storia del manuale di storia

  • Lezione 4a. Il manuale

    di Antonio Brusa

    01Fig. 1: “Public History Weekly” dedica il numero di febbraio 2021 all’analisi dei manuali del XXI secolo. Fonte

     

    Aforismi:

    - Ognuno sceglie il manuale adatto a sé
    - Il manuale che va bene a uno non va bene a un altro
    - Il manuale non si adatta al mio metodo
    - Il manuale si adatta al mio metodo
    - Il manuale è obiettivo e freddo
    - Il manuale non è obiettivo ed è ideologico
    - Il manuale contiene la storia calata dall’alto
    - Il manuale non è tutto
    - Il manuale vero è quello che l’insegnante si costruisce da solo
    - Il manuale vero è l’ambiente che ci circonda
    - Il manuale vero è il mondo
    - La colpa è del manuale
    - Il manuale non conta nulla, chi conta è l’insegnante
    - Il manuale è troppo ricco
    - Il manuale è troppo povero
    - Tutti i manuali sono uguali

    Queste e tante altre frasi fatte dicono tutto e il suo contrario sul manuale di storia. Si ascoltano nelle sale dei professori e si leggono negli interventi che i media dedicano alla scuola e alle sue vicissitudini. Non sono solo frutto di ignoranza e di superficialità didattiche. Devono qualcosa alla natura dell’oggetto – il manuale – che è quella di essere libro cangiante e complesso. Il manuale ha una complessità interna, dal momento che è un libro “segmentato” in tante parti. Il manuale ha, ancora, una complessità esterna, relativa alle relazioni che intrattiene con il contesto nel quale si forma e alle cui domande cerca di rispondere. (Per approfondire questo argomento, si legga il mio articolo Insegnare e apprendere con il manuale, nella cartella dei materiali oppure nel sito dell’Indire, pubblicato per la prima volta in Insegnare Storia, a cura di P. Bernardi e F. Monducci, Utet 2012).

     

    02Fig. 2. Apparentemente il manuale è un libro destinato agli allievi; in realtà, è scelto dai docenti e risponde alla loro cultura didattica. Gli editori tengono conto delle indicazioni dell’amministrazione, ma – soprattutto – delle preferenze didattiche dei docenti.

     

    Questa doppia complessità, interna ed esterna, richiede nel docente una solida cultura didattica, che è condizione necessaria per “dominarla” e non essere sopraffatti da essa. Gli elementi principali di questa cultura sono:
    • la storia del manuale, perché in questo libro si sedimentano le modifiche che ha subito nel corso del tempo, e che lasciano sempre una traccia
    • la struttura interna del manuale, che non è fatto di solo testo (quello che solitamente si fa studiare), ma di immagini, schede varie di approfondimento, dossier documentari, apparati didattici e rimandi alla rete, che col tempo, diventano sempre più corposi
    • gli obiettivi di lavoro: che cosa, in pratica, il docente chiede al manuale, la sua idea di didattica della storia. E, per quanto riguarda questa lezione, la questione dell’alfabetizzazione storica.
    • le polemiche alle quali il manuale è periodicamente soggetto, che ci mettono spesso in guardia sui rischi di un controllo politico su questo strumento di insegnamento.

     

    La storia dei manuali

    I manuali si inseriscono per ultimi nel paradigma classico, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Gli insegnanti non li volevano. Ma i governi europei premettero a lungo per il loro uso sia per controllare ciò che gli insegnanti dicevano in classe, sia per eliminare la piaga degli appunti dettati, sia per fornire una garanzia al cittadino che mandava i propri figli a scuola. Arrivati per ultimi, i manuali hanno seguito l’evoluzione del paradigma classico, diventando monarchici, fascisti, repubblicani e, paradossalmente, sono bellamente sopravvissuti al suo progressivo deterioramento (come vedremo nella lezione 6 del 15 marzo). A dispetto dei cambiamenti epocali, i manuali tendono a conservare alcune caratteristiche di fondo che, evidentemente, incontrano l’approvazione dei docenti. Lo dimostrano molte opere che transitano dal fascismo all’età repubblicana: un esempio è il manuale di Alfonso Manaresi, stampato alla fine degli anni ’20 e in adozione nelle superiori fino all’inizio degli anni ’60. Un esempio di longevità più vicino a noi è il manuale di Antonio Brancati, edito a metà degli anni ’60, a lungo principe delle adozioni, e ancora in buona posizione nelle classifiche dei giorni nostri.

     

    03 4 5Figg. 3-5: Il manuale di Manaresi in un’edizione del 1950 e quello di Antonio Brancati, edizioni 1965 e 1999.

     

    Ma probabilmente il manuale simbolo di questa lunga durata è quello scritto da Albert Malet e Jules Isaac sulla scorta dei programmi francesi del 1920. Usato nel ventennio successivo, sopravvisse alla censura contro i libri ebraici del regime di Vichy (Isaac era ebreo) e continuò ad essere un best-seller scolastico fino agli anni ’70. Ritirato come manuale, venne ripubblicato come libro di affezione, da tenersi in bella mostra nella libreria di casa. È considerato da Pierre Nora come un “luogo di memoria” della Francia.

     

    06 7 8Figg. 6-8: Il “Malet-Isaac”, nelle edizioni Hachette del 1920, del 1956 e in quella d’affezione del 2002.

     

    Questa lunga durata è legata alla funzione che il manuale assolve all’interno del paradigma classico: quella di essere un tramite dell’oralità. Si situa, come si è visto nelle lezioni 1 e 2, quale intermediario fra la lezione e l’interrogazione. L’insegnante, dunque, lo esamina e lo sceglie nella prospettiva di un testo dal quale deve ricavare un discorso alla classe, e che, in seguito, deve essere “detto a voce dal discente”. È questo elemento, probabilmente, il primo artefice di questa longevità. Una riprova è che i manuali più resistenti sono proprio quelli che rispondono meglio all’uso tradizionale; mentre i manuali innovativi, che pure non sono mancati in questa lunga storia, hanno vissuto tutti stagioni più brevi.

    Il corpo del manuale – quella parte destinata alla doppia narrazione dell’allievo e del professore – tende a superare indenne i cambiamenti che la storia della manualistica italiana ha conosciuto nel corso del tempo: quelli relativi alla sparizione degli eroi (nel corso degli anni ’70 del secolo scorso); relativi al suo “rigonfiamento”, già visibile al principio degli anni ’80, che ha portato i manuali a raggiungere dimensioni ingestibili in classe; e i più recenti cambiamenti relativi alla sua convivenza con un materiale digitale in crescita esponenziale. Intorno a questo corpo narrativo ruotano una miriade di apparati: iconografici, documentari, storiografici, operativi, di educazione civica o di geostoria, di rapporto col presente, di rimandi alla rete, su multimedia storici (ecc.), che cambiano di edizione in edizione, dando all’acquirente l’illusione di trovarsi di fronte a opere sempre nuove.

     

    I manuali oggi

    Questa storia complicata del manuale lo rende un oggetto ambivalente. Da una parte, la ricerca internazionale è largamente d’accordo con la dichiarazione di Jörn Rüsen che "il libro di testo è il mezzo più importante nell'insegnamento della storia" (1992). Non si può insegnare se non si dispone di uno strumento che riduca l’immensità del sapere storico a misura dei ragazzi. Ma proprio la dimensione ormai incommensurabile della ricerca contribuisce a renderlo uno strumento perennemente – e ovunque nel mondo - insoddisfacente. Di qui i punti deboli del manuale, così come vengono elencati nell’editoriale del numero speciale sui libri di testo di “Public History Weekly” 

    • In primo luogo, lo spazio disponibile limita la portata e il numero di testi e materiali, e quindi le opzioni di selezione per una presentazione differenziata del passato.
    • In secondo luogo, i riferimenti al mondo presente e alla vita quotidiana sono difficili da implementare nel manuale: i fenomeni storico-culturali rimangono sottorappresentati e non si dà notizia dei dibattiti storiografici correnti, rimandandoli alle edizioni successive, quando sono in ritardo.
    • In terzo luogo, i libri di testo di storia della scuola sono permanentemente in ritardo rispetto allo sviluppo digitale.
    • In quarto luogo, i libri di testo scolastici generalmente sembrano non soddisfare gli elevati standard richiesti: sono caratterizzati come troppo complicati o troppo banali, a volte entrambe le cose allo stesso tempo.
    • In quinto luogo, i libri di testo di storia scolastica deludono regolarmente le aspettative degli specialisti perché quegli argomenti sui quali i singoli esperti si concentrano non sono inclusi o non sono adeguatamente implementati.

    Il contenuto del manuale

    La maggior parte dei manuali di tutto il mondo veicola una qualche forma di romanzo nazionale. In molti casi questo innerva l’intero libro, sul modello del Malet et Isaac; in altri è presente in modo frammentato; in altri ancora non compare, ma orienta sottotraccia la scelta dei moduli, documentari e no, che lo compongono. Ovviamente, non prendo in considerazione manuali segnatamente alternativi, come quelli di storia mondiale o di storia locale usati in diverse situazioni (se ne riparlerà nelle Lezioni successive sulla storia medievale, moderna e contemporanea). Il caso italiano mescola pezzi del racconto della nazione con parti di storia mondiale ed europea; contamina la storia politico-istituzionale con scorci di storia sociale, culturale, della vita quotidiana, più di rado, economica in un cocktail che varia da manuale a manuale e viene deciso prevalentemente dalle redazioni editoriali.

    La narrazione è circondata e quasi sopraffatta dagli apparati. Difficile ritrovare il senso di continuità, che un tempo era il requisito primo del manuale/romanzo di storia. Ma è del tutto ingiusto incolparne un libro orfano del paradigma storico-didattico solido e accettato nel quale nacque, e abbarbicato, piuttosto, ai suoi relitti che disperatamente di rinnovare.

    Nella tradizione italiana, accanto al libro/manuale esiste – per le superiori – un libro/antologia di documenti, brani storiografici e lacerti manualistici, che ha nel volume di Antonio Desideri l’esempio più duraturo. Pubblicato, infatti, nel 1978, lo troviamo ancora oggi in adozione. A riprova di quello che si è detto a proposito della diversa longevità, il suo concorrente innovatore Operazione Storica, di Alberto de Bernardi e Scipione Guarracino, pubblicato verso la fine degli anni ’80, fu ritirato dopo pochi anni. Su questo si veda Daniele Boschi, Manuali per la scuola e manuali per l’università. 

     

    09 10 11Figg. 9-11: Le diverse vite del Desideri: la prima edizione del 1978, in collaborazione con Mario Themelly; la versione “secondo millennio”, con Marina Iaccio, e quella “terzo millennio” con Giovanni Codovini, presentata nel catalogo Loescher come libro “antesignano della didattica per competenze, laboratoriale, «capovolta»”. Fonte

     

    Il dibattito pubblico sui manuali

    Non esiste una storia complessiva dei manuali italiani. Per avere un’idea dei dibattiti pubblici che li hanno riguardati, dobbiamo dare uno sguardo alla storia della scuola e a quella, in particolare, della didattica storica, per le quali conviene leggere l’articolo di Luigi Cajani Le vicende della didattica della storia in Italia, in Prospettive per la didattica della storia in Italia e in Europa, a cura di Panciera e Valseriati, 2019. Vediamo allora che negli anni ’50 il dibattito si centrò sull’interrogativo se questi dovessero contenere o no pagine di storia contemporanea e, dunque, considerare decaduta l’interdizione allo studio del fascismo e della Seconda guerra mondiale, emanato dalla Education Division americana, che assolse il compito di defascistizzare i manuali nel 1944. Nell’impossibilità di revisionare gli ultimi tre capitoli abituali nei manuali di storia (la nascita del fascismo, le grandi opere del fascismo e la Guerra), la commissione alleata impose di chiudere il programma al 1919, con l’esortazione a riscrivere in modo accettabile i capitoli incriminati (Mattia Flamigni, Il ruolo del Governo militare alleato nell’epurazione universitaria italiana (1943-45)

    Il dibattito, dunque - se fosse giunto il momento di studiare in classe il periodo fascista -, fu ristretto a docenti e professori, mentre quello successivo, sugli eroi e gli stereotipi nella manualistica, fu realmente pubblico, coinvolgendo un numero di soggetti altissimo. Era stato lanciato, lo abbiamo accennato nelle Lezioni precedenti, da Umberto Eco. Partiva da una ricerca “dal basso”, fatta da insegnanti elementari di Genova e, proprio da questa particolarità nacque un terzo dibattito, sull’abolizione dei manuali. Questi, si diceva, sono il veicolo di una storia prefabbricata, costruita “dall’alto”, dannosa dal punto di vista formativo. In alternativa, si proponeva il lavoro negli archivi, sul vissuto, sull’ambiente. Una buona testimonianza di questo periodo è l’articolo di Ivo Mattozzi, uno dei primi storici a occuparsi professionalmente di didattica della storia, Per una nuova storia-materia, in “Quaderni Storici”, vol. 15, no. 43 (1), 1980.

    Questo articolo fu pubblicato nel corso di un quarto dibattito, sollecitato da un intervento di Edoardo Grendi, sulla stessa rivista, nel quale lo storico lamentava (lo abbiamo già notato sopra) il fatto che i manuali tendevano a gonfiarsi, perché aggiungevano alla vecchia storia i risultati della Nouvelle Histoire (la nuova storia delle “Annales”), con le sue attraenti pagine sulla vita quotidiana, le abitudini, la storia delle mentalità e così via. Al di là delle questioni storiografiche (sulle quali si concentrò l’attenzione della maggior parte degli storici intervenuti), questa bulimia del libro era un chiaro segno dell’indebolimento del paradigma classico, ormai incapace di selezionare i contenuti dell’insegnamento in una biblioteca storica che tendeva all’infinito.

    Questo dibattito ebbe un esito imprevedibile, e a suo modo anche comico, una quindicina di anni dopo, quando a seguito di lettere allarmate sul peso degli zainetti, si scatenò una nuova diatriba mediatica sull’insostenibile pesantezza dei libri, che vide anche l’intervento di magistrati che stabilirono che il peso dello zainetto dovesse essere inferiore a un terzo del peso del suo portatore; con le conseguenti corse al riparo di un editoria sempre sensibile alle polemiche pubbliche, che si prodigò in “manuali piuma”, dal peso garantito non superiore al chilo.

    Più specifico della storia, e certamente più gravido di problemi storici e didattici è il dibattito sulla libertà dei manuali. Fu originato dall’intervento di Francesco Storace, presidente della regione Lazio, che nell’autunno del 2000 promosse una mozione contro i “testi obbligatori adottati nelle scuole superiori, in particolare quelli che trattano di storia, [che] raccontano i trascorsi della nostra Nazione mistificandone intere pagine e omettendo di scriverne altre, dando l’impressione di voler far prevalere una sorta di “verità di Stato” troppo spesso incompatibile con la realtà”. Accusava i manuali, fra l’altro, di tacere sulle foibe e sull’esodo degli italiani dall’Istria e proponeva di istituire una commissione che selezionasse i manuali accettabili. Questa mozione suscitò un dibattito acceso, al quale parteciparono molti storici che si concentrarono sulla questione sacrosanta della libertà di ricerca e di insegnamento, ma che evitarono di sfogliare i manuali, per controllare la fondatezza di queste accuse. Lo fece Luigi Cajani con un’analisi certosina di decine e decine di manuali, dimostrando che questi riportavano notizia delle foibe fin dagli anni ’90, che il manuale di Camera e Fabietti (edito da Zannichelli), il principale imputato in questo scontro, nell’edizione del 1999 conteneva una scheda di ben cinque pagine sul massacro degli italiani e che, se c’era un argomento sul quale i manuali glissavano, era quello dei crimini compiuti dagli italiani nei Balcani (La storia del confine italo-jugoslavo a scuola, in “Italia Contemporanea”, dic. 2013, 173, pp. 576-607).

    Da questa vicenda possiamo ricavare due lezioni importanti per capire a fondo la questione didattica italiana. La prima è sul fatto che i dibattiti pubblici sulla didattica hanno come oggetto dei luoghi comuni che il più delle volte non sono confermati dalla realtà; il secondo è sulla distanza che separa la scuola dall’università, e in particolare gli insegnanti dagli storici professionisti.

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