storia romana

  • Insegnare la storia anche con i “se”

    di Luigi Cajani

    Fezzi Roma in bilico La storia controfattuale è stata a lungo irrisa dagli storici: Edward P. Thompson la definiva sbrigativamente “merda antistorica” (affiancandola in questa categoria anche ad altri approcci storiografici come l’econometria e la cliometria)1, mentre Edward Carr ne cercava anche le motivazioni, individuando in essa il gioco salottiero con cui i perdenti della storia, nel suo esempio gli antibolscevichi, si baloccano immaginando come le cose sarebbero potute andare diversamente2. Pertanto, la storia controfattuale è rimasta a lungo confinata nell’ambito della fantascienza, di cui costituisce un importante filone.

     

     
    Brunner Times Without Number Roberts Pavane Dick The Man in the High Castle Harris Fatherland Storia controfattuale e fantascienza

    Vi ricorrono questioni che colpiscono particolarmente l’immaginazione quando si pensa alla storia, come le conseguenze di una vittoria dell’Invencible Armada, oggetto dei romanzi di John Brunner, Times without Number3, del 1962, e di Keith Roberts, Pavane4, del 1968, oppure le conseguenze di una vittoria dell’Asse nella Seconda guerra mondiale, come nel romanzo The Man in the High Castle5 di Philip K. Dick, pubblicato nel 1962, e in Fatherland6 di Robert Harris, del 1992. Non di rado il tema della storia controfattuale si intreccia con quello dei viaggi nel tempo, che consentono cambiare la storia, e non solo di immaginarla diversa.

    Anderson The Time Patrol È il caso dei racconti raccolti nel 1991 da Poul Anderson in The Time Patrol7: con la macchina del tempo gruppi criminali di vario genere vanno nel passato per modificarlo in modo da creare una nuova catena di eventi che porti a un presente alternativo che sia sotto il loro controllo, mentre un corpo di polizia temporale li insegue nel passato per sventare i loro piani. Uno di questi racconti riguarda Annibale, la cui vittoria o sconfitta finale nella guerra contro Roma dipende dalla morte o dalla sopravvivenza dei due Scipioni nella battaglia del Ticino.

     

     

     

    Demandt Ungeschehene Geschichte Toynbee Problems Greek History Gli storici e la controfattualità

    Poi, a poco a poco, anche gli storici hanno cominciato a osare. Fra i primi, Alexander Demandt, che nel 1987 pubblicò Ungeschehene Geschichte8, in cui esamina le possibili conseguenze di un esito diverso di momenti cruciali nella storia, momenti di svolta le cui sorti sembrano essere state in bilico: fra di essi, la vittoria dei Greci a Maratona, la morte prematura di Alessandro Magno, la mancata marcia su Roma di Annibale dopo la battaglia di Canne e, ancora una volta, la sconfitta dell’Invencible Armada.

    Già Arnold J. Toynbee si era chiesto che cosa sarebbe successo se Alessandro Magno fosse vissuto fino alla vecchiaia: fra l’altro, il suo impero sarebbe rimasto unito, anzi si sarebbe allargato da un lato fino all’Atlantico e dall’altro fino all’India, consentendo la diffusione del buddhismo in occidente; e, quanto a Roma, sarebbe stata costretta con un trattato ad abbandonare le mire espansionistiche sull’Italia meridionale9. Poi la schiera degli storici aperti alla controfattualità si è infittita.

    Ferguson Virtual History Niall Ferguson, nel 1997, ha pubblicato un libro collettivo10 in cui si descrivono numerosi scenari controfattuali, come quello di un’Inghilterra in cui Carlo I evita la guerra civile, quello di una Germania nazista che invade l’Inghilterra nel 1940 e quello di un’Unione sovietica che non crolla nel 1989. E lui stesso anticipa lo scenario di una Gran Bretagna che rimane neutrale nella Prima guerra mondiale, che svilupperà in un libro successivo11.

     

     

     

    Lebow Archduke La storia controfattuale in Italia

    L’ineluttabilità o meno della Prima guerra mondiale è un altro dei temi che affascina e turba gli storici, e anche i politologi come Richard Ned Lebow, il quale immagina il fallimento dell’attentato di Sarajevo12. Anche fra gli storici italiani la storia controfattuale è diventata lecita, come mostra un forum su Italia e Germania durante la Seconda guerra mondiale, organizzato nel 2001 dalla rivista Reset, a cui parteciparono Simona Colarizi, Nicola Tranfaglia, Giovanni De Luna, Giovanni Sabbatucci. Quest’ultimo, riflettendo sul senso della controfattualità nell’analizzare le alternative realmente disponibili ai protagonisti di un evento storico e l’impatto di avvenimenti minimi su vicende enormi, citò l’esempio dello scoppio della Prima guerra mondiale:

     

    «Se mentre Gavrilo Princip, l’attentatore di Sarajevo, puntava la pistola contro l’arciduca Francesco Ferdinando, una mosca fosse passata davanti al suo naso e gli avesse fatto sbagliare mira, sono assolutamente convinto che la storia del mondo sarebbe cambiata»13.

     

    Una Roma controfattuale

    A questa schiera di storici si aggiunge ora l’antichista Luca Fezzi con un libro che, pur non essendo destinato all’insegnamento, ne rappresenta una stimolante risorsa: Roma in bilico. Svolte e scenari alternativi di una storia millenaria (Milano, Mondadori, 2022). Fezzi analizza alcuni momenti chiave in cui la storia di Roma sarebbe potuta cambiare, e quindi con essa la storia del mondo: si inizia con la fondazione della città, seguono poi la nascita della repubblica, le oche del Campidoglio, il mancato attacco da parte di Alessandro Magno (tema a cui già Tito Livio dedicò molta attenzione), le scelte di Annibale dopo Canne e di Cesare al Rubicone, le Idi di marzo, e le battaglie di Filippi, di Azio, della selva di Teutoburgo, di Ponte Milvio e di Adrianopoli. Fezzi ricostruisce gli eventi attraverso un confronto fra le fonti rigoroso e accurato ma presentato con uno stile vivace e scorrevole (il che già ne fa un’utile risorsa didattica), e presenta poi alcuni scenari controfattuali, in cui dialoga anche con autori classici. Ad esempio, egli ritiene che se Varo avesse evitato la sconfitta ciò non avrebbe comunque portato a una conquista militare della Germania, dati i caratteri del territorio e la bellicosità delle popolazioni; ma forse avrebbe avuto successo una penetrazione culturale graduale, come aveva già suggerito Cassio Dione, e ciò avrebbe cambiato lo scenario delle invasioni barbariche. Quanto a Costantino, se egli fosse stato sconfitto da Massenzio la storia del cristianesimo sarebbe stata diversa, data la forte impronta personale che egli le diede. Ma non sempre il futuro sarebbe stato radicalmente cambiato dal diverso esito di un evento: se Bruto e Cassio avessero vinto a Filippi, ritiene Fezzi, l’agonia della repubblica sarebbe stata solo prolungata.

     

    Fezzi Roma in bilico La Controfattualità tra realtà storica e conoscenza storica

    La riflessione controfattuale non mette necessariamente in discussione il determinismo, come qualcuno ama credere. Che la storia sia il regno della libertà o della necessità è una posizione filosofica a sé, che riguarda il piano della realtà. La riflessione controfattuale riguarda invece il piano della conoscenza. Infatti, le nostre informazioni sulla realtà del passato sono inevitabilmente molto limitate, in vario modo a seconda dei contesti, e quindi la loro interpretazione si basa sull’attribuire ipoteticamente un certo peso e certe connessioni causali ai vari fattori di cui si è a conoscenza. L’interesse storico della riflessione controfattuale non risiede dunque nella costruzione di scenari di lunga durata, propri della letteratura fantascientifica, scenari sempre più fantasiosi quanto più ci si allontana dall’evento chiave, ma nel restare vicini all’evento e valutare le conseguenze immediate che si possono attribuire a questa o quella variazione. A ben vedere, quindi, la controfattualità è implicita in ogni ragionamento causale: se si afferma che l’attentato di Sarajevo fu la causa della Prima guerra mondiale si sta anche affermando implicitamente che se quell’attentato fosse fallito la guerra non sarebbe scoppiata.

    Per concludere, è opportuno ricordare che la controfattualità, con il dibattito fra determinismo e libero arbitrio, offre – quasi impone - nei licei la possibilità di un dialogo interdisciplinare fra storia e filosofia. Il resoconto di uno di questi interventi didattici, che ha come tema l’inevitabilità o meno della Prima guerra mondiale, è stato pubblicato da Daniele Boschi su Historia Ludens.

     


    Note

    Edward P. Thompson, The Poverty of Theory: or an Orrery of Errors, London, Merlin Press, 1995 (ed. or. 1978), p. 145.

    2 Edward H. Carr, What is History?, London, Penguin book, 1964 (ed. or. 1961), p. 97 (trad. it. Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966).

    Traduzione italiana La società del tempo, Piacenza, La Tribuna, 1972.

    Traduzione italiana Pavana, Piacenza,La Tribuna, 1978.

    Tradotto in italiano dapprima con il titolo La svastica sul sole da varie case editrici, e poi con il titolo L’uomo nell’alto castello dalla Arnoldo Mondadori nel 2022.

    Traduzione italiana Fatherland, Milano, Arnoldo Mondadori, 1992.

    7 Traduzione italiana La pattuglia del tempo, Milano, Arnoldo Mondadori, 1994.

    Alexander Demandt, Ungeschehene Geschichte. Ein Traktat über die Frage: Was wäre geschehen, wenn..., Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1986.

    Arnold J. Toynbee, If Alexander the Great had lived on, in Idem, Some Problems in Greek History, London, Oxford University Press, 1969.

    10 Niall Ferguson (a cura di), Virtual History: Alternatives and Counterfactuals, London, Picador, 1997.

    11 Niall Ferguson, The Pity of War. Explaining World War I, New York (NY), Basic Books, 1998 (trad. it. Il grido dei morti, Milano, Arnoldo Mondadori, 2014).

    12 Richard Ned Lebow, Archduke Franz Ferdinand Lives! A World Without World War War I, New York (NY), Palgrave Macmillan, 2014.

    13 Simona Colarizi, Giovanni De Luna, Giovanni Sabbatucci, Nicola Tranfaglia, Forum / Il nostro "posto al sole" sotto Hitler, in “Reset”, n. 64 (gennaio-febbraio 2001). Questa rivista è tornata sul tema della controfattualità a proposito dell’unità d’Italia, promuovendo in occasione del centocinquantenario il volume collettivo curato da Pasquale Chessa, Se Garibaldi avesse perso. Storia controfattuale dell'Unità d'Italia, Venezia, Marsilio 2011, con contributi di Giuseppe Berta, Emilio Gentile, Giovanni Sabbatucci, Luciano Cafagna, Franco Cardini e Mario Isnenghi.

  • Lezione 7a. La primavera delle donne romane. Un esempio di laboratorio con variazioni didattiche

    di Antonio Brusa

     

    a. Il problema storico

    Valerio Massimo (I sec. a.C- I sec. d. C) aveva un’idea precisa delle donne. Lui, nato povero, aveva fatto la sua fortuna al servizio di Sesto Pompeo, figlio di Pompeo il Grande. Il suo patrono gli aveva permesso di entrare nell’alta società romana, presso la quale cominciò a vendere i suoi libri. Il suo best seller – Detti e fatti memorabili (Factorum et dictorum memorabilium, libri IX) - fu copiato e letto per secoli.

    In quel libro troviamo le donne romane. C’erano donne da non imitare, come quella signora che osò avventurarsi fuori di casa a capo scoperto. “La legge comanda che solo i miei occhi possano giudicare della tua bellezza”, sentenziò il marito, punendola duramente. E le andò bene, perché, se fosse andata a vedere i giochi da sola, o si fosse fermata per strada a spettegolare, questi l’avrebbe ripudiata senza batter ciglio. Ma terribilmente peggio andò a quella ragazza che si era innamorata del suo maestro, senza riflettere sul particolare che fosse uno schiavo. Bene fece suo padre – commentò serio il nostro scrittore – a uccidere entrambi.

    E le donne da ammirare? Valerio le descrive tutte insieme, nel capitolo sull’amore fra moglie e marito. Vi troviamo Giulia, moglie di Pompeo, che si spaventò a morte quando le portarono la veste del marito sporca di sangue. Roba da poco, si era trattato di una rissa. Ma lei pensò che fosse ferito gravemente. Era incinta. Cadde a terra e morì. Porzia, invece, moglie di Bruto (l’assassino di Cesare), quando seppe che il marito si era suicidato, disperata cercò di imitarlo. I parenti, che lo sapevano, avevano fatto sparire saggiamente coltelli e pugnali. Lei, allora, afferrò dei carboni ardenti e li ingoiò. Più o meno come Artemisia, regina di Caria, un regno che si trovava nell’attuale Turchia, che, non contenta di aver costruito per il marito Mausolo una tomba così bella che fu considerata una delle sette meraviglie del mondo, volle trasformare il proprio corpo nel suo sepolcro, e ne bevve le ceneri.

    Le donne romane dovevano essere pronte a difendere l’illibatezza da ragazze e la fedeltà da spose. In questo, dovevano dimostrare un coraggio virile. Di Lucrezia, che tutti i romani ricordavano come esempio di pudore, Valerio dice che aveva un animo da uomo, che solo per un maligno errore del caso era finito nel corpo di una donna.

    La Roma antica non doveva essere un bel posto per le donne, potremmo concludere, dopo aver letto il libro di Valerio Massimo. Ma dipende da quanto gli crediamo. Perché, se proviamo a girare per il foro e per i tribunali, o sbirciamo nelle case nobiliari, nelle cui stanze si tramavano spesso i destini di Roma, qualche dubbio ci viene. Lì vedremo donne che discutono cause ai processi, o fanno discorsi nelle basiliche (e non di rado vincono); donne che organizzano complotti e attività politiche, e cambiano amanti come si cambiano i vestiti. In pratica, si comportano esattamente come i loro coetanei maschi, Cesare, Catilina, Cicerone.

    Il fatto è che Detti e fatti memoriabili è una raccolta di aneddoti che voleva insegnare ai contemporanei - soprattutto alla gente altolocata alla quale ormai Valerio Massimo sentiva di appartenere - i “buoni comportamenti di un tempo”. Dei buoni esempi da imitare. Ora, se qualcuno sente il bisogno di fare le prediche agli altri, vuol dire che questi, a suo giudizio, non si stanno comportando bene. Quindi Valerio sceglieva quegli aneddoti proprio perché le donne facevano il contrario di quello che lui riteneva giusto. Uscivano di casa, andavano al circo, parlavano con chi volevano loro, promuovevano azioni politiche e, nei tribunali, accanto alla voce dei grandi oratori, risuonavano anche voci femminili.

    Non era il solo a pensarla così. Pensiamo a Sempronia, donna straordinaria, intelligente, colta bella, capace di far politica come pochi, che viene descritta da Sallustio come una escort di lusso. O a Clodia Pulcra, donna dell’alta società che apparteneva alla famiglia Claudia, una delle più prestigiose e antiche di Roma. Lei non si era limitata alla conduzione della sua fastosa abitazione, come una brava “matrona”. Era una delle matronae emancipatae del primo secolo a.C. Nel suo salotto si parlava di letteratura, si programmavano colpi di stato e campagne elettorali. Era il braccio politico di suo fratello Clodio, il grande sostenitore di Cesare. Donna bellissima e disinibita, fra i suoi amanti contò lo stesso Cesare, Pompeo e il grande poeta Catullo, che le dedicò poesie appassionate, chiamandola col nome di Lesbia. Si trovò implicata in un processo politico, nel quale Cicerone, il più temuto oratore romano, difendeva l’accusato, Celio, e lei fu la sfortunata testimone dell’accusa. Cicerone la distrusse con un’invettiva che ci è rimasta, e che potrete leggere nel dossier che segue.

    Non era sempre stato così. Nei tempi antichi era stata dura. Le donne chiuse in casa, velate, non potevano nemmeno bere un bicchiere di vino. Era questo il mos maiorum, il “costume dei padri”. Ma ora il vento era cambiato. Valerio, purtroppo per lui, aveva avuto la sventura di vivere in un periodo – gli ultimi decenni della Repubblica e i primi dell’impero - che gli storici chiamano “la primavera delle donne romane”.

    Non durò molto quella primavera. Se Valerio Massimo era uno scrittore di successo, voleva dire che aveva molti lettori che erano d’accordo con lui, e tanti altri romani importanti, come abbiamo visto: Sallustio, Plinio e Cicerone. Erano uomini di potere. Per loro, tutto il mondo doveva imparare dai romani la severità del mos maiorum. Quindi, si dettero da fare per rimettere le donne al loro posto. Per di più, quando – nel II secolo - si affermò la dinastia Flavia, i nuovi imperatori stabilirono che i funzionari dell’impero dovessero esibire una condotta rigorosa. Dovevano dare il buon esempio al popolo. E, come accade in queste situazioni, chi ci va di mezzo è la sessualità femminile. Il caso di Gallitta, vissuta al tempo di Traiano, è emblematico. Era la moglie di un funzionario imperiale, che si era innamorata di un altro ed era stata accusata di adulterio. Il marito, però, le voleva troppo bene e non si decideva a denunciarla. Niente da fare. Lo scandalo andava eliminato. Gallitta fu condannata all’esilio. Era questa la nuova morale. Noi la conosciamo molto bene, perché ad essa si ispirò una nuova religione che si stava piano piano diffondendo nell’impero. Il Cristianesimo.

     

    b. Il mini-archivio di documenti (con alcune immagini che raccontano la fortuna del mito)

     

    01Fig.1: Antonio Lagorio, detto il Genovesino, Suicidio di Lucrezia (XVII sec.)

    Lucrezia

    Esempio della pudicizia romana, Lucrezia, il cui animo virile per un maligno errore del caso era capitato in un corpo femminile, fu stuprata dal figlio del re Tarquinio il Superbo. Con parole amarissime denunciò l’ingiuria di fronte ai familiari riuniti e, con un pugnale che aveva nascosto sotto il vestito, si uccise.

    Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium, VI, 1, 1

      

    La figlia di Ponzio Aufidiano

    Ammiriamo la forza d’animo di Ponzio Aufidiano, cavaliere romano, che avendo sua figlia perso la verginità con il suo maestro, Fannio Saturnino, non contento di aver fatto suppliziare quello schiavo scellerato, uccise anche la ragazza. Così, per non celebrare le nozze vergognose, ne celebrò il triste funerale.

    Id, VI, 1, 3

     

    La moglie di Sulpicio Gallo

    Cacciò la moglie perché se ne era andata in giro a capo scoperto. “La legge, disse, comanda che solo i miei occhi possano giudicare la tua bellezza. La circostanza che ti sia fatta vedere in giro in maniera troppo provocante ti rende necessariamente sospetta e colpevole”.

    Idem, ibidem, 3, 10

     

    La moglie di Antistio Vetere

    Quinto Antistio Vetere scoprì la moglie per strada che parlottava di nascosto con una liberta (una schiava liberata). Allora, preoccupato per gli sviluppi che questa colpa poteva comportare, ripudiò la moglie - cioè la cacciò e la costrinse a divorziare - perché è meglio prevenire il peccato che vendicarlo.

    Id., 3, 11

     

    La moglie di Publio Sempronio Sopho

    Publio Sempronio Sopho ripudiò la moglie per il solo fatto che era andata ai giochi senza avvisarlo.

    Id, 3, 12

     

    Caia Afrania

    Caia Afrania, moglie di un senatore, era una donna litigiosa, in tribunale si difese sempre da sé: non perché le mancassero gli avvocati, ma perché era l’impudenza fatta persona. E così, stancando ininterrottamente i giudici con le sue urla, divenne la personificazione dell’intrigo femminile, al punto che alle donne di cattivi costumi si suole appioppare il soprannome di “Caia Afrania”.

    Ibidem

     

    Porzia

    I tuoi castissimi amori, Porzia, saranno celebrati per secoli, perché, non appena venisti a sapere che tuo marito Bruto, sconfitto a Filippi da Augusto, si suicidò, non avendo la possibilità di ucciderti anche tu, perché i parenti te lo impedivano, non avesti paura di metterti in bocca dei carboni accesi e di imitare col tuo spirito femminile la morte virile di tuo padre: e io non so dire chi di voi sia stato di animo più forte, perché lui si uccise con la spada, come molti; ma tu ti sei data una morte nuova, che nessuno aveva mai udito.

    Valerio Massimo, ibidem, Libro IV

     

    Giulia, figlia di Giulio Cesare

    Un grande amore legava Giulia, la figlia di Cesare, a suo marito Pompeo. Un giorno le riportarono indietro la veste di Pompeo, tutta sporca di sangue. C’era stato un tumulto al campo Marzio, durante l’elezione degli edili, una carica politica romana. Dei feriti si erano avvicinati a Pompeo e ne avevano imbrattato la veste col loro sangue. Ma Giulia pensò che gli avessero fatto qualche violenza, si spaventò e cadde a terra tramortita. Per l’agitazione sopraggiunsero le doglie, dal momento che era incinta, abortì e morì di colpo. E fu un disastro per tutto il mondo, perché con la sua morte si sciolse quel vincolo di parentela fra Cesare e Pompeo, che fino ad allora aveva garantito pace e tranquillità, e ne nacquero furiose guerre civili.

    Valerio Massimo, ibidem, libro IV

     

    La moglie di Egnazio Metennio

    Poiché aveva bevuto del vino dalla botte, fu uccisa a frustate dal marito, e Romolo (il primo re di Roma) lo assolse dall’omicidio. Un’altra donna, che aveva forzato la cassetta dove erano le chiavi della cantina, fu costretta dai suoi parenti a morire di fame. I parenti baciavano le proprie donne proprio per accertarsi se queste puzzassero di vino.

    Plinio il Vecchio, Storia Naturale.

     

    02Fig.2: J.-B. Suvée, (1795) Cornelia, madre dei Gracchi. 

    Cornelia

    Cornelia, la madre dei Gracchi, poiché una signora campana, che era sua ospite, le stava mostrando i suoi gioielli, la interruppe e, indicando i figli che erano tornati da scuole, le disse: “Questi sono i miei gioielli”.

    Valerio Massimo, ibidem, Libro IV, cap. IV

     

    Ortensia

    Ortensia, figlia del grande oratore Quinto Ortensio Ortalo, poiché erano state imposte alle donne delle tasse pesantissime, e non osando nessuno prendere la loro difesa, discusse lei, con coraggio e bravura, la causa in tribunale: riproducendo, infatti, l’eloquenza di suo padre, ottenne per le donne l’esonero dalla maggior parte delle tasse.

    Valerio Massimo, ibidem.

     

    Sempronia

    Sempronia partecipò alla congiura di Catilina per conquistare il potere a Roma. Era una donna, ma aveva compiuto azioni temerarie più di un uomo. La fortuna le aveva dato tutto: la nascita, la bellezza, il marito, i figli. Conosceva la letteratura greca e quella latina. Cantava e ballava con eleganza, più che non sia concesso a una donna onesta. Sapeva fare tutto ciò che spinge gli uomini a innamorarsi. Il pudore e la dignità erano l’ultima cosa per lei. Teneva poco al denaro e al buon nome.

    Andava a caccia degli uomini che le piacevano. Non manteneva quasi mai la parola data. Non pagava i debiti e fu perfino complice di alcuni delitti. Per la lussuria e la povertà si era rovinata. Eppure, non mancava di intelligenza. Componeva versi e battute di spirito, sapeva esprimersi con modestia, con languidezza o con sfrontatezza. E possedeva una buona dose di umorismo.

    Sallustio, La congiura di Catilina, XXV, 1-5

     

    Gallitta

    Gallitta era sposa di un tribuno militare, che stava per presentarsi come candidato alle cariche pubbliche. Si era innamorata di un centurione e perciò era stata accusata di adulterio. Il caso fu portato al giudizio dell’imperatore Traiano. Questi punì il centurione, licenziandolo dall’esercito e esiliandolo. Ma la colpa era stata punita solo per metà. Il marito di Gallitta, infatti, non si decideva a sporgere denuncia per amore di sua moglie. Anzi se l’era tenuta ancora in casa, anche dopo l’imputazione di adulterio, come se fosse soddisfatto di aver allontanato il rivale. Però, la donna andava necessariamente condannata anche contro voglia: perciò, fu mandata in esilio.

    Plinio il giovane, Lettere.

     

    03Fig.3: Charles Guillaume Brun, 1860, Lesbia e il passero

    Clodia Pulcra

    Ammettiamo che una donna senza marito abbia aperto la sua casa alle voglie di ognuno e si sia messa a condurre una vita da prostituta; che si sia data a frequentare le feste di uomini conosciuti appena, in città, in villa, in mezzo al gran mondo, che frequenti una località di svago come Baia, vicino Napoli; ammettiamo infine che una donna si faccia giudicare per quella che è non solo per come si muove e si veste, per il genere di persone di cui si circonda, per l'ardore che mette negli sguardi e per la licenziosità dei discorsi, ma anche per quel suo abbracciare e baciare la gente, per il contegno che tiene sulle spiagge, per le gite in barca e per i banchetti che frequenta.

    Cicerone, Pro Caelio.

     

    c. Le proposte didattiche

     

    1. Un laboratorio ludico: Il Bingo delle donne romane

    Materiali: i documenti del dossier, stampati possibilmente in foglietti separati (14 in tutto)

    10 carte/gettoni, ognuno dei quali riporta una di queste scritte:

    - Famiglia
    - Marito
    - Figli
    - Comportamento delle donne in pubblico
    - Comportamento delle donne in privato
    - Virtù delle donne
    - Difetti delle donne
    - Rapporto delle donne con la politica
    - Donne e cultura
    - Somiglianze e differenze fra uomini e donne

    Scopo del gioco: cercare nei documenti notizie utili

    Tempo: 45 min.

    Procedimento

    La classe viene divisa in gruppi. Ad ognuno di questi viene consegnato il dossier dei 14 documenti. L’insegnante lo presenta brevemente e descrive il gioco.

    L’insegnante estrae da un contenitore, dove li ha deposti precedentemente, un gettone per volta e legge l’indicazione relativa. Ad ogni gettone, gli allievi devono indicare quali notizie su quell’argomento si trovano nei documenti. L’insegnante controlla e assegna uno o più punti, a seconda delle notizie trovate. Se qualcuno fa obiezione, rilevando un errore dell’altro gruppo, e questa obiezione è accolta, prende il punto che viene tolto all’avversario.

    Il gioco va condotto rapidamente (20 min max).

    Debriefing: l’insegnante e gli allievi rivedono i documenti e li discutono (10 min.)

    Fine dell’attività: l’insegnante fa una lezione ricapitolativa del problema, servendosi del testo qui presentato (15 min).

     

    2. Lezione documentata

    Materiali: i documenti del dossier, stampati possibilmente in foglietti separati (14 in tutto)

    Scopo dell’attività: collegare testo e documenti

    Tempo: 30 min. max /60 con la prova eventuale

    Servendosi del testo qui presentato, l’insegnante prepara la lezione. Fa attenzione che in questa non siano mai citati i nomi dei personaggi. Distribuisce agli allievi, divisi in gruppi, i documenti. Li avverte che, quando si fermerà, vuol dire che sta pensando a un documento. Gli allievi dovranno indicare quale.

    Per favorire questa attività, il testo si basa, quasi frase per frase, sui documenti del dossier.

    Questa attività può essere graduata. Sarà molto semplice se l’insegnante citerà gli episodi quasi alla lettera (“una volta una donna rubò le chiavi della cantina”); diventerà più complicata man mano che il testo avrà una forma più astratta (era proibito alle donne assumere sostanze inebrianti). (20 min)

    Debriefing: si riflette sul rapporto fra testo (la lezione) e documenti (10 min.)

    Eventuale prova: l’insegnante assegna ad ogni allievo quattro documenti scelti a caso. L’allievo dovrà scrivere un breve testo, citandoli correttamente. (30 min)

     

    3. Miniarchivio con fonti omogenee

    Materiali: i documenti del dossier, stampati possibilmente in foglietti separati (14 in tutto)

    Scopo dell’attività: simulare la ricerca storica; capire la differenza fra interrogazione e interpretazione; motivare affermazioni facendo riferimento a documenti.

    Tempo: 2 h

    Procedimento

    L’insegnante divide la classe in gruppi e assegna a ciascuno di questi il dossier di documenti, preparato come indicato sopra. Presenta l’attività, invitando gli allievi a immaginare che ogni gruppo sia un Dipartimento di storici, che deve presentare una relazione ad un convegno sulle donne romane. Se i gruppi sono quattro. Ad ognuno verrà assegnato un tema, ricavati (scelto o estratto a sorte) dall’elenco delle carte/gettoni, riportato nel gioco sopra. (10 min.)

    Prima fase: Interrogare (20 min.)

    Ogni gruppo dovrà cercare il maggior numero di notizie riguardanti il tema scelto. Le trascriverà su una scheda, corredata fatta secondo questo modello:

    Titolo della scheda: Le donne per strada
    Contenuto: Dovevano andare a capo coperto
    Fonte: Valerio Massimo, Detti e Fatti memorabili, cap. VI

    Per accelerare il lavoro, l’insegnante suggerirà (se gli allievi non l’hanno capito da soli), che conviene distribuirsi i documenti, e scrivere contemporaneamente le schede.

    Al termine, ogni gruppo comunica quante notizie ha ricavato. Se lo ritiene opportuno, l’insegnante interviene, aiutando i gruppi in difficoltà.

    L’insegnante chiede a ogni gruppo di comunicare agli altri, brevemente, che cosa ha trovato.

    Seconda fase: interpretare

    L’insegnante invita a controllare gli autori dei documenti. Sono tutti maschi. Informa gli allievi sulle idee che gli uomini del tempo avevano delle donne, spiega il significato del “mos maiorum). Invita a rileggere le notizie trovate e a interpretarle (vanno lette in genere “all’incontrario). (15 min)

    Terza fase: costruire un testo

    Ogni gruppo prepara una relazione sull’argomento scelto, nella quale citerà i documenti opportuni. (15 min. Eventuale lavoro a casa)

    Quarta fase: La discussione

    Ogni gruppo affida a un suo oratore il compito di leggere (o recitare) la relazione. Dopo averle ascoltate, i gruppi faranno le loro osservazioni: rilevano documenti non letti, letti male, interpretazioni che non funzionano. Ogni osservazione accettata attribuisce un punto al gruppo. Il gruppo che ribatte con successo all’osservazione prende un punto. (40 min.)

    Quinta fase: Lezione conclusiva

    L’insegnante fa una lezione sintesi, nella quale si serve del testo qui presentato, inquadra il tema nel periodo storico generale, tiene conto anche dei problemi emersi nel corso dell’attività. (20 min.)

    Sesta fase: prova (eventuale)

    L’insegnante affida a ciascun allievo la scrittura di un testo, su uno dei temi non assegnati dell’elenco. Sono sei temi: quindi si possono dare compiti differenziati.

    Esempi di testo

    I due esempi mostrano che non è necessario scrivere testi lunghissimi e che, inoltre, questo esercizio può dar luogo a riferimenti semplici (come nel primo testo) e complessi, come nel secondo. Nel primo, infatti, i riferimenti sono puntuali, a frasi che si trovano facilmente nei documenti. Nel secondo, invece, nelle note bisogna scrivere delle argomentazioni, che non trovano un riscontro diretto nella documentazione, ma sono frutto di nostri ragionamenti.

    a. Testo descrittivo: per ogni frase segnata dal numero, riportare in calce il documento dal quale l’informazione è stata ricavata.

    Le donne romane camminavano velate per le strade (1) e non potevano parlare con nessuno (2). In casa erano sottoposte a una disciplina severissima da parte della famiglia (3). Non potevano bere vino (4). Non potevano innamorarsi liberamente di chi volevano (5).

    Alcune però studiavano (6), sapevano suonare e diventavano celebri nei tribunali (7).

    b. Testo interpretativo: le frasi segnate dai numeri possono essere dimostrate con dei ragionamenti ricavati dai documenti del dossier.

    Gli scrittori romani – tutti maschi – ci hanno tramandato dei ritratti parziali delle donne romane (1). Infatti, quando descrivono delle donne attive, autonome e presenti nella società, tendono a metterle in cattiva luce (2). Il loro ideale di virtù è essenzialmente maschile: e a questo le donne devono adeguarsi (3).

    L’idea di questo laboratorio e le descrizioni delle donne vengono dal libro di Corrado Petrocelli, Il silenzio e la stola, Sellerio, Palermo 1990, che sarà utile per cercare altre notizie sulla condizione femminile a Roma. A questo si potranno aggiungere F. Dupront, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, Laterza, Bari 1990, molto attenta alla storia delle donne nel periodo preso in esame da questo laboratorio. Negli ultimi decenni la storiografia delle donne e di genere si è enormemente arricchita. In rete si può sfruttare l’utile sintesi di Francesca Lamberti, L’identità romana: pubblico, privato, famiglia, in G. Traina (a cura di), Storia d'Europa e del Mediterraneo, Sez. III. L'ecumene romana, Vol. 6, Da Augusto a Diocleziano, Salerno Editrice, Roma 2009, p. 667-707, ora in:

    https://www.academia.edu/4234674/L_identit%C3%A0_romana_pubblico_privato_famiglia_in_AA_VV_cur_G_Traina_Storia_dEuropa_e_del_Mediterraneo_Sez_III_Lecumene_romana_Vol_6_Da_Augusto_a_Diocleziano_Salerno_Editrice_Roma_2009_p_667_707

  • Maiden Castle, o della battaglia inventata. Danni collaterali di storie identitarie.*

    di Antonio Brusa

    Il Forte di Maiden Castle, il più grande dell’età del ferro britannicaIl Forte di Maiden Castle, il più grande dell’età del ferro britannica

    Mentre scavavano Maiden Castle, il più famoso forte inglese dell’età del ferro, Sir Mortimer Wheeler e la sua signora Tessa, entrambi archeologi, si convinsero di aver messo le mani sulla prova evidente delle efferatezze compiute dalla Legio II Augusta, che, al comando del giovane generale Vespasiano, cercava di sottomettere gli indomiti difensori della Cornovaglia. “È certamente un cimitero di guerra”, sentenziò Wheeler. Lo dimostrano, argomentò, gli scheletri, molti dei quali recano tracce di orribili ferite, seppelliti alla rinfusa, come accade dopo una battaglia. Decine di morti, che costituiscono la “pistola fumante” di quello che, concluse, fu il “massacro del 43 a.C.”. Un episodio della campagna condotta da Vespasiano, descritta da Caio Svetonio Tranquillo, diventava, grazie all’archeologia, il più dettagliatamente conosciuto di tutta la storia della Britannia romana.

    Erano gli anni ’30 del secolo scorso. Wheeler, che aveva fatto la prima guerra mondiale, era rimasto impressionato dalle sue carneficine. La prima pubblicazione dello scavo avvenne nel 1943, in piena seconda guerra. Si può capire l’enfasi sulla resistenza contro gli invasori e il fatto che, rapidamente, questo evento entrò nella narrazione epica di una Britannia capace di conservare la propria identità nei secoli (oltre al particolare che lo stesso Wheeler, ottimo imprenditore di se stesso, era considerato il non plus ultra dell’archeologia, come ricorda Giusto Traina).

    Il problema, scrive Miles Russell, archeologo che lavora presso la vicina università di Bournemouth, è che la maggior parte degli studiosi ritiene che quella di Wheeler fu una topica clamorosa. Quel sito era già stato abbandonato da decenni quando arrivarono i romani, e quei cadaveri (accuratamente sepolti, a differenza di ciò che lui ne aveva scritto) erano di uomini uccisi nel corso di un lungo spazio di tempo. Essi testimoniano violenze continue fra britanni – fratricide dovremmo dire in una logica identitaria – e non la loro strenua volontà di difendere terra e famiglia contro gli invasori. “Scaramucce, incursioni, combattimenti singoli, sacrifici, esecuzioni o guerre endemiche, è chiaro che questo genere di vita della Britannia meridionale dell’età del ferro metteva in grado gli individui di infliggersi reciprocamente molteplici e orribili ferite senza l’assistenza di Roma”, conclude Russell in un lungo saggio dedicato a questo scavo (Mythmakers of Maiden Castle: Breaking the Siege Mentality of an Iron Age Hillfort).

    Beghe fra eruditi? Per nulla. Il fatto è che, quando una narrazione storica si trasforma in un mito identitario, questo inizia a godere di vita propria e diventa alquanto impermeabile alle revisioni degli storici. Scrive Russel che, dopo quella scoperta, decine e decine di libri, articoli e documentari hanno provveduto a divulgare la storia del martirio di Maiden Castle. E, oggi, è piuttosto complicato fare marcia indietro. Lo potrete constatare visitando il sito che English Heritage vi ha dedicato, il cui autore (come si capisce perfettamente) sa bene come andarono i fatti, ma è piuttosto restio a dirlo chiaramente. Tira fuori la storia che, certo, molti di quegli uomini furono uccisi prima dell’arrivo dei romani (ma non dice da chi), che furono sepolti con cura e quindi non ci fu una battaglia, ma non si può negare – insinua speranzoso - che almeno qualcuno fu vittima dei romani.

    L’identico imbarazzo traspare dal sito dedicato a Wheeler, nel quale, dopo aver riportato le descrizioni liriche del coraggio britannico, dei vecchi e dei bambini trucidati dai romani, si spiega che, in fondo, si tratta di uccisioni avvenute prima del loro arrivo - ma anche durante, si aggiunge -, che forse la battaglia non ci fu, e che (ancora una volta) non si può negare che qualcuno fu veramente ucciso dalle forze imperiali.

    Allo stesso modo Open Education apre col racconto partecipato degli scavi di Wheeler e della crudeltà dei romani, assassini di vecchi e bambini, poi cambia registro, e con un piglio accademico spiega che le evidenze interpretate in certo modo da Wheeler dovevano, in realtà, essere reinterpretate come pertinenti all’età del ferro (considerazione che uno storico capisce al volo, ma che un lettore comune non comprenderebbe con altrettanta facilità).

    Un bel rebus. Non poteva non approfittarne la scuola. Ecco dunque due detective histories, basate su foto di scheletri. Chi li ha uccisi e perché? Di una, se volete saperlo, pagate 90 pounds. Dell’altra, il materiale è interamente in rete, dove troverete gli indizi e le guide per problematizzarli. Gli indizi tendono ad accusare i romani, ma la realtà si potrebbe intuire a partire dalle dichiarazioni di un archeologo sussiegoso che afferma che i responsabili del massacro furono i belgi (una tribù che abitava nel nord della Cornovaglia). Un percorso tecnicamente invidiabile (lo si potrebbe usare come modello), ma discutibile dal punto di vista di ciò che insegna perché, da una parte, quegli indizi NON POSSONO in nessun caso condurre a Maiden Castle, e, dall’altra, la soluzione (i belgi) è del tutto ipotetica.

    Nel curricolo inglese questo evento andrebbe spiegato nella primaria (più o meno come accadrebbe in Italia, se qualcuno volesse lavorarci). È pertinente, quindi, citare qui l’esperienza di storytelling riportata dall’autorevolissima Historical Association, un’associazione che unisce insegnanti e accademici fin dal 1906. L’insegnante illustra il percorso didattico, che parte da un sasso “raccolto a Maiden Castle”, che i bambini toccano, soppesano e descrivono. Poi, introduce la storia di Maiden Castle e dell’aggressione romana. Infine, chiede ai bambini di immedesimarsi in un bambino del tempo - britannico non romano, sottolinea - e di scriverne la storia. Un’attività affascinante, commenta, prima di riportare qualche compito. Quello di Joanna illustra bene gli effetti collaterali di una storia inventata: “Tanto tempo fa, c’era un ragazzo chiamato Brian e la sua famiglia era triste. Un giorno i romani vennero ed entrarono nel castello e tutti erano spaventati. Il papà di Brian e suo fratello furono uccisi dai romani e il papà di Brian e il fratello furono sepolti e, tanti anni dopo, i loro corpi furono trovati da qualcuno”.

     

    *Questo articolo nasce da una segnalazione di Giusto Traina sul sito fb HiMA, “Revue internationale d'Histoire militaire ancienne”.

    Il Forte di Maiden Castle

  • Mare nostrum. L'originale e le imitazioni. Da un'invenzione all'altra

     

    Per la Marina Militare e per il Governo italiani, Mare Nostrum  è l’operazione di polizia/salvataggio organizzata nel 2013, dopo il naufragio di Lampedusa, nel quale morirono 366 persone. Era il 3 ottobre, giornata che il Senato ha intitolato alla memoria delle vittime delle migrazioni . Un nome, Mare Nostrum,  non del tutto adatto alla circostanza, come fecero notare giornali e storici, osservando che, con ogni probabilità, i ministri italiani ignoravano l’articolo, scritto da Mariella Cagnetta, e apparso su “Limes” nel 1994, nel quale la storica barese spiegava che il Mare Nostrum era un mito, costruito da personaggi ben noti della storia, da Pompeo a Mussolini.
    Non è l’unica ripresa moderna di questo termine. Le vicende dell’Estremo Oriente, infatti, stanno mettendo in risalto un altro Mare Nostrum: quello cinese. Ne aveva parlato, già nel 2008, “Limes”. L’espressione appare corrente nell’ambiente geopolitico. Ne scrive, ad esempio, Alfredo Musto ne Il Mar Cinese Meridionale: il mare nostrum di Pechino (2012, con un’ampia informazione geografica e politica). 
    Le condizioni perché un tratto di mare venga definito nostrum sembrano due. La prima, geografica, è che si tratti di un mare chiuso. La seconda, storica, è che qualcuno ne affermi il dominio. Così, Mare Nostrum è, per gli Usa, il Mar dei Caraibi; per la Cina, il Mar Cinese meridionale e, capostipite necessario e nobilitante della serie, tale viene considerato il Mediterraneo, per l’antica Roma.
     
     
    IlMare nostrum cinese, nella cartina di “Limes”, disegnata da Laura Canali 
     
     Il Mare Nostrum cinese
    Il Mar della Cina Meridionale bagna, a Ovest, la costa sino-vietnamita, a Sud gli arcipelaghi dell’Asia Sudorientale, a Est le Filippine e Taiwan, mentre a Nord confina con le isole meridionali dell’arcipelago giapponese. A osservarlo sulla carta, appare un mare molto meno “chiuso” del Mediterraneo. Tuttavia, negli ultimi decenni, è diventato il cuore dell’economia mondiale: vi transitano ogni anno 60 mila navi, ossia tre volte il traffico del canale di Suez e sei volte quello dello stretto di Panama. Il che equivale a un quarto del commercio mondiale e alla metà del volume commerciale delle tigri orientali, Cina, Giappone e Corea del Sud (Daniel SCHAEFFER, 2014). Queste ragioni economiche, oltre alle note contese politiche e alle risorse energetiche e minerarie che vi si celano, fanno sì che la Cina abbia sovrapposto a questa carta “aperta” del mare, una carta storica tutta propria, secondo la quale si tratta di un mare “chiuso”. 
     
    La Lingua di bufalo
    Nel linguaggio cinese (che a noi pare assai colorito), questa carta storica è chiamata della “Lingua di bufalo”. Negli anni ’30 del secolo scorso, quando fu pubblicata, fu detta anche “Carta dei 9 tratti”, perché identificata da nove segmenti, che definiscono una frontiera marittima, che separa il mare aperto dalle acque costiere degli stati rivieraschi, creando così un unico mare interno, che scende dalla Cina meridionale e disegna, per l’appunto, una sorta di lingua di bufalo. Di recente, nel 2013, questa carta è stata ribattezzata dei “dieci tratti”, dal momento che vi è stato aggiunto un nuovo segmento a Est di Taiwan, a segnalare la volontà annessionistica della Repubblica Popolare Cinese.
     
    L’11 gennaio 2013, "Sinomap Press", organo ufficiale della stampa cinese, ha pubblicato una carta sulla quale il confine dei nove tratti è completato da un decimo, al largo di Taiwan (Wikipedia)
     
    I numerosi piccoli arcipelaghi, a volte di pochi scogli, che costellano questo mare, sono stati l’obiettivo di una frenetica e costosissima attività cinese, volta a costruire piazzeforti, basi navali, o a estendere addirittura la superficie di queste isole. Lo stesso mare è teatro di continue esercitazioni militari, nelle quali le flotte cinese e russa operano spesso insieme, sorvegliate da una Settima flotta Usa, sempre più in allarme. La cartina che segue, redatta per conto della Difesa Usa, nel 2012, registra le continue operazioni diplomatiche e i conflitti aperti che accompagnano questa espansione militare della Repubblica Popolare Cinese (e, per riflesso, la preoccupata attenzione americana). 
     
     
    Rivendicazioni di sovranitànel Mare cinese meridionale
     
    Quello cinese meridionale è un mare che la geografia ha “chiuso” in modo talmente imperfetto, che per sigillarne le falle occorre un dispendio enorme di energie economiche, militari e politiche, da parte di chi se ne vuole insignorire. Una chiusura artificiale, almeno al confronto di quella, che ci appare così “naturale” del nostro Mediterraneo.
     
    E il Mare nostrum autentico.
    Altra cosa il Mediterraneo, dunque, il cui unico accesso erano le Colonne d’Ercole. Più naturale, ci vien fatto di pensare, che i Romani, una volta conquistatene le terre circostanti, ne abbiano abbiano proclamato il possesso con orgoglio. Così troviamo in tanti manuali; così troviamo anche in testi scientifici, primo fra i quali, credo, l’opera di Michel Reddé, fondamentale per chi si occupa della navigazione al tempo di Roma, che si intitola per l’appunto: Mare nostrum. Les infrastructures, le dispositif et l’histoire de la marine militaire sous l’empire romaine (Roma 1986). Con la stessa sicurezza David Abulafia intitola Mare Nostrum il capitolo nel quale parla delle vittorie con la quali Roma sconfisse Cartagine, i macedoni, bonificò il mare dai pirati e si impadronì dell’Egitto. Allora, scrive, il mare nostrum cominciò a riferirsi “a un’idea di Roma molto più ampia del Senatus Populusque Romanus” (Il Grande Mare, Milano 2010, p. 197).
    Quest’idea è talmente scontata (un perfetto esempio di stereotipo colto), che i direttori di “Latinitas”, rivista della Pontificia Academia Latinitatis, hanno sentito il bisogno di rinverdire e ripubblicare un saggio di AlfonsoTraina, scritto negli anni ’50, nel quale si racconta per filo e per segno la storia di quella che oggi, sulla scorta di Eric Hobsbowm, dobbiamo considerare una “invenzione” (A. Traina, B. Pieri, Mare nostrum. Leggenda e realtà di un possessivo, II, 2014, pp. 13-18 ).
     
     Mare Nostrum Nostrum Mare?
    Leggiamo innanzitutto, in questo articolo agile e godibilissimo, che i romani non dicevano mare nostrum, ma nostrum mare. Uno scambio di posto che non comunica tanto l’orgoglio di un possesso, quanto l’opposizione (“quel mare e il nostro”). Avevano imparato questo modo di dire dai Greci, abituati a distinguere fra il Mar Nero e quello Egeo: così Irad Malkin, per il quale, oltretutto l’espressione hemetera thalassa (“nostro mare”) era da intendersi in senso metaforico e non propriamente di possesso (A Small Greek World. Networks in the Ancient Mediterranean, Oxford 2011, p. 3). Al principio, i romani non usavano questa espressione nemmeno per designare tutto il Mediterraneo, ma la riferivano alle acque che bagnano la penisola. Il “nostro mare”, più o meno come noi diciamo: “la nostra spiaggia”. 
    Anche un sostenitore del valore possessivo di “nostro”, come Marshall Cavendish, scrive:  “Dopo la conquista della Sicilia, i Romani orgogliosamente usarono il termine mare nostrum per le acque attorno alla penisola italiana e alle loro nuove isole (…) Solo alla fine chiamarono l’intero mediterraneo mare nostrum” (History of the Ancient & Medieval World,  Vol. 5, NY 1995, p. 695)
    I romani dicevano nostrum, soprattutto, per distinguere il Mediterraneo dall’Oceano. Questo intende Cesare, quando, arrivato al cospetto dei veneti, esperti navigatori della Bretagna (i quali non avevano nulla a che vedere con i veneti nostrani), decide di sfidarli per mare e fa costruire navi con delle attenzioni particolari, perché “l’oceano non è come il nostro mare”.
     
    I nomi del Mediterraneo
    Per i romani, il Mediterraneo era il mare internum o interior  (seguo ancora Bruna Pieri, che ha raccolto e analizzato tutte le ricorrenze di questa espressione). A volte era il mare magnum, per quanto ogni tanto chiamassero così anche l’Oceano. Per il nostro grande dispiacere, non usavano nemmeno “mediterraneo”. Questo nome, infatti, appare verso la fine dell’impero, e nel VII secolo Isidoro lo adopera ancora con il significato generico che forse i nostri geopolitici gradirebbero (ci sono i mari aperti e quelli chiusi, “mediterranei”, appunto). Diventa decisamente “nostro” solo dopo l’avvento degli arabi, commenta Pieri, quando non esiste più un solo padrone del mare, e si comincia a pensare ai tempi passati, nei quali, effettivamente, qualcuno avrebbe potuto chiamarlo “nostro”, ma ahimé, non lo fece.
    Per paradosso è proprio l’Oceano che, almeno in un’occasione, viene chiamato “romano”. Lo sappiamo da alcuni componimenti poetici, attribuiti a Seneca, nei quali, celebrando le imprese delle legioni di Claudio che hanno sbaragliato la regina Boudicca e si sono definitivamente impadronite della Britannia, il Canale della Manica viene definito Romanum Oceanum, e il mare della vinta Britannia nostra aqua.
     
    Chi disse veramente Mare nostrum
    Un paradosso ancora più sorprendente è che a usare questa espressione, nel senso che noi le diamo oggi, fu Annibale. Almeno così ci riferisce Tito Livio che gli fa promettere, nel discorso ai tarantini:  “e sarà nostro quel mare, del quale ora i nemici si sono impadroniti” (et mare nostrum erit, quo nunc hostes potiuntur). Una frase costruita per accendere di sdegno i bravi sudditi di Augusto, ma che funzionò talmente bene, da infiammare a distanza di secoli Giuseppe Mazzini. E’ lui, che sembra dare l’avvio all’accezione odierna: “e sulle cime dell’Atlante sventolò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro”. 
     
    Il mare fascista
    Chi costruisce il mito del Mare Nostrum, e attribuisce definitivamente a questa espressione il significato che oggi consideriamo comune, è il fascismo. E’ durante il ventennio mussoliniano, infatti, che il mare internum viene trasformato nel modello del mare imperiale italiano.  In questa operazione retorica, ritorna sulla scena l’eterna nemica Cartagine, nelle vesti dell’Inghilterra che - insegnava agli italiani Mario Appelius, speaker del regime – bisogna distruggere, perché ha fondato un  «mostruoso impero d’essenza fenicia accampato con la sua massa nei cinque continenti» (P. Giammellaro, Times/Semit. Inglesi e Fenici nella storiografia e nella propaganda fascista).
     
     
    E Mare nostrum diventò un oggetto di studio. Questa è la pagella di Lidia, una delle tante bambine che frequentarono la seconda elementare nell’anno dell’entrata in guerra. Vi leggiamo in bella mostra la scritta Mare Nostrum, sul mar mediterraneo, con un corredo di pugnali e moschetti. L’immagine è commentata da Ugo Piscopo, La scuola del regime: i libri di testo nelle scuole secondarie sotto il fascismo, p. 197
    Il mito del Mare nostrum è partorito dalla politica, insegnato nelle scuole e nutrito dalle Università. Andrea Perone ha studiato le annate di “Geopolitica”, una rivista che fino al 1942 raccolse i più importanti geografi italiani a sostegno esplicito delle mire imperiali fasciste. La geografia, argomentavano quegli studiosi, aveva posto l’Italia al centro di un mare che – ed ecco la storia -  essa aveva dominato ininterrottamente, con la sola parentesi araba, dall’antichità all’età moderna.
     
    In conclusione 
    Le invenzioni hanno le gambe corte. E Mare nostrum non fa eccezione. A cosa volevano riferirsi i fascisti: a un mare che effettivamente era dominato dai romani, ma che questi non chiamarono (se non saltuariamente) “nostrum”? a cosa allude la "Lingua di bufalo" dei cinesi: al mare di Cneo Pompeo o a quello del quale Mussolini reclamò invano il possesso? e, infine, cosa intendevano i nostri governanti, quando tirarono fuori dal cilindro della storia il nome da dare a un’operazione umanitaria? Che avrebbero aiutato solo i naufraghi vicini (significato oppositivo); o che il mare nel quale soccorrevano i naufraghi, era percorso da flotte invincibili, come quelle dei romani (significato possessivo)?
    In tutti questi casi, varrebbe la pena di ricordare quello che scriveva uno dei primi studiosi, che (era il 1907!) ha bollato l’uso improprio di mare nostrum, raccomandando di “non attribuire alla superbia dei romani quello che spettava alla nostra ignoranza” (G.Grazzo, Nostrum mare, “Bollettino della Società geografica Italiana” 1907, pp. 1222-1228: sempre citato da Bruna Pieri).
  • Roma e le genti del Po

    Autore: Antonio Brusa

    Il grande fiume scorre nella foresta, la nemica acerrima dei Romani.  Un canale, ben curato, attraversa la pianura centuriata. Sullo sfondo, la Brescia odierna. Fra queste scene, che ti avvolgono dagli schermi curvati, si snoda “Roma e le genti del Po” . Una mostra che, mi auguro, segna la fine della mania etnicistica che ha caratterizzato le esposizioni degli ultimi trent’anni (i Balti, i Celti, i Greci dell’Occidente, i Barbari e i Romani).  Un avvilente ossequio all’andazzo ideologico, che, in tempi ancora freschi, ha spinto gli organizzatori a confinare nello spazio nascosto dei cataloghi quegli studi (di Gasparri e di Pohl, per esempio) che dimostravano l’abuso del termine “popolo”, per indicare aggregazioni antiche, le cui caratteristiche non corrispondono a quelle odierne. Saggi che solo uno storico si andava a leggere, mentre il visitatore ignaro (al quale queste mostre sono, in primis, dirette) se ne usciva con l’idea che “un tempo questa terra era abitata da popoli felici, che poi vennero oppressi da Roma, conquistatrice di ieri (e ladrona oggi)”.

    In questa esposizione scopri che i Veneti e i Cenomani erano alleati dei Romani, e da questi ampiamente premiati. Che i Boi e gli Insubri erano federazioni tribali (e non popoli, dunque) e, spesso, si trattava di élites, che si insediavano in terre, abitate da una congerie di popolazioni italiche, con le quali, dopo iniziali fasi di conflitto, trovavano un modus vivendi pacifico, dando origine a “nuove popolazioni”. Si vedono tesoretti di monete puniche, siceliote, sarde e italiche. Dracme celtiche, coniate sul modello di quelle greche. Templi insubri dedicati a divinità delle quali l’interpretatio aveva fornito il corrispettivo latino, e che, in ogni caso, erano rappresentate con aspetti latini, come il sacrario di Atena a Mediolanum, dove i celti custodivano le loro insegne auree. Iscrizioni bilingue, nomi personali misti (un po’ latini e un po’ celti o veneti). Modi di vestire altrettanto contaminati. Scopri, confrontando con i documenti le idee che ti porti appresso, che gli elmi con le corna erano bellamente etruschi e che, se nei musei siciliani si trovano dei sicilianissimi “soli delle alpi”, qui, nelle piane lombarde, si usava il simbolo  adottato dalla Sicilia come marchio identitario.

    Scopri che la valle romanizzata è altrettanto padana di quella celtica, etrusca, veneta o ligure. E la bellezza di questo territorio è proprio quella di conservare la sedimentazione di queste fasi. E, da insegnante, ne trai la giusta conclusione che lo scopo di una corretta educazione al patrimonio è quella  di mettere in grado gli abitanti attuali di questa pianura a leggere questo territorio, a capirne la ricchezza straordinaria e a sentire la responsabilità di custodirla. Quale che sia la loro origine.

     

    Si intravede, fra le righe della mostra, il quadro della “etnogenesi”, un fenomeno, noto agli storici soprattutto attraverso gli studi della scuola di Vienna, della quale Walter Pohl è il maestro riconosciuto. In questo modello, i “popoli” non esistono, ma sono costruzioni incessanti, ieri come oggi. Rielaborazioni di elementi locali e esogeni che non si bloccano mai ad un livello “celtico” o “etrusco” o “romano”. O “italiano”. E’ quindi un abuso contemporaneo staccare delle immagini da un contesto che è in evoluzione continua, per farne il simbolo di una inesistente identità autentica. L’etnogenesi è un fenomeno complesso, che va letto con attenzione e senza mitizzazioni. Nemmeno quelle ireniche. Nella mostra si trovano gli spunti giusti: nelle armi e nell’esaltazione degli eroi, che combattono su fronti multiformi. Punici, celti, romani, liguri o veneti o sanniti. Nei trofei, come la testa di Albino Postumio, antenato del costruttore della Postumia, che fu dorata e custodita in un sacrario celtico. Nel frontone del tempio di Talamone, dove i romani avevano rappresentato il conflitto con gli italici, presentandosi come i Tebani che sconfiggevano i Sette e li mandavano all’inferno.

    In questa complessità c’è spazio anche per la poesia. L’ultima parte della mostra è dedicata ai poetae novi e, credo non solo per me, è stata una sorpresa commovente scoprire che il ritratto di poeta, ritrovato a Sirmione, è proprio quello di Catullo. E’ la tesi di Paolo Moreno, e da questo momento, guai a chi me la tocca.

  • Storia romana con i wargame (e non solo).

    di Marco Mengoli

    Esistono moltissime tipologie di boardwargame, giochi da tavolo che cercano di simulare singole battaglie o intere campagne e, attraverso di essi, è possibile rivivere avvenimenti storici di ogni tempo. Sono un indubbio successo commerciale: ma si possono utilizzare anche a scuola? E per cosa? E come?

     

    Scienza, non fantascienza

    Il primo rischio, quando si utilizzano i giochi a scuola, è quello di accontentarsi di far rivivere l’evento storico, di annotare se nella nostra simulazione tutto si è svolto come nella realtà, di assistere all’entusiasmo degli studenti, felici di aver potuto perdere qualche lezione facendo qualcosa di diverso dal solito, e prontissimi a dimenticarsi di tutto quello che si è fatto il più in fretta possibile, salvo particolari come chi ha vinto o quanto ci si è divertiti a giocare. Infatti, è bene chiarire subito: la mera ripetizione ludica di un evento storico rischia di cadere nel nozionismo fine a sé stesso e, soprattutto, di occupare moltissimo tempo per descrivere le regole del gioco e per giocare agli studenti rispetto ai pochi minuti di una classica lezione frontale che avrebbe potuto raggiungere gli stessi risultati.

    E allora? Non serve a nulla portare il boardwargame a scuola? Questa è un’esperienza condotta in un istituto tecnico vicino Roma. Il lettore potrà giudicare.

     

    L’esperienza alla scuola Rosselli di Aprilia

    Nell’Istituto Tecnico “Carlo e Nello Rosselli” di Aprilia, insieme a un bel numero di docenti e studenti, provo a fare didattica ludica utilizzando giochi reperibili sul mercato sin dal 2015. L’unità di lavoro che qui presento, ha impegnato dieci ore di lavoro in classe, presso la 2 B Informatica e Telecomunicazioni 2022/23: mi ha permesso di superare il concetto di gioco come divertente sistema di memorizzazione di eventi, per capire come questo strumento possa arrivare a far ragionare gli studenti su aspetti importanti del pensiero storico, come ricercare, reperire, confrontare e utilizzare una o più fonti storiche.

     

    Primo reFig. 1: il gioco Roma il primo re di Riccardo Affinati (Accademia Wargame, 2021)I giochi di Riccardo Affinati

    Come base per l’attività, che ha coperto il periodo della Roma monarchica e primo-repubblicana, abbiamo utilizzato i giochi Roma. Il primo re (Accademia Wargame, 2021) e Roma repubblicana (Accademia Wargame, 2020) di Riccardo Affinati. Questi giochi hanno il pregio di garantire una buona simulatività dell’andamento di una battaglia dell’antichità, pur con un regolamento in italiano molto semplice. I giochi sono acquistabili rivolgendosi direttamente all’autore attraverso il Gruppo Facebook “Accademia wargame”. Arrivano attraverso comodi file pdf che, quindi, possono essere stampati col numero di copie necessarie per l’uso in classe (quattro), con l’accortezza però di stampare la plancia su formato A2 (invece dell’A3 suggerito dall’autore).

    Il primo gioco (Roma. Il primo re) simula quattro battaglie di stampo semi-mitico, combattute da Romolo: quella del Lago Curzio contro i Sabini e quelle di Fidene, Cameria e Veio (la prima di una successiva lunga serie).
    Gli studenti, divisi in quattro gruppi, hanno avuto una settimana per lavorare a casa e studiare una delle battaglie presenti nel gioco attraverso dati raccolti dal proprio libro di testo e dalla Rete. Il tutto è stato poi riproposto, secondo i dettami della cosiddetta “classe capovolta”, ai compagni attraverso una presentazione di venti minuti che doveva mettere in evidenza con chiarezza le fonti primarie e secondarie. Dopodiché, una volta studiate a casa le regole del gioco da tavolo, i ragazzi hanno simulato le battaglie in due ore in classe, svolgendo alcuni turni di gioco.

    L’autore del gioco ha scelto di proporre l’organizzazione dell’esercito romano dell’epoca seguendo le direttive della successiva riforma serviana e non come una serie di bande di nobili-guerrieri uniti da rapporti di clan, più storicamente accurata. Proprio questo anacronismo è stato l’occasione per l’intervento didattico: agli studenti è stato spiegato che la scelta del game designer era legata a una maggiore “pulizia” e ordine di gioco, e che a loro spettava il compito di distinguere gli eventuali errori della simulazione.

    LagoCurzioFig.2: L’ambiente della battaglia del Lago Curzio, da Roma il primo reGli studenti avevano già un’esperienza pregressa nel cercare fonti primarie e secondarie in Rete e utilizzarle poi per una presentazione: quindi è stato sufficiente aiutarli a trovare le fonti da cui partire (Tito Livio è facilmente rintracciabile in Rete, sia in versione originale che in traduzione e per queste semplici ricerche può essere un’utile base di partenza anche un sito generico come Wikipedia) e guidarli nell’analisi del gioco e delle sue particolarità stilistiche, attraverso l’ascolto a casa di due puntate del mio podcast dedicato alla didattica ludica:

      

     

    Roma repubblicanaFig. 3 Roma Repubblicana di Riccardo Affinati (Accademia Wargame, 2020) Roma Repubblicana

    Completata la prima parte, siamo passati al secondo titolo dello stesso autore (Roma Repubblicana), che segue lo stesso tipo di regolamento, ma con eserciti strutturati in maniera differente, per simulare quattro battaglie del primo periodo repubblicano: il Lago Regillo del 496 a.C. contro la Lega latina; Satrico del 381 a.C. contro i Volsci; la Battaglia delle Nazioni del Sentino del 295 a.C. e quella del Lago Vadimone del 283 a.C.

    Anche in questo caso, gli studenti sono stati divisi in quattro gruppi e a ognuno di essi è stata assegnata una battaglia da presentare. Ma non è stato necessario giocare poi in casse. Il compito, infatti, è stato quello di analizzare lo scenario proposto dal game designer e commentarlo rispetto alla sua aderenza alle fonti. Era una ricostruzione storica accettabile? O l’autore aveva fatto delle scelte, magari legate al bilanciamento del gioco? E in generale, perché l’autore del gioco aveva fatto quelle specifiche scelte? A quale fonte, eventualmente, si era ispirato?

    Anche in questo caso Riccardo Affinati, per semplicità di prodotto, aveva un poco anticipato i tempi storici proponendo per tutte e quattro le battaglie un esercito romano strutturato secondo la suddivisione manipolare, mentre la comunità scientifica contemporanea sostiene che questa organizzazione comparve a partire dal tardo quarto secolo a.C. Anche in questo caso, l’anacronismo ludico non è stato un problema, ma lo spunto per discutere, riflettere e approfondire, come nel caso precedente, dopo l’ascolto del podcast dedicato.

     

    La prova di realtà

    Come verifica finale, agli studenti divisi in gruppi è stato proposto di preparare singolarmente - in due ore in classe - uno scenario di una tra due battaglie dell’epoca combattute nella nostra zona (il Lazio): la seconda battaglia di Anzio (468 o 466 a.C.) o la battaglia di Ardea del 442 a.C. Era richiesto loro di scegliere il terreno tra i quattro disponibili nei giochi originali, gli eserciti da presentare, il nome e il valore dei leader ed eventuali regole speciali per descrivere eventi particolari avvenuti durante le stesse, citando ovviamente le fonti e le basi su cui compivano quelle determinate scelte. Potevano tutto ciò che avevano a disposizione: i regolamenti, le pedine, gli scenari già visti, ma anche il telefonino per le ricerche online.

    Esercito romanoFig.4: lo schieramento romano alla Battaglia delle Nazioni, che segue l’ordinamento manipolare, da Roma RepubblicanaE lì è avvenuto “il miracolo”. Escludendo i soliti studenti che non avevano nemmeno avvicinato l’argomento, cercando di sfruttare il lavoro degli appartenenti al proprio gruppo durante le fasi precedenti (e che sono quindi usciti con una valutazione deludente), ho visto studenti ragionare da storici, cercare nelle fonti gli elementi necessari ai loro obiettivi, fino ad arrivare alla sana invidia nei confronti di chi poteva avvantaggiarsi di un numero maggiore di fonti. Ragionamenti che, probabilmente, non sarei mai stato in grado di sollecitare o spiegare con una lezione frontale classica o anche capovolta. Una prova di realtà estremante sfidante che ha visto i risultati collocarsi lungo una parabola che iniziava dal risultato terribile dei due studenti che per tutto l’anno avevano rifiutato qualsiasi tipo di rapporto con qualsiasi offerta educativa della scuola (compresa, dunque, la didattica ludica), passando per la maggioranza della classe che ha più o meno compreso e affrontato il compito, fino ad arrivare alle quattro eccellenze di chi era riuscito a preparare uno scenario perfetto, praticamente pronto per essere consegnato all’autore del gioco per un eventuale futura pubblicazione.

    Alla conclusione del lavoro, mi sembra che sia stato una prova effettivamente sfidante ed equilibrata rispetto agli studenti, ma soprattutto che abbia reso non solo interessante ma anche credibile e persino divertente lo sviluppo di competenze come quelle necessarie alla ricerca storiografica, alla selezione dei dati necessari per il proprio obiettivo e a una restituzione finale differente dalla classica relazione scolastica che spesso diventa un riassunto notarile di un tema, peraltro (le prime guerre di Roma) che solitamente non è particolarmente accattivante.

     

    Fallo con ChatGPT!

    Lo leggiamo ovunque, ChatGPT, il noto programma di “intelligenza artificiale”, è il Diavolo tentatore di ogni genere di maleficio scolastico. Noi lo abbiamo messo alla prova. Alla fine del lavoro, gli abbiamo chiesto come avrebbe svolto lo stesso compito dei ragazzi. Ecco le domande:

    • Richiesta: Prepara uno scenario per uno dei giochi di Riccardo Affinati descrivendo e motivando le tue scelte anche attraverso il confronto con altri scenari già esistenti, indicando le fonti utilizzate.
      Si richiede di indicare, in ordine:
    • l’ambiente
      (mappa ed eventuali aggiunte – modifiche)
    • i leader e i punti comando
    • l’ordine di battaglia
      (quanti e quali segnalini mettere per ogni esercito)
    • eventuali regole speciali.
    • Seconda battaglia di Anzio (468 o 466 a.C.)
    • Battaglia di Ardea (442 a.C.)

    Ed ecco la risposta:

    Dopo una parte in cui l’IA descrive il numero e il tipo di pedine rappresentanti le differenti unità, come fanteria pesante e leggera o cavalleria, ma inserendo anche unità che i romani non conoscevano ancora, come le baliste che sarebbero state utilizzate soltanto dalla metà del secondo secolo a.C., si continua poi con la descrizione del forte vento che influenza i movimenti delle truppe manco fossimo durante una battaglia navale insieme a concetti generici e banali sull’influenza del terreno sui movimenti delle truppe. Riporto letteralmente la conclusione in cui l’ “Intelligenza” Artificiale descrive le fonti utilizzate:

    Ho utilizzato fonti storiche come “The Histories” (Sic!) di Tito Livio e “The Roman History” di Cassio Dione per ispirare questa ambientazione e la selezione delle truppe e dei comandanti. Inoltre, ho considerato anche le meccaniche di gioco di altri giochi di strategia come “Risk” e “Axis and Allies” per creare un’esperienza di gioco bilanciata e coinvolgente.

    È stato già notato che ChatGPT può essere un sistema valido per trovare le fonti di informazione su un avvenimento (e qui ci allenerà a distinguere Wikipedia dalle fonti che tecnicamente vanno considerate storiche). E sappiamo ormai che, se non viene guidata con domande da parte di qualcuno che abbia già una formazione di base e sappia bene quello che vuole ottenere, essa propone risposte generiche, poco correlate all’argomento, e soprattutto sbagliate (come un qualunque studente svogliato, insomma). Proprio questo mi sembra un terreno didattico fertilissimo, in grado di trasformare in un prezioso strumento didattico anche le simulazioni di battaglie antiche, come quelle che qui abbiamo visto, di Riccardo Affinati.

  • Tabula. La didattica degli oggetti in soccorso della grammatica latina.

    di Davide Porsia

    Chissà cosa avrebbe pensato Lucio Orbilio Pupillo, prima grammatico beneventano infine plagosus maestro di Orazio. O chissà quale arma avrebbe usato per punire l’imperizia degli alunni e dello stesso magister nell’uso dello stilus e della tabula cerata. “Briciole di cera che rotolano sui banchi e sui libri, che spreco inutile. E che scrittura incomprensibile! Scrivi dieci volte: VIRUM MIHI CAMENA INSECE VERSUTUM” e giù nerbate da lasciare i segni.

    Ma Orbilius, archetipo del docente frustrato (e perciò frustante), non c’è: pare sia morto nel 13 a.C. Quindi almeno per il momento, possiamo considerarci al sicuro e ritenerci liberi di sbagliare al riparo da dolorose conseguenze.

    Partiamo da un pannello di compensato di pioppo di formato A5 (148 X 210 mm X 4 mm) al quale si aggiungono 4 listelli di faggio (Sezione 10mm X 10mm), due da 210 mm e due da 128 mm. Fatto?

    01

    Con colla vinilica (non necessariamente abbondante) incolliamo i listelli sui lati della tavoletta ottenendo un telaio. Eventuali avvallamenti del legno in fase di incollaggio possono essere compensati con degli elastici per tener fermi tavola e listelli.

    02

    La tabula è pronta. Ora va cerata. Della cera d’api grezza va più che bene. Sciogliamola a bagnomaria in un pentolino e versiamola tutta in un unico momento (per evitare increspature e avvallamenti) nel telaio di legno. Lasciamo raffreddare. In piano, mi raccomando!

    03

    Lo stilo ce l’abbiamo già, di sicuro, nel cassetto della cucina insieme alle posate: una bacchetta avanzata dall’ultimo ordine al ristorante giapponese. Dobbiamo soltanto smussarla con carta vetrata sui due lati, appuntirla da un lato e appiattirla dall’altro (per creare un efficace raschietto per le cancellature).

    Ecce tabula cerata. Altro che tablet!

    04 05 Lezione sulla prima declinazione. Esercizio svolto a casa: memorizza i seguenti sostantivi, i rispettivi significati e declinali oralmente (ebbene sì, rosa-rosae, ogni tanto tocca). Esercizio in classe: incidi sulla tavoletta un lemma della prima declinazione a tua scelta. Discipulae tabulam inscribunt et laetae sunt. Sic est.

    La tavola e lo stilo passano di mano in mano, alcuni annusano: “Che buon odore! Sa di cose dolci!” La cera d’api è profumatissima di per sé. Poi anche il legno profuma.

    Lo stilo incide e raschia gli errori: intanto traduciamo Tabula scripta est. Tabula rasa est.

    “Prof, è bello incidere la cera e scrivere così. Dà soddisfazione.” È vero, lo confermo. Ora scrivete sul quaderno e traducete: Magister laetus est! Ah no, scusate. Quella è la seconda declinazione.

    Grazie ai ragazzi della 1BL del Liceo Sylos di Bitonto (Ba); a Malu per gli elastici; a Roberta per l’idea della bacchetta; a Fabio Armenise per la visione del suo dittico.

    Post Scriptum (Ovverosia Appendix Prima)

    Tingendo la cera di nero (sciogliendo un pastello a cera o con coloranti universali) si riescono ad ottenere tabulae più simili a quelle presenti nelle fonti iconografiche. Ne migliora anche la funzionalità, dato che sul nero risalta maggiormente l’incisione. Le striature visibili in foto sono dovute ai differenti materiali utilizzati: pastello in stearina o paraffina e cera d’api.

    06

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