo psicologo sociale Jonathan Haidt, si è soffermato soprattutto sull’impatto che tali restrizioni stavano avendo sugli studenti sul piano emotivo e culturale. In un altro saggio, The Second Great Age of Political Correctness, pubblicato nel 2022, ha esaminato principalmente le cause del fenomeno e i suoi effetti sulla libertà di ricerca e di insegnamento5.

    Immagine 3 The Coddling of the American MindFig.3: Il libro tratto dall’articolo che Lukianoff e Haidt hanno scritto nel 2015 FonteNel primo testo, ben noto agli studiosi del ‘politicamente corretto’ e della cancel culture, la tesi principale dei due autori è la seguente: nelle università e nei college americani si sta diffondendo una tendenza ad eliminare qualsiasi discorso, idea o argomento che potrebbe provocare disagio tra gli studenti o offendere alcuni di loro. Sono anzitutto gli studenti stessi ad invocare diverse forme di protezione, ma sono le autorità accademiche e persino il governo federale che stanno ormai istituzionalizzando una serie di politiche e di interventi che vanno in quella direzione.

    Riemerge in tal modo la stessa inclinazione al ‘politicamente corretto’ che si era già affermata tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, ma con due importanti differenze. La prima è la maggiore enfasi che ora viene posta sul benessere emotivo degli studenti. La seconda è che il movimento attuale mira a punire chiunque possa interferire con i suoi scopi. Questo impulso alla ‘protettività vendicativa’ (vindictive protectiveness) sta creando una cultura nella quale ognuno deve pensare due volte prima di parlare, per non essere accusato di insensibilità o aggressività, o subire conseguenze ancora peggiori.

    Secondo i due autori, tutto ciò non solo rappresenta una minaccia per la libertà di ricerca e di insegnamento, ma rischia anche di avere conseguenze disastrose sul piano emotivo e psicologico per gli stessi studenti che sono oggetto di queste inusitate ed esagerate attenzioni (le ‘coccole’ cui allude il titolo del saggio). Finora si era sempre pensato che il miglior metodo educativo fosse quello socratico, che consiste nell’insegnare agli studenti non che cosa pensare, ma come pensare. Questo metodo mirava ad incoraggiare lo sviluppo del pensiero critico e della capacità di mettere in discussione le idee proprie e altrui.

     

    Un nuovo e pericoloso approccio educativo

    Del tutto diverso è invece l’approccio educativo basato sulla ‘protettività vendicativa’, che ha un impatto negativo sugli studenti per almeno due motivi. In primo luogo, non li prepara in modo adeguato alla loro futura vita professionale, nella quale essi dovranno confrontarsi, senza alcuna protezione, con persone che hanno idee diverse dalle loro. In secondo luogo, questo metodo genererà probabilmente negli studenti dei modelli di pensiero molto simili a quelli che la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha da tempo identificato come cause della depressione e dell’ansia.

    Tali modelli di pensiero si configurano come vere e proprie distorsioni cognitive, tra le quali vi sono anzitutto il ragionamento emotivo, la costante previsione di futuri eventi negativi, la tendenza ad esagerare l’importanza delle cose, il catastrofismo, nonché l’abitudine ad etichettare globalmente in modo negativo sé stessi e gli altri focalizzando l’attenzione soltanto su alcune caratteristiche di una persona.

    Secondo Lukianoff e Haidt tali modelli di pensiero sono chiaramente operanti dietro alcune pratiche che si sono diffuse nei campus americani, come ad esempio la tendenza a giudicare offensivi determinati comportamenti o parole soltanto sulla base delle reazioni emotive di chi si ritiene offeso, i trigger warning, la denuncia delle micro-aggressioni e la pratica delle disinvitations.

     

    Immagine 4 trigger warningFig.4: Un esempio di ‘trigger warning’ FonteTrigger warning, micro-aggressioni, disinvitations

    Qualche chiarimento per chi non sia già addentro a questo dibattito. Con l’espressione trigger warning ci si riferisce alla pratica molto diffusa negli Stati Uniti per cui un docente avvisa in anticipo i propri studenti che in una prossima lezione o corso affronterà un argomento, o presenterà testi o materiali didattici, che potrebbero suscitare disagio in alcuni suoi allievi. Sebbene in molti casi siano gli studenti a chiedere queste precauzioni, a volte sono le stesse autorità accademiche a raccomandare questa pratica. Ad esempio nel 2013 allo Oberlin College in Ohio una apposita commissione ha pubblicato una guida (poi ritirata per le proteste di alcuni docenti) che raccomandava di usare trigger warning prima di trattare argomenti come il classismo e i privilegi, e di eliminare completamente o rendere facoltativi i materiali che avrebbero potuto scatenare reazioni negative tra gli studenti. In altre università gli studenti hanno richiesto trigger warning per testi come Mrs. Dalloway di Virginia Woolf, in quanto avrebbe potuto incoraggiare inclinazioni al suicidio (è accaduto alla Rutgers University nel New Jersey), e le Metamorfosi di Ovidio, perché mostrano episodi di violenza sessuale (è accaduto alla Columbia University di New York).

    Il termine ‘micro-aggressioni’ ha origine, invece, negli anni Settanta e si riferiva già allora a sottili e spesso inconsapevoli provocazioni o allusioni razziste. Ma questa definizione, sostengono gli autori del saggio, si è estesa negli ultimi anni fino a comprendere virtualmente qualsiasi cosa che possa essere percepita come offensiva. Essi riportano a titolo di esempio il caso di un docente della Università di California di Los Angeles, accusato di ostilità nei confronti degli studenti di colore perché correggendo un elaborato aveva segnato come errore il fatto che la parola ‘indigeni’ fosse stata scritta con la lettera iniziale maiuscola. Persino scherzare sulle micro-aggressioni può essere considerata una micro-aggressione, come ha scoperto uno studente della Università del Michigan, il quale è stato licenziato per questo motivo dal quotidiano del campus per il quale lavorava.

    Infine, con il termine disinvitation ci riferisce alla pratica di cancellare una conferenza o un altro evento organizzato presso una università in seguito a proteste di studenti o docenti. A questo proposito gli autori riportano i dati raccolti dalla Foundation for Individual Rights in Education (FIRE), secondo la quale negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2015 sono state lanciate almeno 240 campagne per impedire a personaggi pubblici di partecipare ad eventi nei campus. La maggior parte di questi episodi si è verificata dopo il 2009 e tra i casi più eclatanti vi sono le disinvitations dell’ex-Segretario di Stato Condoleezza Rice e della direttrice del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde entrambe avvenute nel 2014.

     

    Immagine 5 microaggressioneFig.5: Un esempio di micro-aggressione FonteLe conclusioni del saggio del 2015

    Lukianoff e Haidt concludevano il loro saggio ribadendo che i tentativi di proteggere gli studenti da parole, idee e persone che potrebbero provocare loro un disagio a livello emotivo sono un male non solo per gli studenti stessi, ma anche per il loro futuro inserimento nel mondo del lavoro e più in generale per la democrazia americana, già paralizzata da una crescente faziosità. E suggerivano diverse contromisure, come l’adozione a livello federale di una più rigorosa definizione dei comportamenti sanzionabili come molesti e offensivi e una diversa e più liberale politica da parte dei college e delle università. Questi ultimi avrebbe dovuto eliminare i codici di linguaggio, scoraggiare ufficialmente la pratica dei trigger warning e far crescere la consapevolezza dell’importanza di trovare un equilibrio tra la libertà di espressione e la necessità di far sentire ben accetti tutti gli studenti.

     

    I cambiamenti nelle università e nei college americani negli anni Duemila

    Fin qui il saggio del 2015. Ma come ho già anticipato, Greg Lukianoff ha poi ripreso e sviluppato la sua analisi secondo una diversa prospettiva in un saggio pubblicato all’inizio del 2022, incentrato non più sull’impatto emotivo e psicologico della nuova atmosfera intellettuale sulla popolazione studentesca, ma sui mutamenti avvenuti a livello amministrativo e politico nelle università e nei college americani e sulle conseguenti restrizioni alla libertà della ricerca e dell’insegnamento.

    In questo nuovo saggio, Lukianoff parte dalla distinzione tra due ‘grandi ere’ del politicamente corretto. La prima è quella che si aprì negli anni Ottanta e si concluse nel 1995 quando un tribunale decretò che il codice di linguaggio (speech code) adottato dalla Stanford Law School era incostituzionale. Seguì un lungo periodo durante il quale il politicamente corretto, scomparso dal dibattito pubblico, si sviluppò sotterraneamente nel mondo delle università, per poi riemergere clamorosamente nella seconda decade degli anni Duemila, quando ebbe inizio la seconda delle due ‘ere’.

    Secondo Lukianoff, una serie di importanti mutamenti precedettero e prepararono l’avvento della seconda stagione del politicamente corretto. Anzitutto nei primi anni Duemila aumentò il numero dei college che adottavano codici di linguaggio molto restrittivi. Parallelamente molte università introdussero appositi programmi che miravano a individuare e sanzionare i comportamenti che manifestavano una qualche forma di pregiudizio (‘bias-related incident programs’, ‘bias response teams’o BRTs). Non a caso fu in quel periodo che si cominciò a parlare di trigger warning, micro-aggressioni e disinvitations, fenomeni che ho già descritto sopra.

    Questi cambiamenti furono promossi non tanto dai docenti, ma da una classe di amministratori in forte espansione numerica. L’istruzione universitaria divenne molto più costosa e notevolmente più burocratizzata. Tra i docenti e ancor più tra gli amministratori crebbe il peso del personale di orientamento politico progressista e diminuì corrispondentemente quello dei conservatori. Infine, il National Council for Accreditation of Teacher Education (NCATE) raccomandò che ai futuri docenti fosse richiesto di dimostrare il proprio impegno a favore della giustizia sociale; e non pochi college aderirono a tale richiesta.

     

    La seconda ‘grande era’ del politicamente corretto

    Tutti questi processi ebbero una serie di effetti a cascata che, unitamente ad altri fattori come la diffusione dei social media, aiutano a spiegare l’avvento della seconda ondata del politicamente corretto che si manifestò a partire dal 2014, sia con una ripresa dell’interesse per l’argomento nel dibattito pubblico, sia con una serie di conflitti scoppiati in varie università e degenerati poi in alcuni casi anche in aperta violenza. Lukianoff cita come casi emblematici lo scontro avvenuto nel 2015 tra gli studenti e il sociologo Nicholas Christakis sui costumi di Halloween, che ho ricordato all’inizio di questo articolo, e gli episodi di violenza verificatisi nel 2017 a Berkeley e al Middlebury College nel Vermont, dove una docente di nome Allison Stanger fu aggredita e riportò gravi lesioni durante le proteste scoppiate in occasione di una conferenza del controverso politologo Charles Murray6.

    Immagine 6 protesta contro murrayFig.6: Le proteste contro Charles Murray al Middlebury College FonteNegli stessi anni aumentarono enormemente i tentativi, non di rado riusciti, di censurare docenti o altri intellettuali, impendendo loro di parlare, chiedendo loro pubbliche scuse o incoraggiando sanzioni disciplinari nei loro confronti. A partire dal 2015 vi sarebbero stati almeno 200 tentativi, dei quali 101 coronati da successo, di ottenere la revoca dell’invito a parlare pubblicamente in un campus.
    Nello stesso periodo, quindi tra il 2015 e il 2021, sono stati riferiti alla FIRE 471 tentativi di ottenere il licenziamento o la punizione di un docente universitario in contrasto con la libertà di espressione garantita dalla costituzione americana. In quasi tre quarti di questi episodi vi è stata una sanzione di qualche tipo e in 106 casi la perdita di un incarico. La frequenza di questi tentativi è enormemente aumentata da 30 nel 2015 a 122 nel 2020. E vi sono stati ben 172 docenti di ruolo che hanno ricevuto sanzioni, dei quali 27 sono stati licenziati.

     

    Le conclusioni del saggio del 2022

    Lukianoff conclude il suo saggio affermando che durante la seconda ‘grande era’ del politicamente corretto l’istruzione universitaria in America è diventata troppo costosa, troppo illiberale e troppo conformista ed è entrata in un periodo di crisi profonda, per uscire dal quale occorre agire in modo risoluto adottando urgenti contromisure.

    Le università dovrebbero abbandonare immediatamente tutti i codici di linguaggio; adottare una dichiarazione che definisca la libertà di espressione come un valore essenziale della loro missione educativa; difendere in modo chiaro e forte il diritto alla libertà di espressione degli studenti e dei docenti; insegnare la libertà di parola, il metodo della libera indagine e la libertà accademica; raccogliere dati e consentire ricerche sull’esistenza nei campus di un clima favorevole al dibattito, alla discussione e al dissenso. Infine coloro che fanno donazioni ai college dovrebbero subordinarle alla realizzazione di questi cambiamenti.

     

    Le critiche nei confronti della FIRE

    Le analisi svolte da Lukianoff, da Haidt e dalla FIRE, per quanto autorevoli, hanno comunque suscitato diverse critiche. Lo stesso Lukianoff ha riportato alcune obiezioni avanzate nei confronti di coloro che come lui hanno espresso allarme per le crescenti restrizioni alla libertà di espressione nel mondo universitario e più in generale nella società americana.

    In particolare Lukianoff ha riferito le obiezioni fatte da Adam Gurri, fondatore della rivista online “Liberal currents”, sulla quale ha pubblicato il 20/09/2021 un lungo articolo nel quale ha preso di mira soprattutto il ben noto saggio di Anne Applebaum The New Puritans. L’argomento principale di Gurri è che i critici della cancel culture sostengono tesi che non vengono dimostrate perché non tengono conto di alcune fondamentali caratteristiche e imperfezioni di tutte le società umane:

    “Tutte le relazioni sociali creano vulnerabilità e dipendenze che possono dar luogo ad abusi. Questo è un fatto fondamentale, tipico della natura sociale degli esseri umani, una condizione di base rispetto alla quale tutte le più specifiche modalità organizzative devono essere giudicate. La maggior parte dei nostri dibattiti pubblici, tuttavia, danno per scontato che la semplice occorrenza di alcune specifiche ingiustizie sia sufficiente per mettere sotto accusa l’intero sistema. Sebbene non si debba divenire arrendevoli nell’affrontare i problemi dei nostri giorni, il quesito diagnostico dovrebbe sempre essere: ‘qual è il nostro termine di confronto’?. In nessun altro caso l’incapacità di effettuare confronti ragionevoli porta più spesso a conclusioni ridicole che nel dibattito sulla ‘cancel culture’7”.

    Benché gli strali di Gurri fossero rivolti soprattutto contro la Applebaum, egli ha poi esteso le sue critiche anche ai dati raccolti dalla FIRE e riportati da Lukianoff nei suoi saggi. Scrive infatti Gurri che, tenendo conto anche dei dati raccolti da altre associazioni, il numero totale dei casi riportati dalla FIRE “è molto piccolo sia in relazione all’ampiezza delle popolazioni da cui sono tratti che in rapporto al periodo di tempo in cui sono accaduti. Se un qualsiasi altro problema nella vita sociale accadesse con questa frequenza e a questa scala, noi lo considereremmo effettivamente risolto”.

    Lukianoff ha risposto alle critiche di Gurri osservando in primo luogo che fino a poco tempo fa anche il licenziamento di un singolo docente di ruolo per le sue opinioni o pubblicazioni sarebbe stato giudicato come un fatto assai grave; il licenziamento di ben ventisette docenti di ruolo nel giro di pochi anni non ha precedenti e non può non suscitare allarme. In secondo luogo, le restrizioni alla libertà di espressione non sono uniformemente diffuse in tutte le università americane, ma si concentrano in quelle considerate migliori, cioè quelle in cui si sta formando la gran parte della futura classe dirigente del paese. Infine, afferma Lukianoff, Gurri non considera il cosiddetto chilling effect, ossia il fatto ben noto che quando le persone non sanno quali opinioni, battute scherzose o idee potrebbero metterle nei guai, tenderanno ad autocensurarsi.

     

    Dietro la campagna della FIRE ci sono i conservatori?

    Un’altra critica riguarda l’indipendenza e la neutralità politica che la FIRE, della quale Lukianoff è presidente dal 2006, ha sempre rivendicato. La natura super partes della fondazione è stata però contestata da Jim Sleeper, giornalista e scrittore, in un articolo pubblicato sulla rivista online “The American Prospect” (19/10/2016). Sleeper ha richiamato l’attenzione sul fatto che la FIRE riceve fondi cospicui da organizzazioni vicine ai conservatori come la Earhart Foundation, la Lynde and Harry Bradley Foundation e la Scaife Family Foundation. Tutte queste organizzazioni - sostiene Sleeper – alimentano l’ostilità nei confronti della political correctness presentandola come una minaccia per la libertà accademica e per l’economia di mercato. Inoltre alcuni tra i più stretti collaboratori di Lukianoff sono di orientamento conservatore. Dunque la campagna della fondazione, lungi dall’essere ispirata da un nobile ideale di libertà, avrebbe una ben precisa connotazione politica e ideologica.

    Lukianoff ha risposto a queste critiche evidenziando il fatto che lo staff della FIRE comprende collaboratori di orientamento politico molto vario e che in moltissimi casi la fondazione ha preso le difese di docenti e studenti che avevano espresso idee di sinistra o prive di una precisa connotazione politica.

    I dati e le analisi pubblicate sul sito della FIRE supportano almeno in parte le affermazioni di Lukianoff. Ad esempio nel database Scholars Under Fire sono registrati gli attacchi alla libertà di espressione subìti dai docenti di qualsiasi colore politico e, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, i docenti presi di mira per le loro idee di sinistra non sono affatto così rari e sono divenuti più numerosi negli ultimi anni. Inoltre nel suo saggio del 2022 Lukianoff ha condannato espressamente le molte iniziative prese recentemente dai repubblicani, in singoli Stati o località, per introdurre leggi o direttive che proibiscono nelle scuole la lettura di libri o addirittura la trattazione di argomenti che possono risultare diseducativi o offensivi per gli studenti.

     

    Un diverso possibile approccio al problema

    Infine una terza possibile critica nei confronti delle posizioni sostenute da Lukianoff e dai suoi collaboratori è quella che secondo cui il loro approccio, anche se evidenzia la reale difficoltà di garantire una effettiva ed ampia libertà di espressione nei college e nelle università, è comunque parziale perché non tiene conto della complessa situazione sociale, culturale e politica nella quale vanno collocate le tensioni e i conflitti registrati nei campus americani negli ultimi anni. Quest’ultima è in estrema sintesi la prospettiva adottata da PEN America, una associazione di scrittori ed artisti che si batte anch’essa da lungo tempo per la libertà di espressione negli Stati Uniti. Esamineremo in dettaglio le sue analisi in un prossimo articolo.

     


    BIBLIOGRAFIA / SITOGRAFIA

    APPLEBAUM, Anne, The New Puritans, “The Atlantic”, 31/08/2021.

    BOLLAG, Sophia, Investigators find Prof. Laura Kipnis did not violate Title IX, “The Daily Northwestern”, 05/06/2015.

    GOLDBERG, Michelle, The Middle-Aged Sadness Behind the Cancel Culture Panic, “The New York Times”, 20/09/2021.

    GURRI, Adam, The Case Not Made: A Response to Anne Applebaum's "The New Puritans", “Liberal Currents”, 20/09/2021.

    KIPNIS, Laura, Sexual Paranoia Strikes Academe, “The Chronicle of Higher Education”, 27/02/2015.

    KIPNIS, Laura, My Title IX Inquisition, “The Chronicle of Higher Education”, 29/05/2015.

    KIRCHICK, James,New Videos Show How Yale Betrayed Itself By Favoring Cry-Bullies, “Tablet”, 22/09/2016.

    LUKIANOFF, Greg – HAIDT, Jonathan,The Coddling of the American Mind, “The Atlantic”, settembre 2015.

    LUKIANOFF, Greg, Jim Sleeper Gets It Wrong in ‘The New York Times’, FIRE, 04/09/2016.

    LUKIANOFF, Greg, The Second Great Age of Political Correctness, “Reason”, gennaio 2022.

    PEN America, AND CAMPUS FOR ALL Diversity, Inclusion, and Freedom of Speech at U.S. Universities, 17/10/2016.

    PEN America, CHASM IN THE CLASSROOM. Campus Free Speech in a Divided America, 02/04/2019.

    RIZZACASA D’ORSOGNA, Costanza, Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana, Bari-Roma, Laterza, 2022.

    SLEEPER, JIM, Political Correctness and Its Real Enemies, “The New York Times”, 03/09/2016.

    SLEEPER, JIM, The Conservatives Behind the Campus ‘Free Speech’ Crusade, “The American Prospect”, 19/10/2016.

     

    Note

    1 Ringrazio Steven C. Hughes, professore emerito di storia della Loyola University Maryland, per aver letto e commentato questo articolo e per le sue preziose indicazioni in merito al dibattito sullacancel culture negli Stati Uniti.

    2 Una accurata ricostruzione di questa controversia si può leggere in PEN America,AND CAMPUS FOR ALL Diversity, Inclusion, and Freedom of Speech at U.S. Universities, 17/10/2016, pp. 59-63. 

    3 Anche questa vicenda è stata ricostruita in modo assai dettagliato e preciso in PEN America, AND CAMPUS FOR ALL, cit., pp. 46-51

    4 Questo caso è stato riportato in PEN America, CHASM IN THE CLASSROOM. Campus Free Speech in a Divided America, 02/04/2019, pp. 30-31. 

    5 Lukianoff ha affrontato queste tematiche anche in numerose altre pubblicazioni. Ma qui per esigenze di sintesi mi soffermo soltanto su questi due testi. Sulle tesi di Lukianoff vedi anche l’intervista da lui rilasciata a Costanza Rizzacasa D’Orsogna e da lei riportata nel suo libro Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana, Bari-Roma, Laterza, 2022, pp. 29-38. 

    6 Vedi anche su questo episodio PEN America, CHASM IN THE CLASSROOM, cit., p. 30.

    7 È mia la traduzione dall’inglese di questo brano e di quello riportato nel capoverso immediatamente successivo.

  • La libertà di espressione nelle università e nei college americani/2

    di Daniele Boschi

    Come abbiamo visto nel mio precedente articolo del 6 marzo 2024, la Foundation for Individual Rights and Expression (FIRE) è una delle principali organizzazioni che si battono per la libertà di espressione negli Stati Uniti d’America. Ve ne sono però diverse altre e tra queste PEN America, una associazione nata nel 1922 con lo scopo di promuovere il diritto di scrivere liberamente. PEN era infatti in origine un acronimo che stava per Poets, Essayists, Novelists, ma ora non è più considerato tale, essendosi di molto ampliate le categorie di persone che PEN mira a rappresentare: non più soltanto scrittori in senso stretto, ma anche giornalisti, editori, traduttori e altre persone ancora, compresi i semplici lettori.

    Immagine 1 Suzanne nosselFig.1: Suzanne Nossel, Chief Executive Officer di PEN America FonteNegli ultimi anni PEN America ha dedicato molta attenzione alle controversie nate nei campus americani attorno alla questione del free speech. L’organizzazione ha svolto molte ricerche e numerose indagini sul campo, dialogando con amministratori, docenti e studenti di molte università americane. Ne sono nati parecchi articoli e rapporti pubblicati sul sito dell’associazione. Tra questi vanno segnalati in particolare due rapporti che hanno affrontato in termini generali il tema della libertà di espressione nelle università e nei college americani e sono stati pubblicati rispettivamente nel 2016 e nel 2019. In questo articolo descriverò il contenuto di questi due testi e accennerò ad alcune delle reazioni che hanno suscitato.

     

    Il primo rapporto: AND CAMPUS FOR ALL

    Il primo rapporto si intitola AND CAMPUS FOR ALL. Diversity, Inclusion, and Freedom of Speech at U.S. Universities ed è stato pubblicato nel 2016. È un testo di oltre settanta pagine che ha il grande merito di ricostruire in modo assai dettagliato le circostanze e gli episodi che sembrano aver messo a rischio la libertà di espressione nei campus americani, e di riferire le analisi e i dibattiti che su questo tema si sono moltiplicati sulla carta stampata e sul web nel periodo compreso grosso modo tra il 2011 e il 2016.

    Fin dalle prime pagine il rapporto di PEN America sottolinea che il tema del free speech nelle università e nei college americani deve essere affrontato tenendo conto degli enormi cambiamenti avvenuti nella popolazione statunitense, nella popolazione studentesca e nella mentalità collettiva negli ultimi cinquanta o sessant’anni.

    I bianchi, che nel 1960 rappresentavano l’85% della popolazione degli Stati Uniti, sono scesi al 64% nel 2010, a fronte di un 16% di ispanici, di un 12% di neri e di un 5% di asiatici. Nello stesso arco di tempo è cambiata anche la composizione della popolazione dei college. Secondo il National Center for Education Statistics, dal 1976 al 2013 la percentuale degli studenti ispanici è cresciuta dal 4 al 16 per cento, quella degli studenti neri dal 10 al 15 per cento e quella degli studenti asiatici dal 2 al 6 per cento. Sono stati inoltre riconosciuti e ampliati i diritti degli studenti che hanno un orientamento sessuale o un’identità di genere diversi da quelli della maggioranza delle persone. Era inevitabile che questi enormi cambiamenti modificassero anche le politiche e le regole adottate dai college e dalle università, che hanno da lungo tempo riconosciuto l’imperativo di diversificare la popolazione studentesca, di rendere i campus più aperti e accoglienti per studenti con differenti background, e di creare curricoli e approcci didattici che preparino i giovani a diventare adulti in una nazione e in un mondo sempre più eterogenei e compositi.

    Ma la diversificazione della popolazione studentesca e della nazione nel suo complesso ha fatto anche sorgere molte controversie e conflitti, che riguardano le modalità con cui la società americana può tutelare e ampliare i diritti di tutti, divenendo sempre più aperta e inclusiva, senza però introdurre nuove forme di intolleranza o di censura che ledano il fondamentale diritto alla libertà di pensiero e di espressione.

     

    Controversie, conflitti, nuove pratiche

    A questo proposito il rapporto propone una tassonomia delle diverse categorie di controversie o conflitti avvenuti nei campus americani negli ultimi anni:
    - le proteste contro le persone invitate nelle università per tenere discorsi o ricevere titoli onorifici;
    - la richiesta di modificare denominazioni e simboli che rievocano il passato schiavista e razzista degli Stati Uniti;
    - i tentativi di limitare la libertà di opinione di docenti o studenti e nel caso dei docenti la loro stessa libertà accademica;
    - l’ampliamento della lista delle opinioni che si ritengono assolutamente inammissibili e impronunciabili.

    Immagine 2 Christine LagardeFig.2: Christine Lagarde, all’epoca direttrice del FMI, ha rinunciato nel 2014 a tenere un discorso presso lo Smith College nel Massachusetts dopo le proteste degli studenti FontePer ciascuna di queste categorie di conflitti si riportano a titolo di esempio alcuni eventi accaduti nei campus.

    Si descrivono poi le nuove pratiche che si sono diffuse nei campus per prevenire i danni che potrebbero essere arrecati da un uso scorretto o offensivo del linguaggio o da attività didattiche su temi sensibili: la campagna contro le micro-aggressioni, i trigger warning, la creazione di ‘spazi sicuri’ (safe spaces). Di nuovo si riferiscono alcuni episodi avvenuti nei campus e soprattutto le argomentazioni pro e contro ciascuna di queste pratiche. Un intero capitolo viene dedicato alle controversie riguardanti il tema delle molestie sessuali.

     

    Due opposte interpretazioni

    Successivamente, nella parte centrale del rapporto, si mettono a confronto le due opposte e più generali interpretazioni che sono state date rispetto a questa complessa situazione che si è venuta a creare nei campus.

    Da una parte vi sono coloro che affermano che è stata istituita una sorta di polizia del pensiero che agisce con metodi dittatoriali; che si è promossa una cultura del vittimismo che indebitamente considera come violenza psicologica l’inevitabile disagio emotivo provocato da un vivace dibattito intellettuale; che tutto ciò si ripercuote a danno degli stessi studenti, sia limitando la loro libertà di pensiero e di azione, sia rendendoli meno pronti ad affrontare il mondo che li aspetta al di fuori dello spazio protetto e del ristretto orizzonte delle loro università.

    Sul fronte opposto, invece, vi sono i commentatori che sottolineano che il principale obiettivo delle proteste esplose nei campus è quello di lottare contro le persistenti manifestazioni di razzismo, sessismo e altre forme di disuguaglianza; che sebbene in alcuni casi vi siano state manifestazioni di intolleranza, questi eccessi non devono oscurare il significato enormemente positivo di queste mobilitazioni e dei dibattiti che hanno suscitato; e che nel complesso la libertà di parola non è stata compressa, ma anzi ampliata perché si è data voce a persone e gruppi sociali finora marginalizzati o discriminati. Non pochi si spingono ancora oltre, affermando che la campagna per il diritto alla libertà di espressione non è altro che una manovra diversiva messa in atto da gruppi e intellettuali conservatori per ostacolare e contrastare la battaglia per una società più equa e inclusiva.

    Qui di seguito riporto alcune prese di posizione che illustrano queste due opposte correnti di pensiero, traendo le citazioni dal rapporto di PEN America.

     

    Prima tesi: nei campus americani la libertà di espressione è in pericolo e con essa la preparazione delle future classi dirigenti

    Nell’ottobre del 2015 un’editoriale di Catherine Rampell sul “Washington Post” ha così commentato alcuni fatti accaduti alla Wesleyan University nel Connecticut:

    “Stroncare la libertà di esprimere opinioni impopolari è una lezione terribile da mandare a menti sensibili e a futuri leader, alla Wesleyan come altrove. Insegna agli studenti che il dissenso sarà punito, che piuttosto che alzare la testa, essi dovrebbero abituarsi ad abbassarla. Insegna loro, inoltre, che potrebbero essere troppo fragili per tollerare parole che li fanno sentire a disagio; che invece di confutare, essi dovrebbero mettere a tacere, togliere fondi, distruggere, disinvitare”1.

    Un mese dopo sulla rivista “New York” Jonathan Chait ha esposto i rischi che la political correctness comporta per la democrazia americana, scrivendo quanto segue:

    “Negli Stati Uniti la political correctness non ha mai ovviamente perpetrato le brutalità di un governo comunista, ma non ha neanche mai acquistato i poteri che si accompagnano a un totale controllo della macchina dello stato. La continua sequenza di reazioni di sdegno che essa genera su piccola scala è la prova di un atteggiamento illiberale che in essa è profondamente radicato”.

    Immagine 3. Jonathan ChaitFig.3: Jonathan Chait, editorialista e scrittore molto critico nei confronti del ‘politicamente corretto’ FonteNell’agosto del 2014 una commissione della American Association of University Professors ha pubblicato un rapporto sui trigger warning in cui ha espresso questa preoccupazione:

    “Il presupposto secondo cui in classe gli studenti devono essere protetti piuttosto che sfidati è allo stesso tempo infantilizzante e anti-intellettuale. Esso mette il comfort al primo posto rispetto all’impegno intellettuale … Una qualche misura di disagio è inevitabile durante le lezioni, se l’obiettivo è esporre gli studenti a nuove idee e spingerli a mettere in discussione le credenze che hanno dato per scontate, ad affrontare problemi etici che non hanno mai considerato e, più in generale, ad espandere i propri orizzonti affinché diventino cittadini informati e responsabili in un paese democratico”.

     

    Seconda tesi: la posta in gioco non è la libertà di espressione, ma la costruzione di una società più equa e inclusiva

    Aaron Lewis, uno studente dell’università di Yale, ha scritto su “Quartz” il 10/11/2015 a proposito delle controversie relative alla questione dei costumi di Halloween2:

    “Le proteste non riguardano veramente i costumi di Halloween o la festa di una confraternita studentesca. Riguardano la scarsa corrispondenza tra il modo in cui l’università di Yale viene presentata negli opuscoli al momento dell’iscrizione e il modo in cui la viviamo tutti i giorni. Riguardano la realtà del razzismo in questo campus, che per troppo tempo non è stata riconosciuta. L’università vende se stessa come un posto accogliente e inclusivo per persone che vengono da qualsiasi background, ma spesso purtroppo non lo è”.

    In un intervento pubblicato sul “New York Times” nel maggio del 2014 Henry Reichman, professore emerito alla California State University, ha fatto notare che nelle proteste studentesche dei nostri giorni non c’è niente di particolarmente nuovo:

    “In occasione del discorso inaugurale, al quale ho assistito da studente quarantacinque anni fa, gli studenti neolaureati protestarono silenziosamente uscendo dall’aula quando parlò il presidente dell’università, che era considerato un sostenitore della guerra del Vietnam. La libertà accademica è sopravvissuta. … In realtà dovrebbe essere incoraggiante per noi il fatto che gli studenti siano coinvolti e desiderosi di sostenere il loro punto di vista senza accettare passivamente le scelte imposte da altri. La protesta, dopo tutto, è un elemento vitale di quello stesso spirito democratico che il nostro sistema universitario cerca di coltivare”.

    Immagine 4 protesta studentescaFig.4: Una protesta studentesca contro il razzismo all’Università del Minnesota a Minneapolis nel 2016 FonteInfine, Jon Gould, docente alla American University di Washington, in un articolo pubblicato su “The Hill” il 17/11/2015, ha sostenuto che la campagna sul free speech distoglie l’attenzione dal ben più importante tema del razzismo:

    “Quando si sposta l’attenzione sulle restrizioni alla libertà di espressione, si perde di vista la più ampia vicenda che ha dato origine all’attivismo degli studenti. Già negli anni Ottanta gli studenti di colore protestavano contro il razzismo soft delle derisioni, delle provocazioni, delle offese, eppure trent’anni dopo stiamo ancora qui a parlare degli stessi comportamenti. Certamente li definiamo con nomi differenti, come pregiudizi impliciti o micro-aggressioni, ma quando il presidente del corpo studentesco dell’università del Missouri riferisce i molteplici insulti razzisti scagliati contro di lui, quando una svastica disegnata con degli escrementi compare sulla parete di un dormitorio, quando la polizia fa alcuni arresti per minacce di morte contro studenti afro-americani, è evidente che i college hanno ancora molto da fare per respingere il razzismo e gli atti di odio”.

     

    La posizione di PEN America

    Rispetto ai due opposti schieramenti PEN America ha assunto una posizione intermedia. Da un lato essa afferma che la libertà di espressione nei campus americani non è affatto in crisi, ma è ben viva e gode di buona salute; ma, dall’altro lato, essa riconosce che vi sono stati dei casi in cui la libertà di espressione è stata limitata in modo abbastanza inquietante. La libertà di parola dovrebbe essere quindi meglio protetta, salvaguardata e ampliata. Tutte le parti coinvolte – dirigenti delle università, personale amministrativo, studenti e docenti - dovrebbero impegnarsi affinché il legittimo e lodevole sforzo di creare nei campus un ambiente più inclusivo e rispettoso dei diritti delle minoranze e dei gruppi storicamente discriminati non porti a comprimere la libertà di pensiero e di espressione, anche quando le parole e le opinioni possono essere, o sembrare, provocatorie e offensive.

    Il rapporto prende poi posizione e fornisce indicazioni e consigli pratici in merito ai diversi aspetti delle controversie che si sono accese nei campus negli ultimi anni. Riporto in sintesi i principali suggerimenti, perché esprimono bene la posizione assai articolata e sfumata di PEN America:

    - quando una personalità esterna all’università è stata invitata a tenere un discorso, eventuali proteste non sono quasi mai una buona ragione per revocare l’invito, e non lo è nemmeno il pericolo che possano scoppiare violenze; ma anche i contestatori hanno diritto alla libertà di parola e quindi anche le proteste devono essere permesse, purché non si arrivi fino al punto di impedire all’oratore di parlare;
    - in linea di massima nessun docente o studente dovrebbe essere mai sanzionato o punito per le cose che ha detto o scritto, in tutti i casi in cui la libertà di espressione è protetta dalla legge; anche la richiesta di sanzioni è un modo di esercitare la libertà di parola, ma bisogna essere consapevoli che richieste di questo tipo tendono a soffocare il libero dibattito;
    - i singoli docenti devono sentirsi liberi di usare i trigger warning, ma le università non dovrebbero mai raccomandare o incoraggiare questa pratica;
    - dato il carattere sempre più eterogeneo e composito della popolazione studentesca, le università dovrebbero incoraggiare un uso attento e rispettoso del linguaggio, senza però arrivare a definire nel dettaglio quali parole o insulti devono essere vietati nella conversazione quotidiana perché così facendo rischierebbero di comprimere la libertà di espressione;
    - non c’è alcuna contraddizione tra l’adozione di politiche più rigorose contro le molestie e gli abusi sessuali e la tutela della libertà di parola; tuttavia lo Office for Civil Rights del Department of Education dovrebbe chiarire che la presunta creazione di un ‘ambiente ostile’ per mezzo di discorsi a sfondo sessuale non può essere considerata come una forma di molestia unicamente sulla base di impressioni soggettive circa il carattere offensivo di un discorso.

    Immagine 6. Campagna vs hate speechFig.5: La campagna per il ‘free speech’ all’università di Berkeley in California nel 1964 FonteNella sua parte finale il rapporto di PEN America mostra apprezzamento per il lavoro svolto dalla Foundation for Individual Rights in Education (FIRE), aggiungendo però che questa fondazione è considerata da molti come una organizzazione ‘libertaria’3 o conservatrice. E poiché la FIRE svolge un ruolo di primo piano nella campagna per il free speech, e dato che alcuni dei più vigorosi promotori di questa campagna sono effettivamente ‘libertari’ o conservatori, questa battaglia viene da molti considerata come parte dell’agenda politica della destra. Eppure, sottolinea il rapporto:

    “la libertà di espressione storicamente ha goduto dell’appoggio di sostenitori provenienti da una vasta gamma di posizioni politiche e dovrebbe continuare ad essere così. Tutti i gruppi che appoggiano la libertà di espressione dovrebbero raddoppiare i loro sforzi per garantire che la libertà di parola sia una causa che sta a cuore agli studenti di qualsiasi posizione politica”4.

     

    Le reazioni al primo rapporto di PEN America

    Tra le reazioni a questo primo rapporto di PEN America va segnalata quella della Foundation for Individual Rights in Education (FIRE), che lo ha commentato positivamente con un post di Will Creeley pubblicato il 20/10/2016. Creeley afferma che il rapporto di PEN America è rigoroso, equilibrato e completo, e osserva che su molti aspetti controversi la posizione di PEN America è molto vicina a quella della FIRE. Solo due sono i punti di disaccordo. In primo luogo PEN America lascia intendere che la FIRE aderisca a un’ideologia ‘libertaria’ o conservatrice, laddove la FIRE rivendica orgogliosamente di aver sempre tutelato la libertà di parola prescindendo dal punto di vista, dall’ideologia e dall’identità delle persone prese di mira, e di avere spesso difeso docenti e studenti progressisti. In secondo luogo, PEN America, a differenza della FIRE, nega che esista una vera e propria ‘crisi’ della libertà di parola nelle università e nei college americani; Creeley ritiene tuttavia che questa divergenza abbia poca importanza sul piano pratico, dato che entrambe le organizzazioni sostengono la necessità di una vigorosa battaglia in difesa della libertà di espressione.

    Meno conciliante è stata invece la reazione di altri analisti. Ad esempio Floyd Abrams, avvocato in prima linea nella lotta per la difesa del Primo Emendamento, intervistato dal “New York Times” il 16/10/2016, ha detto che è difficile leggere una descrizione così straordinariamente efficace dei fatti accaduti nei campus americani, come quella presentata da PEN America, senza concludere che sia in atto una crisi di grandi proporzioni. Sulla stessa linea anche Robby Soave che in un articolo pubblicato sulla rivista “Reason” il 21/10/2016, dopo essersi dichiarato d’accordo con Floyd Abrams, afferma che il rapporto di PEN America è un documento ammirevole che indica soluzioni ragionevoli per i problemi nei campus, ma ciononostante in alcuni punti è troppo accondiscendente nei confronti delle posizioni di alcuni gruppi studenteschi.

     

    Il secondo rapporto di PEN America: CHASM IN THE CLASSROOM

    Il secondo rapporto di PEN America, pubblicato nel 2019, si intitola CHASM IN THE CLASSROOM. Campus Free Speech in a Divided America e differisce notevolmente dal precedente, perché mette in primo piano il cambiamento del clima politico e culturale avvenuto in seguito alle elezioni presidenziali del 2016 e l’impatto di tale mutamento sulla vita dei college e delle università.

    Già nella presentazione del testo sul sito della associazione leggiamo che il rapporto, pubblicato poco dopo l’emanazione di un decreto del Presidente Donald Trump sulla libertà di parola nei campus, mira anzitutto a smontare la tesi dell’amministrazione Trump secondo cui le minacce alla libertà di espressione vengono soltanto dalla sinistra. Si afferma inoltre che il nuovo studio demolisce i miti, le rappresentazioni caricaturali e la cattiva informazione che caratterizzano gran parte del dibattito pubblico e dimostra che molte controversie insorte negli ultimi anni nei college e nelle università scaturiscono da tensioni tra i princìpi della libertà di espressione, dell’uguaglianza e dell’inclusione.

    Sono due a mio avviso le principali novità osservate nei campus rispetto agli anni precedenti: l’aumento dei discorsi e dei crimini di odio e un generale inasprimento delle polemiche e dello scontro politico. Nel nuovo studio vengono inoltre approfonditi molti aspetti non trattati, o appena accennati, nel rapporto del 2016 e tra questi l’opinione degli studenti e gli interventi legislativi a sostegno della libertà di parola nei college e nelle università.

     

    L’aumento dei discorsi e dei crimini di odio

    CHASM IN THE CLASSROOM richiama anzitutto l’attenzione sul fatto che, dopo l’elezione di Donald Trump nel 2016, sono aumentati i discorsi e i crimini di odio e diversi gruppi estremisti, come i cosiddetti suprematisti bianchi, hanno acquistato maggiore spazio. Questo è accaduto in generale nella società americana e di riflesso anche nei college e nelle università. I crimini di odio perpetrati nei campus e denunciati alla FBI sono aumentati da 194 nel 2015 a 257 nel 2016; e sono saliti a quasi 280 nel 2017. Ad essere presi mira sono stati di volta in volta studenti e studentesse di colore, di religione ebraica o musulmana, omosessuali e transessuali. Nell’anno accademico 2017-18 sono stati riportati circa 300 episodi di diffusione di messaggi di odio, mediante volantini, poster e simili, da parte di gruppi suprematisti bianchi, con un aumento del 77% rispetto all’anno precedente.

    Immagine 6. Campagna vs hate speechFig.6: La campagna conto lo ‘hate speech’ FonteTutto ciò ha portato molti studenti appartenenti a gruppi minoritari o storicamente svantaggiati a sentirsi più insicuri, vulnerabili, e discriminati. È aumentata quindi la pressione sugli amministratori delle università e dei college affinché adottassero politiche più restrittive circa i limiti della libertà di espressione e sanzionassero docenti e studenti accusati di aver tenuto discorsi di odio. Tuttavia, secondo non pochi commentatori, non è facile stabilire che cosa sia esattamente un discorso di odio distinguendolo dalla semplice espressione o propaganda di opinioni e idee politiche o personali, che negli Stati Uniti è protetta dal Primo Emendamento. Ad esempio, alcuni possono sentirsi offesi da uno slogan come ‘Make America great again’, ma se questo venisse definito e sanzionato come discorso di odio si aprirebbe la strada a gravi limitazioni alla libertà di espressione. Dopo aver riportato le diverse opinioni in materia, il rapporto di PEN America conclude su questo punto nel seguente modo:

    “Date queste preoccupazioni, e la probabilità che la censura di alcune idee porti facilmente alla richiesta di censurarne altre, PEN America ritiene che sia meglio permettere l’espressione di idee nocive piuttosto che aprire un varco alla repressione. Tuttavia, gli studenti hanno ragione nel domandare che i discorsi di odio debbano provocare una forte reazione da parte di coloro che dirigono i campus, i quali hanno la responsabilità morale di sostenere valori come l’equità e l’inclusione. Forti reazioni sono possibili senza entrare in conflitto col Primo Emendamento”5.

     

    L’inasprimento delle polemiche e dello scontro politico

    Nel periodo compreso tra il 2016 e il 2018 vi sono stati, come negli anni immediatamente precedenti, numerosi casi in cui un invito rivolto da un campus a uno speaker controverso ha suscitato proteste che hanno portato alla cancellazione dell’invito o al tentativo di mettere a tacere lo speaker mentre parlava. Simili eventi non hanno nulla di nuovo, ma in alcuni casi le polemiche sono state più accese che in passato e vi sono stati anche episodi di violenza fisica. Oltre a fare una nuova rassegna di questo genere di eventi, il rapporto mette in evidenza anche il fatto che alcuni speaker, soprattutto di orientamento conservatore, si sono specializzati nel proporre e tenere discorsi che hanno un deliberato intento provocatorio, piuttosto che essere diretti ad allargare le prospettive degli ascoltatori e a suscitare un vero dibattito. Tra questi professionisti della provocazione ci sono il giornalista Milo Yiannopoulos e il presidente del National Policy Institute Richard Spencer. Entrambi sono stati invitati a parlare in diverse università suscitando proteste che hanno determinato in alcuni casi la cancellazione dell’evento.

    Inoltre, tra il 2016 e il 2018 vi sono stati ancora parecchi casi di critiche e contestazioni, non di rado accompagnati dalla richiesta di provvedimenti disciplinari, contro docenti accusati di aver fatto discorsi o espresso opinioni giudicati offensivi e inammissibili. Sebbene questi attacchi siano venuti sia da sinistra che da destra, il rapporto sottolinea in modo particolare il ruolo svolto da diversi organi di informazione e associazioni non profit di orientamento conservatore, che hanno alimentato campagne dai toni molto accesi rivolte a dimostrare l’esistenza di un liberal bias nell’insegnamento universitario, dato che i docenti sono in gran parte di sinistra.

    Immagine 7. feminism is cancerFig.7: Milo Yiannopoulos all’università di Berkeley in California (24 settembre 2017) FonteTra gli organi di informazione che hanno alimentato queste campagne vi sono “Fox News”, “Breitbart”, “The Daily Caller”, “The Blaze” e “The Red Elephants”. Tra le associazioni non profit il rapporto cita il Leadership Institute, che ha creato nel 2015 un apposito sito web denominato Campus Reform. In alcuni casi i docenti presi di mira hanno subito molestie o minacce online, oppure sono stati oggetto di indagini e provvedimenti disciplinari da parte della propria università.

    Sembra insomma che i conservatori, pur continuando ad accusare i progressisti di voler soffocare la libertà di espressione nel mondo accademico e non solo, abbiano poi cominciato ad usare le stesse armi di cui deploravano e deplorano l’uso da parte dei loro avversari politici. Tanto è vero che anche Greg Lukianoff, il presidente della FIRE, che è accusato da alcuni di essere un conservatore, ha segnalato questa tendenza nel suo saggio del 2022 (sul quale vedi questo mio articolo su HL).

     

    L’opinione degli studenti

    Poiché diversi studiosi hanno sostenuto che le università e i college hanno introdotto varie restrizioni alla libertà di espressione per lenire il disagio degli studenti o per venire incontro alle loro proteste, non è privo di interesse cercare di capire che cosa pensino gli studenti stessi in merito alla situazione dei campus.

    Il rapporto di PEN America prende in esame i risultati di diversi sondaggi, che gettano luce solo parzialmente su una situazione che è resa assai complessa dalla sempre maggiore disomogeneità della popolazione studentesca. Da un lato risulta che la grande maggioranza degli studenti attribuisce grande valore alla libertà di espressione. Ma dall’altro lato si riscontra che molti di loro si dichiarano favorevoli all’adozione nei campus di codici di linguaggio e di altre politiche restrittive della libertà di parola. PEN America considera problematici questi risultati, perché implicano che molti studenti non si rendano conto di fornire risposte contraddittorie, oppure non capiscano quale sia l’elevato livello di protezione garantito alla libertà di parola dal Primo Emendamento. Ancora più allarmante è il fatto che una parte rilevante, anche se minoritaria, degli studenti affermi che sia giustificato rispondere con la violenza fisica a discorsi di odio o di contenuto razzista.

    È possibile però che questi sondaggi non siano lo strumento più adeguato per comprendere e rappresentare in modo adeguato ciò che davvero pensano gli studenti. Recenti ricerche basate sul metodo dell’intervista aperta dimostrano che molti studenti si rendono conto abbastanza bene della complessità e della delicatezza delle questioni sollevate dalle più recenti controversie e agitazioni scoppiate nei campus. E se alcuni di loro mostrano qualche grado di incertezza e confusione circa l’importanza del Primo Emendamento, questa è solo una ragione di più per potenziare nelle università e nei college una campagna per la difesa della libertà di espressione, che faccia meglio comprendere che essa non è in contrasto con altri valori sociali, ma è un prerequisito fondamentale della democrazia.

     

    Gli interventi legislativi a sostegno della libertà di parola nei college e nelle università

    A partire dal 2017 vi sono state diverse proposte di legge e interventi legislativi rivolti a definire meglio e a proteggere la libertà di espressione nelle università e più in particolare la libertà accademica.

    In parecchi Stati sono state proposte leggi che si ispiravano a modelli come il Campus Free Speech Act redatto dal Goldwater Institute, un think tank di orientamento libertario, o il FORUM Act, redatto dallo American Legislative Exchange Council. PEN America ha analizzato 37 proposte di legge ispirate a questi modelli, 11 delle quali sono state poi tradotte in provvedimenti legislativi in singoli Stati. Sulla base di un’attenta e circonstanziata analisi di questi testi, PEN America, pur condividendo in parte il loro contenuto, ritiene che stabilire mediante apposite norme di legge i limiti della libertà accademica porti con sé il pericolo che la sorveglianza esercitata dai governi sull’applicazione di tali norme possa indurre poi in alcuni casi, anche contro le intenzioni dei legislatori, a comprimere piuttosto che a tutelare meglio la libertà di espressione.

    Sotto l’amministrazione Trump vi sono stati poi interventi diretti del governo federale rivolti a tutelare la libertà di parola e di ricerca nelle università e nei college. Il Dipartimento della giustizia è sceso in campo in diversi casi per difendere la libertà di parola contro eccessive ingerenze da parte delle autorità accademiche. In sé e per sé tali interventi appaiono lodevoli, ma secondo PEN America non si può fare a meno di constatare la natura faziosa della retorica che li ha accompagnati e il mancato intervento dell’amministrazione Trump in alcuni casi di palese violazione della libertà di espressione di docenti e studenti di sinistra.

    Anche altri interventi dell’amministrazione Trump, come il tentativo di riscrivere le linee guida per l’applicazione della legge contro le discriminazioni sessuali nelle scuole e nelle università, e soprattutto l’ordine esecutivo emesso dal presidente Trump intitolato “Improving Free Inquiry, Transparency, and Accountability at Colleges and Universities” rischiano, secondo PEN America e stando anche alle critiche espresse da altri commentatori, di creare problemi più gravi di quelli che vorrebbero risolvere.

     

    Conclusione

    Fin qui il secondo rapporto di PEN America pubblicato al principio del 2019. Negli anni successivi la situazione dei campus si è poi ulteriormente complicata, dapprima per la nuova ondata di proteste del movimento Black Lives Matter dopo l’uccisione di George Floyd, e da ultimo per le controversie nate dopo l’attacco di Hamas a Israele lo scorso 7 ottobre e la furibonda reazione del governo di Netanyahu. Anche il dibattito sulla libertà di espressione nei campus è andato avanti, confluendo nella più generale controversia sul politicamente corretto e sulla cancel culture. Questa controversia, se la osserviamo e la analizziamo con riferimento a situazioni concrete, come abbiamo fatto soffermandoci a lungo sul mondo dei college e delle università americane, presenta problematiche molto più delicate e complesse di quanto a volte non traspaia nel dibattito pubblico. Prestare attenzione ai fatti, al loro contesto e alle diverse possibili interpretazioni: è questo il contributo che noi storici possiamo dare anche quando il nostro sguardo si posa sull’attualità piuttosto che sul passato più lontano.

     


     

    SITOGRAFIA

    AMERICAN ASSOCIATION OF UNIVERSITY PROFESSORS, On Trigger Warnings, agosto 2014.

    BAUER-WOLF, Jeremy, Report: No ‘Crisis’ in Free Speech, “Inside Higher Ed”, 02/04/2019.

    CHAIT, Jonathan, Can We Start Taking Political Correctness Seriously Now?, “The New York”, 10/11/2015.

    CREELEY, Will, Reviewing PEN America’s Campus Free Speech Report, FIRE, 20/10/2016.

    GOULD, Jon, Getting the story wrong on campus racism, “The Hill”, 17/11/2015.

    LEWIS, Aaron, I’m a Yale student, and this school’s problems with race go much deeper than Halloween costumes, “Quartz”, 10/11/2015.

    LUKIANOFF, Greg, The Second Great Age of Political Correctness, “Reason”, gennaio 2022.

    MANGAN, Katherine, If There Is a Free-Speech ‘Crisis’ on Campus, PEN America Says, Lawmakers Are Making It Worse, “The Chronicle of Higher Education”, 02/04/2019.

    NIELSEN, Laura Beth, Space, Speech, and Subordination on the College Campus, “The Smart Set”, 16/05/2016.

    PEN America, AND CAMPUS FOR ALL Diversity, Inclusion, and Freedom of Speech at U.S. Universities, 17/10/2016.

    PEN America, Chasm in the Classroom. Campus Free Speech in a Divided America, 02/04/2019.

    RAMPELL, Catherine, Free speech is flunking out on college campuses, “The Washington Post”, 22/10/2015.

    REICHMAN, Henry, Protesting a Graduation Speaker Is a Sign of a Healthy Democracy, “The New York Times”, 19/05/2014.

    SOAVE, Robby, PEN America's Report on Campus Free Speech Gets the Yale Debacle Really Wrong, “Reason”, 21/10/2016.

     

    Note

    1 È mia la traduzione dall’inglese di questo brano e di quelli successivi riportati tra virgolette.

    2 Vedi il mio articolo pubblicato su HL il 6 marzo 2024.

    3 Il termine ‘libertario’ (libertarian) allude genericamente a quelle correnti di pensiero politico che tendono ad assolutizzare i diritti individuali e a nutrire la massima fiducia nel libero mercato, mirando quindi a ridurre il più possibile l’intervento dello Stato nelle diverse sfere della vita collettiva. 

    PEN America, AND CAMPUS FOR ALL. Diversity, Inclusion, and Freedom of Speech at U.S. Universities, 17/10/2016, p. 77.

    5 PEN America, CHASM IN THE CLASSROOM. Campus Free Speech in a Divided America, 02/04/2019, p. 19. 

     

Questo sito utilizza cookies tecnici e di terze parti per funzionalità quali la condivisione sui social network e/o la visualizzazione di media. Chiudendo questo banner, cliccando in un'area sottostante o accedendo ad un'altra pagina del sito, acconsenti all’uso dei cookie. Se non acconsenti all'utilizzo dei cookie di terze parti, alcune di queste funzionalità potrebbero essere non disponibili.