storia pubblica

  • Avviso di garanzia a Costantino il Grande

    di Antonio Brusa ImmagineStatua di Costantino il Grande eretta a York. https://www.dailymail.co.uk/news/article-8473885/York-Minsters-statue-Roman-emperor-torn-complaints-supported-slavery.html

    Il fatto

    Il 29 giugno del 2020, Costantino il Grande è stato “attenzionato con cura” dai responsabili della Cattedrale di York, perché, hanno dichiarato, sono giunte alle loro orecchie lamentele sui rapporti fra Costantino e lo schiavismo, al dire dei ricorrenti del tutto deplorevoli. Infatti – ecco l’accusa - l’imperatore non abolì la schiavitù, ma si limitò ad attenuarne leggermente la durezza, ad esempio annullando il diritto dei proprietari di uccidere i loro schiavi.

    Per questo, una commissione apposita ora sta esaminando il suo dossier e valuterà se quella statua ha il diritto di stare lì, sotto gli occhi dell’inflessibile pubblico moderno, o debba essere trasferita in un qualche repositorio più modesto.

     

     

     Tra fake news, anacronismi

    Nell’ondata mondiale di iconoclastia, l’abbattimento del Costantino di York non dovrebbe fare eccessivo scalpore. Ci stiamo abituando: pian piano, tutti i grandi per una ragione o per un’altra, stanno scendendo dal piedistallo (su HL ne pubblicheremo a breve il catalogo completo). Il caso di Costantino, però, è interessante per l’incrocio di fake news e di anacronismi, uniti a qualche paradosso, che lo contraddistingue.

    Tale, infatti – un anacronismo - è accusare un sovrano del passato di non aver abolito la schiavitù. Bisognerebbe essere molto fortunati per trovarne uno – europeo, asiatico, americano o africano – che lo abbia fatto prima che Giorgio II, re dell’Inghilterra ahimè imperialista, abolisse la Tratta nel 1807 e prima che il Congresso di Vienna dichiarasse la schiavitù una pratica inumana. A ragione molti storici, intervenendo su questo fenomeno, mettono in luce la necessità di contestualizzare personaggi e eventi del passato, prima di lanciarsi in un qualche giudizio.

    Le fake news, invece, sono due. La prima è la notizia che Costantino abolì le persecuzioni. Una fake che troviamo in quasi tutti i libri di testo, quando si parla del cosiddetto Editto di Costantino, e che fu propagandata a perdifiato nel bimillenario celebrato nel 2013 (come potrete leggere su HL). Comprensibilmente questa credenza gode di fama particolare proprio a York, la romana Eburacum, perché qui Costantino fu acclamato imperatore nel 306. Purtroppo per quei devoti cittadini, chi abolì le persecuzioni, e quindi fu il vero autore dell’Editto di Tolleranza, fu Galerio, un paio di anni prima che Costantino e Licinio si vedessero a Milano per spartirsi l’impero e, fra le tante varie ed eventuali, riconfermare un editto non loro. Purtroppo per lui, su Galerio agisce – da duemila anni - un’efficacissima damnatio memoriae, ordita dagli scrittori cristiani che non gli perdonarono il suo rigore nell’applicare le leggi persecutorie che Diocleziano aveva emanato al principio del secolo.

    Qualcuno leggerà nei fatti odierni una sorta di legge di contrappasso: Costantino che usurpa la fama di Galerio e ne cancella la memoria, oggi viene ripagato di egual moneta.

    La seconda fake è una conseguenza della prima, ed è direttamente legata alle rimostranze attuali. È quella che vuole che il Cristianesimo abolì la schiavitù: cosa del tutto falsa, dal momento che questa dovette attendere la Rivoluzione Francese e i reazionari sovrani europei del XIX secolo per essere messa fuorilegge. Ma: potete immaginare la sorpresa e l’indignazione del devoto cittadino di York quando viene a sapere che l’imperatore che da gloria alla sua città, quello che “avrebbe dovuto abolire la schiavitù” in quanto cristiano, si è limitato a qualche pannicello caldo?

     

    Un monumento sfortunato

    A rendere ancora più curioso questo episodio è il fatto che York ha atteso ben 1700 anni per celebrare Costantino. La statua, infatti, venne eretta nel 2006. Non è, come la maggior parte dei monumenti che oggi sono oggetto di attacchi iconoclasti, frutto del periodo della “statuomania”, che fra XIX e XX secolo riempì di statue commemorative le nostre città. Nonostante le fattezze ottocentesche, è l’opera modernissima di Phillip Jakson, un celebrato scultore di principi, re e benefattori. Breve vita, ma agitata. Appena posta in situ, fra la cattedrale e i resti del castrum romano, sono cominciati i problemi: un poveraccio le ha rubato lo spadone, che già di suo è uno spettacolare anacronismo (mesopotamico, dice l’autore, che ha scelto quel modello perché ricorda la croce) e l’ha gettato in una fogna; quando è scoppiato il Covid le hanno messo la mascherina sanitaria e ora rischia il declassamento.

     

    Statue del passato e del presente

    Thomas Brittony, un archeologo inglese, ha provato a paragonare questa statua con quelle erette nel tardo impero. Secondo lui i monumenti sono oggetti di storia di per sé stessi, e non soltanto per il personaggio che rappresentano. Sono “cose di storia” che parlano della decisione di erigerli, del lavoro necessario per costruirli e della ricezione del pubblico. Il Costantino di York fornisce l’occasione straordinaria per metterlo in parallelo con un analogo antico. Chi decideva di innalzare una statua? In genere un parente dell’imperatore (quasi mai era lui stesso). Oggi, una commissione di rappresentanti cittadini. C’è la democrazia, a fare da spartiacque. Le tecniche di fusione del bronzo, invece, sono variate di poco. E il pubblico? quello antico vedeva le statue da lontano, erette spesso su piedistalli o colonne altissime. E ciò perché quel monumento era oggetto di un culto, che nel IV secolo venne rapidamente cristianizzato (l’imperatore era il tredicesimo apostolo). Ma oggi ci fa solo sorridere il pensiero che qualcuno si fermi a pregare davanti a Costantino (a meno che non vada in vacanza a Siamaggiore dove lo si venera come un santo). Quel monumento serve piuttosto a marcare identitariamente quel luogo. Conferirgli il lustro imperiale che, a giudizio dei cittadini, merita. Per quanto (commenta con perfidia Brittony, che insegna a Leicester) quell’acclamazione a York fu del tutto casuale.

    Indubbiamente, riflette Brittony, è molto difficile scoprire cosa pensa veramente il pubblico (o cosa pensò in passato). Per sua fortuna, c’è l’autore - Phillip Jakson – che ci può dare una risposta. Questa: mentre nel passato i monumenti servivano per celebrare, oggi servono per “studiare la storia”. “Sono la storia nelle strade”, afferma con una formula che piacerà a tutti i lettori di HL. L’articolo è del 2016. A soli quattro anni di distanza, ne potremmo verificare la validità.

     

    Rifunzionalizzare Costantino

    Zaccaria di Mitilene (465-536) è un testimone degli ultimi anni della Roma imperiale. Ci informa che non perse di colpo la sua bellezza. Ancora ai suoi tempi era adornata da 3785 monumenti. Che fine hanno fatto, si chiede Brittony? L’incuria, la riutilizzazione, la speculazione, i barbari. Certo. Ma soprattutto i cristiani, i nuovi cittadini che cancellarono con accanimento e costanza secolari le tracce del passato pagano. Un’opera di successo: di quelle migliaia di monumenti ne possiamo ammirare pochi. Giusto l’Adriano del Campidoglio o la testa ciclopica, proprio di Costantino. E, poiché fu proprio lui a dare il via al processo di cristianizzazione dell’impero, gli possiamo tranquillamente assegnare anche la paternità di quel movimento iconoclastico radicale, che fece piazza pulita dei monumenti antichi.

    La storia ci fornisce, dunque, una buona occasione di rifunzionalizzazione, da suggerire alla Commissione che in questo momento indaga sulla legittimità del Costantino di Jakson. Che resti lì, dove si decise solo pochi anni fa, ma con una bella targa nella quale si dica più o meno: “Caro abbattitore di monumenti, il primo e più grande dei tuoi simili fu quello che tu vedi. Cerca di trattarlo con cura”.

  • Dante in camicia nera. Un caso esemplare di medievalismo politico.

    di Marco Brando

    Screenshot 2023 01 19 alle 12.37.05 Prima affermazione: «Ritengo che il fondatore del pensiero di destra in Italia sia Dante Alighieri, perché quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in lui, ma anche la sua costruzione politica in saggi diversi dalla Divina Commedia, è profondamente di destra».

    Seconda affermazione: «Il massimo poeta può dirsi a ragione l’antesignano dei grandi ideali che ora sono messi in essere dal Governo nazionale».

    Sono concetti espressi nell’ambito dello stesso discorso? In apparenza, sì. Invece non è così. La prima affermazione risale al 2023. La seconda al 1927. Insomma, le separano 96 anni. Eppure entrambe sono casi esemplari di medievalismo politico, basati sull’uso (e soprattutto sull’abuso) dell’eredità dantesca (per medievalismo si intende lo studio del processo continuo di creazione del Medioevo nella società post-medievale, in particolare quella dei nostri giorni). 

    Il ministro Gennaro Sangiuliano

    Non resta che svelare il mistero sulla paternità delle due affermazioni. La prima - che attribuisce all’Alighieri la responsabilità di avere fondato quasi 8 secoli fa, evidentemente a sua insaputa, «il pensiero di destra» - è stata fatta il 15 gennaio 2023 da Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura nel Governo Meloni, durante la kermesse milanese di FdI, partito erede del Msi post-fascista. Al di là delle polemiche scaturite giustamente a proposito dell'oggettivo strafalcione (da parecchi punti di vista: storico, cronologico, letterario, politico e via elencando), è utile ricordare che il ministro non è il primo, nell'ambito della destra italiana contemporanea, ad attribuire al Sommo poeta medievale, vissuto tra XIII e XIV secolo, responsabilità per scelte politiche fatte nei secoli XX e XXI. 

    Screenshot 2023 01 19 alle 12.26.05 Domenico Venturini, scrittore fascista

    È giunto, così, il momento per rivelare chi è stato l'artefice della seconda affermazione, quella in cui Dante è indicato come ispiratore, sempre a sua insaputa, del fascismo. Si chiamava Domenico Venturini; nel 1927 - in pieno Ventennio - firmò, nella collana Pubblicazioni d'opere per l'incremento della letteratura fascista, un libro intitolato Dante Alighieri e Benito Mussolini: 124 pagine edite da Nuova Italia. I titoli di alcuni capitoli si commentano da soli: Il Veltro esattissima figura allegorica del Duce Magnifico, L’esilio del Duce e l’esilio di Dante, La istituzione delle Corporazioni esistente ai tempi danteschi, II Duce riparatore, annunciato da Dante, individuato nel nostro Duce Magnifico. Il volumetto, accompagnato dalla prefazione di Amilcare Rossi, medaglia d’oro al Valor militare e presidente dell’Associazione nazionale combattenti, fu riproposto in una versione aggiornata, ampliata (ben 322 pagine) e rilegata nel 1932. Era un testo molto caro al regime, tanto che ebbe una diffusione vastissima e garantì al suo autore la nomina ad accademico d’Italia. 

    Il dantismo fascista

    Sicuramente Sangiuliano, quando ha evocato la paternità dantesca della cultura della destra attuale, ha espresso un giudizio che non è stato ispirato dalla lettura assidua del libro appena citato. Tuttavia, la curiosa coincidenza di vedute porta a supporre che il pensiero destrorso caro al ministro sia fondato, più o meno consapevolmente, sull’eredità di Venturini piuttosto che su quella di Alighieri. Vale dunque la pena di soffermarsi su altri passaggi del volumetto, per capire quali siano altri punti di vista espressi quasi un secolo fa e magari per essere pronti ad altre simili e ridondanti esternazioni nel 2023.

    Nell’introduzione dell’edizione del 1927 Venturini scrive che «tutte le manifestazioni, le idealità̀, le concezioni di grandezza patria, le nobili aspirazioni al ritorno della romanità̀, che integrano il vasto programma della nostra rinascita civile e morale, e che formano quel complesso di memorabili atti del Governo nazionale, atti che lasceranno una impronta indelebile del secolo di Mussolini, hanno il meraviglioso riscontro col pensiero del grande filosofo e poeta italiano, che con la poderosa produzione del suo privilegiatissimo ingegno, fu considerato il restauratore della nuova civiltà̀ europea». Nel concludere l’edizione del 1932, l’autore sentenzia: «Noi fascisti dobbiamo aver presente che Dante ha vagheggiato gli stessi ideali politici, morali, religiosi messi in essere dell'Era Fascista. [...] Il Massimo Poeta può̀ dirsi a ragione l’antesignano dei grandi ideali del Fascismo. [...] Non poteva certamente concepire e scrivere opere il cui contenuto etico e politico sarebbesi potuto riscontrare non consentaneo (conforme, ndr) ai grandi ideali del Fascismo. È doveroso quindi riguardare Dante, il profeta della Patria, l’anticipatore del Fascismo. La rinascita politica e morale voluta dal Duce è quella desiderata da Dante. [...] Ad majora, adunque, e sempre nel nome di Dante e nel nome del Duce Magnifico della nuova Italia». 

    FmdpIT0X0AY3Sqy Dante, profeta di Mussolini

    Non solo. Fra le altre esibizioni di certezze sul “fascismo dantesco”, in prima edizione - nel paragrafo Il Duce riparatore, annunciato da Dante, individuato nel Duce Magnifico - Venturini assicura che il titolo caro al dittatore «fu vaticinato dal sommo poeta, il quale appunto nel Dux voleva le virtù e le qualità che si ammirano in Benito Mussolini. [...] Nel canto XXXIII del Purgatorio, Beatrice enimmaticamente (sic!, ndr) dice a Dante che verrà̀ un Duce a vendicare gli oltraggi fatti alla profanata chiesa ed all’impero. Ecco le parole di Beatrice: “Io veggio certamente, e però il narro, / addurne (nella Divina Commedia in realtà si legge “a darne”, ndr) tempo già stelle propinque, / ….. nel quale un Cinquecento Dieci e Cinque, messo da Dio, anciderà la fuia, / e (“con” nella Commedia, ndr) quel gigante che con lei delinque”. È da sapersi che il numero romano DXV si è ge­neralmente interpretato DVX parola fatidica al nostro tempo. [...] Ora questo Messo da Dio ai tempi del poeta non venne mai, e perciò il vaticinio dantesco restò senza applicazione. Solo ai nostri tempi [...] la Provvidenza fece sorgere l’uomo che compì in breve spazio di tempo la gran­diosa riformagione delle cose d’Italia abbattendo ben altra fuja (Dante in realtà scrive “fuia”, intesa come meretrice, con riferimento alla curia papale corrotta, ndr) ed altro gigante che nel nostro caso (nel caso di Alighieri è la monarchia di Francia, ndr) possono essere figure del bolscevismo e della sua insana e perniciosa dottrina. [...] Il nuovo ordine di cose che si è svolto in Italia e l’avvento del Fascismo, sembrano sciogliere l’enimma (sic!, ndr) di Dante. Il DUX viene personificato in Mussolini, che appunto per inesplicabile combinazione fu denominato Dux». 

    Dante in camicia nera

    Di certo, l’accostamento tra Dante e Mussolini non è stato, durante il regime littorio, soltanto una fissazione di questo autore. Come scrive Stefano Jossa, docente di Letteratura italiana all’Università di Palermo, sul magazine online Doppiozero, la battuta del ministro Sangiuliano «ha una lunga storia, che si radica almeno in quel “Dante fascista” che nel corso del Ventennio si affermò progressivamente nell’immaginario di regime». Jossa cita, insieme al libro di Venturini, anche Dante, l’Impero e noi. Dalla Nuova Antologia di Emilio Bodrero (1931) e Dante e Mussolini di Tommaso Vitti (1934). Mentre Stefano Albertini, docente di Italiano alla New York University, nell’articolo Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell'Italia fascista ha scritto nel 1996: «Durante il ventennio fascista non c'era discorso ufficiale, dal Duce all'ultimo direttore didattico, che al punto di ricordare le glorie patrie di questa stirpe di poeti, santi, eroi e navigatori non includesse in pole position il poeta fiorentino. Anche i libri di testo per le scuole elementari e persino i manuali di cultura fascista per le organizzazioni giovanili del regime includevano sempre un ritratto di un Dante pensoso e meditabondo accompagnato da didascalie celebrative e da brevi estratti da passi strategici della Commedia». 

    wefefwefwewewe Medievalismo politico

    È opportuno essere consapevoli del fatto che la strumentalizzazione politica di Dante durante il Ventennio è solo un aspetto dello sfruttamento del Medioevo, più o meno inventato, da parte di quel regime; un (ab)uso d’altra parte già diffuso nel XIX secolo in chiave risorgimentale e nell’Italia repubblicana del XX, a partire dagli anni Ottanta: l’esempio più lampante è l’evocazione della Lega lombarda e del mitico e mai esistito Alberto da Giussano, diventati pilastri identitari della Lega Nord di Umberto Bossi e, in parte, della Lega (senza Nord) di Matteo Salvini. Quindi Gennaro Sangiuliano, evocatore di Dante simpatizzante di Fratelli d’Italia (con quasi 8 secoli di anticipo), non dovrebbe sentirsi solo. Tuttavia, visto il ruolo di ministro della Cultura, ci saremmo aspettati un’analisi un po’ più originale. A Milano, prima di proporla, aveva premesso: «So di fare un’affermazione molto forte». In realtà, visti i numerosi precedenti in salsa mussoliniana, è stata soprattutto un’affermazione che appare prevedibile, disinformata e scontata.

     


     

    BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

    Stefano Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell'Italia fascista, in The Italianist, University of Reading, Reading (Regno Unito) 1996.

    AskaNews, Per il ministro sangiuliano il fondatore del pensiero di destra in Italia è Dante, in AskaNews.it, Milano 14 gennaio 2023.

    Emilio Bodrero, Dante, l’Impero e noi. Dalla Nuova Antologia - 16 maggio 1931, Società Nuova Antologia e Casa editrice d’arte Bestetti e Tumminelli, Roma-Milano 1931.

    Marco Brando, Il medievalismo, cioè il Medioevo (dopo il Medioevo) studiato dagli storici, in Treccani.it, Roma 11 luglio 2022.

    Stefano Jossa, Per Dante, svoltare a destra, in Doppiozero.com, Milano 16 gennaio 2023.

    Benito Mussolini, Messaggio dantesco (27 giugno 1932) - Discorsi, Scritti e Articoli, in Adamoli.org.

    Domenico Venturini, Dante Alighieri e Benito Mussolini, prima edizione, Nuova Italia, Firenze 1927.

    Domenico Venturini, Dante Alighieri e Benito Mussolini, seconda edizione, Nuova Italia, Firenze 1932.

    Tommaso Vitti, Dante e Mussolini, Tipografia Sociale Jacelli & Saccone, Caserta 1934.

  • Il castello di Calafell. La verità dello storico e quella del conta-storie

    di Antonio Brusa

    Questa è l’avventura straordinaria di un archeologo che fa uno scavo e ne scrive la storia, ma subito dopo viene un altro tipo (scrittore, giornalista, uomo di cultura, fate voi), che non ha mai messo mano a quello scavo, epperò ha capito come sono andate le cose e come vadano raccontate. E le mette in rete.

    Insomma, da buon cacciatore di bufale, ho colto il momento in cui ne viene inventata una, e ve la commento.

    Joan Santacana MestreJoan Santacana Mestre

    L’archeologo è Joan Santacana Mestre. Lavora all’Università di Barcellona. Lo conosco perché è uno dei più grandi studiosi di didattica della storia che ho avuto la fortuna di incontrare. Aggirarsi con lui, in uno dei suoi scavi, è uno dei piaceri impareggiabili che a volte mi toccano. Joan ti spiega come gli è venuto in testa l’idea di scavare in quel posto, le difficoltà incontrate e come le ha superate. Ti svela la macchina esplicativa che ha messo a disposizione dei cittadini, perché questi, afferma, hanno il diritto di entrare nello scavo e di assaporare il gusto di capirlo.

    Al principio, il castello di Calafell, una cittadina fra Barcellona e Tarragona, lui non lo voleva scavare. L’archeologia medievale era allora agli esordi, e lui era tutto preso dall’idea di riportare alla luce la cittadella che gli Iberi, una popolazione pre-romana, avevano costruito sulla costa. Ma il sindaco del tempo gli pose l’aut aut. Se vuoi il permesso di scavare i tuoi Iberi, datti da fare anche col castello. E così (per la mia grande soddisfazione di medievista), al principio degli anni ’80 ha cominciato a lavorare sulla rocca che domina il borgo, dove, fra le rovine di un castello e una piccola chiesa, non c’era altro che un cimitero abbandonato.

    Ma gli è piaciuto. E non lo nasconde, mentre mi indica i buchi di fondazione della prima costruzione altomedievale, tutta di legno, com’era di molte residenze post-carolingie. Infatti, Carlo Magno di qui dovette passare, per combattere l’emirato di Cordova, le cui terre cominciavano appena più a sud. Forse Calafell fu un avamposto musulmano, conquistato dai cristiani, come suggerirebbe il nome (Cal’af, castello), per quanto non ci siano troppe testimonianze ad avvalorare questa suggestione. Per allora, dunque, fra IX e X secolo, c’era questo castelluccio ligneo, attorniato dalle capanne dei contadini e, all’altro capo della rocca, la chiesa, minuscola ma con una cripta, oggi dedicata alla Vergine de la Cueva.

    Qui, la storia dei contadini che si ribellarono

    Il castello di CalafellIl castello di Calafell

    La pace della piccola comunità contadina viene violata nel XIII secolo da un signore che allarga la sua residenza e la trasforma in una imponente costruzione di pietra, con le feritoie per le balestre e gli annessi, fra cui una cisterna per l’acqua, i locali per la cavalleria e l’immancabile prigione. E fa fuori i contadini. Distrutte le loro abitazioni, quei poveracci si trasferiscono ai piedi della rocca, dove fondano l’abitato agricolo. La chiesa, anche quella, si ingrandisce. Una doppia navata, pitture, un campanile a vela. Un fossato divide l’area signorile da quella sacra.

    I contadini non ci stanno. Si riorganizzano. Premono contro il signore. A metà XV secolo, li vediamo che si costituiscono in una comunità che può vantare, nel 1493, il sostegno di Ferdinando il Cattolico (sì, proprio lui, il marito di Isabella, che – fra un assedio di Granada e una scoperta dell’America – trova il tempo per dare una mano a questi campesinos, giusto per impartire una lezione al signore).

    Così, entriamo nel XVI secolo. La comunità sembra prosperare e il signore pure. La chiesa si abbellisce e si dota di uno strumento prestigioso: il Communidor. Si tratta di una sorta di basso campanile quadrangolare, con quattro grandi finestre, ma senza campane. Dentro c’era una tavola con una croce. Lo avevano raccomandato al Concilio di Trento per purificare l’aria – sacra magia – infestata dai miasmi delle streghe. Ce ne dovevano essere molte, a Calafell.

    Scoppia la guerra dei Trent’anni, che in Catalogna ha uno dei fronti più violenti. Francesi, signori catalani, contadini e tercios castigliani, tutti se le danno di santa ragione. Calafell ne viene stritolata e distrutta. Si salvano alcune decine di contadini, che trovano rifugio nella provvidenziale cisterna signorile (lo sappiamo da un resoconto coevo): una via di fuga abituale, visto che probabilmente vi si nascondevano durante gli assalti dei pirati, come testimonierebbe una nave saracena, graffita sulle pareti.

    Il Communidor di CalafellIl Communidor di Calafell

    Sulla rocca restano la chiesa e le rovine del castello, fra le quali i contadini cominciano a seppellire i loro morti. Novemila ne troverà Santacana, compresi gli appestati gettati in una fossa comune e ricoperti di calce viva. Quella terra che il signore tolse loro, i contadini se la sono ripresa da morti, alla fine. La rocca diventa il cimitero del paese, fino alla guerra civile, quando i repubblicani impongono di costruire un nuovo cimitero, fuori la città, nel 1937.

    Lo scavo termina nel 1986. Ma Joan non cessa di curarne la didattica. Cartelloni, scritte, libri, libretti divulgativi. Roba che Giménez (lo chiameremo così, per brevità, il conta-storie) ha visto certamente venticinque anni dopo, nel 2011, quando visitò lo scavo. Santacana – deve aver pensato allora – non ha capito un tubo. La storia andò in un altro modo.

    La storia alternativa di Calafell

    A popolare la cittadella, ecco la versione di Giménez, erano stati gli Iberi (altro che contadini altomedievali!). Nell’VIII secolo a.C. allora? no. Troppo poco. Aggiungiamo uno zero. Ottomila anni fa. Un’antica civiltà superiore, che Giménez ci riporta alla luce, illustrando lo scavo da par suo. Ecco la strada che quegli antichi percorrevano. Si vedono i solchi delle ruote, sottolinea (purtroppo per lui, la strada è di età tardomedievale e i solchi sono causati da ruote cerchiate di ferro).

    La strada con i solchi che sale verso il castelloLa strada con i solchi che sale verso il castello

    Sulla parete si vedono delle tombe? Macché: sono delle “scale nobiliari”, per andare su in cima fra le imponenti “costruzioni di quei popoli misteriosi” (in realtà muretti a secco ottocenteschi). Ecco un “silos di grano” (è la base per una pressa da vino). Una fessura naturale nella parete rocciosa diventa una “porta trionfale”, mentre un foro prodotto dalla pioggia è il “tunnel”, doveroso di una città antica che si rispetti (purtroppo le autorità comunali hanno provveduto a sigillarlo, si lamenta). L’abside (un bell’esempio di romanico lombardo) è la “torre dell’omaggio”, accanto alla quale c’è la “torre di guardia” o – chissà perché – la “peineta” (l’alto pettine che le donne spagnole indossavano tradizionalmente), e questa sarebbe il communidor delle streghe. Le feritoie per balestre (e in età moderna per colubrine) ora sono diventate dei “simboli per l’acqua piovana”. La spianata, frutto della ripulitura del terreno da parte degli archeologi, è l’“antica piazza d’armi”, con i relativi “accessi nobiliari”.

    In un altro sito, vengono riprese le invenzioni su queste strade antiche, alcune delle quali sarebbero state costruite dagli abitanti di Atlantide, in fuga dopo il disastro. Su questo argomento, qui c’è l’intervento di Santacana.

    Senza enigmi, che storia è?

    Questa fortezza, sintetizza Giménez nel suo video, è un enigma della storia, un mistero che testimonia il sincretismo e la mescolanza delle culture della regione.

    Guardo il video con Santacana, che scuote la testa di fronte a queste assurdità, mentre ascoltiamo la musica paramedievale di sottofondo. Ci sorprende la sicurezza con la quale vengono dette e lo sfoggio degli stilemi dello storico (“probabilmente”, “approssimativamente”, “sappiamo che”, ecc). Perché non gli rispondi? gli dico. E da dove cominciare? fa lui: è evidente che non sa nulla.

    Non ne sono convinto: nel video si notano i pannelli, con le didascalie chiarissime che vi erano poste. Giménez, che si fa fotografare sullo scavo, le avrà viste. È che ha deciso che non funzionano. La civiltà misteriosa di ottomila anni fa: questo ci vuole. E, difatti, un utente (Joice5500) gli viene appresso: «non è che intendi una civiltà extraterrestre, luiz?» chiede ansioso in un commento di qualche anno fa.

    I conta-storie del XXI secolo

    Giménez è un professionista. Scrive di Maria Maddalena, moglie di Gesù e madre dei suoi figli, del santo Graal, di templari e di misteri – andini come barcellonesi – di catari, di Atlantide e della sua perduta tecnologia. Pubblica video, che, per quanto non appaiano di grandissimo successo, gli permettono di discutere con utenti di tutto il mondo, e di colpire la fantasia di qualche lettore, come testimonia un visitatore del castello, che su Tripadvisor ne riporta fedelmente alcune “scoperte”.

    Giménez non è inquadrabile in quella “ribellione degli ignoranti”, della quale parla Tom Nichols (La conoscenza e i suoi nemici, Luiss 2018). Vive, al contrario, del fenomeno della “pluralizzazione della verità”, spiegata da Daniel T. Rogers, secondo il quale anche la “verità” è diventata un oggetto di scambio, commerciale o politico. È questo il suo mestiere, come deduciamo dalla quantità di conferenze, interviste, programmi radio e televisione e libri dei quali lui stesso ci informa. Lavora nel vasto campo della “Historia ignorada”, scrive, «cercando quei fatti sconosciuti che la Storia ufficiale non suole ricordare».

    Fa parte, quindi, di quella agguerrita schiera di intellettuali che vive combattendo la “storia ufficiale”. È una pattuglia composita, all’interno della quale troviamo negazionisti, complottisti, inventori di tradizioni e scopritori di ogni genere di storie alternative, dalla scoperta dell’America, all’unificazione dell’Italia e ai veri costruttori delle Piramidi, che la consorteria degli accademici tenta – a loro dire – di occultare con ogni mezzo. È un fenomeno ben noto agli storici. Santacana, per esempio, fra le raccomandazioni per riconoscere un sito non affidabile, inserisce proprio questa: «se trovate frasi come “nessuno l’ha detto mai”, “finalmente la verità viene fuori”, passate oltre». Eppure, sono proprio queste le “verità” che tirano. Gli oltre 900 mila follower del blog di José Luis Giménez non sono tantissimi, per questo genere di siti, ma sono sufficienti per permettergli di sbarcare il lunario. Sono il suo pane. Confezionare verità che hanno mercato. In un ipotetico faccia a faccia con l’archeologo, il nostro non avrebbe alcuna difficoltà a opporgli questa sua capacità.

    Come discutere?

    Probabilmente non porta a grandi risultati discutere di documentazione e di interpretazione delle fonti, di credibilità delle cronologie. Facciamo mestieri differenti, lo storico e il conta-storie. Il problema curioso, semmai, è che questi non l’ha ancora capito. Perché prendersela con la “storiografia ufficiale”, dal momento che ha scopi così lontani dai suoi? Dal canto nostro, ciò che potremmo imputare a questi onesti scrittori, è la pochezza della fantasia. Templari, catari, santo Graal, Maria Maddalena. È il campionario sfruttatissimo e stantio di Dan Brown, questo, non il regno dell’invenzione.

    La strega Pepa BarretinesLa strega Pepa Barretines

    Per chi sa lavorare di immaginazione, Calafell è un paese di Bengodi. C’è tutto: le guerre contro gli infedeli, le razzie dei pirati saraceni, il signore cattivo, i contadini ribelli, la peste, i feroci massacri. Né mancano quei personaggi, come Carlo Magno o Ferdinando il Cattolico che, nelle fiction ben congegnate, rivestono il ruolo delle celebrità che si svelano alla fine, fra gridolini di sorpresa. E c’è, per ultimo, la strega Pepa Barretinas, della quale in paese si raccontano leggende e si porta in giro la maschera, ma che una buona base storica ce l’ha. Tra storia e invenzione si intrecciano accordi lussuosi e divertenti, a saperci lavorare.

    Sono i Giménez di questo mondo che li deprimono.

  • Maiden Castle, o della battaglia inventata. Danni collaterali di storie identitarie.*

    di Antonio Brusa

    Il Forte di Maiden Castle, il più grande dell’età del ferro britannicaIl Forte di Maiden Castle, il più grande dell’età del ferro britannica

    Mentre scavavano Maiden Castle, il più famoso forte inglese dell’età del ferro, Sir Mortimer Wheeler e la sua signora Tessa, entrambi archeologi, si convinsero di aver messo le mani sulla prova evidente delle efferatezze compiute dalla Legio II Augusta, che, al comando del giovane generale Vespasiano, cercava di sottomettere gli indomiti difensori della Cornovaglia. “È certamente un cimitero di guerra”, sentenziò Wheeler. Lo dimostrano, argomentò, gli scheletri, molti dei quali recano tracce di orribili ferite, seppelliti alla rinfusa, come accade dopo una battaglia. Decine di morti, che costituiscono la “pistola fumante” di quello che, concluse, fu il “massacro del 43 a.C.”. Un episodio della campagna condotta da Vespasiano, descritta da Caio Svetonio Tranquillo, diventava, grazie all’archeologia, il più dettagliatamente conosciuto di tutta la storia della Britannia romana.

    Erano gli anni ’30 del secolo scorso. Wheeler, che aveva fatto la prima guerra mondiale, era rimasto impressionato dalle sue carneficine. La prima pubblicazione dello scavo avvenne nel 1943, in piena seconda guerra. Si può capire l’enfasi sulla resistenza contro gli invasori e il fatto che, rapidamente, questo evento entrò nella narrazione epica di una Britannia capace di conservare la propria identità nei secoli (oltre al particolare che lo stesso Wheeler, ottimo imprenditore di se stesso, era considerato il non plus ultra dell’archeologia, come ricorda Giusto Traina).

    Il problema, scrive Miles Russell, archeologo che lavora presso la vicina università di Bournemouth, è che la maggior parte degli studiosi ritiene che quella di Wheeler fu una topica clamorosa. Quel sito era già stato abbandonato da decenni quando arrivarono i romani, e quei cadaveri (accuratamente sepolti, a differenza di ciò che lui ne aveva scritto) erano di uomini uccisi nel corso di un lungo spazio di tempo. Essi testimoniano violenze continue fra britanni – fratricide dovremmo dire in una logica identitaria – e non la loro strenua volontà di difendere terra e famiglia contro gli invasori. “Scaramucce, incursioni, combattimenti singoli, sacrifici, esecuzioni o guerre endemiche, è chiaro che questo genere di vita della Britannia meridionale dell’età del ferro metteva in grado gli individui di infliggersi reciprocamente molteplici e orribili ferite senza l’assistenza di Roma”, conclude Russell in un lungo saggio dedicato a questo scavo (Mythmakers of Maiden Castle: Breaking the Siege Mentality of an Iron Age Hillfort).

    Beghe fra eruditi? Per nulla. Il fatto è che, quando una narrazione storica si trasforma in un mito identitario, questo inizia a godere di vita propria e diventa alquanto impermeabile alle revisioni degli storici. Scrive Russel che, dopo quella scoperta, decine e decine di libri, articoli e documentari hanno provveduto a divulgare la storia del martirio di Maiden Castle. E, oggi, è piuttosto complicato fare marcia indietro. Lo potrete constatare visitando il sito che English Heritage vi ha dedicato, il cui autore (come si capisce perfettamente) sa bene come andarono i fatti, ma è piuttosto restio a dirlo chiaramente. Tira fuori la storia che, certo, molti di quegli uomini furono uccisi prima dell’arrivo dei romani (ma non dice da chi), che furono sepolti con cura e quindi non ci fu una battaglia, ma non si può negare – insinua speranzoso - che almeno qualcuno fu vittima dei romani.

    L’identico imbarazzo traspare dal sito dedicato a Wheeler, nel quale, dopo aver riportato le descrizioni liriche del coraggio britannico, dei vecchi e dei bambini trucidati dai romani, si spiega che, in fondo, si tratta di uccisioni avvenute prima del loro arrivo - ma anche durante, si aggiunge -, che forse la battaglia non ci fu, e che (ancora una volta) non si può negare che qualcuno fu veramente ucciso dalle forze imperiali.

    Allo stesso modo Open Education apre col racconto partecipato degli scavi di Wheeler e della crudeltà dei romani, assassini di vecchi e bambini, poi cambia registro, e con un piglio accademico spiega che le evidenze interpretate in certo modo da Wheeler dovevano, in realtà, essere reinterpretate come pertinenti all’età del ferro (considerazione che uno storico capisce al volo, ma che un lettore comune non comprenderebbe con altrettanta facilità).

    Un bel rebus. Non poteva non approfittarne la scuola. Ecco dunque due detective histories, basate su foto di scheletri. Chi li ha uccisi e perché? Di una, se volete saperlo, pagate 90 pounds. Dell’altra, il materiale è interamente in rete, dove troverete gli indizi e le guide per problematizzarli. Gli indizi tendono ad accusare i romani, ma la realtà si potrebbe intuire a partire dalle dichiarazioni di un archeologo sussiegoso che afferma che i responsabili del massacro furono i belgi (una tribù che abitava nel nord della Cornovaglia). Un percorso tecnicamente invidiabile (lo si potrebbe usare come modello), ma discutibile dal punto di vista di ciò che insegna perché, da una parte, quegli indizi NON POSSONO in nessun caso condurre a Maiden Castle, e, dall’altra, la soluzione (i belgi) è del tutto ipotetica.

    Nel curricolo inglese questo evento andrebbe spiegato nella primaria (più o meno come accadrebbe in Italia, se qualcuno volesse lavorarci). È pertinente, quindi, citare qui l’esperienza di storytelling riportata dall’autorevolissima Historical Association, un’associazione che unisce insegnanti e accademici fin dal 1906. L’insegnante illustra il percorso didattico, che parte da un sasso “raccolto a Maiden Castle”, che i bambini toccano, soppesano e descrivono. Poi, introduce la storia di Maiden Castle e dell’aggressione romana. Infine, chiede ai bambini di immedesimarsi in un bambino del tempo - britannico non romano, sottolinea - e di scriverne la storia. Un’attività affascinante, commenta, prima di riportare qualche compito. Quello di Joanna illustra bene gli effetti collaterali di una storia inventata: “Tanto tempo fa, c’era un ragazzo chiamato Brian e la sua famiglia era triste. Un giorno i romani vennero ed entrarono nel castello e tutti erano spaventati. Il papà di Brian e suo fratello furono uccisi dai romani e il papà di Brian e il fratello furono sepolti e, tanti anni dopo, i loro corpi furono trovati da qualcuno”.

     

    *Questo articolo nasce da una segnalazione di Giusto Traina sul sito fb HiMA, “Revue internationale d'Histoire militaire ancienne”.

    Il Forte di Maiden Castle

  • Passato e presente negli attacchi ai monumenti sull'onda del Black Lives Matter

    di Daniele Boschi

    La statua di Albert Pike in Washington D.C. ancora in piedi sul suo piedistallo di granito, dal quale è stata rovesciata lo scorso 19 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Pike_Statue,_Washington_DC_.jpgLa statua di Albert Pike in Washington D.C. ancora in piedi sul suo piedistallo di granito, dal quale è stata rovesciata lo scorso 19 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Pike_Statue,_Washington_DC_.jpg

    Nella Judiciary Square in Washington D.C., a circa mezzo miglio dal Campidoglio, una statua di bronzo alta più di tre metri raffigurava Albert Pike, poeta, giurista, massone e ufficiale dell’esercito degli Stati Confederati durante la guerra civile americana (1861-65). Lo scorso 19 giugno un gruppo di dimostranti ha abbattuto questa statua e le ha dato fuoco, cantando “No justice, no peace, no racist police”. Negli Stati Uniti il 19 giugno, Juneteenth, è una giornata dedicata alla celebrazione dell’emancipazione dalla schiavitù e quest’anno è stata un’occasione per rinnovare le proteste contro il razzismo, divampate a seguito dell’uccisione dell’afro-americano George Floyd, avvenuta a Minneapolis lo scorso 25 maggio.   

    Quella di Albert Pike è soltanto una delle numerose statue abbattute o rimosse nelle ultime settimane sull’onda del movimento Black Lives Matter, che dagli Usa si è propagato anche al di qua dell’Atlantico. Un po’ dappertutto gli attivisti del movimento hanno preso di mira statue e monumenti che celebrano o rievocano personaggi e fatti in qualche modo collegati alla storia della schiavitù, del razzismo e del colonialismo.

    In questo articolo racconto alcuni episodi e le reazioni che hanno suscitato. In un prossimo articolo analizzerò i commenti apparsi sui quotidiani e sul web, anche alla luce delle riflessioni che da diversi anni gli storici e gli esperti di public history hanno sviluppato riguardo all’uso degli spazi pubblici per commemorare personaggi ed eventi del passato, e alle controversie che quest’uso può generare. Antonio Prampolini sta preparando una sitografia completa su questo argomento, in attesa della quale si può consultare questo elenco provvisorio.

    L’attacco alle statue dei Confederati

    Oltre alla statua di Albert Pike, molti altri monumenti che rievocano la lotta dei Confederati contro gli stati dell’Unione durante la guerra civile americana sono stati attaccati o rimossi negli USA nelle ultime settimane.

    Ad esempio, il 1° giugno una statua del generale Robert E. Lee è stata buttata giù davanti alla High School di Montgomery (Alabama) a lui intitolata. Poche ore prima, Steven Reed, primo sindaco nero della città, aveva parlato a una folla eccitata davanti alla scuola elementare dedicata a E. D. Nixon, uno dei principali organizzatori del famoso Montgomery Bus Boycott (1955-56), durante il quale gli afroamericani avevano rifiutato di usare i bus urbani. Reed aveva detto di condividere la rabbia e il desiderio di cambiamento dei propri concittadini, ma li aveva invitati alla calma. Non tutti però hanno seguito il suo consiglio e quattro persone sono state arrestate dopo l’abbattimento della statua.

    Il 10 giugno a Richmond in Virginia una folla di dimostranti ha abbattuto la statua di Jefferson Davis, presidente della Confederazione. Il giorno seguente il sindaco Levar Stoney ha commentato questo evento in un tweetcon le seguenti parole: "Jefferson Davis era un razzista e un traditore che fuggì dalla nostra città mentre le sue truppe eseguivano l’ordine di incendiarla e raderla al suolo. Non ha mai meritato di stare sopra quel piedistallo” [1].  E ha preannunciato la rimozione di altri simili monumenti.

    In molti casi sono stati, in effetti, i sindaci o altre autorità locali a ordinare lo smantellamento dei monumenti. Lo hanno fatto per manifestare la propria adesione alla protesta antirazzista, oppure per prevenire disordini o incidenti (o per entrambe le ragioni). Ad esempio, Greg Fischer, sindaco di Louisville nel Kentucky, ha fatto rimuovere la statua a cavallo di John B. Castleman, un personaggio controverso, poiché dapprima combatté nell’esercito dei Confederati, dove raggiunse il grado di maggiore, ma poi espresse ammirazione per Abramo Lincoln e si schierò contro l’esclusione degli afro-americani dai parchi cittadini. Fischer aveva tentato già l’anno scorso di arrivare alla rimozione della statua, ma senza successo; il suo operato è stato contestato da diverse associazioni locali e una controversia legale è tuttora in atto.

    L'offensiva si allarga

    Rimanendo per ora negli Stati Uniti, occorre aggiungere che l’attacco alle statue e ai monumenti si è allargato in queste ultime settimane fino a toccare anche personaggi storici di ben altro rilievo rispetto ai più o meno celebri generali e ufficiali dell’esercito confederato.

    A Portland, nell’Oregon, sono state abbattute le statue di Thomas Jefferson e di George Washington, entrambi proprietari di schiavi, come è ben noto.

    Nel Golden Gate Park di San Francisco è stata rovesciata la statua di Ulysses S. Grant, comandante dell’esercito che sconfisse i Confederati nel 1865 e poi presidente degli Stati Uniti. Grant è ritenuto colpevole di aver sposato una donna proveniente da una famiglia di proprietari di schiavi e di aver diretto personalmente il lavoro di questi schiavi in una piantagione nel Missouri. Egli stesso inoltre fu proprietario di uno schiavo, che liberò nel 1859.

    Sempre nel Golden Gate Park, insieme alla statua di Grant, è stata buttata giù anche quella di Francis Scott Key (1779-1843), l’autore dell’inno nazionale statunitense, “The Star-Spangled Banner”. L’accusa nei suoi confronti non è solo quella di aver posseduto schiavi, ma anche di aver utilizzato il suo ruolo di procuratore di distretto in Washington D.C. per ridurre al silenzio i fautori della causa abolizionista.

    Infine, il Museo di Storia Naturale di New York ha deciso di rimuovere la statua di Theodore Roosevelt, che finora troneggiava davanti all’ingresso del Museo. La statua mostra il 26° presidente degli Stati Uniti a cavallo e accanto a lui, a piedi, un nativo americano e un africano. Lo stesso pronipote del Presidente, Theodore Roosevelt IV, si è detto d’accordo con la decisione: «Il mondo non ha bisogno di statue, relitti di un’altra era, che non riflettono né le virtù della persona che intendono onorare, né i valori di uguaglianza e giustizia. Questa composizione equestre non riflette l’eredità di Theodore Roosevelt. È tempo di rimuoverla e andare avanti». Ma il presidente Donald Trump ha twittato: «Ridicolo, non fatelo!».

    "Colombo rappresenta il genocidio"

    Se l’attacco ai monumenti di personaggi più o meno illustri della storia degli USA potrebbe lasciarci abbastanza indifferenti qui in Italia, le cose stanno forse in modo un po’ diverso quando ad esser sotto tiro sono le statue dedicate al nostro Cristoforo Colombo, accusato di essere stato un colonizzatore e uno sterminatore dei nativi americani. Anche con lui se la sono presa gli attivisti del movimento Black Lives Matter nelle ultime settimane.

    Il primo episodio, riportato anche dai quotidiani italiani[2], è avvenuto a Richmond in Virginia, dove il 9 giugno, in un parco cittadino, la statua alta due metri e mezzo del navigatore genovese è stata abbattuta, bruciata e trascinata fino a un vicino laghetto, dove è stata gettata. Il piedistallo è stato imbrattato con le scritte "questa terra è dei Powhatan", il nome della popolazione nativa della Virginia, e "Colombo rappresenta il genocidio".

    Immagine 2 ColomboLa statua di Cristoforo Colombo che si ergeva presso il Minnesota State Capitol, buttata giù dai dimostranti lo scorso 10 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Christopher_Columbus_Statue_Torn_Down_at_Minnesota_State_Capitol_on_June_10,_2020.jpgStatue di Colombo sono state sfregiate, abbattute o rimosse anche a Saint Paul nel Minnesota, a Boston , a Camden nel New Jersey, a Houston nel Texas, a San Francisco e in diverse altre città. Un caso particolare è quello del Congresso della California, che ha deciso di rimuovere dalla propria sede le statue di Cristoforo Colombo e della regina Isabella di Castiglia.

    Anche se queste iniziative sono state prese sull’onda delle proteste del Black Lives Matter, in molti casi esse sono anche il risultato delle lotte portate avanti da molti anni dalle associazioni dei nativi americani. Anzi, a Saint Paul nel Minnesota è stato l’ “American Indian Movement” ad organizzare l’attacco alla statua di Colombo, dopo anni di inutili trattative con le autorità locali.

    Su un altro fronte, questi eventi hanno suscitato la reazione del “Movimento Associativo degli Italiani all’Estero” (MAIE), il cui presidente, Ricardo Merlo, è attualmente sottosegretario agli Esteri nel governo Conte. Merlo ha dichiarato che “gli attacchi alle statue di Cristoforo Colombo sono atti vili e scellerati” ed ha aggiunto che “pensare oggi di rivedere la storia è anacronistico, inutile, sbagliato”.

    Abbattimenti e rimozioni di statue in Gran Bretagna

    Come è noto, le proteste del Black Lives Matter si sono propagate dagli USA all’Europa. E anche da questa parte dell’Atlantico alcune statue, considerate come simboli del razzismo e del colonialismo, sono state abbattute o rimosse.

    Il piedistallo vuoto della statua di Edward Colston a Bristol, abbattuta lo scorso 7 giugno durante le proteste del “Black Live Matters”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Edward_Colston_-_empty_pedestal.jpgIl piedistallo vuoto della statua di Edward Colston a Bristol, abbattuta lo scorso 7 giugno durante le proteste del “Black Live Matters”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Edward_Colston_-_empty_pedestal.jpg

    Cominciamo dall’Inghilterra. Lo scorso 7 giugno a Bristol, nel corso di una manifestazione antirazzista, la statua di Edward Colston (1636-1721), membro della Royal African Company e mercante di schiavi, è stata abbattuta, trascinata per le strade della città e gettata nelle acque del porto. Il giorno seguente, l’evento è stato stigmatizzato dal portavoce del Primo ministro Boris Johnson, che ha dichiarato: “I cittadini possono fare campagne per la rimozione di una statua, ma quello che è accaduto ieri è un’azione criminale … Il Primo ministro comprende appieno l’intensità dei sentimenti, ma in questo paese risolviamo le controversie in modo democratico e se si vuole la rimozione della statua ci sono procedure democratiche che si possono seguire”.

    Invece il sindaco di Bristol Marvin Rees, primo sindaco nero del Regno Unito[3], ha mostrato comprensione per i dimostranti e ha dichiarato: “Penso che la situazione era arrivata a un punto critico e la gente sentiva che la statua doveva essere buttata giù … Non posso fingere e non fingerò che la statua di un mercante di schiavi nella città in cui sono nato e cresciuto non fosse un oltraggio per me e per le persone come me”.

    Le “procedure democratiche” sono state invece rispettate a Oxford, dove sulla scia del Black Lives Matter è ripresa la campagna per la rimozione della statua di Cecil Rhodes dalla facciata dell’Oriel College. Il movimento Rhodes Must Fall è nato nelle università del Sudafrica nel 2015 e da lì si è esteso alla Gran Bretagna. Nel 2016 l’Oriel College, pur accettando il dialogo con gli studenti, rifiutò di rimuovere la statua[4]. Ora sembra che le cose siano cambiate, dato che lo scorso 17 giugno l’organo direttivo del College ha votato a favore della rimozione della statua e per l’istituzione di una commissione che si occuperà del tema dell’eredità di Rhodes e del modo di migliorare la condizione degli studenti e dei dipendenti del College appartenenti alle minoranze etniche. 

    Un’altra statua presa di mira è stata quella del mercante di schiavi Robert Milligan (1746-1809) nella East London. Oltre tremila persone hanno firmato una petizione per la sua rimozione e lunedì 8 giugno la statua è stata ricoperta con cartelli recanti la scritta “Black Lives Matter”. Il giorno successivo la statua è stata rimossa per decisione delle autorità locali.

    Ancora più significativo è il fatto che il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha annunciato l’istituzione di una commissione che riesaminerà tutti i “landmarks” della capitale del Regno Unito. A questo proposito Kahn ha dichiarato che “le differenze all’interno della nostra capitale sono la nostra forza più grande, eppure le nostre statue, i nomi delle strade e gli spazi pubblici riflettono un’era passata. E’ una verità scomoda che la nostra nazione e la nostra città debbano una larga parte della loro ricchezza al ruolo che hanno avuto nel commercio degli schiavi e mentre questo è ben riflesso nella nostra sfera pubblica, il contributo di molte nostre comunità alla vita della capitale è stato volontariamente ignorato. Questo non può continuare”. 

    Tuttavia, come è accaduto negli Stati Uniti, anche in Inghilterra l’attacco alle statue non ha preso come bersaglio soltanto i simboli più ovvi del passato coloniale e razzista del paese. Come è stato riportato da tutti i principali media, il 7 giugno a Londra, in margine alle manifestazioni del Black Lives Matter, qualcuno ha imbrattato la statua di Winston Churchillin Parliament Square, scrivendoci sopra le parole “era un razzista”. La sera stessa, un giovane dal volto coperto avrebbe detto a un reporter della BBC di esser stato lui l’autore di quella scritta, motivando così il suo gesto: “Ho etichettato così la statua di Churchill perché lui era un razzista incallito. Ha combattuto i nazisti per proteggere il Commonwealth dall’invasione – non lo ha fatto per i neri, né per la gente di colore, né per alcun altro popolo. Lo ha fatto soltanto per il colonialismo. La gente si arrabbierà – ma io sono arrabbiato per il fatto che per tanti anni noi siamo stati oppressi”.

    Il caso del Belgio e del re Leopoldo II

    In Belgio, all’inizio di giugno, diverse statue del re Leopoldo II (1835-1909) sono state deturpate; ad Anversa una statua del monarca è stata prima vandalizzata e poi rimossa.

    La statua del re Leopoldo II del Belgio in Place du Trône a Bruxelles. Una petizione ne ha chiesto la rimozione. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leopold_II_Statue_at_Place_du_Tr%C3%B4ne_-_panoramio.jpgLa statua del re Leopoldo II del Belgio in Place du Trône a Bruxelles. Una petizione ne ha chiesto la rimozione. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leopold_II_Statue_at_Place_du_Tr%C3%B4ne_-_panoramio.jpg

    Parallelamente il movimento Reparons l’Histoire ha rivolto al comune di Bruxelles una petizione per chiedere la rimozione di tutte le statue di Leopoldo II dal territorio cittadino, a cominciare da quella sulla place du Trône.

    Come è noto, Leopoldo II ricevette nel 1885 dal Congresso di Berlino la sovranità sullo “Stato libero del Congo”, che governò e sfruttò come un suo possedimento privato fino al 1908. Nella petizione si legge questa descrizione del monarca:

    “Riconosciuto come un ‘re costruttore’ e non come un ‘re sterminatore’. Un eroe per alcuni ma anche un carnefice per un grande popolo. Nell’arco di 23 anni quest’uomo ha ucciso più di dieci milioni di congolesi, senza aver messo mai piede in Congo. Per 23 anni utilizzò il popolo congolese come un mero strumento per la produzione della gomma, un prodotto altamente richiesto a quell’epoca. Le persone che vivevano nelle regioni dove si produceva la gomma erano oppresse da un enorme carico di lavoro, a volte persino disumano”.

    La petizione, che alla data del 1° luglio era stata firmata da oltre ottantamila persone, indicava come termine ultimo per la rimozione delle statue il 30 giugno 2020, giorno in cui è caduto il sessantesimo anniversario dell’indipendenza della Repubblica Democratica del Congo. Un’altra petizione, che chiede al contrario di mantenere in piedi le statue, ha raggiunto alla stessa data oltre ventimila firme.

    Per il momento, le statue di Leopoldo II non sono state rimosse. Ma il 30 giugno, per la prima volta, il re del Belgio Filippo ha espresso il proprio rincrescimento per gli atti di violenza e le sofferenze inflitte dai belgi ai congolesi durante il periodo coloniale. Lo ha fatto con una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, nella quale ha anche riconosciuto che il dolore per queste ferite del passato è ravvivato dalle discriminazioni ancora oggi troppo presenti nella società belga.

    "La Francia non abbatterà alcuna statua"

    Per quanto riguarda la Francia, occorre anzitutto ricordare un episodio avvenuto poco prima che si scatenasse il movimento Black Lives Matter. Il 22 maggio scorso a Fort-de-France e a Schœlcher, nel dipartimento francese d’oltremare della Martinica, alcuni manifestanti hanno abbattuto due statue di Victor Schœlcher, l’uomo che scrisse il decreto col quale il governo francese abolì la schiavitù in tutte le sue colonie il 27 aprile 1848. A quanto pare, l’accusa contro Schœlcher è di aver indennizzato lautamente gli schiavisti e di aver oscurato con la sua fama i protagonisti locali della lotta contro la schiavitù.

    Successivamente, dopo l’esplosione delle proteste antirazziste a Parigi e in altre città, il Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, in un discorso pronunciato domenica 14 giugno, ha messo in guardia contro il rischio che la “nobile battaglia” contro il razzismo degeneri in “comunitarismo” e ha preso una posizione molto ferma contro gli attacchi ai monumenti. Ha dichiarato infatti che la Francia “non cancellerà alcuna traccia o nome della sua storia, non abbatterà nessuna statua”.

    Ma questo intervento non ha impedito che diversi monumenti venissero presi di mira nei giorni seguenti. Giovedì 18 giugno, a Parigi, alcuni militanti antirazzisti hanno posto un drappo nero sulla statua del generale Joseph-Simon Gallieni, eroe della prima guerra mondiale, ma anche ispiratore della dura repressione della resistenza della popolazione del Madagascar al dominio coloniale francese (quando fu governatore dell’isola dal 1896 al 1905).

    Qualche giorno dopo, le statue del filosofo illuminista Voltaire – che trasse profitti dal commercio degli schiavi – e del generale e amministratore coloniale Hubert Lyautey (1854-1934) sono state imbrattate con vernice rossa.

    Infine, sempre a Parigi, la statua di Jean-Baptiste Colbert, che si trova davanti all’Assemblea nazionale, è stata cosparsa di vernice rossa e sul suo piedistallo è apparsa la scritta “negrofobia di stato”. Come tutti sanno, Colbert fu ministro di Luigi XIV, ed ebbe un ruolo fondamentale nella riorganizzazione amministrativa, giudiziaria e soprattutto finanziaria dello Stato francese, realizzata negli anni del “Re Sole”; meno noto è il fatto che Colbert fu anche l’ispiratore del «Code Noir», un decreto emanato nel 1685 (due anni dopo la sua morte), che regolamentava la condizione degli schiavi nell’impero coloniale francese.

    James Cook "simbolo del colonialismo e del genocidio" degli aborigeni australiani

    All’altro capo del mondo, in Australia, è stato naturalmente il grande navigatore inglese James Cook (1728-1779) a divenire bersaglio di polemiche.

    Due statue di Cook sono state deturpate a Sidney e una petizione che chiede la rimozione della statua dell’esploratore inglese a Cairns ha raccolto oltre dodicimila firme.

    La petizione si apre con queste parole: “Dal 1972 la statua di James Cook in Sheridan Street si erge come simbolo del colonialismo e del genocidio. E’ uno schiaffo in faccia a tutti i nativi. Per noi rappresenta le spoliazioni, le migrazioni forzate, la schiavitù, il genocidio, il furto delle nostre terre, e la perdita della nostra cultura – insieme a molte altre cose”.

    Il Primo ministro australiano, Scott Morrison, ha difeso Cook e l’eredità del colonialismo, dicendo che l’Australia era un tempo un paese “alquanto brutale”, ma non c’era la schiavitù. Questa affermazione ha scatenato un coro di critiche: in molti hanno ricordato che la schiavitù, o quantomeno il lavoro forzato, furono praticati anche in Australia e nelle isole del Pacifico. E il Primo ministro si è visto costretto a fare marcia indietro:ha chiesto scusa e ha ammesso che i nativi australiani furono spesso trattati in modo crudele.

    Milano chiama Roma: dalla statua di Montanelli alla via dell'Amba Aradam

    Infine, echi del Black Lives Matter sono arrivati anche in Italia, e pure da noi non è mancato qualche episodio di contestazione relativo a statue e nomi di strade.

    A Milano i “Sentinelli”[4] hanno chiesto di cambiare l’intitolazione dei giardini dedicati a Indro Montanelli  e di rimuovere la statua del giornalista che si trova nello stesso parco. Con la seguente motivazione: ‘Montanelli ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale’. Qualche giorno dopo la statua è stata imbrattata  di vernice rossa e sul suo basamento sono comparse le scritte “razzista, stupratore”. Il gesto è stato rivendicato dal gruppo “Rete Studenti Milano” e dal “LuMe” (Laboratorio universitario Metropolitano). Vale la pena ricordare che la statua di Montanelli era già stata imbrattata l’8 marzo del 2019, quella volta con vernice rosa lavabile, per mano di attiviste del movimento femminista “Non Una Di Meno”.

    Il monumento a Indro Montanelli nei Giardini Pubblici a lui dedicati vicino Porta Venezia a Milano. Lo scorso 13 giugno la statua è stata imbrattata con vernice rossa. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Monumento_a_Indro_Montanelli_Giardini_Pubblici_P.ta_Venezia.jpgIl monumento a Indro Montanelli nei Giardini Pubblici a lui dedicati vicino Porta Venezia a Milano. Lo scorso 13 giugno la statua è stata imbrattata con vernice rossa. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Monumento_a_Indro_Montanelli_Giardini_Pubblici_P.ta_Venezia.jpg

    L’atto di accusa dei detrattori di Montanelli si riferisce a fatti ben noti perché raccontati più volte da lui stesso. Quando arrivò in Africa nel 1935 come comandante di compagnia del XX Battaglione Eritreo, formato da ascari, Montanelli, che aveva allora 26 anni, prese come compagna un’adolescente abissina, secondo la tradizione locale. La ragazzina si chiamava Destà. «Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi ovunque mi trovassi, in quella terra senza strade né carte topografiche»[5].

    Alla medesima volontà di “decolonizzare” gli spazi pubblici si ricollegano due episodi avvenuti a Roma. Nella notte tra il 18 e il 19 giugno alcuni attivisti della “Rete Restiamo umani” hanno affisso cartelli con i nomi di George Floyd e Bilal Ben Messaud[6] sulle targhe toponomastiche di via dell'Amba Aradam, nome di un massiccio montuoso a nord di Addis Abeba, dove nel 1936 le truppe del maresciallo Badoglio sconfissero l'esercito etiope in una cruenta battaglia, nella quale gli italiani fecero uso anche di gas asfissianti. La stessa notte al Pincio è stata imbrattata la statua del generale Antonio Baldissera, che fu a capo delle truppe italiane in Eritrea dal 1887 al 1889[7]. Anche questa seconda azione è stata rivendicata dalla “Rete Restiamo umani”, che ha spiegato le proprie ragioni in un lungo messaggio su Facebook, che si apre con queste parole:

    “Black Lives Matter: Dagli Stati Uniti alle sponde del Mediterraneo non si fermerà la protesta. In fermo sostegno alle e ai manifestanti che a partire da Minneapolis hanno riempito le piazze di decine di città del mondo per manifestare contro il razzismo strutturale e hanno deposto simboli di un passato coloniale sempre rimosso, iniziamo ora a smantellare i simboli del colonialismo nella Capitale”.

    Conclusione

    Gli attacchi alle statue e ai monumenti di personaggi storici assunti come simboli dello schiavismo, del razzismo e del colonialismo non sono una cosa nuova. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna gli abbattimenti e le rimozioni di queste ultime settimane appaiono spesso come l’esito di campagne avviate da molti anni. Il fatto nuovo è che, sfruttando l’onda delle grandi manifestazioni di protesta suscitate dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, molte statue sono state effettivamente abbattute o rimosse, a volte col plauso delle autorità locali. Inoltre il movimento ha assunto in alcuni casi un’ampiezza tale da invocare – a torto o a ragione - un profondo ripensamento del modo in cui la storia della moderna società occidentale è stata scritta e raccontata finora. Anche per questo motivo gli attacchi alle statue delle ultime settimane sono stati oggetto di molte riflessioni e commenti da parte di opinionisti, editorialisti, e anche di storici, sui quali mi soffermerò in un prossimo articolo, nel quale illustrerò anche le ragioni per cui questo argomento ha un interesse didattico: da un lato, infatti, l’insegnamento della storia non può ignorare i diversi modi in cui questa viene vissuta e raccontata nel presente; dall’altro lato, le controversie intorno ai monumenti dei grandi personaggi del passato sono un’occasione per sviluppare ricerche e dibattiti e per stimolare un approccio critico da parte degli studenti.    

    [1]Le citazioni tratte da articoli in inglese o in francese sono state tradotte in italiano da me.

    [2]Vedi ad esempio
    https://www.repubblica.it/esteri/2020/06/10/news/usa_statue_colombo_abbattute_e_vandalizzate-258873826/?ref=search

    [3]Così lo definisce il "Guardian" nell'articolo citato, precisando che Rees è il primo sindaco nero del Regno Unito eletto direttamente dai suoi concittadini.

    [4]Vedi il mio articolo del 15 luglio 2019 su “Historia ludens”.

    [5]I “Sentinelli” di Milano si autodefiniscono nel loro sito web come “un movimento informale nato tra il serio e il faceto nell’autunno del 2014 che si contrappone a tutti i soprusi, discriminazioni e violenze che colpiscono la vita di molti: dagli omosessuali ai migranti, dalle vittime di stalking alle vittime di razzismo, dalle donne ai malati desiderosi di un fine vita dignitoso”.

    [6]Informazioni e citazione tratte da
    https://www.corriere.it/esteri/20_giugno_11/proteste-statue-nessuno-tolga-montanelli-suoi-giardini-f35060ec-ab4f-11ea-ab2d-35b3b77b559f.shtml.

    [7]Migrante tunisino morto a Porto Empedocle il 20 maggio scorso mentre cercava di raggiungere terra.

    [8]Baldissera fu anche governatore della colonia Eritrea per un breve periodo nel 1896. Su di lui vedi 
    http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-baldissera_(Dizionario-Biografico)/.

  • Una dieta di bufale. La storia pubblica dell’alimentazione preistorica.

    Autore: Antonio Brusa

    Mandrie di bufale digitali

     

     
    Fig.1Butac.it(Bufale Un Tanto Al Chilo) offre una ricca sezione sulle bufale alimentari


    Può bastare un articolo spiritoso, informato, affidabile e comprensibilissimo, a mettere fuori causa delle pseudo conoscenze circolanti in rete? No. Nemmeno se si tratta del testo sull’alimentazione preistorica, che Joan Santacana Mestre ha dato a noi, di Historia Ludens, e che Susy Cavone ha tradotto. Le bufale, come sappiamo ormai da una buona messe di indagini, di “articoli-che-spiegano-tutto-sulle-bufale”, e perfino da un’edizione speciale (per quanto apocrifa: ma siamo in tema) del Manuale delle Giovani Marmotte, sono prede sfuggenti. Se ne vanno per strade digitali che le smentite non battono, e galoppano per praterie che l’informazione scientifica non riuscirà mai a controllare. Quindi, non ho alcun dubbio che la grande maggioranza degli internauti continuerà a leggere e a rimettere in circolazione le sciocchezze sulla carne cruda che i nostri antenati strappavano a morsi, o sulla vita spartana che conducevano. E allora, perché pubblicare in rete queste smentite? E per quanto riguarda i miei studi (e di tanti miei colleghi): perché dannarsi l’anima per smontare gli stereotipi sul medioevo e, più in genere, nell’insegnamento della storia? (per gli stereotipi sulla preistoria, si può vedere comunque il mio Davide e il Neandertal).

    Un motivo c’è. Non riguarda tanto i problemi dell’affidabilità della rete, ma è certamente interessante per chi insegna: quello di creare o segnalare circuiti di sicurezza, nei quali trovare notizie affidabili. E, dentro questi, aprire degli spiragli per la loro corretta utilizzazione a scuola (nella speranza di un mitico web 3.0, paradiso della buona conoscenza online). Da questo punto di vista, l’articolo di Joan è funzionale. Chiaro e ben illustrato. Può essere letto direttamente dagli allievi. Va inserito, credo, in una efficace cornice di significato, per essere pienamente valorizzato. E questa cornice può essere quella della comunicazione storica diffusa, o della storia pubblica, come dobbiamo imparare a dire. Quindi, non lo vedrei soltanto come uno strumento per far bene un argomento specifico, riguardante oltretutto un periodo storico che sempre di meno si studia a scuola, ma come un momento laboratoriale, nel quale si mettono a confronto conoscenze scientifiche e conoscenze pubbliche sul passato.

    Insomma, se non possiamo educare la rete, possiamo insegnare a qualche ragazzo a muoversi criticamente dentro di essa.

     

    Qualche certezza sull’alimentazione preistorica
    Ho l’impressione che l’articolo di Santacana aumenterebbe, per così dire, la sua forza dimostrativa se lo facessimo seguire da un rapido sondaggio in rete. Un conto è discutere le sciocchezze, un altro allenarsi a scovarle. Insomma, cacciare le bufale può essere divertente e utile, una volta muniti delle armi adeguate. E, come spero di dimostrare alla fine, può diventare l’occasione per discutere di aspetti profondi della nostra società.

     

     
    Fig. 2. La cucina preistorica secondo John Xien (da Santacana Mestre)

     

    Prima di partire per la nostra caccia, fissiamo tre concetti dal lavoro di Santacana:


    -    I preistorici cucinavano. Quindi, non solo NON mangiavano la carne cruda, ma nemmeno si limitavano a “cuocerla” o a arrostirla allo spiedo. Ergaster usava il fuoco da almeno 500 mila anni. Avevano una conoscenza di vegetali commestibili che oggi nemmeno un erborista professionale. Recuperava carni di ogni tipo, frutti, semi e insetti. Non vuoi che qualcuno non abbia cominciato a mescolare mettere insieme questo e quello: e, quindi, a “cucinare”?

    -    I preistorici erano onnivori. Come noi, d’altra parte. Questo lo sappiamo, è scritto nei libri di scuola ormai da molto tempo. Però poi prende il sopravvento l’immagine del bruto che azzanna, e ci attestiamo sul concetto che divoravano carne, e carne cruda.

    -    La preistoria non è sempre uguale. E’ lunga, lunghissima, e non è una, ma tante a seconda delle regioni. E’ legittimo presumere che in alcuni momenti e in alcuni luoghi le cose andassero bene e in altri malissimo. Santacana si sofferma su un periodo del paleolitico finale della penisola iberica, nel quale una popolazione umana piuttosto rada ha potuto usufruire di selvaggina abbondante, catturata con tecniche di caccia evolute. Un periodo di alcune migliaia di anni. Più duraturo, ricordiamolo, dell’intera storia manualistica messa insieme. Ma le cose non andarono sempre in questo modo. La preistoria, dobbiamo immaginarla come un enorme contenitore di periodi lunghissimi, nei quali le diete si alternarono, con prevalenza ora di questo ora di quel complesso di alimenti, a seconda delle variazioni climatiche e degli ambienti diversi nei quali gli umani si insediarono.

     

    Alimentazione preistorica in rete
    Una piacevole scoperta è che la voce “alimentazione preistorica” seleziona siti in genere interessanti. Il nostro cacciatore di bufale ne resterebbe alquanto deluso. Alcuni siti sono apprezzabili, come Incisioni rupestri, dove Maurilio Grassi, del centro Camuno di Studi Preistorici, descrive metodi e risultati della ricerca preistorica, non solo limitati all’ambiente alpino. Altri articoli sono accettabili: perfino quello firmato dal “Gran cazzaro”, pubblicato su The corner, è abbastanza corretto, per quanto si lasci scappare (forse a giustificazione del nickname) che l’incarico di sezionare la carne delle carogne, presso gli Australopitechi, era attribuito alle femmine.

    Un invito a guardarsi dalle diete vegane e, soprattutto, il sito di Michel Montignac, inventore del metodo alimentare omonimo, ci introducono nella vasta schiera di quelli che mettono in rete notizie per uno scopo commerciale. Nel nostro caso, per propagandare una dieta. Montignac propone una sintesi storica, che dichiara di far riferimento all’opera collettiva curata da Jean Louis Flandrin e Massimo Montanari (Histoire de l’alimentation, Fayard, Parigi 1996). E’ abbastanza precisa, con alcune notazioni amene, come il fatto che il legionario romano, essendo male alimentato, tendeva alla pinguedine, ma la sua “pesantezza” era una qualità che gli serviva per “resistere ai colpi dei nemici”, mentre, se l’impero voleva guerrieri agili, si rivolgeva ai germani.ù

     

     
    Fig. 3 Quintilius Goldenslumbus, il centurione di Goscinny e Uderzo, esemplificherebbe bene le conseguenze della dieta romana secondo Montignac.

     

    Apre la galleria dei video quello molto divertente, realizzato per un’istallazione al palazzo reale di Monza, in occasione di Expo 2015, nel quale,disposti su un grande tavolo rettangolare, fanno bella mostra di sé i cibi connotativi delle varie epoche storiche, impiattati come da chef stellati; ma subito dopo,  Anna Martellato, tracciando la storia dell’alimentazione in un video peraltro gradevolissimo, inizia col piede sbagliato, dichiarando che i più antichi uomini della preistoria si cibavano di bacche, frutta, uova e piccoli animali, i quali ultimi,però – sfortunatamente per l’autrice - sono un’acquisizione più recente della dieta umana, come ci ha spiegato Guido Chelazzi, nella sua Impronta originale (Einaudi 2013).Quindi, la galleria dei video si trasforma in una degli orrori, a partire da quelli che si affannano a propagandare in rete il miracoloso metodo nutrizionale “Kousmine”, in curiosa contraddizione con la ripetuta raccomandazione di “tenerlo nascosto alle case farmaceutiche”.

     

    La dieta preistorica è tutta un’altra cosa
    In buona sostanza, tuttavia,la voce “alimentazione preistorica” seleziona siti più o meno dignitosi, almeno dal punto di vista della correttezza scientifica. Il quadro cambia totalmente se digitiamo un’altra voce. “Dieta preistorica” squaderna un panorama totalmente diverso. Tra le prime venti ricorrenze, appena un paio sono di tipo informativo, e anche la relativa voce di Wikipedia, caso insolito nelle mie ricerche in rete, occupa a stento il ventesimo posto. Tutte le altre ricorrenze sono un inno alla “dieta preistorica”.

    In che cosa consiste questa dieta? Lo ricavo da un’intervista di qualche anno fa (2011) di Adelaide Pierucci, pubblicata da “Lettera43.it”, che si propone come imparziale, dal momento che le dichiarazioni di una dottoressa bolognese, grande sostenitrice di questa dieta, sono bilanciate dall’intervento di un suo collega fermamente contrario. La dottoressa centra il cuore del problema. Spiega, infatti, che questa disciplina alimentare – che lei ha ribattezzato con poca perspicuità storica “la dieta dei cavernicoli” - è basata sulla storia. Afferma: “Il dettame, infatti, è tutto là: basta pensare ai nostri avi, anzi risalire agli inizi della specie. Per circa due milioni di anni (fino alla scoperta dell'agricoltura), l'uomo non ha tritato grano e munto vacche. Ma si è cibato solo di cacciagione, bacche, bulbi e radici: era quella la sua alimentazione”. In una “dieta del cavernicolo tipo”, dunque, “la carne è meglio mangiarla cruda, perché dà energia” – è sempre la nostra dottoressa che parla - e quindi, al massimo si può concedere “una bistecca al sangue insaporita con un fungo cotto, pollo e radicchio, carne ai ferri con una noce”.

    La dottoressa ci sta spiegando che la storia è la base scientifica della sua dieta. Praticamente, demanda agli storici il compito di validare le sue teorie alimentari. Ed è quello che facciamo volentieri.

    Per la verità, a dare il primo colpo alla sua ricostruzione del passato, interviene, già in quell’articolo, il suo collega, quando fa notare come la carne che troviamo oggi in macelleria non sia la medesima che centomila anni fa i nostri antenati rosolavano allo spiedo: “Gli acidi grassi essenziali degli animali preistorici non esistono più. E il pesce ora viene per lo più coltivato e imbottito di antibiotici. Senza contare che il cacciatore non mangiava tutti i giorni. Non è vero, poi, che l'alimentazione di un tempo non prevedeva carboidrati: si faceva vasta incetta di semi germogliati”.

    Da storici, non possiamo che confermare. L’animale domesticato è diverso da quello selvaggio. Le pecore, le mucche, le capre e i maiali che allietano il nostro desco sono stati “creati” dall’uomo. Ottomila anni fa non esistevano. E, per quanto riguarda i volatili da cortile (dalle galline al tacchino), che sono spesso consigliati come carni esemplari per le diete, la loro domesticazione è ancora più recente (probabilmente a partire da 3/4 mila anni fa). Se i sostenitori della paleodieta affermano che i cereali fanno male, perché il nostro organismo non si è ancora abituato al loro consumo, a maggior ragione dovrebbero metterci in guardia dalla carne degli animali domestici, dal momento che “esistono” da molto meno tempo.

    D’altra parte, è vero che i cereali e i legumi sono diversi dai loro confratelli selvatici. Ma questo vale per tutti i vegetali domesticati: siano essi frutti (il fico fu probabilmente il primo ad essere domesticato 15 mila anni fa, e a seguire vennero gli altri, domesticati a volte ben dopo i cereali) o i bulbi, come le cipolle e l’aglio, e le verdure.

    «Giusta, perché dettata dalla natura», afferma la dietologa. A rigore, allora, non dovremmo mangiare quasi niente, perché quasi tutto ciò che vediamo sulla nostra tavola è frutto di un lavoro di domesticazione, iniziato migliaia di anni fa (e che continua, con i metodi e le conoscenze che abbiamo nel frattempo elaborato).

    La paleodieta storicamente accertata contemplava, in una scelta piuttosto ricca e varia, anche i semi. E fra questi, vi erano i cereali selvatici. I semi sono nutrienti magnifici e, per giunta, possono essere più facilmente conservati della carne e della frutta. Perché non pensare che sapiens li raccogliesse, magari per servirsene nei periodi di magra? E perché non pensare che li tostasse, per vedere se, cotti, diventavano buoni esattamente come la carne? O li consumasse macerati o in qualche combinazione con altri alimenti? Proprio per questo, i gruppi umani preferivano insediarsi presso i campi spontanei di queste piante preziosissime. E questo già da millenni prima che a qualcuno venisse in testa di seminarli, di macinarli, di impastarne la farina e trasformarla in pane.

     

    Darwin o Mitridate?
    Alla stramba idea della“dieta dei cavernicoli” è associata un’altrettanto strana concezione dell’adattamento. Un’autentica misconoscenza. Perché, infatti, la dottoressa sostiene che l’uomo non “ha fatto in tempo” a adattarsi ai cereali, e invece “ha fatto in tempo” a adattarsi alla carne? E’ evidente che confonde adattamento con assuefazione: poco per volta, anno dopo anno, un cibo che prima ti faceva male, poi lo riesci a digerire in modo efficace. Ci sta raccontando, la dottoressa, che, qualche migliaio di anni prima di Mitridate - quel re diffidentissimo, che tentò di abituarsi al veleno assumendolo a piccole dosi - i preistorici si adattarono ai cibi dannosi, piluccandoli con precauzione. Un adattamento per mitridatizzazione, dovremmo concludere sorridendo, per non chiamare in causa i residui di un lamarckismo ingenuo. E lasciando aperta la domanda delle cento pistole, alla quale, immagino, solo i paleodietologi più arditi oseranno rispondere: “quanto tempo ci vuole perché l’organismo umano si adatti a un certo alimento?”

    Ma in rete abbondano i coraggiosi. Eccone un esponente che dottoreggia: “Secondo questi principi di medicina evolutiva, il corredo genetico dell'uomo moderno sarebbe oggi perfettamente adattato alla dieta del Paleolitico, utilizzata durante oltre 2 milioni di anni, mentre si troverebbe ancora agli albori, dopo soli 10.000 anni, del mutamento genetico necessario per il consumo dei prodotti agricoli. In conseguenza, pur senza ripudiare aprioristicamente il consumo dei prodotti agricoli, la dieta ideale per il mantenimento della salute sarebbe quella che più si avvicina a quella ancestrale”.

    Due milioni è sufficiente, 10 mila è poco? La public history alimentare ci sorprende col suo nuovo “evoluzionismo a spanne”. Tuttavia, non è solo questione di misure date alla buona. Il fatto è che le mutazioni non avvengono “poco per volta” e perciò non esiste un "tempo giusto" per l'adattamento. Per esempio, la nostra colonna vertebrale, così come molte articolazioni, non si sono ben adattate all'andamento bipede. Ricordano ancora, per così dire, il tempo della quadrupedia, di oltre due milioni di anni fa, Per contro, Il caso del latte e della lattasi ci mostra che mutazioni decisive avvennero appena 10 mila anni or sono. Ce lo racconta  Dario Bressanini, un collaboratore di “Le Scienze”. Circa diecimila anni fa, scrive lo studioso, gli uomini cominciarono a nutrirsi di derivati del latte, come lo yoghurt (questo sembra certo, prima di berlo direttamente). Questa nuova possibilità alimentare venne data da una mutazione casuale, un enzima presente in alcuni individui. Non siamo sicuri dei motivi per i quali questa avvenne. Però,accadde allora, e da quel momento alcuni gruppi umani poterono nutrirsi di latte e latticini, e altri no.

    Oggi la mappa della diffusione dell’enzima mostra regioni abitate da popolazioni geneticamente diverse. Ne dobbiamo dedurre che in Europa esistono uomini “artificiali”, o che nella Cina meridionale esiste un’umanità più “naturale”?


     
    Fig. 3. Mappa della diffusione dell’enzima che consente la digestione di latte e latticini

     

    E’ l’evoluzione, dunque, o meglio la coevoluzione fra umani, animali e vegetali, questa grande sconosciuta ai paleodietologi, che andrebbe studiata bene a scuola, per mettere gli allievi in grado di far fronte a questa, come ad altre misconoscenze alimentari che inondano la rete. E le cui scoperte recenti, come  conclude Bressanini, avrebbero addirittura “deliziato” Darwin, che “chissà, forse avrebbe brindato con un bicchiere di latte”.

     

     
    Fig.4.  Un video delProject Invictusaiuta a passare dalle conoscenze approssimative di fruttariani, vegani e paleodietisti alla conoscenza dell’evoluzione, con il consiglio finale di leggere qualche buon libro sull’argomento.

     

    A caccia di bufale!
    Partiamo da un mesto esperimento televisivo, diffuso da Melanzane al cioccolato, durante il quale a tre povere donne, colpevoli di eccesso di colesterolo, hanno fatto ingurgitare chili e chili di frutta e verdura cruda “(carote, meloni, zucche, broccoli, mango, ecc.), cioè quello che mangiavano i nostri antenati”, con l’unica concessione di assaggiare “un’oliva in salamoia”, che, insieme col mango, è una nota delizia del paleolitico. Felici come siamo per aver appreso, dallo stesso sito, della riuscita dell’esperimento, tuttavia non possiamo non far rilevare come la dietologia preistorica sia in realtà lacerata da due scuole di pensiero.

     

    Una carnivora e una di ispirazione sicuramente vegana.


    Alessandra Mallarino sembra incaricarsi del tentativo di conciliarle, dalle pagine di Amando.it, un sito online autorevole, dal momento che dichiara oltre 10 milioni di lettori unici l’anno. Nel suo Dieta preistorica e evoluzione spiega che gli ominidi dapprima furono prevalentemente vegetariani, poi, con la scoperta del fuoco, privilegiarono l’alimentazione proteinica, e dunque le carni. L’autrice scende nel dettaglio. “Nei “piatti” degli ominidi la carne derivava anche da animali molto grossi e spesso molto aggressivi, tra i più temibili i coccodrilli, ma anche ippopotami, che tanto mansueti in realtà non sono, fino alle rumorose scimmie, e ancora a diversi tipi di rettili che oggi non esistono più ma di cui sono rimasti fossili o ossa” (non oso pensare a quali rettili si possa riferire).

    Poi, si lancia anche lei in una teorizzazione evoluzionista ad uso degli ignari. Scrive, infatti, che questa alimentazione “contribuì fortemente all’aumento volumetrico e del numero totale delle cellule del cervello”. Una frase che, pur nel suo incerto italiano, ci vorrebbe far intendere che il cervello, irrobustito dall’alimentazione carnea, costrinse la scatola cranica ad allargarsi. Nel corso dei millenni, naturalmente, millimetro dopo millimetro.

     

     
    Fig. 5. Le vere ragazze mangiano carne di dinosauro, secondo la Gender paleodietology

     

    Dai principi alle ricette. Un vantaggio indubbio della paleodieta consiste nell’eliminazione delle fastidiosissime tabelle caloriche. Basta seguire i saggi consigli che ci vengono dalla preistoria. E, dunque, ecco un paleomenu, dove avete libertà di caccia alle bufale: “A colazione mangia un frutto – magari un’arancia – del salmone affumicato e qualche noce. A pranzo consuma della fesa di tacchino condita con mandorle e lamponi. Sempre a pranzo, non far mai mancare un’insalatona mista con olio d’oliva e succo di limone. A cena opta per scaloppine di vitello con verdura a scelta – anche cotta – melone bianco e semi di girasole. Non sono previsti spuntini, ma se hai fame puoi mangiare delle piccole porzioni di proteine a metà pomeriggio – per esempio due fettine di prosciutto crudo. Sono tutte ricette semplici da realizzare, ispirate alla dieta dei nostri antenati che non avevano grandi mezzi per cucinare!”

     

    Sani, forse belli, ma soprattutto primitivi
    “Marie Claire”lo proclama a gran voce alle sue lettrici. L’uomo preistorico era “atletico, forte e muscoloso”. Tutti? Forse no, se ricordiamo certe raffigurazioni del tempo, come le cosiddette “veneri paleolitiche”. Il dubbio deve essere venuto a qualche adepto e se ne deve essere discusso in rete, se su questo argomento è sceso in campo persino il guru della paleodieta, Loren Cordain. Nel suo blog (dove risponde personalmente alle domande dei seguaci) ammette che queste veneri non “sono affatto un buon esempio di correttezza degli indici di massa grassa”.  E’ uno studioso, però, e ha buon gioco nel richiamare la funzione cultuale e simbolica di quelle statuette.

    E’ vero. Ma questo non toglie che quegli uomini ebbero degli esempi reali ai quali riferirsi, per scolpire seni, natiche e ventri prominenti. Insomma: se non è lecito dedurre dalla Venere di Willendorf che le donne preistoriche fossero tutte in sovrappeso, allo stesso modo non è consentito sostenere che erano tutte slanciate e magre, come la meravigliosa Raquel Welch di Un milione di anni fa.


    Diversa nei tempi e negli spazi, la preistoria fu diversa anche negli individui.

     

     
    Fig. 6 Atletico e muscoloso, l’uomo preistorico non doveva eccedere in bellezza, secondo“Marie Claire”

     

    A compensare una bellezza dubbia, intervengono le qualità morali, che, sempre secondo la rivista online, distanziano l’uomo preistorico da quello odierno. “La differenza rispetto ad oggi è che quegli uomini dovevano faticare per avere ciò di cui sfamarsi e non prendevano mai più di quello di cui avevano necessità”. E’ dopo, quindi, con la vita facile del mondo civile, quello nato “dopo l’agricoltura”, che l’uomo è diventato avido, grasso, pigro e soggetto, per di più, agli attacchi cardiaci. In quel “dopo” c’è tutto. C’è il disagio della nostra società e la ricerca della fuga salvifica in un passato mitico. Non è solo ipocalorica, la dieta preistorica, leggiamo nell’esergo dell’articolo, ma è anche “ecosostenibile”. Qual è la rispondenza con la realtà di queste affermazioni? Le società post-neolitiche furono società facili e dell’abbondanza? Una dieta interamente carnea è anche ecosostenibile?

    Le più che ovvie risposte negative ci fanno sicuri di un fatto: il successo di questa dieta non dipende dalla sua aderenza, più o meno fantasiosa, alla realtà storica, ma da un bisogno di semplicità sempre più diffuso e insopprimibile, in una società troppo complessa, come la nostra. Non è solo questione di rete. Questi sono miti, per quanto fabbricati con materiali scientifici. Con loro, temo che la filologia abbia le armi spuntate. Ben prima del web, fin dai tempi di Socrate.

  • Young Historians Festival, il festival dei giovani storici a Lucca

    di Ilaria Sabbatini

    &nbsp

    Young Historians Festival è il primo festival italiano di storia rivolto ai ragazzi in età scolare, dalle elementari alla scuola superiore: un festival di storia per ragazzi fatto dai ragazzi. Quella che viene proposta per il 2018 è un'edizione zero. Abbiamo l'intenzione di farlo diventare un appuntamento fisso che qualifichi la città di Lucca nel senso dell'attenzione alla storia, alla formazione e alla didattica.

Questo sito utilizza cookies tecnici e di terze parti per funzionalità quali la condivisione sui social network e/o la visualizzazione di media. Chiudendo questo banner, cliccando in un'area sottostante o accedendo ad un'altra pagina del sito, acconsenti all’uso dei cookie. Se non acconsenti all'utilizzo dei cookie di terze parti, alcune di queste funzionalità potrebbero essere non disponibili.