Uso pubblico della storia

  • Chi è veramente Perseo? Qualche riflessione sull’uso pubblico della storia antica.

     
    Improvvisamentetutti si sono ricordati di Leonida, di Teseo e di Cassandra in uno “scialo ginnasiale di ricorsi al repertorio greco”, nel quale, sostiene Adriano Sofri, nessuno si è tirato indietro. Non lo ha fatto nemmeno il suo direttore, Ezio Mauro, che, proprio il giorno dopo questa folgorante battuta, si è abbandonato al paragone con Telemaco, i Proci e Ulisse, che per qualche misteriosa ragione dovrebbe farci capire qualcosa di più del conflitto fra Tzipras e la Troika (i due articoli sono apparsi rispettivamente il 6 e il 7 luglio, su “Repubblica”: le citazioni alle pp. 13 e 25).

    Sofri suggerisce che si tratti dell’effetto di un linguaggio intriso di cultura greca, ormai assimilato sia dagli avversari di Tzipras, freddi sostenitori della tecnica economica e finanziaria (la “techné”), sia dai suoi seguaci, i difensori battaglieri della “politica”, eredità, questa, di Aristotele. Un linguaggio, continua Sofri, che tuttavia soffre della lacerazione, causata dall’assenza di quelle parole “liberté, egalité, fraternité”, di discendenza “nordica” (lascio a lui questa qualificazione). Conclude dicendo che quest’orgia di riferimenti trova la spiegazione nella divisione politico-culturale-geografica europea: è il Nord (indubbiamente“troika” rimanda a climi boreali) contro il Sud. Ovvero, l’Europa contro il Mediterraneo.

    Lo stesso giorno, Guido Vitiello invita a restare coi piedi a terra, allo “scialo ginnasiale”, perché ciò a cui assistiamo non è che il prodotto di “un liceo classico fatto a cazzo di cane”, responsabile di quell’apprendimento posticcio della cultura antica, incapace di ostacolare in modo razionale il “guazzabuglio di stereotipi turistici, marketing del territorio, millanterie e tradizioni inventate”, che infesta il dibattito politico. I Greci, prosegue l’articolista, si sarebbero comportati diversamente. Per sapere come, rinvia il lettore al saggio di Paul Veyne: Les Grecs ont-ils cru à leurs mythes? (Seuil, Paris 1983).

    In effetti (ora leggo Veyne) i Greci un po’ ci credevano, un po’ non ci credevano. Presso di loro avevano eguale diritto di circolazione sia i discorsi critici - secondo i quali i miti contenevano solo falsità o, al massimo, poche notizie “vere” -  sia quelle eziologie, che dotavano di “personalità” una città, legandone l’origine al passaggio di un eroe o all’intervento creatore di un dio. Lo sapevano tanto bene, che si prendevano bellamente in giro a vicenda. “Voi ateniesi, dicevano, siete un popolo di gonzi. Quando gli ambasciatori delle città soggette vi vogliono ingannare, iniziano col lodare  “Atene la splendida”, e voi, ascoltando queste parole, vi impettite orgogliosi”. (Per amore di verità, Veyne traduce: vous vous asseyiez sur la pointe de vos fesses, “vi sedete sulla punta del culo”, p. 92). Questa disposizione alla falsità, fece sì che il mito diventò una risorsa inesauribile del discorso politico. Una “langue de bois”, un linguaggio contorto e oscuro, fatto apposta per non dire nulla (p.89). Il che ci permetterebbe un’analogia fra passato e presente, che oltrepassa la metafora del “centauro Varoufakis” e il paragone fra Tzipras e Perseo,  e più seriamente ci invita, come dovrebbe fare sempre la storia, a qualche precauzione critica in più.

    Paul Veyne spiega che i Greci cambiarono atteggiamento nei confronti dei loro miti, nel corso del tempo, passando dalle nebulose genealogie originarie, fino ai “manuali” scolastici compilati in età ellenistica e da questa consegnati alle generazioni successive, fino a quella pletora di “esegeti”, autentici falsari che rimestavano incessantemente gli antichi racconti, a favore di questo o di quello. E, poiché quasi duemila anni si frappongono fra noi e quei mitie non abbiamo nessuna ragione per ritenere che questo processo di rielaborazione si sia arrestato, ci dobbiamo chiedere – noi che veniamo dopo il Medioevo e l’Età moderna – se quell’universo nel quale la Grecia libera si batte contro il despota imperiale appartenga all’età classica, o a qualcuno dei tempi successivi.

    Una buona risposta ce la dà un grande tedesco, Wilhelm von Humboldt, che sotto i colpi del vincente impero napoleonico scrisse la Storia del declino e della caduta degli Stati liberi della Grecia (1807), diventando uno dei promotori di quella revisione nazionalistica del mito greco, portata a compimento dagli intellettuali e dai politici del suo paese.  Partendo da lui, Sandrine Kott e Stéphane Michonneau (Dictionnaire des nations et des nationalismes dans l’Europe contemporaine, Hatier, Paris 2006, pp. 197 e ss.) ci esortano a volgere la nostra attenzione alla storia scolastica. Fu a cominciare da Humboldt, scrivono, che venne messo a punto quel canovaccio narrativo, sul quale le diverse nazioni europee hanno imbastito la loro storia insegnata, quella che nella sua trama essenziale ritroviamo ancora oggi, nei nostri manuali. Quella, appunto, dove la Grecia funge da riferimento privilegiato per i moderni campioni della libertà.

    Se le cose stanno in questo modo, potremmo ricavarne tre insegnamenti. Il primo è sul paradosso di un’immagine di libertà che fu elaborata per esaltare la Germania e che ora viene utilizzata in chiave antitedesca. Il secondo insegnamento è che questa immagine introduce due narrazioni, una palese e l’altra sottostante. Nella prima il Perseo greco lotta contro la Medusa tedesca, con la speranza di tagliarle la testa; nella seconda gli stati nazionali si ripresentano, a duecento anni dall’invenzione del mito e a settant’anni dal carnaio della seconda Guerra mondiale, come i difensori della libertà contro l’oppressore, impersonato questa volta dall’Unione Europea.

    Il terzo insegnamento ci riporta a quella cultura classica liceale, chiamata in causa da Vitiello (e in un certo modo anche da Sofri). Ci autorizza a pensare che il deficit non stia tanto nel “non funzionamento” della macchina trasmissiva scolastica. Al contrario, proprio il fatto che il linguaggio pubblico strabordi di riferimenti alla storia e alla mitologia greche dimostra una certa sua efficacia. E’ indubbio che un tessuto di riferimenti storico-classici sia comune a una parte consistente di quelli che oggi leggono, votano e discutono di politica in Europa. Il malfunzionamento risiede, invece, in un approccio a questo patrimonio culturale estremamente elementare, privo di quella “sintassi temporale” (l’espressione è di Luciano Canfora) che metterebbe in grado i cittadini colti di articolare meglio il proprio rapporto col passato. E' la povertà di questo approccio che, da un lato, abbassa le loro difese critiche, e, dall’altro, alimenta questo spettacolare scialo pubblico della storia antica.

  • Crociate contro Jihad. Tecniche di disinformazione storica

    Autore: Antonio Brusa

    Le Crociate contro il Jihad. Questa guerra, del tempo dei cavalieri e dei re che partivano per Gerusalemme, è la chiave dei conflitti contemporanei.

    Questa copertina è di una chiarezza esemplare, ben rinforzata dall’immagine, nella quale un cavaliere francese se la deve vedere con un guerriero musulmano che lo abbranca, mentre un altro mena un fendente al povero cavallo. Lo storytelling, come si usa ormai, è semplice e diretto. Lo capiscono tutti, anche quelli che non sanno che cosa furono le crociate e il jihad medievali e che a malapena riescono a indicare sulla carta geografica dove si trova Gerusalemme. Insomma, ci sono dei cattivi, con la faccia scura, e dei buoni. E questa storia dura da mille anni. Vogliamo parlare di Charlie Hébdo e dell’Isis?

    La rivista è pubblicata da un gruppo serissimo (Vie-Le monde) ed è un numero speciale di Giugno 2015. Fa bella mostra di sé nelle edicole francesi, insieme con uno stuolo di pubblicazioni che, dal tempo delle Torri Gemelle, si diffonde – in Francia come nel resto del mondo - sui problemi dei rapporti fra Occidente e mondo musulmano. E’ un numero ben informato, di storia alquanto tradizionale, dove il lettore trova notizie accurate sulle otto crociate, i loro protagonisti, le città simbolo, e i soggetti collettivi, fra i quali (oltre agli immancabili ordini cavallereschi), troviamo le donne combattenti: argomento, per la verità, sul quale Régine Pernoud ci aveva ampiamente informati fin dal 1992.

    Il lettore più attento avrà la sorpresa di trovare anche una breve intervista a Jean Fleuri, l’autorità francese sul tema, che non a caso apre il numero con una bella introduzione. Questo contributo, però, si trova verso la fine (pp.76-78): parla della differenza fra Crociate e Jihad e inizia con questo occhiello: “Specialista di storia medievale, Jean Fleuri ritiene che comparare le crociate di ieri al jihad di oggi non abbia alcun senso”. Esattamente il contrario di quello che racconta la copertina. Ecco uno stralcio dell’intervista:

     

         Dunque è pertinente la comparazione fra Crociate di ieri e Jihad di oggi?

    - No! La sola comparazione possibile riguarda le differenze fra il modo con cui si formarono i due movimenti, la Crociata cristiana e il Jihad.

          Il Jihad è descritto da alcuni estremisti come una risposta, ritardata di novecento anni, alle Crociate. Questo argomento è condiviso, secondo lei, dai musulmani orientali?

    - Gli estremisti, che fanno regnare il terrore tagliando la testa di ebrei, cristiani o musulmani che non condividono il loro punto di vista, hanno costruito una versione semplificata della cultura e della storia. La loro visione è condivisa dai musulmani orientali che hanno un’idea della loro religione altrettanto rudimentale.

          Si può dire che la situazione attuale dei cristiani d’Oriente, spesso drammatica, trova la sua origine nell’epoca delle crociate?

    - E’ quello che i musulmani che simpatizzano per i Jihadisti vogliono far credere. Ma cominciano a crederlo anche molti occidentali, di confessioni diverse. La storia non supporta questa teoria. Dopo la conquista dei territori cristiani d’Oriente da parte delle armate musulmane del VII secolo, le popolazioni (cristiane e ebree) hanno subito ora periodi di sottomissione protetta ora periodi di persecuzione e di esclusione. Esse vissero le crociate come una liberazione, ma ben presto furono disilluse. La precarietà della loro situazione riprese con lo scacco degli stati crociati. Si è accentuata di recente dopo gli interventi di George W. Bush e ora, con i jihadisti, diventa genocidio.

     

    Vi invito alla lettura completa dell’intervista, nella quale lo storico francese mette sotto accusa i governi occidentali, che - sostiene - hanno già messo nel conto la sparizione dei cristiani d’Oriente, per riportare la vostra attenzione sul meccanismo comunicativo. Lo storytelling  (cioè il racconto che ha lo scopo di comunicare il senso di un problema al maggior numero di persone) è quello della copertina. Esso contrasta con la realtà storica, e Fleuri lo afferma con decisione. Ma quanti lettori si daranno la briga di leggere tutta la rivista, e andranno fino in fondo, nella rubrica del dibattito, per rendersi conto che avevano capito male? O meglio, che la copertina li aveva ingannati? E quanti, ancora, non avendo nessuna intenzione di comprare una rivista storica, si formeranno le loro convinzioni dal muro di copertine, che tappezzano come manifesti le edicole?

    Già in Historia Ludens ho mostrato un caso italiano assai simile, a proposito della mostra per il centenario dell’Editto di Costantino (2013), nel cui catalogo, sperso in mezzo a decine di articoli, si trova il contributo di Arnaldo Marcone, che spiega come quello non fu un editto, non fu emanato da Costantino e se vogliamo cercare il suo autore è proprio quel Galerio, acerrimo persecutore dei cristiani, come sapevano benissimo nel IV secolo, quando, proprio per questo motivo, decisero una damnatio memoriae che continua incredibilmente fino ai nostri giorni. Se ne possono citare tanti, di casi simili (anche televisivi), che funzionano allo stesso modo. Il messaggio fondamentale solletica le corde dello stereotipo diffuso. Poi, a supporto, si cita la sua critica. Tanto, chi la va a leggere era in genere quello che la conosceva.

    Ma se questo è il “meccanismo della comunicazione”, non sarebbe il caso che gli storici si convincessero che, per interagire con le conoscenze diffuse, è sullo “storytelling” che dovrebbero imparare a mettere le mani?

  • Dante in camicia nera. Un caso esemplare di medievalismo politico.

    di Marco Brando

    Screenshot 2023 01 19 alle 12.37.05 Prima affermazione: «Ritengo che il fondatore del pensiero di destra in Italia sia Dante Alighieri, perché quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in lui, ma anche la sua costruzione politica in saggi diversi dalla Divina Commedia, è profondamente di destra».

    Seconda affermazione: «Il massimo poeta può dirsi a ragione l’antesignano dei grandi ideali che ora sono messi in essere dal Governo nazionale».

    Sono concetti espressi nell’ambito dello stesso discorso? In apparenza, sì. Invece non è così. La prima affermazione risale al 2023. La seconda al 1927. Insomma, le separano 96 anni. Eppure entrambe sono casi esemplari di medievalismo politico, basati sull’uso (e soprattutto sull’abuso) dell’eredità dantesca (per medievalismo si intende lo studio del processo continuo di creazione del Medioevo nella società post-medievale, in particolare quella dei nostri giorni). 

    Il ministro Gennaro Sangiuliano

    Non resta che svelare il mistero sulla paternità delle due affermazioni. La prima - che attribuisce all’Alighieri la responsabilità di avere fondato quasi 8 secoli fa, evidentemente a sua insaputa, «il pensiero di destra» - è stata fatta il 15 gennaio 2023 da Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura nel Governo Meloni, durante la kermesse milanese di FdI, partito erede del Msi post-fascista. Al di là delle polemiche scaturite giustamente a proposito dell'oggettivo strafalcione (da parecchi punti di vista: storico, cronologico, letterario, politico e via elencando), è utile ricordare che il ministro non è il primo, nell'ambito della destra italiana contemporanea, ad attribuire al Sommo poeta medievale, vissuto tra XIII e XIV secolo, responsabilità per scelte politiche fatte nei secoli XX e XXI. 

    Screenshot 2023 01 19 alle 12.26.05 Domenico Venturini, scrittore fascista

    È giunto, così, il momento per rivelare chi è stato l'artefice della seconda affermazione, quella in cui Dante è indicato come ispiratore, sempre a sua insaputa, del fascismo. Si chiamava Domenico Venturini; nel 1927 - in pieno Ventennio - firmò, nella collana Pubblicazioni d'opere per l'incremento della letteratura fascista, un libro intitolato Dante Alighieri e Benito Mussolini: 124 pagine edite da Nuova Italia. I titoli di alcuni capitoli si commentano da soli: Il Veltro esattissima figura allegorica del Duce Magnifico, L’esilio del Duce e l’esilio di Dante, La istituzione delle Corporazioni esistente ai tempi danteschi, II Duce riparatore, annunciato da Dante, individuato nel nostro Duce Magnifico. Il volumetto, accompagnato dalla prefazione di Amilcare Rossi, medaglia d’oro al Valor militare e presidente dell’Associazione nazionale combattenti, fu riproposto in una versione aggiornata, ampliata (ben 322 pagine) e rilegata nel 1932. Era un testo molto caro al regime, tanto che ebbe una diffusione vastissima e garantì al suo autore la nomina ad accademico d’Italia. 

    Il dantismo fascista

    Sicuramente Sangiuliano, quando ha evocato la paternità dantesca della cultura della destra attuale, ha espresso un giudizio che non è stato ispirato dalla lettura assidua del libro appena citato. Tuttavia, la curiosa coincidenza di vedute porta a supporre che il pensiero destrorso caro al ministro sia fondato, più o meno consapevolmente, sull’eredità di Venturini piuttosto che su quella di Alighieri. Vale dunque la pena di soffermarsi su altri passaggi del volumetto, per capire quali siano altri punti di vista espressi quasi un secolo fa e magari per essere pronti ad altre simili e ridondanti esternazioni nel 2023.

    Nell’introduzione dell’edizione del 1927 Venturini scrive che «tutte le manifestazioni, le idealità̀, le concezioni di grandezza patria, le nobili aspirazioni al ritorno della romanità̀, che integrano il vasto programma della nostra rinascita civile e morale, e che formano quel complesso di memorabili atti del Governo nazionale, atti che lasceranno una impronta indelebile del secolo di Mussolini, hanno il meraviglioso riscontro col pensiero del grande filosofo e poeta italiano, che con la poderosa produzione del suo privilegiatissimo ingegno, fu considerato il restauratore della nuova civiltà̀ europea». Nel concludere l’edizione del 1932, l’autore sentenzia: «Noi fascisti dobbiamo aver presente che Dante ha vagheggiato gli stessi ideali politici, morali, religiosi messi in essere dell'Era Fascista. [...] Il Massimo Poeta può̀ dirsi a ragione l’antesignano dei grandi ideali del Fascismo. [...] Non poteva certamente concepire e scrivere opere il cui contenuto etico e politico sarebbesi potuto riscontrare non consentaneo (conforme, ndr) ai grandi ideali del Fascismo. È doveroso quindi riguardare Dante, il profeta della Patria, l’anticipatore del Fascismo. La rinascita politica e morale voluta dal Duce è quella desiderata da Dante. [...] Ad majora, adunque, e sempre nel nome di Dante e nel nome del Duce Magnifico della nuova Italia». 

    FmdpIT0X0AY3Sqy Dante, profeta di Mussolini

    Non solo. Fra le altre esibizioni di certezze sul “fascismo dantesco”, in prima edizione - nel paragrafo Il Duce riparatore, annunciato da Dante, individuato nel Duce Magnifico - Venturini assicura che il titolo caro al dittatore «fu vaticinato dal sommo poeta, il quale appunto nel Dux voleva le virtù e le qualità che si ammirano in Benito Mussolini. [...] Nel canto XXXIII del Purgatorio, Beatrice enimmaticamente (sic!, ndr) dice a Dante che verrà̀ un Duce a vendicare gli oltraggi fatti alla profanata chiesa ed all’impero. Ecco le parole di Beatrice: “Io veggio certamente, e però il narro, / addurne (nella Divina Commedia in realtà si legge “a darne”, ndr) tempo già stelle propinque, / ….. nel quale un Cinquecento Dieci e Cinque, messo da Dio, anciderà la fuia, / e (“con” nella Commedia, ndr) quel gigante che con lei delinque”. È da sapersi che il numero romano DXV si è ge­neralmente interpretato DVX parola fatidica al nostro tempo. [...] Ora questo Messo da Dio ai tempi del poeta non venne mai, e perciò il vaticinio dantesco restò senza applicazione. Solo ai nostri tempi [...] la Provvidenza fece sorgere l’uomo che compì in breve spazio di tempo la gran­diosa riformagione delle cose d’Italia abbattendo ben altra fuja (Dante in realtà scrive “fuia”, intesa come meretrice, con riferimento alla curia papale corrotta, ndr) ed altro gigante che nel nostro caso (nel caso di Alighieri è la monarchia di Francia, ndr) possono essere figure del bolscevismo e della sua insana e perniciosa dottrina. [...] Il nuovo ordine di cose che si è svolto in Italia e l’avvento del Fascismo, sembrano sciogliere l’enimma (sic!, ndr) di Dante. Il DUX viene personificato in Mussolini, che appunto per inesplicabile combinazione fu denominato Dux». 

    Dante in camicia nera

    Di certo, l’accostamento tra Dante e Mussolini non è stato, durante il regime littorio, soltanto una fissazione di questo autore. Come scrive Stefano Jossa, docente di Letteratura italiana all’Università di Palermo, sul magazine online Doppiozero, la battuta del ministro Sangiuliano «ha una lunga storia, che si radica almeno in quel “Dante fascista” che nel corso del Ventennio si affermò progressivamente nell’immaginario di regime». Jossa cita, insieme al libro di Venturini, anche Dante, l’Impero e noi. Dalla Nuova Antologia di Emilio Bodrero (1931) e Dante e Mussolini di Tommaso Vitti (1934). Mentre Stefano Albertini, docente di Italiano alla New York University, nell’articolo Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell'Italia fascista ha scritto nel 1996: «Durante il ventennio fascista non c'era discorso ufficiale, dal Duce all'ultimo direttore didattico, che al punto di ricordare le glorie patrie di questa stirpe di poeti, santi, eroi e navigatori non includesse in pole position il poeta fiorentino. Anche i libri di testo per le scuole elementari e persino i manuali di cultura fascista per le organizzazioni giovanili del regime includevano sempre un ritratto di un Dante pensoso e meditabondo accompagnato da didascalie celebrative e da brevi estratti da passi strategici della Commedia». 

    wefefwefwewewe Medievalismo politico

    È opportuno essere consapevoli del fatto che la strumentalizzazione politica di Dante durante il Ventennio è solo un aspetto dello sfruttamento del Medioevo, più o meno inventato, da parte di quel regime; un (ab)uso d’altra parte già diffuso nel XIX secolo in chiave risorgimentale e nell’Italia repubblicana del XX, a partire dagli anni Ottanta: l’esempio più lampante è l’evocazione della Lega lombarda e del mitico e mai esistito Alberto da Giussano, diventati pilastri identitari della Lega Nord di Umberto Bossi e, in parte, della Lega (senza Nord) di Matteo Salvini. Quindi Gennaro Sangiuliano, evocatore di Dante simpatizzante di Fratelli d’Italia (con quasi 8 secoli di anticipo), non dovrebbe sentirsi solo. Tuttavia, visto il ruolo di ministro della Cultura, ci saremmo aspettati un’analisi un po’ più originale. A Milano, prima di proporla, aveva premesso: «So di fare un’affermazione molto forte». In realtà, visti i numerosi precedenti in salsa mussoliniana, è stata soprattutto un’affermazione che appare prevedibile, disinformata e scontata.

     


     

    BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

    Stefano Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell'Italia fascista, in The Italianist, University of Reading, Reading (Regno Unito) 1996.

    AskaNews, Per il ministro sangiuliano il fondatore del pensiero di destra in Italia è Dante, in AskaNews.it, Milano 14 gennaio 2023.

    Emilio Bodrero, Dante, l’Impero e noi. Dalla Nuova Antologia - 16 maggio 1931, Società Nuova Antologia e Casa editrice d’arte Bestetti e Tumminelli, Roma-Milano 1931.

    Marco Brando, Il medievalismo, cioè il Medioevo (dopo il Medioevo) studiato dagli storici, in Treccani.it, Roma 11 luglio 2022.

    Stefano Jossa, Per Dante, svoltare a destra, in Doppiozero.com, Milano 16 gennaio 2023.

    Benito Mussolini, Messaggio dantesco (27 giugno 1932) - Discorsi, Scritti e Articoli, in Adamoli.org.

    Domenico Venturini, Dante Alighieri e Benito Mussolini, prima edizione, Nuova Italia, Firenze 1927.

    Domenico Venturini, Dante Alighieri e Benito Mussolini, seconda edizione, Nuova Italia, Firenze 1932.

    Tommaso Vitti, Dante e Mussolini, Tipografia Sociale Jacelli & Saccone, Caserta 1934.

  • E per ultimo arrivò Colombo.

    Autore: Antonio Brusa

    Dei musulmani e dei numerosi altri scopritori dell’America

     

    Indice

    •    La storia fra politica e radiologia
    •    Il metodo degli scopritori
    •    Come nasce una storia inventata
    •    Uso politico della “parastoria”
    •    Un obiettivo che fa gola a molti
    •    Una saga ammonitrice

    Erdogan fra i rappresentanti delle comunità musulmane nell’America Latina

     

    La storia, fra politica e radiologia

    Quando igiornali di tutto il mondo ci informarono che Recep Tayyip Erdogan, presidente della Turchia, aveva dichiarato al “Primo summit dei leader dell’Islam in Sudamerica” (15 nov. 2014) che i musulmani erano arrivati in America ben prima di Colombo, sorpreso come molti, ho provato a cercare la fonte di questa scoperta. Il punto di partenza della ricerca era offerto da quegli stessi giornali: un sito dell’As-Sunna Foundation. E’ un sito americano, prevalentemente dedicato a fatti religiosi, ma provvisto anche di una sezione storica, in fondo alla quale si trova una rubrica dedicata ai musulmani americani, il cui primo articolo era appunto quello della Scoperta Islamica, a firma diShaykh Gibril Fouad Haddad As-Sunnah Foundation of America. Un paio di giorni dopo, l’articolo venne rimosso (siete liberi di immaginarne i motivi). Fortunatamente, Luigi Cajani, che mi aiutava in questa ricerca, l’aveva già scaricato. Così, non ci ho messo molto a ritrovarlo, pubblicato sotto un altro nome, quello di Youssef Mroueh, a tutta vista il suo vero autore. E', infatti, lo scritto che questi redasse per la celebrazione del millenario dell’arrivo dei musulmani in America (996-1996). Mi è parso l’autorità indiscutibile in questo campo, il riferimento obbligato dei sostenitori della tesi islamista. Per la “Washington Post”, Mroueh è uno storico. Per altri, meno condiscendenti, è un rispettabile studioso di radiologia.

     

    Il metodo degli scopritori

    Il nostro storico-radiologo si dimostra padrone di quella forma di ragionamento che potremmo nominare “sillogismo alla Giacobbo”, un dispositivo argomentativo che permette di transitare da una dubitativa iniziale (“delle evidenze suggeriscono che”, “sembra plausibile che”, “tutto lascia pensare che”), a una dubitativa secondaria, che consiste nell’insinuare qualche sospetto sul sapere acquisito, per chiudere con una certezza finale, alla quale segue normalmente la postilla sconsolata sulla scienza ufficiale che ostacolerebbe la scoperta della verità.

    La seconda arma a disposizione di questi scopritori di scopritori, consiste nell’uso sfrenato dell’analogia. Ci sono delle statue americane che somigliano a statue africane? Ci sono petroglifi del Great Basin che richiamano caratteri libici? Toponimi americani dalle sonorità arabe? Anfore scoperte in prossimità del Brasile dalla silhouette simile a quelle mediterranee? Parole di nativi americani (algonchine, caraibiche o quecha, fa lo stesso) che sembrano uscite dal Corano? Colline il cui profilo ripete quello di una moschea (questa analogia, peraltro, fu suggerita dallo stesso Colombo)? per non parlare delle piramidi centroamericane che non poterono che essere costruite a imitazione di quelle egizie. Sommate le somiglianze, avrete la prova irrefutabile della frequenza dei traffici che, all’insaputa di tutti, hanno legato per millenni Africa e America.


    Testa colossale olmeca


    Il terzo genere di prove è francamente sorprendente, perché consiste in testimonianze orali, rese da nativi americani che rammenterebbero tradizioni islamiche precolombiane. Se volete cimentarvi con la lettura completa delle prove a supporto della letteratura “before Columbus”, leggetevi illungo testo di Abdullah Hakim Quick, studioso di radici islamiche del mondo caraibico.

    Trovo che questo incipit di Yahia Zeghoudi, Maître de Conférencedel Centre Universitaire de Ghardaia, costituisca un esempio plastico di questa retorica argomentativa. Si comincia dalle ipotesi “pochi studiosi e molti musulmani sospettano”. Si mette in dubbio il sapere consolidato con l’uso delle virgolette, quando si parla della “scoperta” di Colombo e degli “indiani”, che a questo punto sarebbero poco nativi e molto discendenti di genti musulmane. Si inserisce l’analogia fra l’espressione Mandinka, della quale si riporta il significato in caratteri arabi, e il nome caraibico di San Salvador; e, alla fine, giunge la rivelazione che nessuno avrebbe mai potuto sospettare. Colombo fu proprio l’ultimo.

    Few scholars and ordinary Muslim people suspect the arrival of
    Muslims at the Americas a long time before the “discovery” of
    Christopher Columbus of the San Salvador Island in 1492. By the way,
    this island was called by the natives “Indians” Guana Hani, a Mandinka
    word meaning( الإخوانهانئ). Probably, no one could have dreamt of the
    idea of a Muslim presence on the American continent. However, new
    theories based on archaeological findings tend to point in this direction.
    This means that Columbus was the “last” to arrive, and not the
    discoverer.

     

    Come nasce una storia inventata

    I documenti scritti utilizzati in queste argomentazioni sono brani tratti da geografi arabi medievali, come Al-Masudi e vari altri. Alcuni di questi fanno colpo per la loro notorietà: Idrissi e Piri Reis. Ma, non essendo un arabista, e nemmeno un radiologo, non mi azzardo nella loro esegesi, affidandomi agli specialisti che se ne sono occupati.
     

    Piri Reis: particolare dell’Atlante e ritratto, da unsito turco, nel quale ci si chiede se questa non sia la mappa di un tesoro, nascosto a Gallipoli

     

    Fra le innumerevoli contestazioni, mi sembra particolarmente impressionante quella che riguarda Piri Reis. Il suo Atlante, redatto a Istanbul al principio del 1500, è considerato dai modernisti di tutto il mondo una fonte preziosissima per la cultura geografica e per la storia del Mediterraneo. Tale è anche per Abdullah Hakim Quick, che lo definisce:“the most conclusive pieces of hard evidence to show the validity of Muslim exploration in the Western hemisphere”. Lo studioso islamista ricava questa certezza da Ivan van Sertima, che nel 1991 affermò che Piri Reis “mostra senza ombra di dubbio che gli Africani attraversarono l’Atlantico in tempi antichissimi”. A sua volta, van Sertima ottiene la sua convinzione da Charles Hapgood, che nel 1966 scoprì che Piri Reis aveva copiato la sua mappa da un originale, disegnato ben 10 mila anni fa da una civiltà superiore, a Cuiculco, in Messico. Col tempo – aveva spiegato Hapgood - questo esemplare era andato perduto, ma le sue tracce sono ben visibili (diceva sempre Hapgood) nelle culture egizie, mesopotamiche e cinesi. D’altra parte, poteva godere del sostegno di Erich von Daniken, secondo il quale era fuori di dubbio che queste carte erano ricavate da foto aeree scattate da alieni.

    Questa genealogia di argomentazioni l’ho trovata in un saggio di Bernard Ortiz de Montellano, Gabriel Haslip-Viera e Warren Barbour, They where NOT Here before Columbus. Afrocentric Hyperdiffusionism in the 1990 (“Etnohistory”, 44, 2, pp. 1997, pp. 199-234, 207). In questo saggio si racconta una vicenda interpretativa che inizia nel lontano 1862, quando la scoperta di sculture ciclopiche olmeche portò alcuni ad ipotizzare una loro derivazione da sculture africane, a causa di caratteri identificati come “negroidi”. Ha un punto di svolta nel 1922, data di pubblicazione di  Africa and the Discovery of America, di Leo Wiener, professore di filologia slava negli Usa, che in tre volumi eruditissimi (e altrettanto criticati) lanciò la teoria che i primi scopritori dell’America furono africani. E, poiché alcuni di questi erano musulmani (o avrebbero potuto esserlo), su questa tradizione fu agevole, nel clima della decolonizzazione postbellica e della rivendicazione dei diritti civili, innestare la storia della scoperta islamica (Richard Francaviglia, “Far Beyond the Western Sea of the Arabs...”: Reinterpreting Claims about Pre-Columbian Muslims in the Americas, in “Terraeincognitae”, 46, 2, pp. 103-138).

     

    Uso politico della “parastoria”

    Con l’avvento di internet, questa genealogia lineare – di lettori che leggono libri di altri lettori – diventa una nuvola intricatissima di rimandi che più cresce, più si autoconferma. Una sorta di “parastoria”, che adopera sistemi di verifica e di argomentazione simili a quelli della storia: un fenomeno ben conosciuto, in particolare dagli studiosi del negazionismo. Questa parastoria, essendo totalmente autoreferente, risulta inattaccabile a critiche, che oltretutto tende a catalogare come frutto di avversione ideologica, quando non di pregiudizio eurocentrico (per leggere alcune di queste critiche, basta sfogliare la rivista online history news networks.org, e leggere gli interventi di Rebecca Fachner e David Yeagley).

    E’ una nuvola non neutra politicamente. Audrey Shabbas ha curato un libro di oltre cinquecento pagine - Arab World Studies Notebook - per insegnare nelle scuole che i musulmani hanno scoperto l’America e che, perciò, i nativi americani sono loro discendenti (e ovviamente tanto altro soprattutto sul ruolo degli arabi nel mondo contemporaneo). Trovate la notizia del libro sul suo sito, con i moduli per le donazioni (ma il link al libro non si apre). Ho letto, in un intervento di Rebecca Fachner, che l’autrice, sottoposta a un fuoco di fila di critiche – a quanto pare i nativi americani non gradiscono molto l’imposizione di questa ascendenza -  ha declinato l’invito a mostrare le prove a supporto della sua teoria.

    La posta in gioco è altissima. Secondo Richard Francaviglia, direttore del Center for Greater Southwestern Studies presso l’Università del Texas, questo racconto storico ha tre scopi. Il primo è quello di mostrare come l’esplorazione islamica fu più imponente di quella cristiana; il secondo, quello di dipingere l’Islam gentile con i nativi, al contrario dei cristiani; il terzo, quello di definire bigotti tutti coloro che si oppongono a questa tesi. In questo modo, l’Islam viene trasformato in una fede radicata in America e la Umma, la comunità dei credenti, si estende sul pianeta. E’, senza alcun dubbio (continua Francaviglia), un modo per alimentare la guerra fra le culture (Brad Petter).

     

    Un obiettivo che fa gola a molti

    Diventare “scopritore dell’America”, dunque, è diventato qualcosa di più che rivendicare un titolo di nobiltà. E’, nel mondo globalizzato, affermare la propria centralità planetaria.Questo è il senso dell’intervento di Erdogan, studiato con cura per una importante occasione pubblica. E’ un obiettivo quanto mai appetibile e, come mostra lo specchietto che segue, con tanti aspiranti. Ecco, quindi, l’elenco, temo incompleto, di coloro che si sono proposti come scopritori, con le relative evidenze “scientifiche. Se, scorrendolo, resterete delusi della scarsità delle prove a supporto degli scopritori dell’Antica Roma (un’anfora poi rivelatasi del XVII secolo e un falso, scolpito da uno studente), consolatevi con la recente fatica di  Elio Cadelo, giornalista della Rai, che, con dovizia di citazioni di Virgilio, Tito Livio e tanti altri, sostiene che, avendo l’Impero Romano la capacità di scoprire l’America, l’ha fatto sicuramente.

    Una saga ammonitrice

    Barry Fells è un archeologo marino neozelandese molto utilizzato in questo genere di scritti. La sua prima opera America BC(1976) era stata demolita dagli storici senza pietà. Qualche anno dopo, ha ritentato con Saga America (1980), un libro massiccio, dove si trovano le interpretazioni dei petroglifi del Great Basin, alle quali ho accennato sopra. Anche questa opera, dice David Hurst Thomas, recensendola sul “Journal of California and Great Basin Archaeology”, andrebbe screditata con la stessa severità. Ma, continua, si tratta di un’opera elogiata dalla Casa Bianca, che ha trovato un editore di prestigio e che piace al grande pubblico. Questa diffusione, perciò, ci suggerisce qualche riflessione in più: “Chiunque pensi che gli archeologi dovrebbe adottare una politica di “benigna ignoranza” verso questa archeologia un po’ picchiatella, probabilmente scherza. Libri come questo devono essere un barometro per misurare quanto poco siamo riusciti a spiegare l’archeologia al pubblico americano”.

    Possiamo far nostra anche noi, insegnanti di storia europei, questa conclusione.

  • I Pacifici Celti Leghisti: Roma ladrona e la storia dell’antichità

    Autore: Mariangela Galatea Vaglio                                
     

    Introduzione

    La maestra aveva dato ai suoi allievi la consegna di immedesimarsi negli abitanti di un villaggio antico; e la bambina aveva scritto che ogni mattina si pettinava le lunghe trecce bionde e cantava con la cetra, nel suo villaggio celtico. Lessi questo compito su un sito, oggi irrintracciabile, di una scuola elementare friulana, negli anni ’90. Era una segno, minimo per quanto significativo a mio giudizio, dell’effetto che la propaganda politica della Lega cominciava ad avere nelle scuole. Sono passati pochi anni, già vediamo che molti adulti non ricordano più quei tempi e gli allievi delle scuole ci sorprendono del fatto che non ne sanno nulla. Così, quando ho letto la ricerca che Mariangela Galatea Vaglio - ricercatrice di storia antica, insegnante e scrittrice apprezzata (Didone, per esempio. Nuove storie dal passato, Castelvecchi editore) – aveva realizzato sull’uso politico della storia antica, le ho chiesto di condividere con il lettori di HL il capitolo dedicato ai Celti e la Lega. Non mi è mai sembrato, nemmeno negli anni caldi, un tema di storia folkloristica italiana. Per chi ha studiato i temi dell’invenzione della tradizione e dell’uso pubblico della storia (imprescindibili come dicono le Nuove Indicazioni anche per insegnare storia nella scuola di base) era evidente che si stava assistendo, quasi in diretta, ad un tentativo di invenzione della tradizione. Un fenomeno avvenuto dante nel passato. Ma questa volta, la novità era che la politica si appropriava in modo aperto del passato, e ne faceva un uso pubblico sfrontato, quasi si facesse beffe degli studiosi che, in contemporanea, mettevano in guardia i cittadini. Anche per questo è importante cominciare, fin d’ora, a costruire una memoria storica di quei tempi. (HL)

     

    I.    La Lega ed i Celti, un colpo di fulmine


     

    Tutti assieme in riva all’Eridano

    15 settembre 1996: sulle rive di un Po placido, indorato dal sole e filmato dalle televisioni di mezzo mondo si danno appuntamento per una grande catena umana i Leghisti di Umberto Bossi. Nei progetti del Senatùr il giorno dovrebbe segnare la nascita della Repubblica Federale di Padania, stato sovrano comprendente, grosso modo, Veneto, Sud Tirolo, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Trentino, Val d’Aosta, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Marche, Umbria e Toscana.

    Se sul piano della partecipazione reale la manifestazione non è un completo successo, l’eco che essa ottiene sui mezzi di informazione è enorme. Non c’è telegiornale o giornale che non mostri l’immagine di Bossi intento a raccogliere in un’ampolla di vetro la preziosa acqua della fonte del Po, l’antico Eridano, che viene versata poi in Laguna. Questo successo di pubblico è dovuto all’abilità con cui la Lega ha saputo orchestrare la campagna di lancio dell’iniziativa e l’innegabile senso teatrale che ha inspirato gli organizzatori della manifestazione stessa. A questo senso del teatro vanno certo ricondotta l’introduzione nell’immaginario leghista, appena qualche mese prima della programmazione della marcia sul Po, del ‘mito celtico’. Bossi proclama su giornali e tv che i leghisti sono diretti discendenti di quei “pacifici” Celti che, durante l’antichità, si erano stanziati nella pianura Padana ed erano stati poi travolti dalla conquista romana imperialista. La nuova simbologia celtica è il filo conduttore della Kermesse leghista. Il 15 settembre stesso Repubblica dedica a questo nuovo apparato mitologico un articolo dal titolo: “I riti presi dai Celti tra storia ed Asterix”.

    “Druidi ed ampolle. Il grande fiume che rigenera. La dea Sole - scrive Francesco Erbani, - Dovendo fondare uno Stato indipendente si hanno davanti due strade: ricostruire una storia cercando nelle sue pieghe il filo di un’identità oppure costruire una simbologia, un apparato di miti. Umberto Bossi ha imboccato ruvidamente la seconda. E ha scelto, per il battesimo padano, il repertorio rituale degli antichi Celti.”


     

     Druidi e ampolle.Qui l’articolo di Francesco Erbani

     

    Già, ma chi sono i Celti di Bossi ? E come mai compaiono proprio in questa forma e proprio in questo momento, materializzandosi pare quasi dal nulla sulla rive del Po ? L’antichista può certo sorridere davanti agli anacronismi di questi celti protoleghisti padani . La propaganda politica, però, come la pubblicità, ha regole forse capricciose ma serie. Bossi sceglie i Celti spinto di sicuro da qualcosa di più che un semplice colpo di sole, fosse pure delle Alpi. Cercare di comprenderle o almeno di individuarle aiuterà non solo a ridisegnare l’immagine dei Celti con maggiore acribia filologica, ma anche a conoscere meglio alcuni aspetti della Lega ed alcune eredità che essa ha raccolto lungo il suo cammino.


    Dal Carroccio al Sole delle Alpi.

    Quando nel 1989 la Lega  si affaccia alla ribalta nazionale il suo apparato propagandistico non contempla alcuna allusione ai Celti. Le due Leghe del Nord, cioè quella Lombarda e la Liga Veneta, si richiamavano esplicitamente non all’antichità, quanto piuttosto al Medioevo.

    Tutta la prima fase della Lega come partito di rilevanza nazionale è legata ad una propaganda che recupera le memorie dei liberi comuni contro il Barbarossa. Il simbolo della Lega diviene così Alberto da Giussano, che rimane nel logo del partito anche quando la denominazione del movimento cambia da Lega Lombarda a Lega Nord, ed orna i baveri delle giacche dei leghisti. Per i giornali Lega e Carroccio diventano sinonimi intercambiabili, lo stendardo dei comuni ribelli al Barbarossa diviene la bandiera ufficiale della Lega, le adunate del partito non possono che svolgersi a Pontida.

    Del resto già la Liga Veneta, che era presente da anni nel Veneto e aveva colto già nell’’83 significativi successi elettorali, raggiungendo, ad esempio, il 6% in provincia di Vicenza ed il 7% in quella di Treviso, si affidava anch’essa a memorie medievali, veneziane in particolare: il suo stendardo era il Leone di S. Marco, il suo riferimento storico la Serenissima. Essa era talmente affascinata da queste memorie che, in buona sostanza, prima della fusione con la Lombarda di Bossi, veniva ritenuta dai suoi stessi simpatizzanti come “una bizzarra congrega di persone impegnate a coltivare un dialetto (lingua, secondo loro) che i Veneti non riuscivano a capire e a lanciare invettive odiose contro il Sud .” 

    Nei primi tempi di successo sulla scena politica va sottolineato che forse nemmeno i bersagli della propaganda e i fini del movimento sono così chiari. La polemica si rivolge soprattutto contro il Sud e contro Roma ladrona, sede di ogni vizio in quanto sede della aborrita partitocrazia. La battaglia verte solo sul presente, al massimo sul passato prossimo, la prospettiva di recupero storico non interessa. Un certo interesse nei confronti dei Celti e dell’antico fiume-dio Eridano, tuttavia, doveva essersi sviluppato precocemente in Umberto Bossi e velocemente radicatosi, tanto da indurlo a battezzare il suo ultimo nato Eridano Sirio.

    Tuttavia fino alle elezioni del ’94 l’intero apparato propagandistico della Lega sembra rimanere nell’ambito della polemica antimeridionalista e antipartitocratica, con scarsissimi accenni a qualsivoglia recupero della storia passata. La svolta nella propaganda si verifica soltanto nel ‘96. Il mito dei Celti compare in contemporanea alle prime dichiarazioni secessioniste del movimento. Man mano che il Senatùr chiarisce, forse in primis a se stesso, quali siano i suoi obbiettivi politici, cioè man mano che si inizia a dichiarare da parte della Lega che il fine da raggiungere una è una vera e propria secessione dallo stato italiano, vi è la necessità di giustificare questo distacco dal resto dell’Italia non solo con motivi di ordine fiscale, ma con motivazioni di carattere etnico. Vi è in proposito una vera svolta ideologica: il movimento, a questo punto, si presenta come l’espressione di una etnia vessata per secoli da una dominazione straniera. La Lega mira insomma ad inserirsi nella grande tradizione di partiti politici a base regionale che rivendicano l’autonomia del loro territorio poiché esso è etnicamente e culturalmente diverso dai restanti territori dello Stato che li ingloba. La Padania diventa, nella visione leghista, comparabile al Quebec canadese, all’Irlanda del Nord o ai Paesi Baschi


    Un prontuario per la separazione

    Ma per portare avanti un discorso di separatismo su base etnica, è necessario prima convincere l’uditorio che gli abitanti del Nord Italia sono, appunto, appartenenti ad una etnia diversa da quelli del Centro Sud. Ed ecco che allora il richiamo alle antiche identità comunali del medioevo non basta più, dal momento che fin nei secoli più bui dell’evo medio, Milanesi e Palermitani (o per lo meno le élite dirigenti delle città in questione) comunque si sentivano tutti parte di una stessa cultura e cominciavano a riconoscersi in una lingua che, nata alla corte di Sicilia, era stata poi affinata dal toscano Dante e codificata dal veneziano Bembo. Il mito celtico dunque viene inventato in un momento in cui la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania - questo il nome che il gruppo ha voluto assumere a Montecitorio - ha bisogno :

    •    Di un mito fondante che giustifichi il progetto separatista.
    •    Di una giustificazione etnica, non solo fiscale, del separatismo stesso.
    •    Di un mito che sia unificante anche di tutto il Nord, in un momento in cui i leghisti del Nord Est cominciano a voler a conquistare a loro volta una autonomia e si dimostrano insofferenti all'ipotesi di un centralismo ‘lombardo’ che si sostituisca a quello romano


     

    Ai piedi del grattacielo della regione, la Lega organizza unamostra di costumi medievali


    La scelta dunque dei Celti non è casuale, ma risponde invece ad una operazione di maquillage ideologico di notevole sapienza. I Celti e la revisione leghista della storia antica entrano in scena contemporaneamente all’annuncio della secessione. Per giustificare una scelta tanto drastica, infatti, non è più sufficiente tirare in ballo la Roma Ladrona della prima Repubblica. L’idea di separarsi da Roma, per il Nord viene presentata ormai come l’unica strada di salvezza. Roma non può essere sanata dai suoi difetti, né lo Stato unitario può essere ‘bonificato’ dalle infiltrazioni malavitose del Sud. Il malaffare romano non è un prodotto incidentale, ma un portato strutturale di Roma stessa, che fin dall’antichità ha vessato i pacifici popoli celtici del Nord. Li ha conquistati con la violenza, inglobati a forza, tassati e tartassati fin dalla notte dei tempi. Per liberarsi da questa secolare sanguisuga, i celtici popoli del Nord non possono più cercare un accordo pacifico, devono giungere alla secessione.


        
    II.    I Celti di Bossi : fra Braveheart, le Rune ed Asterix

    Da John Wayne a Mel Gibson

    L’immaginario leghista spesso a primo acchito a chi ci si avvicini dà l’impressione di un calderone, forse celtico, in cui si può trovare tutto ed il contrario di tutto. Nei pochi anni di ribalta politica, alle assemblee della Lega è capitato di vedere i gadget più inconsueti e di incrociare personaggi addobbati nelle fogge più inconsulte. Oltre al Carroccio e ad Alberto da Giussano, il mito americano contava non pochi cultori. L’America, del resto, era la grande patria del federalismo, nonché la terra nutrice di John Wayne, il cowboy cui molti leghisti si inspiravano fin nell’abbigliamento (qualcuno ricorda le cravatte alla texana dell’onorevole Francesco Speroni, ministro leghista delle Riforme Istituzionali nel governo Berlusconi?).

    Con il tramontare della scelta federalista anche i modelli di riferimento cambiano. Sono, curioso notarlo, sempre dei modelli legati al cinema, cosa non incomprensibile se si tiene conto che i leghisti, in genere, non mostrano una grande inclinazione per i libri, e ad una buona lettura preferiscono, Bossi in testa, un dvd. John Wayne, ad onta del suo berretto verde che si intonerebbe con le camicie del servizio d’ordine, entra presto nel dimenticatoio. Gli subentra Mel Gibson, regista ed interprete del film Braveheart (1995). La pellicola, storia di un ribelle scozzese che si batte contro il dominio inglese, folgora Umberto Bossi. Il Senatùr a più riprese si paragona in discorsi ed interviste a Gibson. Alle convention della Lega cominciano ad apparire figuranti con lunghi capelli scarmigliati, la faccia dipinta di blu, la cornamusa ed il kilt. Siamo all’anticamera del mito celtico.  

     

    Fondendo le varie “anime storiche” della Lega, da Alberico da Giussano a Bravehart, Renzo Martinelli realizza Barbarossa(2009, Rai Production)


    La nascita del mito celtico

    I Celti fanno capolino nella propaganda leghista proprio in occasione della grande manifestazione del 15 settembre 1996. L’evento, per stessa ammissione di rappresentanti leghisti, nasce all’inizio come una boutade polemica del Senatùr. Ma l’idea di ritrovarsi tutti assieme in riva al grande fiume conquista talmente la fantasia della base che le varie sezioni cominciano a darsi da fare per organizzare quello che i leghisti battezzano subito  il loro “Indipendence Day”. Il 5 agosto 1996 si ha una prova generale di secessione nelle acque liguri: Bossi fa immergere il fido Bobo Maroni nel golfo di S.Fruttuoso (GE). La Lega in questo momento è ancora tutta unita attorno al suo leader. Irene Pivetti, da sempre rappresentante dell’ala cattolica del movimento, non partecipa alla manifestazione di persona, ma si considera presente in spirito, anche se già ha espresso qualche riserva sull’operato dei colleghi. Bossi cita come modello per le future azioni secessioniste della Lega Ghandi e Martin Luther King. Ai Celti, padani o meno, nessun accenno.

    E’ soltanto a partire dal 10 agosto che si iniziano a trovare nei discorsi di Bossi i primi accenni ai Celti. Per la prima volta viene abbozzata quella che dovrebbe essere la futura bandiera dello stato padano, il cosiddetto “Sole delle Alpi”. Lo descrive in anteprima a Sebastiano Messina della Repubblica uno dei personaggi più folcloristici dello stato maggiore leghista, Erminio Boso, un trentino rotondo soprannominato, guarda caso, “Obelix”, come il guerriero celta di Uderzo: “Il tricolore non ci piace più, è una bandiera artificiale voluta dai massoni. Torniamo alla bandiera di S. Giorgio, quella bianca con la croce rossa, e aggiungiamo la ruota del Sole delle Alpi.”

    E’ curioso che l’introduzione di questo simbolo, che si richiama alla tradizione pagana ed i primi accenni ai Celti siano concomitanti con l’espulsione dal partito della cattolica Pivetti, datata proprio al 10 Agosto.

    Contemporaneamente alla messa a punto del mito celtico, la Lega si dichiara pronta a collaborazioni con i movimenti indipendentisti d’Europa: Alleanza Libera Europea, movimento che raggruppa i movimenti autonomisti, viene invitata ufficialmente a Venezia.

    La svolta paganeggiante di Bossi non sfugge alla Chiesa. Su Repubblica del 11/9/’96 appare un articolo non firmato, dal chiaro titolo “La Chiesa non perdona Umberto il pagano”, in cui Irene Pivetti definisce il suo ex leader : “adoratore pagano del Po....istigatore di una religiosità laica, naturalista e panteista”, mentre Roberto Cartocci, docente di metodologia delle scienze politiche e collaboratore della rivista cattolica Jesus, afferma che “sostanzialmente priva di avversari, la Lega ha trovato nella Chiesa l’unico ostacolo in grado di contrastarla.” La Pivetti ritornerà sull’argomento a manifestazione indipendentista conclusa, usando toni ancor più feroci: “Bossi sta trasformando la Lega in una setta religiosa. Non fa più un discorso politico ma pseudomistico: l’ampolla del dio Po, e tutte quelle sciocchezze, lui che si comporta come un capo religioso...una pagliacciata che non cancella la gravità dell’offesa ai cattolici”.

    Ma ormai i Celti bossiani sono sbarcati su Po, fra druidi, ampolle e telecamere.


    Asterix il Gallo

    La tre giorni leghista sulle rive del Po si svolge sotto gli occhi delle telecamere e, fortunatamente, senza incidenti di rilievo. Umberto Bossi preleva dalle fonti del fiume una ampolla di acqua, “sacra acqua del Po, acqua non mafiosa, acqua che è carne di tutti noi padani, acqua magica, cristallina e pura come l’acqua dei padani”

    Il recipiente degno di contenere tanta meraviglia è stato fatto soffiare appositamente a Murano, copiandolo da un vaso celtico esposto anni prima a Palazzo Grassi.

    L’apparire dei Celti nella propaganda leghista suscita immediatamente la curiosità dei giornalisti. Il 30 agosto, non appena comincia a prender forma il programma leghista per la giornata del 15 settembre e Celti e Dio Po entrano in scena, Roberto Bianchin intervista sulle pagine di Repubblica Andrea Vitali, collaboratore del medioevalista Franco Cardini, chiedendo lumi sui Celti.

    Lo studioso asserisce che la mitologia di Bossi risulta dal punto di vista simbolico assai efficace, riprendendo alcuni temi forti come “il mito dell’acqua portatrice di vita...Bossi ripete un rito antico, con l’acqua che purifica il territorio e lo separa da ciò che è impuro.... Eridano non è solo il nome del Po, ma anche del Rodano, tipico della cultura celtica, stava nel paese degli Iperborei, dove Apollo viveva sempre giovane.”

    Il giorno prima anche Giorgio Bocca, che la manifestazione leghista seguirà da inviato, aveva preso in esame la nuova ondata celtica del Bossi-pensiero. Secondo Bocca essa va considerata come un prodotto “della vasta ondata reazionaria, desiderio di medioevo, di antimodernismo, che hanno fatto un leader di uno “che non ha mai letto un libro”... uno che non sa nulla di nulla, né di storia, né di economia né di finanza”. Continua Bocca: “Non sarà un caso che il mondo dello spettacolo abbia quasi annullato la classicità, e produca decine di film su miti celtici e nibelungici. Non è un caso che il giullare Bossi sia passato dal Ruzzante ai riti ed ai simboli della tavola rotonda.  Bossi è un personaggio di grande fama e di piccola statura, ma ha un suo fiuto nel capire gli umori o i miasmi che salgono dal passato remoto...: un certo neopaganesimo, una dissacrazione pagana, celtica della Chiesa di Roma, che dà un fremito alle memorie del sangue dei dolmen e degli dei delle foreste. E’ una violenza di Brenno che può durare finché nessuno gli rompe in testa il suo spadone di cartapesta.”

    Il 15 Settembre, a preghiera all’Eridano avvenuta, Francesco Erbani interroga sull’argomento esperti nel tentativo di rintracciare fonti più precise per questa Celtic Renaissance padana.
    Franco Cardini si stupisce: “Mi meraviglia che abbiano adottato i Celti, la cui storia rimanda più all’idea di integrazione che non di secessione”. Enzo Pace, sociologo delle religioni, parla di un “pastone, assemblaggio di frammenti”: “Nella storia dei Celti non c’è solo l’epopea della ribellione a Roma. Si sofferma lì solo chi legge unicamente i fumetti di Asterix .” Pace, dopo aver rilevato che questo bagno di paganesimo avviene poco dopo l’espulsione della cattolica Pivetti, sottolinea il fatto che la Lega ha recuperato i Celti e non i Longobardi che “arrivati in Italia abbandonarono il retroterra europeo, quei rapporti oltre le Alpi che a Bossi servono e che i Celti assicurano.”


    Il paradosso della Chiesa italiana
     
    Come vedremo più avanti, probabilmente la molla che fa scattare il recupero celtico della Lega è leggermente diversa. In ogni caso già da questa prima panoramica ‘a caldo’ le fonti di Bossi sono chiare: agli osservatori i Celti leghisti si presentano come un assemblaggio di modelli tratti dal cinema e dai fumetti, che fa sorridere gli studiosi seri ed arrabbiare la Chiesa.

    Delle prese di posizione di Irene Pivetti, cattolicissima ex presidente della Camera, si è già detto. Ma poco tenera è anche la voce ufficiale della Chiesa. L’Osservatore Romano infatti bolla come eretica la secessione di Bossi e le sue idee neopagane. Contro Bossi si schierano apertamente il cardinal Martini, arcivescovo di Milano ed il cardinal Ruini.

    Gli ambienti cattolici non mancano di mettere in evidenza l’avversione della Lega verso il Vaticano.In questo blog vengono raccolte le espressioni  anticlericali più colorite delSenatùr

     

    Eugenio Scalfari nota il paradosso di una Chiesa che diviene così la sentinella dell’Unità d’Italia, quell’unità che lei stessa nell’Ottocento aveva tenacemente osteggiato: “La gerarchia ha fiutato puzza di razzismo...di ideologia anticristiana ed ha giudicato che toccava a lei intervenire per bloccare un movimento così radicalmente e pericolosamente antitetico alla dottrina... Se si predica la divinizzazione del fiume, e si disconosce la preghiera fondamentale della cattolicità..questo non riguarda più Cesare, ma Dio, perché ferisce al cuore la dottrina e la cristianità storicamente realizzata.”

    I Celti di Bossi quindi sarebbero nati da un incontro fortuito fra Asterix, Conan il Barbaro e la tendenza neopagana insita nella società moderna che la Chiesa combatte. Ma sarà proprio tutto qui?
     

    Celti, Camice verdi, Sole delle Alpi : la cultura esoterica e le radici del nazismo.

    Asterix, Conan il Barbaro, il diffuso interesse per il mondo delle leggende celtiche e germaniche non bastano da soli a chiarire perché la Lega, dovendosi scegliersi un mito fondante, ricorra proprio a quello celtico. Tale scelta lascia spiazzati, come abbiamo visto, autorevoli storici e sociologi, che la giustificano con la necessità di trovare un collante etnico che unifichi le popolazioni del nord Italia e le metta in relazione con quelle della Germania e del Nord Europa in generale. Ma i miti, persino quelli utilizzati nella propaganda politica, ben raramente vengono scelti sulla sola base di motivazioni utilitaristiche. I Celti di Bossi fin dal loro primo apparire non hanno mancato di far correre brividi di disagio lungo la schiena di molti. La Lega con la sua ampolla druidica, i riti pagani dell’acqua, le schiere di giovani camice verdi pronte a buttarsi nel fuoco per il loro leader carismatico hanno immediatamente richiamato alla memoria altre adunate, altre schiere di giovani, in camicia, però, bruna. L’ombra del Nazismo si è stesa sulla pianura Padana. C’è un collegamento diretto od intuibile fra la scelta di un certo apparato mitologico e la struttura che la Lega si sta dando? I collegamenti fra Lega e Nazismo sono solo il frutto di isterismo collettivo, voglia di demonizzazione dell’avversario o sono invece determinati dal fatto che entrambi i movimenti hanno una  qualche origine comune, una matrice che determina la presenza di talune affinità di comportamento ? E il recupero celtico non farà parte di questa matrice comune?

    Giorgio Bocca esclude ogni possibile rapporto di diretta filiazione o di contatto fra i due movimenti: “Come ideologia, come contesto storico, il paragone con il nazismo è privo di qualsiasi serietà. Ma sul piano del folklore, della cultura reazionaria, il paragone è pertinente e impressionante. Le parate della Lega, le feste della Lega sono simili per cattivo gusto, per l’improbabilità storica, per il cheap folkloristico a quelle della Germania del ‘36”.

    Il linguaggio, spesso violento della Lega e le immagini adoperate, che richiamano la propaganda politica delle dittature novecentesche, sono analizzati dal punto di vista linguistico in questo numero di “Storia culturale”

     

    Sostanzialmente concorde ma preoccupato anche Michele Serra: “Una crisi sociale ed economica grave ha fatto da innesco ad un inquietante movimento nazionalista... guidato da un classicissimo tipo paranoico che si crede davvero l’incarnazione dello Spirito del Nord....Quando avremo finito di ridere del dio Eridanio e di altre consimili fregnacce forse ci renderemo conto che i tedeschi, prima di Hitler, sapevano di essere ariani quanto i Lombardi ed i Veneti sanno di essere Celti. Pure, allora, ci hanno creduto a milioni.” Intervistato sul Corriere della Sera George Mosse dichiara: “La mitologia leghista messa in scena sul Po è quanto di più vicino ai rituali politici fascisti io abbia sentito dalla fine della guerra... Dal momento che non ha trovato un mito bell’e pronto (Bossi) si è messo a costruirlo. Il vecchio dio Po gli serve a farne nascere uno nuovo.” Dunque i richiami ai Celti di Bossi, il suo paragonare l’ampolla del Po al Santo Graal ricorderebbero la propaganda nazista, più ancora che quella fascista legata alla ripresa della romanità, per una pura convergenza casuale. Entrambi riprenderebbero l’immagine del medioevo come luogo barbarico:“Terra vergine di sentimenti elementari, al di fuori di ogni legge, dark age per eccellenza. Ma in quel buio si desidera vedere una luce “altra”. ..Esso è per vocazione a disposizione di ogni sogno di barbarie e di forza bruta trionfante, ed ecco perché viene sempre, da Wagner a Frazetta, sospettato di nazismo. E’ nazista ogni vagheggiamento di una forza che non sappia né leggere né scrivere.”

    Dunque il punto di contatto fra nazismo e Lega sarebbe proprio questo culto della forza fine a se stessa, contraria o sospettosa della cultura, ed i Celti risulterebbero scelti a caso tra i vari popoli barbari che avrebbero potuto candidarsi al ruolo di inspiratori.


    Nazisti inventati

    Ma andando un po’ più a fondo nello studio di testi propagandistici prodotti in seno alla Lega ci si rende conto che gli sviluppi simili di Lega e partito nazista potrebbero anche essere meno casuali di quanto sembra e la scelta dei Celti connessa ad un comune ambito di riferimento culturale, bazzicato sia dai nazisti degli anni ’30 sia da alcuni appartenenti alla Lega in periodi più recenti.

    Il 7 Ottobre ’96 viene pubblicato sul foglio Lega Nord - Padania indipendente n°37, organo ufficiale della Lega Nord, un articolo di Gilberto Oneto, ministro della Cultura nel Governo Sole della Padania, “Il Sole delle Alpi sorge sulla Padania”, apparso in parte già nel 1995 sul primo numero di Quaderni Padani, rivista che cura “lo studio e la promozione della cultura padanista, con testi sulla storia e sulle varie espressioni culturali dei popoli padano - alpini”.  

    Gilberto Oneto, Giuseppe Aloé e Davide Fiorini spiegano il significato del sole padano dalle pagine di“Quaderni Padani”

     

    L’articolo presenta il nuovo simbolo della bandiera padana, il Sole delle Alpi appunto, un cerchio in cui viene inscritto un fiore a sei petali “ radicato”, a detta di Oneto, “ nella memoria popolare ( ?) e famigliare (sic !) ad una intera comunità di popoli.” Il simbolo avrebbe radici celtiche “la Ruota solare o croce celtica” sarebbe “la personificazione mitologica del dio Lug... la cui immagine è all’origine di tutti i soli che sono comuni nell’iconografia dell’area alpina.” Il sole celtico avrebbe legami con la simbologia cristiana (Cristo ha l’epiteto di Sol Invictus) e collegato alle dottrine magiche che difendono dagli spiriti cattivi nonché alla simbologia alchemica. Non pago di ciò, Oneto continua : “Legato alla ruota è il significato di rotazione che accomuna una vastissima gamma di segni antichissimi, dal Triscele alla Svastica... risulta facile ed immediato il suo accostamento con il Chrismon, monogramma formato dalle iniziali del Cristo...questo somiglia e forse deriva dalla runa Hagal che significa contente il tutto” Oltre che il Chrismon, la cultura celtica avrebbe inventato anche il concetto di trinità, poi passato al cristianesimo.

    Fermiamoci qui. I concetti riportati nell’articolo, infatti, per quanto possano apparire farneticanti, non sono di certo nuovi. Essi sono tutti ripresi (assieme alla dea Sole parimenti citata nell’articolo in un passo non riportato) dall’antica tradizione ermetica iniziatica che, presente in Europa fin dal periodo rinascimentale, è riemersa con prepotenza durante gli ultimi anni dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento. In questo arco di anni fiorisce in Europa, specialmente in Inghilterra e Germania, una pletora “di associazioni e cenacoli la cui caratteristica consisteva nel ritenersi depositari di una antica sapienza primordiale che in alcune sue manifestazioni sfociava nell’esoterismo, nell’occultismo e nel magismo...Nel 1897 un gruppo di studenti liceali viennesi fonda una associazione che assumeva la denominazione Die Telyn, un’arpa i cui suoni paramagici esprimevano la creatività delle popolazioni celtiche del Galles meridionale” In questi cenacoli si incrociano ciarlatani, intellettuali, futuri arbitri della storia d’Europa, da Madame Blavansky a Yeats a Hitler. In essi Fabre d’Olivet, un famoso occultista, “elabora una staordinaria epopea, volta a dimostrare la prevalenza dei Celti su tutti gli altri popoli ed il valore esemplare dell’impero teocratico fondato dal druido Ram seimila anni prima di Cristo. Ram diviene Rama in India, Osiride in Egitto, Dioniso in Grecia.”

    In questa cultura i Celti, legati agli Iperborei ed al mito d’Atlantide, nonché alla leggenda del Santo Graal, sono una sorta di popolo eletto. Hitler e lo stato maggiore del nazismo si formano all’interno di questi circoli, così come Yeats, poeta vate dell’indipendenza della celtica Irlanda.

    Ora, è evidente che fra Bossi ed Hitler, la Lega ed il partito Nazionalsocialista non vi sono punti diretti di contatto. Tuttavia è interessante notare come i due movimenti, che presentano analogie di struttura e di organizzazione, abbiano alle spalle anche una cultura comune. Le rune a Hitler inspirarono il logo delle SS, a Bossi inspirano il simbolo del Sole delle Alpi, l’uno amava circondarsi di camice brune, l’altro verdi.

     

    Scene di lotta di classe a Ponte di Legno.

    Oltre ai legami con questo “sottofondo esoterico” che in qualche modo fu legato anche alla nascita della cultura nazista, l’articolo di Oneto risulta interessante per indagare altri aspetti della ricostruzione leghista dei Celti. Addirittura illuminante risulta a questo proposito un passaggio finale dello scritto: “Si può sicuramente affermare che si tratta del segno  (ossia: Il sole delle Alpi) più diffuso in Padania nella cultura subalterna, in quella cultura popolare contadina, montanara ed artigiana che è ancora radicata e ricca e che rappresenta il più forte e vitale tessuto connettivo del paese. Anche per questo non ci può essere simbolo migliore del Sol per rappresentare un paese che ha sempre mantenuto una unità culturale anche sotto secolari divisioni politiche e culture dominanti, spesso forestiere ed imposte con la forza o con l’inganno...ora questa terra sta faticosamente lottando per ritrovare la sua cultura più profonda e non può darsi un sigillo più antico, ricco e popolare di questo...ritorno eterno alla propria tradizione.”

    Ancor più duro era stato, qualche giorno prima, una altro articolo sempre uscito dalla penna del “ministro” Oneto, pubblicato nel primo numero del giornale Il Nord, quello diffuso, per intenderci, lungo il Po durante la tre giorni della secessione: “Esiste innanzitutto un’origine comune: la Padania è il paese dei Celti, dei Liguri e dei Veneti che la abitavano dall’inizio dei tempi... I nostri vecchi vivevano in una sorta di età dell’oro prima che sull’Appennino si affacciassero i Romani, con tutto il loro sopraffattorio parafernale...” quella celtica era una società modernissima, con una struttura democratica (i capi venivano eletti) e paritaria (donne e uomini, poveri e ricchi avevano gli stessi diritti)”, dove addirittura l’età dei Celti diviene un regno del Bengodi.

    Oneto stesso spiega : “Il Sol non ha mai avuto utilizzi nobili: esso non esiste nell’araldica nobiliare, e se ne trovano tracce solo insignificanti su manufatti aulici prodotti da culture dominanti. La sua diffusione è invece massiccia nell’arte e nell’iconografia popolare... con particolare rilevanza per tutti i manufatti che sono vitali per la vita della comunità.”


    L’Italia fondata dai Fenici

    La Lega dunque, questa Lega celtica, si presenta come un partito di lotta sociale, che difende gli interessi di un popolo antico, operoso e da sempre vessato da dominazioni straniere. E nella dominazione forestiera che con la forza o l’inganno ha tenuto sotto il suo potere gli sventurati Celti padani non occorre una gran fantasia nel riconoscere Roma, sede nell’antichità del violento impero centralista e in anni più recenti della partitocrazia malavitosa. Uno stato che, sono ancora parole dei Leghisti, è un mostro ignobile, pensato per stroncare i popoli celtici bonari ed operosi: “Ascoltatemi bene perché vi parlerò della morte del nostro popolo, il popolo celtico delle pianure del nord della Padania. Si chiama Stato Italiota - da un ceppo di Fenici. Stanziato nell’epoca preromana nell’attuale Calabria, dispregiato dagli Achei ed abiurato dai Romani, il più gelido dei mostri”.

    In questo ultimo passo (presentato come “Una libera reinterpretazione del Così parlò Zaratustra di Nietzche”), addirittura, lo stato italico non è neppure più un prodotto di Roma, ché almeno i Latini e gli Achei, in quanto indoeuropei di origine come i Celti, un po’ di rispetto se lo meriterebbero (sentenzia ispirato Erminio Boso: “Magari i veri Romani erano persone serie. Ma poi, le infiltrazioni...quando il sangue si tara...”) ma figlio bastardo di Fenici.

    I Celti Padani, vessati da Romani, appaiono quindi nell’immaginario leghista configurati come un popolo di artigiani, magari di piccoli imprenditori che si son fatti da soli, dediti al lavoro, dotati di senso pratico, alieni da ogni grillo per la testa, che non ha tempo da perdere con le fisime della burocrazia e degli intellettuali. Sono insomma la proiezione, in epoca antica, degli elettori tipo odierni della Lega, in lotta con i grandi industriali (la vera aristocrazia del nostro tempo) e con i burocrati ‘foresti’. Lo scontro fra gli interessi di classe si colora di sfumature epiche: non è più una questione di tasse, di riforme istituzionali e federaliste, ma una battaglia storica fra due blocchi contrapposti fin dalla notte dei tempi.


    Misteri del popolo

    Precedenti diretti di questa visione da scontro epico - etnico non si trovano nella propaganda di nessun partito politico del secondo dopoguerra. Di precedenti letterari se ne rintraccia solo uno, anche se non perfettamente coincidente, nel campo del romanzo d’appendice ottocentesco. Nel 1856 Eugéne Sue, il grande inventore del romanzo d’appendice ottocentesco, inizia I Misteri del Popolo, saga storica in cui una famiglia proletaria francese (i Lebrenn, che già dal nome appaiono legati al nome del capo celta Brenno) viene seguita attraverso i secoli e la secolare lotta con la famiglia antagonista dei Plouermel, via via feudatari, legittimisti, capitalisti.

    Sue scrive la saga dal punto di vista socialista, è amico di Mazzini che farà pubblicare I Misteri del Popolo in Svizzera. Tuttavia i suoi Celti proletari vessati rimangono l’unico precedente di questa lotta di classe etnica ambientata a Ponte di Legno, che la Lega ha inventato e diffonde. E’ impossibile determinare se Bossi o qualcuno del suo entourage abbia letto Sue. Di certo la trama e l’analisi delle implicazioni politiche del romanzo sono ricordate in un saggio di Umberto Eco, che ebbe negli anni ’70 vasto successo e circolazione. Non stupirebbe, a questo punto, se l’apparato della Lega, oltre ad Asterix, Conan il Barbaro,  Mel Gibson e l’esoterismo magico, comprendesse fra i suoi padri nobili anche il romanzo d’appendice dell’Ottocento.

     

    III.   La Lega, La Liga e l’assalto a S. Marco.

    Se una notte di maggio un campanile...

    Venezia, notte dell’8 maggio 1997. Al molo di S. Marco attracca un ferry boat proveniente dal Tronchetto. Ma a scendere dalla rampa, invece dei turisti d’uso, è un piccolo tanko militare che si dirige verso il campanile. I vigili in servizio sulla piazza pensano che si tratti della scena di un film. Invece a bordo vi sono otto componenti di un sedicente commando indipendentista, che si asserragliano nel campanile stesso. Il gruppetto tiene la città e l’Italia col fiato sospeso fino alla mattina successiva. Gli occupanti, che si proclamano combattenti della Serenissima, armati ed intenzionati a resistere, dichiarano al sindaco Massimo Cacciari, intervenuto per tentare una mediazione, di essere in attesa del loro ambasciatore ufficiale, Giuseppe Segato, in arrivo a Venezia da Borgoricco, paese in provincia di Padova.

    Segato non riesce ad arrivare in tempo, perché gli otto Serenissimi vengono arrestati grazie all’intervento delle squadre speciali dei Carabinieri. Lo stesso ‘ambasciatore’ viene incarcerato qualche giorno più tardi. Le indagini successive provano che gli otto sono responsabili anche dei proclami indipendentisti diramati attraverso la televisione alcune settimane prima nell’area di Venezia, attraverso un indebito inserimento nelle frequenze della Rai.

    L’assalto al campanile di san Marco non mancò di ottenere una certa risonanza internazionale, testimoniata da questo manga – Gunslinger Girl - che intrattenne i lettori giapponesi sul tanko e le imprese dei Serenissimi


    L’assalto al campanile scatena nell’opinione pubblica vive preoccupazioni, anche se poi, alla luce delle successive scoperte, più che un attentato eversivo sembra un atto inconsulto messo in piedi da un gruppetto di esagitati molto naïf. A rimanere spiazzato è, sulle prime, lo stesso Bossi. A caldo il Senatùr dichiara che gli otto del campanile sono addirittura degli agenti provocatori al soldo dei servizi segreti. Poi, sull’onda della simpatia istantanea che i Serenissimi suscitano nel popolo leghista, cambia parere e li qualifica come patrioti ed eroi. Gli altri partiti politici, dopo un momento di allarme in cui ci si interroga se nel Nordest non si rischi la nascita di nuove forme di terrorismo formato da schegge impazzite della Lega, presto dimenticano gli otto o si limitano a considerarli sempliciotti un po’ bacati.


    Segato, la storia veneta e l’elogio di Trasea Peto.

    Che i componenti del commando-ex operai del padovano che la sera si riunivano in conclavi clandestini per pianificare una fantomatica rinascita della antica Repubblica Veneta - non brillino per astuzia è un dato incontrovertibile. Più interessante invece è il preteso ambasciatore del gruppo, Giuseppe Segato, che dai Serenissimi veniva considerato l’ideologo ufficiale ed il punto di riferimento.

    Segato risulta infatti autore di un saggio stampato e diffuso a sue spese, intitolato Il mito dei Veneti dalle origini ai giorni nostri (Borgoricco, 1996). Il libro è molto utile per comprendere non solo da quale humus sia germinata la bislacca idea dell’assalto al Campanile, ma anche quale tipo di ricostruzione dell’antica storia veneta venga divulgata presso questi gruppuscoli indipendentisti da cui poi prendono origine o spunto, in molti casi, i movimenti politici più noti.

    Segato si propone di tracciare un disegno della storia veneta dalle origini ai giorni nostri. E che la sua prospettiva storica sia rigorosamente venetocentrica (e contrapposta totalmente alla ricostruzione ‘celtica’ della Lega di Bossi) è chiaro fin dalle prime pagine. I Veneti di Segato sono infatti il vero motore della storia d’Europa : “Da alcune aree veneto-indoeuropizzate nel 2° millennio emergeranno popoli quali i Celti, i Latini, i Germani ed i Veneti dell’alto adriatico” sentenzia infatti il nostro saggista a p.9, lasciando intendere che i Veneto-Indoeuropei sono il vero ed unico popolo originario, da cui discendono tutti gli altri.

    Il modello veneto è il motore della storia : (p.22) “Con il verificarsi della consistente penetrazione veneta centroeuropea vengono a fondersi gusti e stili di svariata provenienza nel nuovo aspetto etnico culturale della regione, che da allora ha preso una connotazione così marcata da essere in grado di reagire in modo dinamico e caratterizzante ad ogni impulso della storia.”

    E questo eden primigenio non è turbato da ingiustizie sociali che invece tormentano gli altri popoli coevi: “In contrasto con il mondo indoeuropeo e quanto andava maturando verso Sud (Roma) o verso Nord Ovest (Celti) non sorgeranno caste guerriere o sacerdotali o irreggimentazioni di tipo feudale e/o monarchico, con l’egemonia di una o poche famiglie, con il culto della personalità del singolo a scapito di quella della comunità, e aggressività verso l’esterno a gloria del singolo. (p.22)”  I Veneti di Segato spingono col loro esempio i popoli vicini sulla via della culturalizzazione. Gli Etruschi stessi si civilizzano grazie a questo vivificante contatto : “La civiltà etrusca annovera nella sua essenza anche importanti aspetti Veneto-indoeuropei... a partire dal VII secolo l’Etruria, molto ricca di risorse minerarie, si trova ad essere una regione molto fortunata, perché sotto lo stimolo di civiltà più progredite i suoi abitanti seppero sfruttarle (sic) dando il via ad attività artigianali e mercantili.”(p. 40).

    L’incontro con i Romani è pacifico perché i Romani riconoscono la relativa indipendenza del Veneto, che diviene uno dei centri economici dell’impero, ma ha in sé la forza morale di non abbandonarsi alla corruzione che invece distrugge Roma: “Con la pace augustea prese vita un gran dinamismo cui tutti parteciparono ed il Veneto in modo particolare.. il linguaggio equivoco della storiografia risorgimentale ha indotto a dedurre che la romanizzazione abbia comportato la fine dei Veneti...le alleate giungono a grandi destini, ma raggiunta la ricchezza seguono due vie diverse: Roma prende la via della dissoluzione morale, e cade nei tentacoli della corruzione, Padova conserva saldezza di principi e di costumi.” (p.53)

    Un esempio di questa saldezza di principi è proprio il senatore patavino Trasea Peto, che si batte contro la corruzione dell’Urbe, e di cui Segato tesse l’elogio: “Trasea assurge a simbolo dell’ideale repubblicano (connaturato nei Veneti) con la sua inflessibile opposizione alla vocazione assolutistica della monarchia.” (p.58).


    Sul cattivo uso di fonti buone

    Tralasciando gli svarioni storici, l’esame di questo testo è interessante per chiarire il tipo di mentalità che contraddistingue questo tentativo di storiografia politicizzata a fini secessionisti. Al contrario di quanto avviene con la propaganda leghista, che le radici e le tradizioni celtiche deve, come si è visto sopra, inventarle dal nulla, i Veneti possono contare su una forte identità culturale alle spalle. Quelle di Segato sono, in larga parte, farneticazioni estremistiche. Però le fonti da cui prende spunto per ricostruire la sua fantasiosa visione storica sono reali (effettivamente i Veneti ebbero rapporti buoni con gli Etruschi, pessimi con i Celti, ottimi con i Romani). Segato stesso cita come sue basi gli studi di esperti seri (ad esempio, lo storico Lorenzo Braccesi per la parte storica, e di Aldo Prosdocimi per quella linguistica), seppure travisandone completamente argomentazioni e conclusioni. Al contrario della propaganda leghista, che inventa di sana pianta, la propaganda ‘veneta’ può contare su un background storico alle sue spalle. Del resto che un afflato filologico pervadesse fin dall’inizio il movimento leghista veneto è testimoniato dal fatto che esso nasce ufficialmente per la prima volta come Società filologica veneta, e si prefigge come scopo lo studio, la diffusione del dialetto e della cultura veneta.

    Questa differenza di origini chiarisce anche in parte il perché della spaccatura avvenuta nel 1994 fra Liga Veneta e Lega Nord. Oltre al fattore economico (il Nordest è un’area troppo forte produttivamente per accontentarsi di accettare passivamente la politica decisa dai ‘padani’ di Milano, che spesso capisce poco quanto la vituperata Roma le esigenze reali del territorio), culturalmente il Veneto si trova ad avere una identità che, per quanto confusa, travisata e creata sulla base di fraintendimenti, è reale e diversa dalla vulgata ‘celtica’ che Bossi ha costruito. Non stupisce quindi che nelle farneticanti ricostruzioni ideologiche dei gruppi come quello di Segato, - che non sono ‘schegge impazzite’ della Lega, semmai piuttosto sono nuclei che preesistevano al fenomeno Lega e non si sono mai integrati con esso - la propaganda celtica di Bossi non trovi il minimo spazio, anzi l’immagine dei Veneti sia messa in antitesi con quella dei Celti pretesi precursori di Bossi. I Celti di Bossi, in questo caso, hanno fatto il calderone, ma il coperchio no.

     

    Celti in pensione: la svolta di Salvini

    Settembre 2010: nel Comune di Andro (BS) viene inaugurata una scuola elementare destinata ad assurgere immediatamente all'onore delle cronache nazionali. Nonostante si tratti di un edificio pubblico, il sindaco Oscar Lancini non solo l'ha voluta intitolare a Gianfranco Miglio, ideologo della Lega Nord, ma si è anche premurato di fornirla di arredi con sopra stampigliato ovunque il simbolo del Sole delle Alpi. Il logo campeggia sulle finestre, sui banchi, sui muri, dove per altro vi sono esposti anche dei crocefissi “imbullonati”, per evitare che qualcuno possa tentare di toglierli. «Li abbiamo fissati con le viti - precisa il sindaco Lancini - perché a nessuno venga in testa di toglierli o di coprirli. Viviamo in uno stato laico ma la nostra religione non si discute, neppure in una scuola frequentata per il 7% da immigrati».
    La vicenda finisce sui giornali, lo scandalo è enorme, e l'anno dopo il sindaco Lancini viene condannato dal tribunale alla rimozione di tutti i simboli, e al pagamento di 800 euro di spese legali, dopo un esposto presentato dalla CIGL per discriminazione sul luogo di lavoro.

    La trovata del sindaco leghista (per altro arrestato qualche tempo dopo perché coinvolto in una indagine su appalti truccati) rappresenta anche l'ultimo episodio in cui la simbologia celtica viene riproposta dal partito. Con il passare degli anni, infatti, i riferimenti al mito celtico ed alla simbologia pagana all'interno dello stesso partito vengono scemando: persino all'interno delle feste leghiste i gruppi di militanti in costume diventano sempre più sporadici e folkloristici, mentre i big del partito non fanno più riferimento nei loro discorsi alle origini celtiche del nord Italia.

    La Lega, infatti, ha deciso per un riposizionamento ideologico: da partito “identitario” del Nord e partito genericamente di centro-destra, che vuole pescare voti ed elettori al di là della loro provenienza geografica. In questo contesto, anche la propaganda è cambiata: da un lato si sottolinea non tanto la diversità etnica fra Italiani del Sud e del Nord, come nei primi tempi, ma fra Italiani ed immigrati. In questo già il sindaco di Andro si dimostra indicativo della svolta: sebbene legato all'immaginario del Sole delle Alpi, la sua politica era poi fortemente indirizzata contro gli stranieri, che nel paese erano stati esclusi con una delibera comunale (poi abrogata e considerata illegittima dal Tribunale) sia dai contributi per l'affitto della casa sia per il cosiddetto “bonus bebé”. Inoltre la svolta è chiara anche nella dichiarazione sui crocifissi: mentre nei primi anni la Lega si era messa in aperto conflitto con la Chiesa, vagheggiando quasi la fondazione di una “religione alternativa” che recuperasse i miti e i riti celtici, adesso invece i Leghisti si presentano come i guardiani della tradizione cattolica, pronti a difendere e ad imporre il crocifisso nei locali pubblici, in funzione antislamica.

    Il nuovo corso della Lega è sicuramente legato al passaggio della segreteria in mano a Matteo Salvini. Nonostante Salvini si sia speso in passato per difendere il simbolo del Sole della Alpila sua “fede” nei miti celtici è sempre apparsa piuttosto all'acqua di rose, ed il suo intento politico pare quello di affrancare la “sua” Lega da queste zavorre ideologiche celtiche, per trasformarla in un partito di destra sul modello di quello della Le Pen in Francia.

    La politica odierna mescola simboli appartenenti a tradizioni diverse; cambia la strategia, che ormai guarda a questioni che possono interessare l’intera popolazione italiana, come la polemica contro l’euro. Questo è l’invito al raduno di Pontida del 2014. L’immagine fa riferimento ai raduni nel “pratone” tradiziona. Il nuovo raduno si svolge in un’ “area feste”


    La Lega, insomma, si presenta come il partito della difesa della tradizione e della “razza” italiana: è antislamica, cristiana, aperta ad accogliere anche gli Italiani del Sud ed e di ogni origine geografica. I celti leghisti non sono dunque più funzionali alla sua propaganda, e infatti i simboli stessi fondanti della Lega delle origini (l'Alberto da Giussano ed il Sole delle Alpi) seppure restano nel simbolo elettorale passano in secondo piano rispetto al nome del segretario, Salvini, garante e propugnatore del “nuovo corso”.

    Gli intellettuali della prima ora, che avevano contribuito con i loro scritti a fondare il “mito celtico” risultano marginalizzati ed appannati. Gianfranco Miglio è morto, Gilberto Oneto molto marginalizzato. L'intero “circolo magico”, poi, che era cresciuto all'ombra di Bossi e che pareva coltivare interessi esoterici e collegati al mito celtico, è stato falcidiato dalle inchieste della magistratura e ha perso ogni ruolo chiave nel partito. Così i pacifici Celti leghisti sembrano destinati ad andare in pensione, silenziosamente, e ritirarsi negli antri di qualche museo, senza più occupare la ribalta della politica nazionale. Forse, per loro, è meglio così.

     La “festa dei Popoli Padani” del 2014 si svolge alla presenza degli uomini politici più importanti della Lega, da Bossi a Salvini, ma “La Padania”, che ne dà notizia, non fa cenno a Celti e a Tradizioni (termini peraltro scomparsi nell’indice analitico del giornale, insieme con Pontida e Alberto da Giussano), e illustra l’articolo con un Monviso, ritornato ad essere una semplice (e bella) montagna alpina
        

    Bibliografia

    ALFONSO, D. "Bossi al mare : la secessione nautica", in Repubblica 5/8/’96, p.10
    BIANCHIN, R. “ Così il dio Po divide i buoni dai cattivi” in Repubblica 30/8/’96, p. 8.
    BOCCA, G.”Solo adesso scopriamo che Bossi - Braveheart proviene dal medioevo” in Espresso, 29/8/’96, p.7
    BRUSADELLI, S : “I  Veneti alla prima crociata”, in Panorama del 14 / 11/ 1996, p. 65-66.
    ERBANI, F. “ I riti presi dai Celti tra storia ed Asterix” , da Repubblica, 15/9/’96, p. 7
    DEL FRATE, C -SPATOLA, G., La scuola appaltata alla Lega, http://www.corriere.it/cronache/10_settembre_12/scuola-appaltata-lega_2f751f96-be42-11df-b1cc-00144f02aabe.shtml
    FERTILLO, D. “Ricorda i Miti del totalitarismo” in Corriere della Sera, 15/9/’96, p. 3.
    FUCILLO, M. :”Da Ghandi a Feltrinelli”, in Repubblica 10/8/’96, p. 1
    GALLI, G. : Hitler ed il Nazismo magico, Milano, 1989
    LAGO, G. :“ Roma dorme, Bossi corre”, in Repubblica 9/8/’96, p. 1
    MESSINA, S. : “ Auto, barche ed aerei, così la Lega prepara la marcia sul Po”, in Repubblica 10/8/’96, p.2.
    ONETO, G. in Il Nord- padania Indipendente n.1 . Cfr Stella G. A. Dio Po, cit. pp. 211-214
    PASSALACQUA, G. “Pronta la nuova Lega”, in Repubblica 30/ 8/ ’96, p. 8
    PASSALACQUA, G. “Senatùr leader unico ma il partito lega ha mille facce” in Repubblica, 31/8/’96 p.8
    SCALFARI,  E. “I nuovi pagani del Po” in Repubblica, 15/9/’96, p.1
    SERRA, M. in Unità, 14/9/’96,p.1
    STELLA, G. .A., Dio Po, Baldini e Castoldi, Milano, 1996
    STELLA, G..A. “ l’acqua è la carne di noi padani”, in Corriere della Sera, 14/9/’96, p..3

  • Il castello di Calafell. La verità dello storico e quella del conta-storie

    di Antonio Brusa

    Questa è l’avventura straordinaria di un archeologo che fa uno scavo e ne scrive la storia, ma subito dopo viene un altro tipo (scrittore, giornalista, uomo di cultura, fate voi), che non ha mai messo mano a quello scavo, epperò ha capito come sono andate le cose e come vadano raccontate. E le mette in rete.

    Insomma, da buon cacciatore di bufale, ho colto il momento in cui ne viene inventata una, e ve la commento.

    Joan Santacana MestreJoan Santacana Mestre

    L’archeologo è Joan Santacana Mestre. Lavora all’Università di Barcellona. Lo conosco perché è uno dei più grandi studiosi di didattica della storia che ho avuto la fortuna di incontrare. Aggirarsi con lui, in uno dei suoi scavi, è uno dei piaceri impareggiabili che a volte mi toccano. Joan ti spiega come gli è venuto in testa l’idea di scavare in quel posto, le difficoltà incontrate e come le ha superate. Ti svela la macchina esplicativa che ha messo a disposizione dei cittadini, perché questi, afferma, hanno il diritto di entrare nello scavo e di assaporare il gusto di capirlo.

    Al principio, il castello di Calafell, una cittadina fra Barcellona e Tarragona, lui non lo voleva scavare. L’archeologia medievale era allora agli esordi, e lui era tutto preso dall’idea di riportare alla luce la cittadella che gli Iberi, una popolazione pre-romana, avevano costruito sulla costa. Ma il sindaco del tempo gli pose l’aut aut. Se vuoi il permesso di scavare i tuoi Iberi, datti da fare anche col castello. E così (per la mia grande soddisfazione di medievista), al principio degli anni ’80 ha cominciato a lavorare sulla rocca che domina il borgo, dove, fra le rovine di un castello e una piccola chiesa, non c’era altro che un cimitero abbandonato.

    Ma gli è piaciuto. E non lo nasconde, mentre mi indica i buchi di fondazione della prima costruzione altomedievale, tutta di legno, com’era di molte residenze post-carolingie. Infatti, Carlo Magno di qui dovette passare, per combattere l’emirato di Cordova, le cui terre cominciavano appena più a sud. Forse Calafell fu un avamposto musulmano, conquistato dai cristiani, come suggerirebbe il nome (Cal’af, castello), per quanto non ci siano troppe testimonianze ad avvalorare questa suggestione. Per allora, dunque, fra IX e X secolo, c’era questo castelluccio ligneo, attorniato dalle capanne dei contadini e, all’altro capo della rocca, la chiesa, minuscola ma con una cripta, oggi dedicata alla Vergine de la Cueva.

    Qui, la storia dei contadini che si ribellarono

    Il castello di CalafellIl castello di Calafell

    La pace della piccola comunità contadina viene violata nel XIII secolo da un signore che allarga la sua residenza e la trasforma in una imponente costruzione di pietra, con le feritoie per le balestre e gli annessi, fra cui una cisterna per l’acqua, i locali per la cavalleria e l’immancabile prigione. E fa fuori i contadini. Distrutte le loro abitazioni, quei poveracci si trasferiscono ai piedi della rocca, dove fondano l’abitato agricolo. La chiesa, anche quella, si ingrandisce. Una doppia navata, pitture, un campanile a vela. Un fossato divide l’area signorile da quella sacra.

    I contadini non ci stanno. Si riorganizzano. Premono contro il signore. A metà XV secolo, li vediamo che si costituiscono in una comunità che può vantare, nel 1493, il sostegno di Ferdinando il Cattolico (sì, proprio lui, il marito di Isabella, che – fra un assedio di Granada e una scoperta dell’America – trova il tempo per dare una mano a questi campesinos, giusto per impartire una lezione al signore).

    Così, entriamo nel XVI secolo. La comunità sembra prosperare e il signore pure. La chiesa si abbellisce e si dota di uno strumento prestigioso: il Communidor. Si tratta di una sorta di basso campanile quadrangolare, con quattro grandi finestre, ma senza campane. Dentro c’era una tavola con una croce. Lo avevano raccomandato al Concilio di Trento per purificare l’aria – sacra magia – infestata dai miasmi delle streghe. Ce ne dovevano essere molte, a Calafell.

    Scoppia la guerra dei Trent’anni, che in Catalogna ha uno dei fronti più violenti. Francesi, signori catalani, contadini e tercios castigliani, tutti se le danno di santa ragione. Calafell ne viene stritolata e distrutta. Si salvano alcune decine di contadini, che trovano rifugio nella provvidenziale cisterna signorile (lo sappiamo da un resoconto coevo): una via di fuga abituale, visto che probabilmente vi si nascondevano durante gli assalti dei pirati, come testimonierebbe una nave saracena, graffita sulle pareti.

    Il Communidor di CalafellIl Communidor di Calafell

    Sulla rocca restano la chiesa e le rovine del castello, fra le quali i contadini cominciano a seppellire i loro morti. Novemila ne troverà Santacana, compresi gli appestati gettati in una fossa comune e ricoperti di calce viva. Quella terra che il signore tolse loro, i contadini se la sono ripresa da morti, alla fine. La rocca diventa il cimitero del paese, fino alla guerra civile, quando i repubblicani impongono di costruire un nuovo cimitero, fuori la città, nel 1937.

    Lo scavo termina nel 1986. Ma Joan non cessa di curarne la didattica. Cartelloni, scritte, libri, libretti divulgativi. Roba che Giménez (lo chiameremo così, per brevità, il conta-storie) ha visto certamente venticinque anni dopo, nel 2011, quando visitò lo scavo. Santacana – deve aver pensato allora – non ha capito un tubo. La storia andò in un altro modo.

    La storia alternativa di Calafell

    A popolare la cittadella, ecco la versione di Giménez, erano stati gli Iberi (altro che contadini altomedievali!). Nell’VIII secolo a.C. allora? no. Troppo poco. Aggiungiamo uno zero. Ottomila anni fa. Un’antica civiltà superiore, che Giménez ci riporta alla luce, illustrando lo scavo da par suo. Ecco la strada che quegli antichi percorrevano. Si vedono i solchi delle ruote, sottolinea (purtroppo per lui, la strada è di età tardomedievale e i solchi sono causati da ruote cerchiate di ferro).

    La strada con i solchi che sale verso il castelloLa strada con i solchi che sale verso il castello

    Sulla parete si vedono delle tombe? Macché: sono delle “scale nobiliari”, per andare su in cima fra le imponenti “costruzioni di quei popoli misteriosi” (in realtà muretti a secco ottocenteschi). Ecco un “silos di grano” (è la base per una pressa da vino). Una fessura naturale nella parete rocciosa diventa una “porta trionfale”, mentre un foro prodotto dalla pioggia è il “tunnel”, doveroso di una città antica che si rispetti (purtroppo le autorità comunali hanno provveduto a sigillarlo, si lamenta). L’abside (un bell’esempio di romanico lombardo) è la “torre dell’omaggio”, accanto alla quale c’è la “torre di guardia” o – chissà perché – la “peineta” (l’alto pettine che le donne spagnole indossavano tradizionalmente), e questa sarebbe il communidor delle streghe. Le feritoie per balestre (e in età moderna per colubrine) ora sono diventate dei “simboli per l’acqua piovana”. La spianata, frutto della ripulitura del terreno da parte degli archeologi, è l’“antica piazza d’armi”, con i relativi “accessi nobiliari”.

    In un altro sito, vengono riprese le invenzioni su queste strade antiche, alcune delle quali sarebbero state costruite dagli abitanti di Atlantide, in fuga dopo il disastro. Su questo argomento, qui c’è l’intervento di Santacana.

    Senza enigmi, che storia è?

    Questa fortezza, sintetizza Giménez nel suo video, è un enigma della storia, un mistero che testimonia il sincretismo e la mescolanza delle culture della regione.

    Guardo il video con Santacana, che scuote la testa di fronte a queste assurdità, mentre ascoltiamo la musica paramedievale di sottofondo. Ci sorprende la sicurezza con la quale vengono dette e lo sfoggio degli stilemi dello storico (“probabilmente”, “approssimativamente”, “sappiamo che”, ecc). Perché non gli rispondi? gli dico. E da dove cominciare? fa lui: è evidente che non sa nulla.

    Non ne sono convinto: nel video si notano i pannelli, con le didascalie chiarissime che vi erano poste. Giménez, che si fa fotografare sullo scavo, le avrà viste. È che ha deciso che non funzionano. La civiltà misteriosa di ottomila anni fa: questo ci vuole. E, difatti, un utente (Joice5500) gli viene appresso: «non è che intendi una civiltà extraterrestre, luiz?» chiede ansioso in un commento di qualche anno fa.

    I conta-storie del XXI secolo

    Giménez è un professionista. Scrive di Maria Maddalena, moglie di Gesù e madre dei suoi figli, del santo Graal, di templari e di misteri – andini come barcellonesi – di catari, di Atlantide e della sua perduta tecnologia. Pubblica video, che, per quanto non appaiano di grandissimo successo, gli permettono di discutere con utenti di tutto il mondo, e di colpire la fantasia di qualche lettore, come testimonia un visitatore del castello, che su Tripadvisor ne riporta fedelmente alcune “scoperte”.

    Giménez non è inquadrabile in quella “ribellione degli ignoranti”, della quale parla Tom Nichols (La conoscenza e i suoi nemici, Luiss 2018). Vive, al contrario, del fenomeno della “pluralizzazione della verità”, spiegata da Daniel T. Rogers, secondo il quale anche la “verità” è diventata un oggetto di scambio, commerciale o politico. È questo il suo mestiere, come deduciamo dalla quantità di conferenze, interviste, programmi radio e televisione e libri dei quali lui stesso ci informa. Lavora nel vasto campo della “Historia ignorada”, scrive, «cercando quei fatti sconosciuti che la Storia ufficiale non suole ricordare».

    Fa parte, quindi, di quella agguerrita schiera di intellettuali che vive combattendo la “storia ufficiale”. È una pattuglia composita, all’interno della quale troviamo negazionisti, complottisti, inventori di tradizioni e scopritori di ogni genere di storie alternative, dalla scoperta dell’America, all’unificazione dell’Italia e ai veri costruttori delle Piramidi, che la consorteria degli accademici tenta – a loro dire – di occultare con ogni mezzo. È un fenomeno ben noto agli storici. Santacana, per esempio, fra le raccomandazioni per riconoscere un sito non affidabile, inserisce proprio questa: «se trovate frasi come “nessuno l’ha detto mai”, “finalmente la verità viene fuori”, passate oltre». Eppure, sono proprio queste le “verità” che tirano. Gli oltre 900 mila follower del blog di José Luis Giménez non sono tantissimi, per questo genere di siti, ma sono sufficienti per permettergli di sbarcare il lunario. Sono il suo pane. Confezionare verità che hanno mercato. In un ipotetico faccia a faccia con l’archeologo, il nostro non avrebbe alcuna difficoltà a opporgli questa sua capacità.

    Come discutere?

    Probabilmente non porta a grandi risultati discutere di documentazione e di interpretazione delle fonti, di credibilità delle cronologie. Facciamo mestieri differenti, lo storico e il conta-storie. Il problema curioso, semmai, è che questi non l’ha ancora capito. Perché prendersela con la “storiografia ufficiale”, dal momento che ha scopi così lontani dai suoi? Dal canto nostro, ciò che potremmo imputare a questi onesti scrittori, è la pochezza della fantasia. Templari, catari, santo Graal, Maria Maddalena. È il campionario sfruttatissimo e stantio di Dan Brown, questo, non il regno dell’invenzione.

    La strega Pepa BarretinesLa strega Pepa Barretines

    Per chi sa lavorare di immaginazione, Calafell è un paese di Bengodi. C’è tutto: le guerre contro gli infedeli, le razzie dei pirati saraceni, il signore cattivo, i contadini ribelli, la peste, i feroci massacri. Né mancano quei personaggi, come Carlo Magno o Ferdinando il Cattolico che, nelle fiction ben congegnate, rivestono il ruolo delle celebrità che si svelano alla fine, fra gridolini di sorpresa. E c’è, per ultimo, la strega Pepa Barretinas, della quale in paese si raccontano leggende e si porta in giro la maschera, ma che una buona base storica ce l’ha. Tra storia e invenzione si intrecciano accordi lussuosi e divertenti, a saperci lavorare.

    Sono i Giménez di questo mondo che li deprimono.

  • L’antico Israele. Una storia controversa e il pensiero unico dei manuali.

    Appunti da Mario Liverani

    Autore: Antonio Brusa

    Indice
    L’antico Israele nei media e nella rete
    La storia d’Israele a scuola
    Il modello della vulgata
    Un piccolo prontuario di stereotipi
    Avvertenze per l’uso
    Che fare con i bambini?
    Una nuova vulgata
    Un aggiornamento storico-didattico
    Il dibattito storiografico è uno strumento per insegnare
    Lo spazio palestinese
    Cronologia essenziale

     

    L’antico Israele nei media e nella rete

    Compaiono periodicamente sulla stampa notizie sugli scavi archeologici in Palestina. Sono notizie di fascino, perché alludono a fatti che abbiamo letto, ascoltato o visto al cinema. Ogni scoperta suscita la domanda: “allora, la Bibbia aveva ragione?”. Se la pongono in tanti, e ha dato origine a molti libri. E molti pensano, laici o credenti, che la risposta rafforzerà le ragioni degli uni o degli altri. Perciò, per la legge ferrea dei media, è questa la DOMANDA che, sottotraccia, guida la mano del giornalista. Lui ha sentito che i gebusei erano un popolo palestinese, di quelli che gli ebrei combatterono quando giunsero in Palestina? ha sentito che Davide conquistò Gerusalemme e ne fece la capitale di Israele? Bene, il suo articolo accennerà a questi, e a tutti gli altri fatti che, secondo lui, appartengono alla vulgata posseduta da tutti, e che, perciò, possono corredare il suo pezzo dell’appeal indispensabile.

     
    Nel quartiere arabo di Silwan, in una zona chiamata “città di Davide”, uno scavo rivela delle incisioni “antichissime”. Si tratterà di stampi per la fusione, di simboli, o delle prime lettere dell’alfabeto, magari protoebraico?http://xmx.forumcommunity.net/?t=49163336

     

    Se vi viene un dubbio, e volete verificare su internet, allora cominciano i guai. Al terzo-quarto sito avete già perso la bussola. Prendiamo, ad esempio, la recente scoperta di una muraglia megalitica, costruita quasi 3700 anni fa a Gerusalemme. Ripresa da molti giornali, la vado a rileggere su un sito in genere sicuro, quello di “Archeo. Vi si descrive la muraglia, vi si dice che fu eretta dai “gebusei (cananei)”, e che si trova nella “città di Davide”. L’articolo è chiaro e preciso, ma al non  esperto spuntano un paio di dubbi. Erano gebusei o cananei? E se la costruzione era del II millennio a.C, come fa a trovarsi nella città di Davide, notoriamente vissuto al principio del I millennio? Niente paura, passiamo al sito successivo. Ma questo ha un titolo minaccioso “le bugie hanno le gambe corte” , e non va tanto per il sottile. Riporta, fra le altre, questa frase di Ikrima Sabri, mufti di Gerusalemme:

    Non vi è il più piccolo indizio dell’esistenza di un tempio ebraico in questo luogo, nel passato. In tutta la città, non c’è nemmeno una sola pietra che indica la storia ebraica. Il nostro diritto, d’altra parte, è molto chiaro. Questo luogo appartiene a noi da 1500 anni.

    Gli archeologi e gli storici israeliani si sono inventati tutto. Quel sito era gebuseo, non c’entrano gli ebrei. Dunque, appartiene a noi, dicono i palestinesi.

     

     
      Com’era il tempio di Salomone/Erode? In rete uno specimen della fantasia dei ricostruttori

     

    E’ un problema noto nella storiografia e nell’archeologia di quell’area. Lì, le risposte alla DOMANDA hanno immediate ricadute politiche. Non solo religioso-ideologiche, come da noi. Quindi, la pressione sulla ricerca è fortissima. Sul ciglio degli scavi si assiepano leader politici, ambasciatori e seguaci di questo o quel gruppo; e, non di rado, lo stesso ricercatore è embedded, convinto anche lui che il suo lavoro darà un  potente aiuto alla sua parte politica. Se leggete questo articolo di Giulio Meotti, avendo cura di fare la tara delle sue propensioni, troverete una schiera di gente nota, da Abramovich, a Laura Bush a John Voigt (sì, l’”uomo del marciapiede”), della quale nessuno avrebbe mai sospettato gli interessi storiografici, e scoprirete che Clinton e Arafat ebbero il tempo, a Camp David, di litigare sulla esistenza o no del tempio di Salomone.


    Dal conflitto nel Vicino Oriente, poi, questo invadente e oppressivo uso pubblico della storia riecheggia dalle parti nostre e nella regione italofona della rete. Anche da noi, carica le risposte di valenze politiche a volte aggressive.


    La storia di Israele a scuola

    Nelle scuole italiane, inoltre, la presenza di allievi provenienti dal mondo arabo-musulmano è consistente. E questo contribuisce ad aumentare la temperatura di questa storia. Per quanto antica, dunque, essa diventa un’autentica “Questione Socialmente Viva”. Una questione sensibile, che richiede una cura particolare. Questa si dovrebbe articolare intorno a due capisaldi: una vulgata (racconto semplice e facilmente comprensibile) affidabile, in grado di fornire agli allievi un piccolo, ma sicuro, pacchetto di conoscenze, che gli varrebbero da primo orientamento nella enciclopedia della rete; e, insieme con quella, un elenco essenziale di “avvertenze per l’uso”, che dovrebbero metterlo in grado di capire in che modo quelle conoscenze vengono usate e rielaborate nel dibattito pubblico e, magari, in che modo andrebbero maneggiate secondo gli storici. Tutto ciò (per una volta potremmo essere contenti di qualcosa in Italia) è perfino previsto dai programmi per la scuola di base: un po’ meno per quelli delle superiori, ma, pazienza, la Gelmini non è che sentisse tanto questo problema.


    Il modello della vulgata

    Limitiamoci, perciò, alla scuola di base. Da alcuni anni, disponiamo di una fonte impagabile. Si tratta di quei “bignamini” che ogni editore si sente in obbligo di anteporre al libro di prima media, nell’illusione, più o meno in buona fede,  che queste sintesi estreme possano essere di qualche aiuto ai docenti. Ma proprio questa necessità di sintesi è l’ideale per costringere l’autore a redigere una vulgata. Ve ne propongo una, tratta da un manuale che andrà in adozione quest’anno. E’ anonima (non voglio fare qui un’analisi dei libri di testo). Per la conoscenza che ho dei manuali in circolazione (e passati), ve la propongo come un modello. Ognuno di voi potrà confrontarla con i manuali a disposizione.

    Gli ebrei furono il primo popolo monoteista dell’antichità, e l’unico che abbia tramandato in modo ordinato e completo, nel suo libro sacro chiamato Bibbia (dal greco biblia = i libri).
    Gli ebrei erano in origine pastori che intorno al 2000 a.C, guidati dal patriarca Abramo, giunsero in Palestina, nella terra chiamata Israele che secondo la tradizione era stata promessa loro da Dio. Qui divennero sedentari, impararono a coltivare la terra e a lavorare i metalli, ma non abbandonarono mai del tutto il nomadismo. Forse a causa di una grave carestia, intorno al 1700 una parte della popolazione si trasferì in Egitto, dove lavorò al servizio del faraone, finché le dure condizioni di vita non la spinsero a ritornare in Palestina sotto la guida di Mosè. Alla fine del II millennio gli ebrei unificarono le dodici tribù in cui erano divisi e fondarono il regno di Israele, che nel VI secolo sarà conquistato dai babilonesi.


    Un piccolo prontuario di stereotipi

    Le sottolineature non sono redazionali. Sono mie. Mettono in evidenza le affermazioni sbagliate o problematiche. In pratica, fatta eccezione per l’etimologia di “Bibbia”, l’intero testo prende per oro colato il sapere diffuso e ignora i portati della ricerca storica attuale. Se questa è la vulgata proposta dalla scuola, non ha la minima possibilità di diventare uno strumento critico per contrastare, mettere in dubbio, discutere quella di riferimento nel dibattito pubblico. Si comporta esattamente come quei giornalisti che, per ottenere successo, occhieggiano a “quello che tutti sanno”.
    Conviene rendersi ben conto di questi stereotipi. Per questo ho preparato un elenco, aggiungendo a quelli  riportati in questo sunto manualistico, altri, riscontrabili anche in testi più completi e distesi. Li discuto sulla base del libro di Mario Liverani (Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza, Bari 2003).

    Il primo popolo monoteista: non lo furono sempre. Erano politeisti; poi adottarono un dio nazionale, come tutti i popoli della regione. Yahweh per Giuda e Israele, Kemosh per Mo‘ab, Qaus per Edom, Milkom per ‘Ammon, Hadad per Damasco, Ba‘al/Melkart per Tiro (p. 158). Lentamente, la corrente sacerdotale yahwista riuscì a prendere il sopravvento nei due regni ebraici: ma questo accadde dopo le aggressioni assire e babilonesi. Ancora dopo la cattività babilonese, quindi in età persiana, è testimoniata la compresenza di culti di altre divinità.

    La Bibbia è un libro ordinato e completo: non lo fu, per il semplice motivo che si tratta di una “biblioteca” (di qui l’etimologia) composta fra VIII e I secolo a.C, sotto la spinta di obiettivi, momenti culturali, e progetti politici e religiosi diversi; la ricerca, come vedremo distesamente nel corso di questo articolo, mostra come il passato fosse stato rielaborato, in forme a volte molto diverse, da un libro all’altro (per questo e altri concetti “generali”, si veda l’introduzione, pp. VII-XI e la conclusione alle pp. 401-407).

    Gli ebrei erano in origine pastori: la regione era a insediamento misto. Si può ammettere che ci fosse, sull’altopiano centrale, dove si formarono i regni di Giuda e di Israele, una prevalenza di pastori. Ciò non toglie che, fin dalle prime attestazioni, i due regni ebraici si costituiscono intorno a due città, capofila di una rete urbana (cap. 3).

    Intorno al 2000, il patriarca Abramo li condusse nella regione: si tratta di una rielaborazione del passato effettuata in epoca post-esilica. Non esistono attestazioni di ebrei prima della grande crisi del XII secolo. Il terminehabiru , che spesso viene citato come nome dei proto-ebrei, ha un valore generico e non etnico, dal momento che indica i fuggiaschi (“i banditi”), che cercavano scampo dalle terribili condizioni di vita alle quali erano sottoposti gli abitanti dei regni cantonali della regione. Si tratta, dunque, di un tipico “mito di fondazione” (pp. 283-287).

    Il “patriarca” Abramo e i “giudici”: i due periodi, quello dei patriarchi, relativo al primo insediamento, e quello dei giudici, successivo alla conquista di Giosuè, sono frutto della mitopoiesi postesilica (cap. 15: Uno stato senza re: l’invenzione dei giudici).

    I gebusei (e gli altri popoli “cananei”): la dizione “cananea” è quella adoperata nel secondo millennio per indicare in primo luogo la regione siro-palestinese; in secondo luogo i suoi  abitanti. Nella ricostruzione biblica, i gebusei fanno parte di un insieme di popoli che furono interamente sterminati dagli eserciti di Yahweh. Trattandosi appunto di popoli scomparsi, conveniva “inventarli”. Fra questi, infatti, troviamo gli ‘anaquim (i giganti), i perizziti, che vuol dire semplicemente “contadini” o i refaiti, che erano addirittura gli spiriti dei morti (pp. 302-304).

    Gli ebrei divennero sedentari ma non abbandonarono mai del tutto il nomadismo: nel corso dei secoli successivi alla crisi del XII secolo, la regione fu a maggioranza pastorale o agricola, a periodi alternati (cap. 2).

    La terra chiamata “Israele”: nelle fonti egizie compare una volta questa parola (XIV sec), per indicare una valle della regione (vedi la cartina in fondo). Probabilmente il termine fa riferimento a qualche gruppo umano, scomparso nel tempo, ma del quale rimase il toponimo. Intorno al XII secolo, rileviamo dei gruppi che prendono a chiamarsi “israeliti”, probabilmente circoscritti alle terre dell’altopiano centrale (p. 71).

    A causa di una grave carestia gli ebrei migrarono in Egitto: durante l’età del bronzo, l’intera regione, fino a Qadesh, nel sud della Siria, era sotto il dominio dell’impero egizio, la cui influenza continuò fino all’invasione assira (VIII secolo). La valle del Nilo costituiva per quelle popolazioni la risorsa ultima, nelle frequenti carestie. Quindi si trattava di migrazioni temporanee e continuate. La storia di Giuseppe (migrato fortunosamente in Egitto, dove fece fortuna) è un mito di fondazione, tipico, come quello del Diluvio universale, o di Mosé (cap. 13, specialmente pp. 285 e ss).

    Mosé: la figura di Mosé viene costruita sull’archetipo di Sargon e di altri grandi re della regione. Dunque, risale al periodo postesilico (L’esodo e Mosè: pp. 305-312).

    Giosuè: “la narrazione biblica della conquista “fondante” è notoriamente un costrutto artificioso, inteso a sottolineare l’unità di azione di tutte e dodici le tribù” (p. 313); “il paradigma adottano nel libro di Giosué è quello della “guerra santa” di chiara matrice deuteronomica ma dotato di profonde radici nell’ideologia siro-palestinese sin dai secoli della pressione assira” (pp. 314 s).

    Unificazione delle tribù: anche le dodici tribù sono frutto una rielaborazione tardiva, che vede la sua fase compiuta nei decenni successivi al ritorno dall’esilio babilonese (dunque in età persiana). Dopo una lunga vicenda di formazione, successiva alla crisi del XII secolo, nacquero due regni contemporanei – Israele e Giuda – accomunati dalla fede nell’identico dio nazionale, Yahweh. Il primo con capitale Sichem (poi Samaria),che riuniva alcune tribù dell’altopiano, fra le quali Efraim e Manasse. Il secondo, il regno di Giuda, era costituito dalle tribù di Giuda e Beniamino. La formazione e la consistenza di altre tribù, come Dan e Levi, è molto dubbia. Questi regni restarono separati e distinti fino all’invasione assira e alle relative deportazioni (capp. 4,5,6).

    Assiri e babilonesi: le misconcezioni che riguardano questi popoli riguardano l’intera storia dell’area, e non solo il capitolo sugli ebrei. Gli assiri adottarono un metodo di conquista violento, con una grande esibizione di forza e di crudeltà, a cui succedeva un sistema di governo pacifico molto attento allo sviluppo economico delle provincie. Tentavano di distruggere l’identità dei popoli conquistati, attraverso deportazioni massicce, ma, una volta re-insediate, queste popolazioni avevano la possibilità di riprendersi demograficamente ed economicamente. Al contrario, i babilonesi, che si presentavano come i liberatori dal dominio assiro, in realtà li superavano in violenza e non curavano affatto la gestione dei territori, interessati come erano solo alla cura della capitale e delle località centrali.

    Di conseguenza, la dominazione assira trasformò la regione siro-palestinese, mescolandone le basi etniche e rendendole irriconoscibili rispetto al passato, ma inaugurando un periodo di prosperità. Gli ebrei deportati probabilmente si fusero con le popolazioni ospiti, mentre in Palestina si avviarono processi di commistione interetnica e interculturale fra nuovi e vecchi abitanti. La dominazione babilonese, invece, genera “la catastrofe” della regione. Si salvano solo le città costiere. Le zone dell’altopiano sono spopolate e povere. Gli ebrei deportati (le élites, questa volta, e gruppi di contadini) conservano a Babilonia la loro identità. Quando tornano avviano programmi di rigorismo religioso (unicità di Dio) ed etnico (proibizione di matrimoni misti) (capp. 7 e 9) .

    I palestinesi. Fra i palestinesi di quei tempi e quelli di oggi i rapporti sono esilissimi. I philistim erano i “popoli del mare” che, sconfitti dagli egizi, si insediarono nella regione. Da loro deriva il nome “Palestina”. Erano probabilmente indoeuropei. La regione, per conto suo, era già uno scenario demografico estremamente composito: apporti arabi, moabiti, egizi, amorrei e di tanti altri, ai quali vanno aggiunti i famosihabiru. A più riprese, inoltre, la regione subisce traumi demografici con successivi ripopolamenti. Difficile per chiunque, oggi, proclamare un diritto di discendenza da quelle antiche popolazioni.


    Avvertenze per l’uso

    Scorrendo la critica degli stereotipi si nota facilmente come essi non siano altro che quelle conoscenze prodotte dagli scribi ebrei a partire da Giosia (640-609), con un opera di riscrittura che, col passare del tempo, si fece sempre più intensa. Molto di quello che abbiamo esaminato, infatti, è frutto di discussioni, di ricerche e di problemi dell’età persiana: dal VI secolo in poi. Quindi non è fonte degli eventi più antichi, quanto piuttosto di quelli contemporanei alla elaborazione dei testi.

    La storia antica degli ebrei pone in primo piano il problema della sua fonte principale: la Bibbia. Essa è (rispetto ai fatti che racconta) un testo tardivo che produce un’immagine distorta del passato, perché frutto della cultura e del modo di vedere dei contemporanei. Noi, però, vediamo quell’immagine. Quindi, per usarla, dobbiamo essere in grado di correggerla, un po’ come fanno gli astronomi con le lenti gravitazionali, per restituirci la visione di galassie lontanissime. Dobbiamo confrontarla con altre fonti. Dobbiamo tenere conto di come si comportano altri popoli, quando affrontano il problema delle loro origini.
    Questo principio non è oggetto di discussione, quando affrontiamo il problema dell’origine dei Goti, o quella dei Romani o dei Greci. E non è facile, come sanno tutti i docenti, parlarne in classe. Nel caso degli ebrei, il problema aggiuntivo è costituito dal fatto che la conoscenza sociale è talmente modellata sul racconto biblico, che nessuno mette in dubbio i cosiddetti “elementi storici” che ne vengono ricavati.


    Che fare con i bambini?


    Non so in che modo si possa affrontare questo problema epistemologico con bambini di quarta elementare (diverso sarebbe affrontarlo con ragazzi più grandi, e magari con qualche esperienza laboratoriale). Ma qui siamo agli inizi. Con i bambini, il dilemma didattico si pone nei suoi termini crudi:
    -    Conviene raccontare la storia tradizionale, poi col tempo si penseranno ai risvolti critici?
    -    Conviene insegnare la storia, quella prodotta dalla ricerca, e poi col tempo si studieranno anche le sue interpretazioni tradizionali?
    Stando al programma, non ci sono dubbi. Va insegnata la storia. E questa va distinta dal suo uso pubblico. Quindi, il testo manualistico dal quale siamo partiti dovrebbe essere fuorilegge. Ma ciò sarebbe vero anche se il programma non ce lo imponesse. Non si da un insegnante di storia che non insegni “la storia”, o che preferisca a questa “la tradizione storica”.


    Una nuova vulgata

    Il rinnovamento della didattica non può non passare dalla elaborazione di una nuova vulgata. Un nuovo racconto semplice, facilmente leggibile, breve, che metta al corrente gli allievi dei tratti essenziali della vicenda di quel popolo. Con tutti i rischi che questo comporta, provo a scriverne una, della stessa lunghezza di quella che abbiamo esaminato.

    Nel XII secolo, scoppiò una crisi eccezionale. Invasori, carestie, ribellioni sconvolsero tutto il Vicino Oriente. Caddero gli imperi che vi dominavano. Si crearono regioni nelle quali non governava più nessuno. Una di queste fu la Palestina. I villaggi e le tribù di pastori cominciarono a organizzarsi per governarsi da soli. Molte tribù si allearono fra di loro. Nacquero dei piccoli regni. Erano formati da una città capitale e da un nugolo di villaggi. Fra questi ce ne furono due: Israele e Giuda. Ma, ecco che tornarono i dominatori dall’esterno.
    Sono passati quattro secoli. Siamo nell’VIII secolo. Gli assiri prima e i babilonesi dopo si impadroniscono della regione, abbattono i regni, deportano le popolazioni. Ma vengono abbattuti a loro volta da un impero più potente, quello persiano. Siamo nel  VI secolo. Gli ebrei, che erano stati deportati, tornano in patria. Il nuovo impero è più tollerante. Gli ebrei possono costruirsi la loro vita, la loro politica, seguire le loro credenze. Fu in questo periodo che scrissero la loro storia, quella che noi leggiamo nella Bibbia.

    Non è una proposta didattica, ma solo un espediente, per mostrare “sul vivo”, alcune questioni per come si pongono nelle scuole. Infatti, ridotto così, ai suoi minimi termini, il racconto mostra un problema che si oppone come un macigno al rinnovamento della didattica. L’insegnante che leggesse questo racconto, non lo riconoscerebbe. Mentre il primo, quello tradizionale, gli appare “pieno di fatti e di personaggi”, questo gli appare vuoto. Quello tradizionale ha un senso (è la storia del popolo eletto, coi suoi protagonisti). In contrasto, gli sembra priva di senso questo, che è la storia di un popolo. Non gli dice nulla. Non lo sa spiegare: nei termini correnti, non conosce altri fatti, altri particolari, non trova altri aggettivi, con i quali arricchire il testo e renderlo più gradevole o comprensibile nella sua lezione. Non lo sa valutare (“non so come interrogare gli allievi, con questo testo”). Non capendola lui, l’insegnante concluderà. “E’ una storia troppo difficile per i miei allievi”.
    Per essere credibile, dunque, una “nuova vulgata” non deve solo avere doti di comprensibilità, affidabilità scientifica e funzionalità didattica: deve essere supportata da un vigoroso aggiornamento storico e storiografico.


    Un aggiornamento storico-didattico

    E, accanto a questo, si richiederebbe un altrettanto potente aggiornamento storico-didattico, che metta in grado l’insegnante di dominare alcuni problemi e alcuni concetti ricorrenti, utili quindi non solo in questo caso. Fra i tanti, ne segnalo tre:

    -    Il concetto di popolo. Per noi indica un insieme organizzato di individui che condividono lingua, costumi, religione. Era così anche nel passato? Se osserviamo i “popoli” della regione, vediamo che spesso non era così. Spesso, un territorio era abitato da genti che parlavano lingue diverse, credevano in dei diversi, ma obbedivano a uno stesso re. A volte, invece, la situazione assomiglia parecchio alla nostra idea. Per gli egizi, ad esempio: dicevano di essere il popolo benedetto da Dio; gli altri erano impuri (perciò si lavavano quando venivano a contatto con loro). Per gli ebrei lo divenne nel periodo postesilico.

    -    Il concetto di etnogenesi. Come nasce un popolo? E’ una domanda che si posero fin dall’antichità, ma alla quale sappiamo dare una risposta solo ora. Nell’antichità, immaginavano che i “popoli” nascessero belli e fatti. E siccome non riuscivano a trovarne le origini nel luogo dove si viveva, erano convinti che venissero da altrove. Romani, ebrei, etruschi e popoli barbarici adottarono questa prospettiva. Il mito dell’esodo e della migrazione. Oppure, raccontavano che i popoli nascevano miracolosamente dalla terra che occupavano: ma questo, il mito dell’autoctonia, lo riservarono a sé gli Ateniesi, che si ritennero speciali fra gli umani.

    Noi, al contrario, sappiamo che i popoli si formano attraverso un processo, che non finisce mai. Gli ebrei, come tanti altri, “si formarono” attraverso scambi, commistioni, migrazioni e immigrazioni. E non cessarono mai di modificarsi.

    -    Il concetto di invenzione della tradizione. I miti (molti dei miti che si studiano a scuola), servono per costruire una comunità. Dunque, anche per costruire un popolo. Per costruire un “mito storico” solitamente si prendono pezzi di storia, residui del passato e li si rielaborano. Una tradizione parla del passato dunque, ma è fonte per la conoscenza del presente, nel quale fu elaborata.

    Direi che quando l’allievo avesse raggiunto queste consapevolezze, potrebbe affrontare la questione della Bibbia come fonte storica e dare un senso accettabile alla DOMANDA. E se la Bibbia avesse ragione? Certo, come tutte le fonti ha ragione. Ci fa capire in modo vivo i tormenti che lacerarono Israele, dopo la Catastrofe babilonese. Cosa fare per evitare il suo ripetersi? Il Nuovo Patto con Dio fu, per quel popolo, la garanzia che essa non sarebbe più tornata. Il passato che allora venne inventato è lo “strumento didattico” con il quale il Patto venne insegnato e reso credibile. Era il racconto di un amore fra dio e il suo popolo, continuamente rinnovato e continuamente tradito. Una storia, come ci hanno insegnato i tempi successivi, destinata ad altre catastrofi e ad altri pensieri laceranti.


    Il dibattito storiografico è uno strumento per insegnare

    In chiusura del suo libro Mario Liverani descrive lo spazio storiografico all’interno del quale il docente deve imparare a muoversi (pp. 404-407). Spiega che oggi  ci sono tre modi di guardare alla storia antica di Israele.

    Da una parte vi è l’approccio tradizionalista. Non può negare i risultati della ricerca moderna. Cerca allora di renderli inoffensivi. Elabora una nuova narrazione che segue il filo della vicenda biblica, corredandola (a mo’ di commento) delle nuove risultanze storiografiche. Queste narrazioni avranno tutte “un capitolo sui Patriarchi, magari per negarne la storicità, ma non sapendo rinunciare a un’età patriarcale (leggendaria o storica che sia) in testa alla vicenda di Israele. Tutte avranno un capitolo sull’Esodo e su Mosé, magari per affermarne la tardività, ma senza compiere il passo essenziale di dislocarne l’analisi all’epoca di pertinenza … E poi tutte avranno un’età dei Giudici e un’età della monarchia unita.”

    Di contro si batte l’approccio critico, che “drasticamente rifiuta di accettare come fonti autentiche le rielaborazioni tarde, e si ritrova in mano una storia dell’Israele pre-esilico talmente impoverita da rendere plausibile interrogarsi se sia davvero possibile scrivere una storia dell’Israele antico.”

    Il terzo approccio parte dalla considerazione che occorre tenere “nel dovuto conto il fatto che le retrospezioni tarde di norma conferiscono veste ideologica moderna a un materiale antico”. Il lavoro storico, dunque, è quello di usare la fonte biblica, non per chiedersi se avesse ragione o  meno, ma per indagare quali aspetti, quali fatti o problemi essa rielaborò. Per leggere “come in un palinsesto la vicenda antica sotto quella ricreata”.

    Liverani divide la storia di Israele in due periodi. Il primo è quello della “storia normale”, quello messo in luce dalla ricerca archeologica e storica moderne. Il secondo è quello della “storia inventata”, quello elaborato dagli scribi. La sfida per lo storico odierno è quella di “farle dialogare”. Di capire come si illuminano a vicenda, e da questa operazione ricavare il nuovo racconto dell’antico Israele. Questa operazione si effettua oggi, nel nostro mondo, con i nostri strumenti culturali. Domani, darà altri risultati.
    “Questo libro, conclude Liverani, è stato scritto nel 2001-2002, da un autore nato nel 1939 e la cui metodologia storica si è formata negli anni 1965-75. Sarebbe diverso se queste date slittassero indietro o in avanti di cinque o dieci anni”.

    Il dramma della didattica è che la vulgata manualistica è identica da decine e decine di anni. Ho ripreso una mia rapida indagine su questo argomento, svolta nel 1990. Undici manuali di media, scritti da autori di ideologia diversa, da quello in odore di eresia al cattolico tradizionalista. Tutti si attengono alla “storia inventata”, anche il manuale così laico, da ignorare quasi completamente l’argomento “ebrei”, se non fosse per le poche righe che dedica loro, ma rigorosamente legate alla versione tradizionale (Il manuale di storia, La Nuova Italia, Firenze 1991, pp. 39 s). Eppure, già da una decina di anni, circolava la prima messa a punto storiografica di Liverani (Le “origini” d’Israele. Progetto irrealizzabile di ricerca etnogenetica, in “Rivista Biblica Italiana”, XXVIII, 1980, pp. 9-32).

    Quindi – oggi - da almeno 35 anni sono disponibili versioni alternative a quelle tradizionali. Per giunta, non sono nemmeno marcate da controversie ideologiche. Presentando quell’articolo ai lettori della rivista biblica, prevalentemente di ambito religioso, il curatore spiegò che per quanto strana ai loro occhi, si trattava di una prospettiva storica nuova, che occorreva conoscere. E, oggi, al primo posto fra i ringraziamenti, Mario Liverani colloca il Pontificio Istituto Biblico.
    Dunque, un altro racconto è possibile. Mi piacerebbe che lo diventasse anche nelle scuole. Credo che sia la condizione ineludibile perché la storia imparata in classe possa diventare uno strumento critico, a disposizione dei cittadini.

     

    Lo spazio palestinese
     

    Lo scenario della vicenda biblica. A ovest del Mar Morto c’è la regione dell’altopiano centrale. Il monte di Giuda corrisponde grosso modo all’omonimo regno, che confina a sud con il deserto del Negev; mentre il monte di Efraim corrisponde al regno d’Israele; a nord, all’altezza del monte Carmelo e della baia di Akko, sfocia la valle di Yezre‘el, uno dei primi toponimi che alluderebbero a Israele.

     

    Cronologia essenziale

    Età del Bronzo: la regione palestinese fa parte dell’impero egizio. Non vi è traccia di popoli ebraici o proto-ebraici
    XIII-XII secolo: la crisi economica, climatica e bellica (i popoli del mare) distrugge gli Ittiti e fa arretrare i confini dell’impero egizio. Si produce una sorta di vuoto di potere nella regione siro-palestinese.
    1150-1050: la regione palestinese è a insediamento misto. Popolata da cananei e da filistei (che sono probabilmente di provenienza balcanica o vengono “dalle isole”, come scrivono le fonti); da pastori e da agricoltori. Si costituiscono le prime leghe intertribali. Si formano regni cantonali medio-piccoli
    1050-930: negli altopiani centrali (regione povera, rispetto alle coste e alle vallate fertili), si formano il regno di Saul, a Nord (il regno di Israele), con capitale Sichem, e quello di Davide a Sud, con capitale Gerusalemme. Dopo feroci lotte, Salomone assume il trono di Davide. E’ probabile che, sotto la sua guida, il regno di Giuda abbia ampliato la sua estensione. Tuttavia sembra una ricostruzione mitica quella dell’unificazione dei due regni. E’ dubbio ancora, se Salomone abbia eretto o no, il famoso tempio, che (in ogni caso) doveva essere di dimensioni assai modeste.
    925: a chiudere questa prima stagione regale, interviene il faraone Sheshonq. Dalla lista dei territori conquistati dal faraone, sembra chiaro che i regni ebraici sono separati, distinti e di piccole dimensioni.
    930-740: il regno di Israele si sviluppa intorno alla capitale Samaria. In una prima fase, questo regno privilegia i rapporti con la Fenicia e attua una politica militare vincente, dal momento che si ingrandisce vistosamente verso il nord. In una seconda fase, prende il sopravvento il partito favorevole a Damasco. Jehu uccide i membri della famiglia regnante e si insedia da usurpatore. Promuove una politica religiosa rigorista, volta a eliminare i fedeli di Ba’al. La storia di Israele finisce con Tiglat-pileser, sovrano assiro, che assale il regno e ne deporta gli abitanti
    930-720: il regno di Giuda è retto dalla “casata di Davide”. Anch’esso è scosso da sanguinose vicende di successione. Riesce a resistere più di Israele all’aggressione assira, accettandone l’autorità. Ma, pochi anni dopo, a seguito di una ribellione, viene anch’esso distrutto e annesso all’impero.
    740-640: il secolo di dominazione assira vede le deportazioni degli ebrei verso l’Assiria, e viceversa, dalla regione mediorientale verso la Palestina. L’economia riprende. Si impone il modello di una “divinità regale”, sul modello imperiale assiro.
    640-610: durante il suo ultimo periodo, gli assiri allentano la loro presa sulla regione. Questa recupera una fortissima indipendenza. E’ il tempo di Giosia, re di Giuda, e del cosiddetto ritrovamento della Legge nel Tempio. Giosia, nel suo lunghissimo regno (640-609), è il promotore di una politica di estensione territoriale, basata sulla guerra santa e protetta da Yahweh, dio unico nazionale.
    610-585: asservimento e distruzione seguono l’aggressione babilonese. Deportazioni delle élites e di gruppi contadini a Babilonia. Crollo demografico e culturale in Palestina.
    538 -446: fra l’editto di Ciro e l’impero di Artaserse, diversi gruppi rientrano in Palestina e avviano una politica rigorista, che ha due direzioni: verso il passato, con la riscrittura delle storie di fondazione (da Abramo, al Diluvio, al’Esodo, a Giosué e alla formazione di un regno unito yahwista). Verso il presente-futuro, con la costruzione di una società fermamente legata al culto di Yahweh, dio nazionale/universale, e all’obiettivo di dar vita a un regno di Israele, unito e indipendente.

  • L’Editto di Costantino o della gestione del passato

    Autore: Antonio Brusa

    Indice

    1. Le certezze
    2. E le certezze distrutte
    3. Che dicono i manuali stranieri
    4. Il Cosiddetto
    5. Wikipedia o a ciascuno il suo Editto
    6. Conoscere o commemorare?
    7. Costantino, 313. La mostra
    8. Le cose importanti. I valori e le radici.
    9. Ma se sei secchione e pignolo
    10. Il messaggio della mostra
    11. Troppo complesso

     

    1 - Le certezze

    Quelle sull’Editto di Costantino, Arnaldo Marcone ce le elenca con chiarezza. Quattro certezze fondamentali. Leggetele. Aprono un problema che non riguarda soltanto la questione dell’Editto, ma il rapporto più generale fra ricerca storica e divulgazione, fra ricerca e didattica e, forse, il senso stesso del nostro mestiere.

    Eccole:

    • Il documento che è consuetudine chiamare “Editto di Milano” non è un editto
    • Tale documento non fu promulgato a Milano
    • L’autore del documento non è Costantino, ma Licinio
    • I cristiani non ottennero la tolleranza attraverso quel documento perché l’avevano già ottenuta due anni prima in virtù dell’editto di Galerio dell’aprile 311.

    Marcone sottolinea che si tratta di “conclusioni inoppugnabili” stabilite da Otto Seeck, studioso tedesco di quelli che è bene non mettere in discussione a cuor leggero, pubblicate per giunta qualche tempo fa, nel 1891.

    Dunque è più di un secolo che si sa con certezza che Costantino e Licinio non si videro a Milano, la capitale occidentale del nuovo impero disegnato da Diocleziano, per emanare il famoso decreto, ma tutt’al più discussero sul perché quello vecchio (appunto emanato da Galerio) non venisse messo in pratica ovunque. In quell’occasione, probabilmente, decisero di inviare delle lettere per sollecitarne l’applicazione, cosa che fu fatta da Licinio, una volta tornato a Nicomedia, la capitale orientale. Dunque, è più di un secolo che si sa che quella vicenda, per come la conosciamo, è una invenzione. Dunque, è più di un secolo che la frase “Costantino emanò l’Editto di Tolleranza a Milano nel 313 d. C” è falsa; ed è più di un secolo che, invece, la scriviamo nei manuali, la insegniamo come verità scontata e ci facciamo su, come vedremo, tante altre belle operazioni.

     

    2 - E le certezze distrutte

    Da subito debbo confessare la mia crisi, di autore e di insegnante. Lo sapevo dell’Editto come tutti. Certo, ne conoscevo letture critiche. Ma in fondo, che i due Augusti, nel momento del loro accordo, avessero licenziato quel documento mi sembrava una cosa scontata, una tipica conoscenza manualistica. Insomma, ero convinto che fosse doveroso indagare sulle cause dell’Editto, le sue conseguenze, la sua filosofia e il contesto nel quale venne scritto, ma non sul fatto.

    Perciò, troverete quella frase anche nel mio manuale. Ora so che avrei dovuto scrivere, invece, una frase di questo genere: “Il 30 aprile del 311, Galerio emanò a Serdica, l’attuale Sofia, capitale della Bulgaria, l’Editto con il quale si concedeva libertà di culto ai cristiani”. Lo farò, non appena ne avrò l’occasione, come ho fatto in tutti i casi analoghi (dalla donazione di Sutri, ai servi della gleba, alle Crociate o alla Piramide feudale: sono un medievista e queste cose mi riescono meglio per quel periodo). Ma so che quando consegnerò il nuovo testo, il redattore farà un balzo sulla sedia e correrà dall’editore, che mi prenderà amichevolmente sottobraccio: “caro Tonio, il libro lo dobbiamo vendere, cerca di smorzare un po’ i toni, sai gli insegnanti non la prendono bene”.

    E mi dirà. Se proprio ci tieni tanto, fai così. Lascia la frase tradizionale sull’Editto, perché se l’aspettano tutti. Poi, a lato, ci piazziamo una finestra. Un “per saperne di più” o un “cosa dice lo storico”. Guarda, fanno così anche i tuoi colleghi di antichistica. Eva Cantarella, ad esempio, parla di Costantino, di Milano e del 313 con il relativo Editto, e rimanda all’approfondimento accanto (Corso di Storia Antica, Einaudi, Torino 1995). Una scheda lunga e articolata che inizia con queste parole: “Il primo atto formale che permise ai fedeli della religione cristiana di praticare liberamente il proprio culto è quello di Galerio”. E’ la prassi manualistica. Ragazzi, imparatevi l’Editto, poi ai pignoli e ai secchioni gli diciamo la verità, o un qualcosa che le si avvicini. Tanto, la scheda di approfondimento la si può sempre togliere, come – in questo caso - accade nell’edizione successiva del 2001 (Le tracce della storia, Einaudi, Torino).

     

    3 - Che dicono i manuali stranieri

    Ma prima di andare avanti, è necessaria un’avvertenza. Non voglio mettere sotto accusa i manuali e nemmeno i bravissimi colleghi che li scrivono. D’altra parte, mi sono messo io, per primo, nella schiera dei peccatori. Né vorrei che si pensasse ad un’ulteriore polemica sull’arretratezza della scuola italiana. Per questo motivo, con l’aiuto di Luigi Cajani, con il quale ho ragionato su questo argomento, mi sono andato a vedere dei manuali tedeschi. Più o meno sono come i nostri. Forse solo più sintetici e, perciò, più assertivi. Ad esempio, Martin e Zwoelfer scrivono che Costantino “pagò il suo debito con il Cristianesimo, stabilendo a Milano, con il suo collega Licinio, che i Cristiani e tutti gli altri avrebbero avuto la possibilità di praticare il loro culto”. (Geschichtsbuch 1, Cornelsen, Berlino 1987), p. 145. Oppure Askani e Wagener citano il “cosiddetto Editto di tolleranza”.  (Anno 1, Band 1, Westermann, Braunschweig 1994, p. 182).

     

     

    Certamente, uno di noi coglie in queste espressioni il filo di ironia, la presa di distanza. Ma, come sappiamo tutti, guai a cercare di far comprendere agli allievi, anche se sono tedeschi, queste sfumature, senza passare per professori pedanti e rompi-qualcosa.

     

    4 - Il Cosiddetto

    In realtà, la presa di distanza è obbligatoria, come ammonisce Laura Franco, nel catalogo della Mostra dedicata all’Editto. “Si aggiunge in genere l’aggettivo “cosiddetto”, quando si parla dell’Editto di Milano”, osserva nel suo contributo Costantino nelle fonti letterarie fra storia e mito, in Costantino 313 a.C, p. 58. Ma non c’è bisogno di ricorrere ai manuali di leggibilità, per sapere che questi “cosiddetti”, che noi studiosi amiamo tanto, per limare, specificare, prendere le distanze, sono un macigno nella comprensione diffusa. Il lettore medio li salta, perché non ne capisce bene la ragione. Ma lo fa anche lo storico non specialista. Ad  esempio Jerry Bentley, il grande storico americano scomparso di recente, scrive nel suo affascinante manuale di storia Traditions and Encounters. A Global Perspective on the Past, Mc Graw Hill, N.Y, 2009, p. 308 che Costantino fece una cosa grandissima con il suo Editto (senza virgolette). E, come lui, tantissimi colleghi, fra i quali la maggior parte degli studiosi che scrivono sul catalogo.

     

    5 - Wikipedia o a ciascuno il suo Editto

    Wikipedia è probabilmente lo specchio di una battaglia delle virgolette, diventata ormai internazionale.

    L’edizione tedesca è precisa. Cita subito l’autorità imprescindibile, quell’Otto Seecks che abbiamo visto sopra, e mette in chiaro la cronologia: prima Galerio, autore delToleranzedikt, che vuol dire Editto di Tolleranza, senza virgolette,poi la battaglia contro Massenzio, e buoni ultimi Costantino e Licinio, dei quali si specifica che non emanarono un Editto. Ma i tedeschi sono gli unici (potenza di Otto Seecks?).

    La stessa cronologia è ripresa dall’edizione latina, che non ha dubbi: “Edictum tolerationis Galerii est finis persecutionum religionis Christianae in Imperio Romano”, dice in un latino, così chiaro che lo capisce anche chi non lo sa. A scanso di equivoci, qualche riga sotto si ribadisce che quello di Milano non fece che confermare ciò che già era stato stabilito da Galerio. Questo alla voce dedicata a Galerio. La voce sull’Editto di Milano, specifica che si trattò di una riunione in seguito alla quale vennero mandate delle lettere che possono essere intese come un complemento dell’editto di Galerio.

    L’edizione francese è sconcertante. Riporta tutte e due le versioni. Prima quella sbagliata e poi quella giusta. Senza un’avvertenza al lettore. Insomma: questo è quello che si dice, fate un po’ voi.

    La versione polacca dice che l’Editto è stato pronunciato dai due imperatori (…) nel 313 a Milano, uniti dalla fede nell’impero romano. Prosegue affermando “da questo momento, il cristianesimo non ebbe più ostacoli. In base a questo editto furono restituite alle comunità cristiane palazzi e terre di proprietà ecclesiastici”. Cita, a supporto, il resoconto di Lattanzio, che vedremo subito, spacciato (ma è una prassi consueta nella rete) come testo dell’Editto.

    L’edizione spagnola distingue fraLa tolerancia del Cristianismo, così viene chiamato l’ Editto di Milano, del quale si racconta la versione tradizionale, el’Edicto de Tolerancia de Nicomedia, che sarebbe quello di Galerio, declassato a “antecedente”.

    L’edizione finlandese spinge per una interpretazione progressiva, secondo la quale l’Editto di Milano fu un perfezionamento di quello di Serdica.Lo dice sulla base di una fonte vecchiotta, per quanto informatissima, Philip Schaff, il teologo e storico protestante svizzero, che scrisse nel 1800 unaStoria della Chiesa, il quale sostenne che con l’Editto di Milano si passò da una neutralità negativa a una positiva, che apriva le porte all’adozione del Cristianesimo come religione ufficiale. L’opera è in inglesee forse per affinità linguistica anche gli ungheresi adottano un’interpretazione simile.

    Chi vuole chiudere questo giretto con un po’ di divertimento, vada a consultare l’edizione italiana, per la quale l’Editto ci fu, ed  è presentato come quello vero, ma non era il primo, perché ce ne fu un altro, sempre di tolleranza, nel quale però venne concessa ai cristiani solo un’indulgenza: e qui l’equivoco con la prassi penitenziale cristiana è inevitabile come le virgolette, da spargere a piene mani (Se riuscirete a capirci qualcosa, non vorrà dire che siete bravi, ma solo che siete perfettamente inseriti nello schema di funzionamento di questa nazione).

     

    6 - Conoscere o commemorare?

    Virgolette, dunque, ma decisive, quando si parla della creazione di un evento, come le celebrazioni costantiniane. Ecco come vengono presentate dal giornale della diocesi ambrosiana.

    Ebbene, per commemorare dal punto di vista scientifico tale centenario e per discutere tutti gli aspetti problematici connessi a quello che per l’appunto definiamo convenzionalmente come “editto” (…)

    Dunque, che sia un Editto è una convenzione, non una realtà storica. Però questa convenzione è indispensabile sia per fissare l’anniversario (che si celebra solitamente per qualcosa che è realmente avvenuto), sia per designare la città – luogo reale - dove commemorarlo (vi figurate i milanesi che festeggiano l’ “Editto Bulgaro di Tolleranza”?). Ma questo imbroglio fra realtà e invenzione, cede sicuramente il passo a quella perla della “commemorazione scientifica”, che avrete sicuramente notato, e sulla quale gli studiosi dei rapporti tra storia e memoria potrebbero scrivere libri.

     

    7 - Costantino, 313. La mostra

    E siamo arrivati alla mostra. Ci dovevamo tornare perché il bello dello stereotipo dell’Editto è che l’articolo di Marcone, che me lo ha svelato, è pubblicato proprio nel catalogo della mostraCostantino 313, svoltasi a Milano in occasione del suo 1700 anniversario, e ora aperta a Roma, al Colosseo Editto di Milano: dalle persecuzioni alla tolleranza, pp. 42-47.

    Questa esposizione si apre con il famoso brano di Lattanzio, quello da cui prende il via l’invenzione dell’Editto. Tu entri e ti accoglie la prosa familiare del grande scrittore cristiano.

     

     

    Pensi. Come sono simpatici questi due imperatori, che si vedono a Milano, chiacchierano come due tipi qualunque, e a un certo punto fanno: ma perché non li lasciamo liberi, questi benedetti cristiani? Qui, però, la nota erudita me la dovete concedere, perché serve a spiegare almeno una parte della confusione. Noi non possediamo il testo di quel documento che chiamiamo “Editto di Milano”. Oltre ad una versione ridotta di Eusebio di Cesarea, disponiamo solo dell’ampio resoconto di Lattanzio, autore decisamente schierato a favore di Costantino, e da questi assunto come precettore del figlio Crispo (en passant, Costantino spese veramente male i soldi per la sua istruzione, dal momento che lo fece ammazzare). Sappiamo, dunque, che le precauzioni interpretative sono obbligatorie, in situazioni come questa (nella mia piccola ricerca su Internet, ho trovato perfino il racconto di Lattanzio suddiviso in paragrafi numerati “come se fosse” un documento legislativo.

    Quindi ti aggiri fra i pezzi (belli; emozionanti). Scopri un impero dalle tante religioni. Vedi la mano di Sabazio – dio della nascita e della morte – la mano con le tre dita distese, alla quale si ispirò il gesto cristiano della benedizione. Ammiri un bassorilievo raffigurante Mitra, con i resti della colorazione originale (il dio ha il volto dorato e il mantello rosso). E poi Iside, Giove Dolicheno, il Sol Invictus (accanto al quale Costantino amava farsi raffigurare nelle sue monete d’oro) e tanti altri.

     

     

    La convivenza di questa moltitudine di culti era garantita dall’imperatore, anche prima del nostro Editto. Certo, si sentiva nell’aria una “ricerca del monoteismo”, si premurano di avvertirci i curatori, che evidentemente dispongono di speciali fonti di informazione; per quanto, curiosamente, proprio dopo la legalizzazione completa del Cristianesimo (appunto dopo l’Editto), questa pacchia libertaria finì, dal momento che gli imperatori cristiani si dettero a vigorose campagne di repressione di ogni religione che non fosse quella cristiana, per giunta nella versione che di volta in volta ritenevano ortodossa. I curatori della mostra non mancano di rilevare, infatti, che da subito Costantino impose “qualche limitazione” a questa tolleranza. Un eufemismo si direbbe, visto che appena l’anno successivo al nostro Editto di Tolleranza, si celebrò il concilio di Arles, con la condanna dei donatisti; sei anni dopo vennero proibiti i sacrifici pagani e, da allora, seguì un crescendo ininterrotto di repressioni dall’alto e di violenze dal basso, che portò alla scomparsa di quella varietà di religioni che ci affascina visitando questa mostra. Nella quale, per contro, si racconta con dettagli delle persecuzioni contro i cristiani, illustrate con immagini efficaci di condannatiad beluas , che sfortunatamente non si riferiscono mai a martiri. Non lo può essere, ad esempio, questa scena nella quale un orso sta per sbranare una ragazza legata ad un palo (la si riconosce a destra nella mia pessima foto), troppo sensuale e svestita per essere una santa da venerare.

     

     

    8 - Le cose importanti. I valori e le radici.

    Ma non cavilliamo, dice la mostra. Qui si parla di cose più importanti e attuali. Di tolleranza e di convivenza dei diversi. E, naturalmente, delle radici cristiane di tutto ciò. Questo è il succo che il visitatore comune deve ricavare dalla sua visita. Inoltre, se sei quello che ne vuol sapere di più (e ti senti anche di spendere qualche euro in più), eccoti il catalogo. La sua apertura, di autorità e sponsor, ti incoraggerà in questa interpretazione, come rivela questa rapida antologia.

     

    Ci sono date che partono da una città e arrivano al mondo. Nel 313 Milano proclama “ai Cristiani e a tutti gli uomini la libertà di seguire la religione che ciascuno crede”  (Giuliano Pisapia, sindaco di Milano)

     

    Il rescritto, a firma dei due Augusti Costantino e Licinio, segna la fine delle persecuzioni contro i cristiani e l’atto di nascita della libertà religiosa, ben diversa dalla semplice tolleranza” (Angelo Scola, cardinale)

     

    La celebrazione dell’Editto di Costantino ci ricorda di un antico primato di Milano, da sempre storico crocevia di esperienze e laboratorio civile di sviluppo” (Stefano Boeri, assessore alla cultura di Milano)

     

    Con quella rivoluzionaria decisione Milano divenne il luogo simbolo dell’integrazione e della convivenza di fedi ed etnie diverse” (Diana Bracco, Presidente della Fondazione Bracco)

     

    9 - Ma se sei secchione e pignolo

    E lo devi essere proprio, perché non ti devi fermare alla visita, né ti devi limitare a sfogliarne il bel catalogo e a leggiucchiarne un articolo qua e là. Devi individuare proprio quello di Marcone, e giungere sino alla fine, quando lo storico elenca le certezze che già sapete.

    Ma se lo farete anche voi, capirete che non è una questione di date né di pedanteria erudita. Infatti: un conto è sapere che quell’Editto fu promulgato da Galerio, imperatore talmente pagano e talmente mal visto dai cristiani (fu proprio lui che spinse Diocleziano a iniziare la sua persecuzione), che Lattanzio lo fece crepare tra le sofferenze nel suo De mortibus persecutorum; un conto, ancora, è sapere che perfino l’”Editto cosiddetto”, o il “rescritto” come puntualizza il cardinale Scola,  fu promulgato da Licinio, che era quello pagano della coppia di Augusti. E un conto totalmente diverso è essere convinti che quell’Editto fu opera dell’imperatore che era, o che sarebbe diventato cristiano. Se, infatti, furono gli imperatori pagani a promulgarlo, vuol dire che esso venne pensato per ragioni che per loro erano di “buon governo”. Probabilmente si convinsero che era quello che ci voleva per andare avanti, e si comportarono di conseguenza. Nel caso contrario, come sappiamo tutti, quell’Editto si inscrive in un percorso destinato a portare alla vittoria del Cristianesimo. E ci suggerisce che noi siamo tali (tolleranti e aperti) proprio perché siamo inseriti in quel percorso.

    Che i cristiani potessero liberamente celebrare i loro culti, dunque, era già un fatto acquisito nel 313. Certamente, c’era chi si opponeva (come Massimino Daia, il Cesare che fu sconfitto da Licinio). Ma certamente non Massenzio o qualcuno degli altri pretendenti al trono, che Costantino fece fuori, uno dopo l’altro. E questo forse ci obbliga a guardare da una prospettiva diversa anche la faccenda del Ponte Milvio.

    Cambia totalmente anche la questione del rapporto fra Editto e celebrazione della Tolleranza. Infatti, se è vero che pochi anni dopo la sua promulgazione, Costantino e il suo nuovo entourage cristiano dettero il via a delle pratiche restrittorie della libertà religiosa, allora ne dovremmo trarre la conseguenza che la stagione della tolleranza fu brevissima, e che Costantino, in luogo di inaugurarla, fu quello che la chiuse.

     

    10 - Il messaggio della mostra

    Uno spostamento di due anni (311/313), e il messaggio della mostra si rovescia. Oggi il messaggio è: “il bene della tolleranza ha le sue radici in Costantino, e dunque nell’avvento del Cristianesimo. Dura dunque da 1700 anni, e perciò lo celebriamo tutti, laici e cristiani e di qualsiasi religione”. Potrebbe essere, invece: “Quella che consideri “tolleranza” durò una manciata di anni, e poi scomparve rapidamente. E’ un bene fragilissimo, ci dicono quel periodo e quegli eventi, che pure consideriamo fondanti. Perciò datti da fare se ci tieni veramente”.

    E mi sembra che Arnaldo Marcone non lasci alternative, quando conclude che è alquanto improprio parlare di “tolleranza” e di “persecuzione” per quei tempi. Si trattava, dice, di un fluttuare di situazioni, mai generali e mai durature e mai, soprattutto, nette. Questa mostra, dunque, dovrebbe aiutarci a prendere le distanze, piuttosto che esaltare fieramente i quarti di nobiltà della tradizione occidentale.

     

    11 - Troppo complesso

    E’ quello che ti dicono, quando ti chiamano a organizzare una mostra, a scrivere un manuale o, come mi è capitato anche, a redigere dei programmi di studio. La gente non capirebbe. Bisogna essere chiari e semplici, e tu fai sempre dei problemi. Be’, proprio questa mostra ci insegna che si tratta di un alibi e che il “farsi capire da tutti” è proprio l’ultima delle preoccupazioni. Guardate queste foto. Sono alcune didascalie di oggetti presentati nella mostra. Ecco questa “Alzata frammentaria di coperchio di sarcofago con pastore crioforo”. Uno moderatamente ignorante come me deve smanettare con lo smartphone, per capire che “moscoforo” e “crioforo” sono più o meno la stessa cosa. Più o meno, ma non sottilizziamo. Altrimenti, senza dare nell’occhio, allunga lo sguardo alla versione inglese. Anche a saperne poco, quello shepherd carrying a lamb, lo guida alla soluzione. “Il buon pastore”. Ah. Fortunatamente sono di quelli che non hanno problemi con l’“alzata frammentaria di sarcofago”.

     


    E l’inglese mi salva anche per capire che cos’è questo oggetto, che a prima vista penserei fosse uno stravagante “portatore di tavola”.Trapezoforo, infatti, recita minacciosa la didascalia, mentre la traduzione mi rassicura. E’ la gamba di un tavolino. Ma a quella successiva ci dobbiamo arrendere tutti, gli italiani sfortunati e gli inglesi (che, come avrete notato, sono trattati più umanamente dai curatori della mostra). La “lucerna bilicne”, infatti, ci rimette tutti al nostro posto.

    Se veramente il “farsi capire” fosse il motore delle scelte e delle semplificazioni, allora avrebbero scritto “Buon Pastore, “Gamba di tavolino”, “Lucerna a due luci”. Senza trascurare, ovviamente, il termine tecnico. Quello ci vuole, e chi è bravo e vuole veramente farsi comprendere, sa anche dove e come metterlo. E riesce anche a valorizzarne l’importanza (a far intendere anche quella, infine).

    No, ci dice questa mostra. No, ci dicono “gli approfondimenti”. No, ci dicono queste didascalie e queste virgolette. Il capire è un qualcosa di pochi. Degli esageratamente pignoli. Gli altri, la gente, si accontenti delle storie facili, quelle che già circolano e alle quali è abituata. Si limiti a quelle “spiegazioni semplicistiche e riduzionistiche, secondo le quali fu Costantino, facendo del cristianesimo la religione ufficiale dell'impero, a determinarne definitivamente il successo" (Questa frase, di Andrew M. Greely, un prete irlandese, sociologo e giornalista, l’ho trovata nel sito curato da Andrea Nicolotti, al quale rinvio per chi voglia continuare a informarsi su questo genere di argomenti).

     

  • Mare nostrum. L'originale e le imitazioni. Da un'invenzione all'altra

     

    Per la Marina Militare e per il Governo italiani, Mare Nostrum  è l’operazione di polizia/salvataggio organizzata nel 2013, dopo il naufragio di Lampedusa, nel quale morirono 366 persone. Era il 3 ottobre, giornata che il Senato ha intitolato alla memoria delle vittime delle migrazioni . Un nome, Mare Nostrum,  non del tutto adatto alla circostanza, come fecero notare giornali e storici, osservando che, con ogni probabilità, i ministri italiani ignoravano l’articolo, scritto da Mariella Cagnetta, e apparso su “Limes” nel 1994, nel quale la storica barese spiegava che il Mare Nostrum era un mito, costruito da personaggi ben noti della storia, da Pompeo a Mussolini.
    Non è l’unica ripresa moderna di questo termine. Le vicende dell’Estremo Oriente, infatti, stanno mettendo in risalto un altro Mare Nostrum: quello cinese. Ne aveva parlato, già nel 2008, “Limes”. L’espressione appare corrente nell’ambiente geopolitico. Ne scrive, ad esempio, Alfredo Musto ne Il Mar Cinese Meridionale: il mare nostrum di Pechino (2012, con un’ampia informazione geografica e politica). 
    Le condizioni perché un tratto di mare venga definito nostrum sembrano due. La prima, geografica, è che si tratti di un mare chiuso. La seconda, storica, è che qualcuno ne affermi il dominio. Così, Mare Nostrum è, per gli Usa, il Mar dei Caraibi; per la Cina, il Mar Cinese meridionale e, capostipite necessario e nobilitante della serie, tale viene considerato il Mediterraneo, per l’antica Roma.
     
     
    IlMare nostrum cinese, nella cartina di “Limes”, disegnata da Laura Canali 
     
     Il Mare Nostrum cinese
    Il Mar della Cina Meridionale bagna, a Ovest, la costa sino-vietnamita, a Sud gli arcipelaghi dell’Asia Sudorientale, a Est le Filippine e Taiwan, mentre a Nord confina con le isole meridionali dell’arcipelago giapponese. A osservarlo sulla carta, appare un mare molto meno “chiuso” del Mediterraneo. Tuttavia, negli ultimi decenni, è diventato il cuore dell’economia mondiale: vi transitano ogni anno 60 mila navi, ossia tre volte il traffico del canale di Suez e sei volte quello dello stretto di Panama. Il che equivale a un quarto del commercio mondiale e alla metà del volume commerciale delle tigri orientali, Cina, Giappone e Corea del Sud (Daniel SCHAEFFER, 2014). Queste ragioni economiche, oltre alle note contese politiche e alle risorse energetiche e minerarie che vi si celano, fanno sì che la Cina abbia sovrapposto a questa carta “aperta” del mare, una carta storica tutta propria, secondo la quale si tratta di un mare “chiuso”. 
     
    La Lingua di bufalo
    Nel linguaggio cinese (che a noi pare assai colorito), questa carta storica è chiamata della “Lingua di bufalo”. Negli anni ’30 del secolo scorso, quando fu pubblicata, fu detta anche “Carta dei 9 tratti”, perché identificata da nove segmenti, che definiscono una frontiera marittima, che separa il mare aperto dalle acque costiere degli stati rivieraschi, creando così un unico mare interno, che scende dalla Cina meridionale e disegna, per l’appunto, una sorta di lingua di bufalo. Di recente, nel 2013, questa carta è stata ribattezzata dei “dieci tratti”, dal momento che vi è stato aggiunto un nuovo segmento a Est di Taiwan, a segnalare la volontà annessionistica della Repubblica Popolare Cinese.
     
    L’11 gennaio 2013, "Sinomap Press", organo ufficiale della stampa cinese, ha pubblicato una carta sulla quale il confine dei nove tratti è completato da un decimo, al largo di Taiwan (Wikipedia)
     
    I numerosi piccoli arcipelaghi, a volte di pochi scogli, che costellano questo mare, sono stati l’obiettivo di una frenetica e costosissima attività cinese, volta a costruire piazzeforti, basi navali, o a estendere addirittura la superficie di queste isole. Lo stesso mare è teatro di continue esercitazioni militari, nelle quali le flotte cinese e russa operano spesso insieme, sorvegliate da una Settima flotta Usa, sempre più in allarme. La cartina che segue, redatta per conto della Difesa Usa, nel 2012, registra le continue operazioni diplomatiche e i conflitti aperti che accompagnano questa espansione militare della Repubblica Popolare Cinese (e, per riflesso, la preoccupata attenzione americana). 
     
     
    Rivendicazioni di sovranitànel Mare cinese meridionale
     
    Quello cinese meridionale è un mare che la geografia ha “chiuso” in modo talmente imperfetto, che per sigillarne le falle occorre un dispendio enorme di energie economiche, militari e politiche, da parte di chi se ne vuole insignorire. Una chiusura artificiale, almeno al confronto di quella, che ci appare così “naturale” del nostro Mediterraneo.
     
    E il Mare nostrum autentico.
    Altra cosa il Mediterraneo, dunque, il cui unico accesso erano le Colonne d’Ercole. Più naturale, ci vien fatto di pensare, che i Romani, una volta conquistatene le terre circostanti, ne abbiano abbiano proclamato il possesso con orgoglio. Così troviamo in tanti manuali; così troviamo anche in testi scientifici, primo fra i quali, credo, l’opera di Michel Reddé, fondamentale per chi si occupa della navigazione al tempo di Roma, che si intitola per l’appunto: Mare nostrum. Les infrastructures, le dispositif et l’histoire de la marine militaire sous l’empire romaine (Roma 1986). Con la stessa sicurezza David Abulafia intitola Mare Nostrum il capitolo nel quale parla delle vittorie con la quali Roma sconfisse Cartagine, i macedoni, bonificò il mare dai pirati e si impadronì dell’Egitto. Allora, scrive, il mare nostrum cominciò a riferirsi “a un’idea di Roma molto più ampia del Senatus Populusque Romanus” (Il Grande Mare, Milano 2010, p. 197).
    Quest’idea è talmente scontata (un perfetto esempio di stereotipo colto), che i direttori di “Latinitas”, rivista della Pontificia Academia Latinitatis, hanno sentito il bisogno di rinverdire e ripubblicare un saggio di AlfonsoTraina, scritto negli anni ’50, nel quale si racconta per filo e per segno la storia di quella che oggi, sulla scorta di Eric Hobsbowm, dobbiamo considerare una “invenzione” (A. Traina, B. Pieri, Mare nostrum. Leggenda e realtà di un possessivo, II, 2014, pp. 13-18 ).
     
     Mare Nostrum Nostrum Mare?
    Leggiamo innanzitutto, in questo articolo agile e godibilissimo, che i romani non dicevano mare nostrum, ma nostrum mare. Uno scambio di posto che non comunica tanto l’orgoglio di un possesso, quanto l’opposizione (“quel mare e il nostro”). Avevano imparato questo modo di dire dai Greci, abituati a distinguere fra il Mar Nero e quello Egeo: così Irad Malkin, per il quale, oltretutto l’espressione hemetera thalassa (“nostro mare”) era da intendersi in senso metaforico e non propriamente di possesso (A Small Greek World. Networks in the Ancient Mediterranean, Oxford 2011, p. 3). Al principio, i romani non usavano questa espressione nemmeno per designare tutto il Mediterraneo, ma la riferivano alle acque che bagnano la penisola. Il “nostro mare”, più o meno come noi diciamo: “la nostra spiaggia”. 
    Anche un sostenitore del valore possessivo di “nostro”, come Marshall Cavendish, scrive:  “Dopo la conquista della Sicilia, i Romani orgogliosamente usarono il termine mare nostrum per le acque attorno alla penisola italiana e alle loro nuove isole (…) Solo alla fine chiamarono l’intero mediterraneo mare nostrum” (History of the Ancient & Medieval World,  Vol. 5, NY 1995, p. 695)
    I romani dicevano nostrum, soprattutto, per distinguere il Mediterraneo dall’Oceano. Questo intende Cesare, quando, arrivato al cospetto dei veneti, esperti navigatori della Bretagna (i quali non avevano nulla a che vedere con i veneti nostrani), decide di sfidarli per mare e fa costruire navi con delle attenzioni particolari, perché “l’oceano non è come il nostro mare”.
     
    I nomi del Mediterraneo
    Per i romani, il Mediterraneo era il mare internum o interior  (seguo ancora Bruna Pieri, che ha raccolto e analizzato tutte le ricorrenze di questa espressione). A volte era il mare magnum, per quanto ogni tanto chiamassero così anche l’Oceano. Per il nostro grande dispiacere, non usavano nemmeno “mediterraneo”. Questo nome, infatti, appare verso la fine dell’impero, e nel VII secolo Isidoro lo adopera ancora con il significato generico che forse i nostri geopolitici gradirebbero (ci sono i mari aperti e quelli chiusi, “mediterranei”, appunto). Diventa decisamente “nostro” solo dopo l’avvento degli arabi, commenta Pieri, quando non esiste più un solo padrone del mare, e si comincia a pensare ai tempi passati, nei quali, effettivamente, qualcuno avrebbe potuto chiamarlo “nostro”, ma ahimé, non lo fece.
    Per paradosso è proprio l’Oceano che, almeno in un’occasione, viene chiamato “romano”. Lo sappiamo da alcuni componimenti poetici, attribuiti a Seneca, nei quali, celebrando le imprese delle legioni di Claudio che hanno sbaragliato la regina Boudicca e si sono definitivamente impadronite della Britannia, il Canale della Manica viene definito Romanum Oceanum, e il mare della vinta Britannia nostra aqua.
     
    Chi disse veramente Mare nostrum
    Un paradosso ancora più sorprendente è che a usare questa espressione, nel senso che noi le diamo oggi, fu Annibale. Almeno così ci riferisce Tito Livio che gli fa promettere, nel discorso ai tarantini:  “e sarà nostro quel mare, del quale ora i nemici si sono impadroniti” (et mare nostrum erit, quo nunc hostes potiuntur). Una frase costruita per accendere di sdegno i bravi sudditi di Augusto, ma che funzionò talmente bene, da infiammare a distanza di secoli Giuseppe Mazzini. E’ lui, che sembra dare l’avvio all’accezione odierna: “e sulle cime dell’Atlante sventolò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro”. 
     
    Il mare fascista
    Chi costruisce il mito del Mare Nostrum, e attribuisce definitivamente a questa espressione il significato che oggi consideriamo comune, è il fascismo. E’ durante il ventennio mussoliniano, infatti, che il mare internum viene trasformato nel modello del mare imperiale italiano.  In questa operazione retorica, ritorna sulla scena l’eterna nemica Cartagine, nelle vesti dell’Inghilterra che - insegnava agli italiani Mario Appelius, speaker del regime – bisogna distruggere, perché ha fondato un  «mostruoso impero d’essenza fenicia accampato con la sua massa nei cinque continenti» (P. Giammellaro, Times/Semit. Inglesi e Fenici nella storiografia e nella propaganda fascista).
     
     
    E Mare nostrum diventò un oggetto di studio. Questa è la pagella di Lidia, una delle tante bambine che frequentarono la seconda elementare nell’anno dell’entrata in guerra. Vi leggiamo in bella mostra la scritta Mare Nostrum, sul mar mediterraneo, con un corredo di pugnali e moschetti. L’immagine è commentata da Ugo Piscopo, La scuola del regime: i libri di testo nelle scuole secondarie sotto il fascismo, p. 197
    Il mito del Mare nostrum è partorito dalla politica, insegnato nelle scuole e nutrito dalle Università. Andrea Perone ha studiato le annate di “Geopolitica”, una rivista che fino al 1942 raccolse i più importanti geografi italiani a sostegno esplicito delle mire imperiali fasciste. La geografia, argomentavano quegli studiosi, aveva posto l’Italia al centro di un mare che – ed ecco la storia -  essa aveva dominato ininterrottamente, con la sola parentesi araba, dall’antichità all’età moderna.
     
    In conclusione 
    Le invenzioni hanno le gambe corte. E Mare nostrum non fa eccezione. A cosa volevano riferirsi i fascisti: a un mare che effettivamente era dominato dai romani, ma che questi non chiamarono (se non saltuariamente) “nostrum”? a cosa allude la "Lingua di bufalo" dei cinesi: al mare di Cneo Pompeo o a quello del quale Mussolini reclamò invano il possesso? e, infine, cosa intendevano i nostri governanti, quando tirarono fuori dal cilindro della storia il nome da dare a un’operazione umanitaria? Che avrebbero aiutato solo i naufraghi vicini (significato oppositivo); o che il mare nel quale soccorrevano i naufraghi, era percorso da flotte invincibili, come quelle dei romani (significato possessivo)?
    In tutti questi casi, varrebbe la pena di ricordare quello che scriveva uno dei primi studiosi, che (era il 1907!) ha bollato l’uso improprio di mare nostrum, raccomandando di “non attribuire alla superbia dei romani quello che spettava alla nostra ignoranza” (G.Grazzo, Nostrum mare, “Bollettino della Società geografica Italiana” 1907, pp. 1222-1228: sempre citato da Bruna Pieri).
  • Nessun popolo è una culla

    Il dibattito sulla vicenda greca di nuovo richiama in causa la storia e gli storici. Il tema, ovvio, è la democrazia. Può la Grecia, culla della democrazia, essere fuori dall'Europa? E' l'argomento che rimbalza dal parlamento alle prime pagine dei media.

    Non voglio toccare la questione se sia giusto o meno che la Grecia faccia il referendum, la politica di Tzipras e quella di Merkel, né se la Grecia possa o non possa stare in Europa. Vorrei attirare l'attenzione sul fatto che "essere culla di qualcuno" è un modo di dire che appartiene a una visione genealogica della storia (o delle storie), che abbiamo abbandonato da un pezzo, perché nessuno al mondo è la culla di qualcun altro; sul fatto che è ingiusto trasformare un popolo, con tutti i suoi problemi, in un simbolo utilizzato da altre collettività per i propri dibattiti interni; sul rischio dell'essenzialismo che incombe ogni volta che diciamo che "quel popolo lì incarna quell'idea lì"; sul fatto che abbiamo discusso lungamente, e dimostrato oltre ogni dubbio le differenze, a volte abissali, che esistono fra la democrazia ateniese e quella elaborata in Occidente.

    In una parola: mi sembra che di nuovo si stia facendo un diffuso abuso pubblico della storia, a volte con la compartecipazione attiva di qualche studioso. Per chi si occupa di formazione storica, questo è un problema. Così, per riportare le lancette indietro, a tempi relativamente più freddi, conviene rileggere la recensione al libro di Canfora sulla democrazia ateniese, che Silvia Ronchey pubblicò nel 2012 (e poi, con calma, andarci a leggere il libro).

     

     

  • Non c’è una fine. Camminare a Auschwitz con Piotr Cywiṅski

    Enrica Bricchetto

    Non c’è una fine. Camminare a Auschwitz con Piotr Cywiṅski

     

    Una lezione per il 27 gennaio che parta dall’oggi: è uscito il libro di Piotr Cywińsky, il direttore del sito memoriale di Auschwitz. In classe ci si può lavorare con quello che si trova in rete. Per conoscere, discutere, comprendere e rammemorare giacché “fare storia al tempo presente è una sfida”. 


     

     Intorno al libro

     

     

    Il modo in cui le informazioni circolano, rimangono e possono essere recuperate nella rete,  aiuta a costruire attività didattiche. Cliccando sul  link della scheda libro di Non è la fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz di Piotr Cywińsky, nel sito della casa editrice Bollati Boringhieri, chi avesse perso l’uscita degli articoli in tempo reale, può recuperare tutto: l’intervista che su “Repubblica” Glodek Goldkorn fa a Cywińsky,  l’analisi approfondita di Enrico Manera su Doppiozero,  le clip di Radio 1 e di Farehneit, su Radio 3 e infine  Una morale essenziale, la recensione di David Bidussa sulla “Domenica” de “Il Sole 24 ore”.  Mi sembra che sia stato già detto e scritto tutto quello che serve per decidere se  leggere o no  questo libro.  Di sicuro ce n’è abbastanza per lavorarci a scuola. 

     

    fig. 1 La scheda libro nel sito della casa editrice Bollati Boringhieri

     

     

    Con gli occhi del docente

      

    Ho pensato quindi che il libro di Cywińsky potesse essere messo al centro della mia lezione sul 27 gennaio del 2017, Giorno della Memoria. Ha un legame forte con l’oggi - parla di un’esperienza di vita e di lavoro - e, allo stesso tempo, apre molte porte sul passato. Del libro di Cywińsky ho fatto una lettura didattica che ho trasposto in un’esperienza da portare in classe.
    In questo articolo do conto  sia della progettazione sia della realizzazione della mia lezione - producendo tutti i materiali che possono servire al docente.


    Mentre leggevo il libro, da più parti ho avuto notizia - da Facebook e da un articolo su "Il Post" e su “La Stampa” del sito Yolocaust. de e, nel frattempo, è uscito il film Austerlitz  (se ne parla in questo sito). Anche questi c’entrano con la lezione sul 27 gennaio del 2017 che sto per raccontare.

     

     

    Il 27 gennaio e la narrazione storica

      

    Chi insegna storia incontra il popolo ebraico in molti momenti del suo discorso storico: quando si trattano le città e gli antichi regni intorno al 1000 a.C., quando nella Palestina romana, all’epoca di Tiberio, nasce, viene ucciso Cristo e il cristianesimo si diffonde; quando si parla della distruzione del tempio di Gerusalemme del 70 d.C. e della Diaspora, evento centrale e non facile comprendere fino in fondo per gli studenti.  Dal 135 d.C. in poi gli ebrei migrano per ogni dove e si stabiliscono in comunità con lingue e religioni diverse. Nell’occidente  cristiano gli ebrei, uniti dall’appartenenza alla comunità, dalla religione e dalla lingua, vivono a parte. Già dal IV sec. vengono emanate leggi che sanciscono a livello giuridico l’inferiorità degli ebrei e la loro marginalizzazione: non possono contrarre matrimoni con i cristiani, costruire sinagoghe troppo visibili  e possedere schiavi cristiani.  Dal 1215 il Concilio Lateranense IV prescrive che   indossino un segno distintivo  e con la peste del 1348 diventano individui pericolosi, in seguito anche oggetto di espulsioni.  Poi la Limpieza de Sangre, poi la costruzione dei ghetti, e il lungo travaglio della costruzione degli stati moderni in Europa. E ancora la diversa storia tra gli ebrei occidentali e quelli orientali, i pogrom che si intensificano soprattutto nell’Europa orientale, il passaggio dall’antigiudaismo cristiano all’antisemitismo e il progetto del sionismo fino alla politica nazista dello sterminio. Nell’affrontare queste tappe, in momenti diversi della formazione storica degli studenti, si precisa anche il lessico: dal mettere a fuoco il significato di  popolo eletto e popolo del libro, alla definizione dell’identità del popolo ebraico, alle distinzioni tra antigiudaismo, antiebraismo e antisemitismo.

     

     

    Ogni anno, il 27 gennaio

     

    fig. 2 Manifesto per il 72° anniversario della liberazione di Auschwitz

     

     Il 27 gennaio di ogni anno mi spinge a mettere a confronto le tematiche già affrontate relative al popolo ebraico con l’anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, in Italia la data della commemorazione della Shoah. Ogni anno cerco di mettere in relazione il 27 gennaio con un momento della storia dell’ebraismo e con quello che offre il dibattito pubblico. Antonio Brusa ha già riflettuto molto su come affrontare didatticamente il Giorno della Memoria, su come costruire una didattica della Shoah cognitivamente solida, basata su un incremento conoscitivo che consenta recepire in modo critico le scelte dei media su questo tema (vedi riferimenti bibliografici).  Penso che, in questo senso, l'attenzione ai contenuti storici e al loro uso pubblico vadano affrontati parallelamente.

     

    Ogni anno pubblicazioni di ricerca e  di riflessione o la  fiction (romanzi e film) propongono ai docenti nuove prospettive per tornare sul tema in modo non ripetitivo e soprattutto non soltanto commemorativo. Il partigiano Edmond di Aharon Appelfeld, per esempio, appena uscito da Guanda porta in una dimensione della Shoah molto diversa, quella dell’ebreo che reagisce, che resiste (recensione) o un film straordinario come Remember di Atom Egoyan (2016, trailer), che affronta, in modo profondo, il tema della memoria latente nelle vite di vittime e carnefici. Per il docente quindi molte sono le possibilità per tornare su un tema consueto in modo un po’ diverso e per allontanare il pericolo della Historia Magistra - un vero e proprio stereotipo che accomuna la maggior parte degli studenti ma anche degli adulti - che ripetono il mantra che bisogna conoscere per non rifare gli stessi errori. Se - come scrive David Bidussa La storia al tempo presente è una sfida, uno dei suoi momenti essenziali è “ cogliere le analogie che fanno sì che la storia faccia le rime, ma non si ripete sempre uguale, presenti dei tratti che consentano di fare delle comparazioni, o di vedere le analogie e le differenze, ma non di dare sempre la stessa risposta”. La storia serve per capire che cosa il genere umano è in grado di fare nel bene e nel male e, qualche volta anche il perchè.

     

     

    La proposta didattica

      

    L’anno scorso, in questo sito, ho recensito il romanzo di Carlo Greppi, Non restare indietro, e proprio Greppi, giovane storico dell’età contemporanea e scrittore, ha segnalato e tradotto il libro di Cywińsky, Non c’è una fine, scrivendo una bella postfazione sui viaggi della memoria. Quest’anno ho scelto una via più operativa. Il libro di Cywińsky è la risposta al perché ogni anno più di un milione di persone visitano il sito memoriale di Auschwitz e aiuta chi ci è già stato a capire di più; è un piccolo manuale per dare senso al racconto dello sterminio degli ebrei in Europa ma anche ad altri stermini, che sono venuti dopo. E’ un libro che serve per riflettere sull’aspetto umano della Shoah, intesa come azione di uomini verso uomini, genere umano verso genere umano.

     

    fig. 3 La presentazione del libro a Milano, il 13 gennaio, con autore e curatore (Articolo 21

     

     

    Metodo e strumenti

      

    Nelle mie classi gli studenti sono abituati a leggere e a lavorare sui materiali in digitale a casa, dai loro computer o soprattutto dai loro telefoni. Utilizzando il loro dispositivi, accedono al nostro ambiente di classe dove possono leggere le mie consegne e esplorare materiali, mettere e condividere i loro testi o i loro artefatti. Quasi tutti hanno scaricato sul telefono le app di Google Classroom, Google Drive, Google Doc e Presentazioni.
    Per quel che riguarda il metodo, da tempo in classe utilizzo il modello di lezione EAS (Episodi di Apprendimento Situato) messo a punto da Pier Cesare Rivoltella e sviluppato da me in ambito di didattica della storia, le cui caratteristiche si chiariranno procedendo nella lettura.

     

    Quest’anno in occasione del 27 gennaio, per la classe quarta, ho pensato di mettere insieme due esperienze: realizzare un EAS sul libro di Cywińsky e assistere a Il piacere dell’odio, che il regista e attore Marco Alotto - autore anche del testo - ha messo in scena con la compagnia Itaca teatro, composta da giovanissimi attori (teatro Astra di Torino, 23 gennaio 2017). Questo spettacolo teatrale, mostrando le forme che prende l’odio in varie esperienze di genocidi - inizia con Auschwitz, poi la Bosnia, Ruanda, Cecenia e di nuovo Auschwitz - ha richiamato il tema della responsabilità dell’individuo con una recitazione corale di grande intensità e coinvolgimento.

     

    Fig.4 La locandina dello spettacolo

     

     

    Lavorare in anticipo (a casa)

     

     La mia lezione in classe sul libro di Cywińsky è stata preceduta dalla seguente consegna:

    apri il link della scheda del libro Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz di P.Cywińsky  che trovi nel sito della casa editrice Bollati Boringhieri e:

    A. Ascolta le clip della radio;
    B. leggi l’intervista a Cywińsky su “Repubblica” del 9 gennaio 2017 e rispondi a queste domande:

    1. Chi è Cywińsky?
    2. Che lavoro fa Cywińsky?
    3. Perché per il suo lavoro sono necessarie “umiltà” e “insolenza”?
    4. Quali caratteri di autenticità - secondo Cywińsky si sono conservati a Auschwitz?
    5. Riporta la definizione di empatia che dà Cywińsky nell’intervista.
    6. Riscrivi quello che ti colpisce di più delle risposte di Cywińsky.
    7. Cerca informazioni su Glodek Goldkorn partendo da questo link.
    8. Analizza le domande di Goldkorn: ti sembra che sia d’accordo con quello che sostiene Cywińsky o no? In che parte dell’intervista emergono la personalità e la storia personale di Goldkorn?

     

    C. leggi l’articolo di E. Manera su “Doppiozero” e metti in evidenza, spiegandole con parole tue “le chiavi di ingresso” alla lettura del libro di Cywińsky proposte. Puoi farlo, creando una mappa digitale o un’infografica, in modo narrativo o in forma di elenco.

    D. Cerca i trailer dei tre film usciti quest’anno per il 27 gennaio (Austerlitz, In viaggio con Fanny, Nebbia in agosto) e scrivi, dalla sola visione del trailer, quale, secondo te, il tema di ognuno dei film e se sono opere di fiction o di non-fiction.

     

    L'attività a casa il giorno precedente alla lezione  deve essere caricata nell' ambiente Classroom. Questo significa che io posso, se voglio, iniziare la lezione avendo chiaro che cosa hanno fatto gli studenti e quali difficoltà hanno trovato. Vorrei precisare che ogni studente ha a disposizione la versione completa del lavoro da fare a casa. In realtà la sua realizzazione può avvenire a vari livelli. Alcuni vanno oltre quello che viene proposto loro. Altri adeguano le consegne ai propri stili di studio o alle loro modalità di apprendimento. Chi ha problemi di lettura può concentrarsi sulle clip radio e da lì ricava gran parte delle informazioni. Per le domande su Goldkorn, nel sito Feltrinelli c’è un’intervista che dà elementi sufficienti per capire chi è (link).

    Rispetto all’analisi di Manera - non scritta certo per adolescenti - la richiesta di mettere in evidenza le “chiavi di ingresso”, cioè gli aspetti individuati come più significativi, consente di orientarsi meglio nel testo. O ancora, questi studenti nel loro file di consegna possono dare risposte per parole chiave o in forma di schema. La fase anticipatoria dell'EAS - così viene definito il lavoro che precede la lezione - consente al docente di progettare nell’ottica della personalizzazione, necessaria in classi eterogenee come quelle attuali. Tale modalità di lavoro è facilitata dall’ambiente digitale e punta all’inclusione di tutti gli studenti nella proposta didattica.

     

     

    A scuola

      

    All'inizio della lezione il  gruppo classe era quindi  variamente informato. Avevo già guardato i loro lavori a casa,  perciò ho fatto una breve raccolta di dubbi o impressioni e poi ho preso  la parola per fare quello che nel metodo EAS  viene definito Framework. Qui il docente crea - in venti minuti - una cornice in cui include gli elementi più importanti ripresi dai materiali dati a casa e aggiunge informazioni, riflessioni e spunti per svolgere l’attività in classe.  Aver già fatto il lavoro a casa determina un coinvolgimento immediato.

     

    Ho scelto questa volta di fare una lezione narrativa, con il libro in mano sul libro. In effetti non lo faccio sempre, perché penso che anche le versioni digitali del libro siano il libro stesso: la carta o i pixel sono soltanto il supporto. In questa lezione, però, ho portato il libro. Quando lo faccio, quasi sempre qualcuno me lo  chiede  in prestito.
    Aggiungo anche che so, perché ne abbiamo già parlato, che la maggior parte dei miei studenti, come quasi tutti gli adolescenti, vorrebbero visitare Auschwitz (qualcuno lo ha già fatto) e guardano con grande interesse al periodo del fascismo e del nazismo. Conoscono anche un buon numero di film.

     

     

    Il Framework

     

     

    Fig. 5 Il portale del sito memoriale di Auschwitz

     

    Come sempre capita nel nostro lavoro  più tempo del previsto è stato occupato dalla raccolta dei dubbi sul lavoro a casa e anche sullo spettacolo. Ho comunque ascoltato e risposto.
    Essendosi  ridotto il tempo per la mia lezione,  ho deciso di proiettare una sorta di scaletta in cui avevo inserito gli aspetti di cui avrei voluto parlare, mettendo in grassetto le parole chiave. Ho capito che non avrei potuto toccare tutti quei temi e ho chiesto agli studenti di dirmi quali aspetti sembravano loro più interessanti. Ho ragionato su quelli e ho letto le parti corrispondenti del libro di Cywińsky. Questa scaletta può essere usata anche come guida per la lettura del libro o come spunto per cercare, al suo interno, i temi relativi alla Shoah.


    Ecco la scaletta:

     

    1.La foto in copertina. E’ Zeilek, ha nove anni, la foto lo ritrae appena arrivato a Auschwitz, un attimo prima di essere mandato a morte. E’ nell’Album Auschwitz  ed è il fratello di Lili Jacob che ha trovato l’Album. Oggi è il logo del museo (p.29).


    2. Il genere letterario. “ Questo libro, che mi sono impegnato a scrivere principalmente perché me l’hanno chiesto alcuni amici e che è stato scritto la sera tardi, nelle rare vacanze e talvolta nelle assenze per malattia, è una raccolta di considerazioni soggettive e di osservazioni –qualche volta molto personali sul Luogo che sommerge, del quale non si può essere all’altezza, e che non si potrà mai comprendere del tutto C’è un tono quasi di riflessione tra sé, che rende la lettura interessante e piena di porte di che si aprono, è un testo soggettivo ma ricco di informazioni storiche, traspare la preoccupazione di Cywiṅski di fornire alcune prove di quello che scrive ma anche una ricerca di approvazione. Sta facendo quello che è giusto per conservare Auschwitz (p.27).


    3. Il percorso di memoria dagli oggetti alle persone (p.29)


    4. Come avere sempre la percezione che in Auschwitz ci sono state le persone: Cywiṅski risponde personalmente a chi chiede informazioni sui propri parenti (p.35-36).


    5. Il tema dell’indifferenza umana: dove erano tutti gli uomini mentre il nazismo attuava la soluzione finale? Dove siamo noi oggi di fronte alla distruzione della città di Aleppo? Per questa ragione C. ritiene che la storia di Anne Frank abbia in sé un modello educativo sbagliato: era una vittima, non aveva chance, nessuno poteva salvarle o proteggerla, nemmeno la sua famiglia. Non è un modello in cui identificarsi (pp. 70-73). Ai giovani bisogna dare un modello attivo: siamo proprio sicuri che di fronte alle tragedie contemporanee non possiamo fare niente, un ragazzo polacco che sentiva le urla di Auschwitz poteva gettare un pezzo di pane oltre il filo spinato ?


    6. Il luoghi del crimine. Le lapidi di Treblinka, Chelmo e Sobibor e l’architettura del sito di Auschwitz, dove molto è rimasto (p. 38).
    7. Che cos’è il Museo oggi? Un museo, un memoriale, un cimitero, un sito memoriale? No, la parola per definirlo è Auschwitz: racchiude tutto. (p. 39).


    8. Archeologia del campo: la stella di David (p.42)


    9. Esiste un luogo che rappresenti l’intera Auschwitz? Auschwitz è Pars pro toto (50-51).


    10. C.osserva le ragazze e i ragazzi che entrano: rumoreggiano, chiacchierano tra loro ma escono in silenzio. Non ritiene di dover riprendere chi all’inizio sembra non rendersi conto di dove si trova. Sa che, tutti, escono diversi da come sono entrati. Sanno che entrano per vedere conoscere capire ma non sanno come escono (p.46).


    11. A Auschwitz ci sono più sopravvissuti che negli altri campi: era luogo di lavoro schiavo e centro di sterminio. Auschwitz ha una forma ancora decifrabile (p. 54)


    12. Come far comprendere oggi Auschwitz a livello simbolico. L'autore mette al centro della narrazione la struttura. La narrazione della memoria coincide con il luogo. Un luogo per molto tempo narrato dai sopravvissuti. Oggi non ci sono più ma le loro testimonianze rimangono. C’è un sostegno reciproco tra parole e il luogo. Sono un tutt’uno. Auschwitz non può rispecchiare una narrazione decisa a tavolino, un progetto educativo. Una narrazione così andrebbe oltre e Auschwitz perderebbe il suo significato universale (p.58-61).


    13. Dialogo e ed empatia: o senti il dolore o non lo senti. Punto e basta (p.68).


    14. Perché così tante persone visitano Auschwitz oggi? Perchè è un luogo di autenticità. L’autenticità è il paradigma di ogni sito memoriale e consente di vivere, non di visitare Auschwitz. Per questa ragione non devono esserci aggiunte narrative di tipo multimediale. Oggetti e strutture dicono tutto quello che si può dire. C. dunque propende per una conservazione minimalista, che mantenga quello che c’è e, pur prendendo in esame, i consigli di cambiamento che riceve, rimane fermo sul mantenimento di quello che c’è, almeno per quanto è possibile (p. 64).


    15. Il tempo ha un effetto catastrofico sul sito di Auschwitz, sui più di 150 edifici, qualcosa come 300 rovine, oltre 100000 scarpe, chilometri di recinzione di filo spinato ecc. Il restauro deve mantenere leggibile il luogo, sostituendo le parti che il tempo rovina.
    16. Passeggiare nel campo per percepirlo. Cogliere il contrasto con la vita normale che scorre incontro. Vedere la diversità delle stagioni. La passeggiata è un’esperienza di passaggio (pp.76-77).


    17. Spesso chi visita Auschwitz, soprattutto se è adolescente, domanda alla guida perché, nel percorso che va dalla Judenrampe alle camere a gas nessuno provava, almeno a scappare. Gli alleati dei nazisti erano: la famiglia e la speranza (pp.82-84 e conclusione a p. 87): tenere unite le famiglie e alimentare la speranza di essere trasferiti in campi di lavoro.


    18. Quante persone lavoravano a Auschwitz? C’erano 70.000 persone libere: soltanto 1600 furono processate dopo la guerra (89-90).


    19. Come si diventava SS (p.93).


    20. La Shoah dei bambini (pp. 98-101).


    21. Questo luogo non può essere normalizzato (pp.107-108)


    22. La responsabilità di Dio. Qui C. risponde da cattolico: “Perché l’uomo ha permesso che questo accadesse? (p.105).


    23. Di che cosa è memoria Auschwitz? La memoria “E’ la base e il compito di questo luogo”. Degli eventi, delle sofferenza, della morte, delle vittime, di tutti quelli che c’erano, dei sopravvissuti, dei carnefici e del loro odio ma anche dell’eroismo di alcuni (p.114).


    24. Perché è stato così difficile ricordare Auschwitz?Finché non sono cambiate le generazioni il senso della condivisione della colpa ha mantenuto il silenzio (p.116).

    25 Consapevolezza. “La memoria deve essere al servizio della consapevolezza e la consapevolezza deve essere costruita sulla memoria. Ed è qui che in genere il compito diventa molto più difficile. Provare a far capire ai giovani cosa significa che quasi un intero popolo è stato assassinato in Europa, e che in più si tratta del popolo che diede all’Europa cristiana le sue fondamenta, è immensamente problematico” (p.120).


    26 A Auschwitz l’Europa ha perso se stessa e le basi culturali, religiose, politiche su cui si fondava. Deve essere ripensata (p.122).


    27. Che cosa posso fare io? La responsabilità: “Oggi coloro che visitano Auschwitz provano a capire come si è arrivati a quest’inferno in terra, questo anus mundi. Maledicono chiunque non sia riuscito a fare tutto il possibile per impedire che accadesse, per opporsi. Camminando tra le recinzioni di filo spinato, si sentono vicini alle vittime. Vedendo le torrette di guardia tremano per l’empatia. A volte piangono, e non si può dubitare che le loro lacrime siano sincere. E poi tornano a casa (124).

     

     

    Il videostimolo

     

     

    fig. 6 Shoah, animazione di Giuliano Parodi. (link)

     

    In un EAS  al termine della parte del docente c’è sempre un videostimolo che  serve a introdurre elementi meno argomentativi e esplicativi,  più legati al piano emotivo.  Il videostimolo è uno stacco tra la prima e la seconda parte della lezione, predispone allo svolgimento della fase successiva.
    Per questa lezione e per questa occasione ho scelto Shoah , un video di animazione di Giuliano Parodi , che ho visto nella pagina Facebook di Enrica Ena, una collega della scuola primaria che lavora, facendo attività didattiche molto significative e profonde, con il metodo EAS ( link).

     

     

     L'attività in classe

      

    Il metodo EAS  richiede  che a questa fase, detta “operatoria”, si dedichi almeno un’ora.

    Per le classi digitali (che usano dispositivi propri o della scuola) ho previsto queste attività.

    1. Scaricate le prime pagine del libro di Cywińsky, usando l’applicazione Kindle. Leggete e individuate che cosa succede il 17 dicembre 1942. Sono tre fatti storici e simbolici. A quali considerazioni rimandano?

    2. Scrivete in poche righe alcune considerazioni sulle attività svolte fino qui.


    3. Immaginate di poter intervistare Cywińsky. Che cosa gli chiedereste?


    4. Esplorate il sito del memoriale di Auschwitz, individuare le fonti storiche o immagini del campo, sceglierne alcune e commentarle sceglierne alcune (link). Per questa attività si possono usare le seguenti app: Skitch, Thinglink.

     Se un docente decidesse di realizzare  questo EAS,  potrebbe sceglierne una da questo elenco, in base alla classe, al tempo e agli strumenti che ha. Il lavoro può essere fatto singolarmente o in piccolo gruppo. Quello che è importante è proporre un'attività realizzabile nel tempo previsto e che consenta agli studenti di aumentare le informazioni e la consapevolezza rispetto a tema tin questione.. 

     

     

    La discussione

     

     Al termine dell’attività, ho riproiettato il trailer di Austerlitz,il documentario girato con camera fissa che per un'intera giornata ha ripreso i visitatori, perlopiù giovani e per lo più distratti e rumorosi. Poi ho chiesto quanti dalla loro frequentazione dei social conoscevano il sito Yolocaust.de. (pochi). Abbiamo visitato il sito e visto i pochi fotomontaggi rimasti. 

    Ho sollecitato i loro commenti e le loro reazioni. La discussione è stata animata. Qualcuno ha osservato che il selfie si fa per ricordare dove si è stati. Ho cercato di arginare una deriva moralistica, sempre dietro l’angolo ("Io no lo farei mai!).  

     

    Questioni storiche, didattiche, di memoria

     

     Questo modello didattico, attraverso lo svolgimento delle sue parti, porta lo studente a apprendere in situazioni diverse: lavora guidato ma in autonomia a casa, a scuola ascolta il docente e si impegna  in attività di rielaborazione o creative. Infine ha uno spazio per la riflessione.

     

     Inoltre, come in questo caso, può condurre gli studenti nel vivo di un dibattito e può aiutare a capire che il giorno della Memoria non è un vuoto rituale, che parlare della Shoah interpella il nostro essere cittadini e coinvolge anche il mondo dei social che loro abitano o le loro abitudini, come fotografarsi continuamente. La Shoah è una questione di storia, di memoria e di empatia. Un’empatia che deve essere anche verso il mondo di oggi. E' un tema vivente.

     

     

    Piccola avvertenza finale

      

    L’EAS Non è la fine può essere realizzata per intero, se ne possono prendere delle parti o semplicemente modificarla.  
    Ho analizzato e approfondito il metodo EAS in ambito storico nel mio libro Fare storia con gli EAS. A lezione di Mediterraneo, Brescia, Morcelliana- Els, 2016, pp.188 dove suggerisco anche strumenti per il lavoro didattico e luoghi in cui reperire contenuti digitali.

     

      

    Riferimenti bibliografici

      

    PC. Rivoltella, Che cos’è un EAS. L’idea, il metodo, la didattica, Brescia, La Scuola, 2016
    A.Brusa, La terra di nessuno fra storia, memoria e insegnamento della storia. Didattica e non didattica della Shoah, in Popshoah, a cura di F.R. Recchia Luciani e C. Vercelli, Genova, Il Melangolo, 2016
    A. Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2011
    E. Traverso. Il passato:istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, Verona, Ombre Corte, 2006

     

     

    Siti web

     

    Memoriale Auschwitz

    Cremit(Centro di ricerva per i media, l'informazione e la tecnologia), Milano, Università Cattolica

    Deina, associazione viaggi  per i viaggi di memoria

     

  • Passato e presente negli attacchi ai monumenti sull'onda del Black Lives Matter

    di Daniele Boschi

    La statua di Albert Pike in Washington D.C. ancora in piedi sul suo piedistallo di granito, dal quale è stata rovesciata lo scorso 19 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Pike_Statue,_Washington_DC_.jpgLa statua di Albert Pike in Washington D.C. ancora in piedi sul suo piedistallo di granito, dal quale è stata rovesciata lo scorso 19 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Pike_Statue,_Washington_DC_.jpg

    Nella Judiciary Square in Washington D.C., a circa mezzo miglio dal Campidoglio, una statua di bronzo alta più di tre metri raffigurava Albert Pike, poeta, giurista, massone e ufficiale dell’esercito degli Stati Confederati durante la guerra civile americana (1861-65). Lo scorso 19 giugno un gruppo di dimostranti ha abbattuto questa statua e le ha dato fuoco, cantando “No justice, no peace, no racist police”. Negli Stati Uniti il 19 giugno, Juneteenth, è una giornata dedicata alla celebrazione dell’emancipazione dalla schiavitù e quest’anno è stata un’occasione per rinnovare le proteste contro il razzismo, divampate a seguito dell’uccisione dell’afro-americano George Floyd, avvenuta a Minneapolis lo scorso 25 maggio.   

    Quella di Albert Pike è soltanto una delle numerose statue abbattute o rimosse nelle ultime settimane sull’onda del movimento Black Lives Matter, che dagli Usa si è propagato anche al di qua dell’Atlantico. Un po’ dappertutto gli attivisti del movimento hanno preso di mira statue e monumenti che celebrano o rievocano personaggi e fatti in qualche modo collegati alla storia della schiavitù, del razzismo e del colonialismo.

    In questo articolo racconto alcuni episodi e le reazioni che hanno suscitato. In un prossimo articolo analizzerò i commenti apparsi sui quotidiani e sul web, anche alla luce delle riflessioni che da diversi anni gli storici e gli esperti di public history hanno sviluppato riguardo all’uso degli spazi pubblici per commemorare personaggi ed eventi del passato, e alle controversie che quest’uso può generare. Antonio Prampolini sta preparando una sitografia completa su questo argomento, in attesa della quale si può consultare questo elenco provvisorio.

    L’attacco alle statue dei Confederati

    Oltre alla statua di Albert Pike, molti altri monumenti che rievocano la lotta dei Confederati contro gli stati dell’Unione durante la guerra civile americana sono stati attaccati o rimossi negli USA nelle ultime settimane.

    Ad esempio, il 1° giugno una statua del generale Robert E. Lee è stata buttata giù davanti alla High School di Montgomery (Alabama) a lui intitolata. Poche ore prima, Steven Reed, primo sindaco nero della città, aveva parlato a una folla eccitata davanti alla scuola elementare dedicata a E. D. Nixon, uno dei principali organizzatori del famoso Montgomery Bus Boycott (1955-56), durante il quale gli afroamericani avevano rifiutato di usare i bus urbani. Reed aveva detto di condividere la rabbia e il desiderio di cambiamento dei propri concittadini, ma li aveva invitati alla calma. Non tutti però hanno seguito il suo consiglio e quattro persone sono state arrestate dopo l’abbattimento della statua.

    Il 10 giugno a Richmond in Virginia una folla di dimostranti ha abbattuto la statua di Jefferson Davis, presidente della Confederazione. Il giorno seguente il sindaco Levar Stoney ha commentato questo evento in un tweetcon le seguenti parole: "Jefferson Davis era un razzista e un traditore che fuggì dalla nostra città mentre le sue truppe eseguivano l’ordine di incendiarla e raderla al suolo. Non ha mai meritato di stare sopra quel piedistallo” [1].  E ha preannunciato la rimozione di altri simili monumenti.

    In molti casi sono stati, in effetti, i sindaci o altre autorità locali a ordinare lo smantellamento dei monumenti. Lo hanno fatto per manifestare la propria adesione alla protesta antirazzista, oppure per prevenire disordini o incidenti (o per entrambe le ragioni). Ad esempio, Greg Fischer, sindaco di Louisville nel Kentucky, ha fatto rimuovere la statua a cavallo di John B. Castleman, un personaggio controverso, poiché dapprima combatté nell’esercito dei Confederati, dove raggiunse il grado di maggiore, ma poi espresse ammirazione per Abramo Lincoln e si schierò contro l’esclusione degli afro-americani dai parchi cittadini. Fischer aveva tentato già l’anno scorso di arrivare alla rimozione della statua, ma senza successo; il suo operato è stato contestato da diverse associazioni locali e una controversia legale è tuttora in atto.

    L'offensiva si allarga

    Rimanendo per ora negli Stati Uniti, occorre aggiungere che l’attacco alle statue e ai monumenti si è allargato in queste ultime settimane fino a toccare anche personaggi storici di ben altro rilievo rispetto ai più o meno celebri generali e ufficiali dell’esercito confederato.

    A Portland, nell’Oregon, sono state abbattute le statue di Thomas Jefferson e di George Washington, entrambi proprietari di schiavi, come è ben noto.

    Nel Golden Gate Park di San Francisco è stata rovesciata la statua di Ulysses S. Grant, comandante dell’esercito che sconfisse i Confederati nel 1865 e poi presidente degli Stati Uniti. Grant è ritenuto colpevole di aver sposato una donna proveniente da una famiglia di proprietari di schiavi e di aver diretto personalmente il lavoro di questi schiavi in una piantagione nel Missouri. Egli stesso inoltre fu proprietario di uno schiavo, che liberò nel 1859.

    Sempre nel Golden Gate Park, insieme alla statua di Grant, è stata buttata giù anche quella di Francis Scott Key (1779-1843), l’autore dell’inno nazionale statunitense, “The Star-Spangled Banner”. L’accusa nei suoi confronti non è solo quella di aver posseduto schiavi, ma anche di aver utilizzato il suo ruolo di procuratore di distretto in Washington D.C. per ridurre al silenzio i fautori della causa abolizionista.

    Infine, il Museo di Storia Naturale di New York ha deciso di rimuovere la statua di Theodore Roosevelt, che finora troneggiava davanti all’ingresso del Museo. La statua mostra il 26° presidente degli Stati Uniti a cavallo e accanto a lui, a piedi, un nativo americano e un africano. Lo stesso pronipote del Presidente, Theodore Roosevelt IV, si è detto d’accordo con la decisione: «Il mondo non ha bisogno di statue, relitti di un’altra era, che non riflettono né le virtù della persona che intendono onorare, né i valori di uguaglianza e giustizia. Questa composizione equestre non riflette l’eredità di Theodore Roosevelt. È tempo di rimuoverla e andare avanti». Ma il presidente Donald Trump ha twittato: «Ridicolo, non fatelo!».

    "Colombo rappresenta il genocidio"

    Se l’attacco ai monumenti di personaggi più o meno illustri della storia degli USA potrebbe lasciarci abbastanza indifferenti qui in Italia, le cose stanno forse in modo un po’ diverso quando ad esser sotto tiro sono le statue dedicate al nostro Cristoforo Colombo, accusato di essere stato un colonizzatore e uno sterminatore dei nativi americani. Anche con lui se la sono presa gli attivisti del movimento Black Lives Matter nelle ultime settimane.

    Il primo episodio, riportato anche dai quotidiani italiani[2], è avvenuto a Richmond in Virginia, dove il 9 giugno, in un parco cittadino, la statua alta due metri e mezzo del navigatore genovese è stata abbattuta, bruciata e trascinata fino a un vicino laghetto, dove è stata gettata. Il piedistallo è stato imbrattato con le scritte "questa terra è dei Powhatan", il nome della popolazione nativa della Virginia, e "Colombo rappresenta il genocidio".

    Immagine 2 ColomboLa statua di Cristoforo Colombo che si ergeva presso il Minnesota State Capitol, buttata giù dai dimostranti lo scorso 10 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Christopher_Columbus_Statue_Torn_Down_at_Minnesota_State_Capitol_on_June_10,_2020.jpgStatue di Colombo sono state sfregiate, abbattute o rimosse anche a Saint Paul nel Minnesota, a Boston , a Camden nel New Jersey, a Houston nel Texas, a San Francisco e in diverse altre città. Un caso particolare è quello del Congresso della California, che ha deciso di rimuovere dalla propria sede le statue di Cristoforo Colombo e della regina Isabella di Castiglia.

    Anche se queste iniziative sono state prese sull’onda delle proteste del Black Lives Matter, in molti casi esse sono anche il risultato delle lotte portate avanti da molti anni dalle associazioni dei nativi americani. Anzi, a Saint Paul nel Minnesota è stato l’ “American Indian Movement” ad organizzare l’attacco alla statua di Colombo, dopo anni di inutili trattative con le autorità locali.

    Su un altro fronte, questi eventi hanno suscitato la reazione del “Movimento Associativo degli Italiani all’Estero” (MAIE), il cui presidente, Ricardo Merlo, è attualmente sottosegretario agli Esteri nel governo Conte. Merlo ha dichiarato che “gli attacchi alle statue di Cristoforo Colombo sono atti vili e scellerati” ed ha aggiunto che “pensare oggi di rivedere la storia è anacronistico, inutile, sbagliato”.

    Abbattimenti e rimozioni di statue in Gran Bretagna

    Come è noto, le proteste del Black Lives Matter si sono propagate dagli USA all’Europa. E anche da questa parte dell’Atlantico alcune statue, considerate come simboli del razzismo e del colonialismo, sono state abbattute o rimosse.

    Il piedistallo vuoto della statua di Edward Colston a Bristol, abbattuta lo scorso 7 giugno durante le proteste del “Black Live Matters”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Edward_Colston_-_empty_pedestal.jpgIl piedistallo vuoto della statua di Edward Colston a Bristol, abbattuta lo scorso 7 giugno durante le proteste del “Black Live Matters”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Edward_Colston_-_empty_pedestal.jpg

    Cominciamo dall’Inghilterra. Lo scorso 7 giugno a Bristol, nel corso di una manifestazione antirazzista, la statua di Edward Colston (1636-1721), membro della Royal African Company e mercante di schiavi, è stata abbattuta, trascinata per le strade della città e gettata nelle acque del porto. Il giorno seguente, l’evento è stato stigmatizzato dal portavoce del Primo ministro Boris Johnson, che ha dichiarato: “I cittadini possono fare campagne per la rimozione di una statua, ma quello che è accaduto ieri è un’azione criminale … Il Primo ministro comprende appieno l’intensità dei sentimenti, ma in questo paese risolviamo le controversie in modo democratico e se si vuole la rimozione della statua ci sono procedure democratiche che si possono seguire”.

    Invece il sindaco di Bristol Marvin Rees, primo sindaco nero del Regno Unito[3], ha mostrato comprensione per i dimostranti e ha dichiarato: “Penso che la situazione era arrivata a un punto critico e la gente sentiva che la statua doveva essere buttata giù … Non posso fingere e non fingerò che la statua di un mercante di schiavi nella città in cui sono nato e cresciuto non fosse un oltraggio per me e per le persone come me”.

    Le “procedure democratiche” sono state invece rispettate a Oxford, dove sulla scia del Black Lives Matter è ripresa la campagna per la rimozione della statua di Cecil Rhodes dalla facciata dell’Oriel College. Il movimento Rhodes Must Fall è nato nelle università del Sudafrica nel 2015 e da lì si è esteso alla Gran Bretagna. Nel 2016 l’Oriel College, pur accettando il dialogo con gli studenti, rifiutò di rimuovere la statua[4]. Ora sembra che le cose siano cambiate, dato che lo scorso 17 giugno l’organo direttivo del College ha votato a favore della rimozione della statua e per l’istituzione di una commissione che si occuperà del tema dell’eredità di Rhodes e del modo di migliorare la condizione degli studenti e dei dipendenti del College appartenenti alle minoranze etniche. 

    Un’altra statua presa di mira è stata quella del mercante di schiavi Robert Milligan (1746-1809) nella East London. Oltre tremila persone hanno firmato una petizione per la sua rimozione e lunedì 8 giugno la statua è stata ricoperta con cartelli recanti la scritta “Black Lives Matter”. Il giorno successivo la statua è stata rimossa per decisione delle autorità locali.

    Ancora più significativo è il fatto che il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha annunciato l’istituzione di una commissione che riesaminerà tutti i “landmarks” della capitale del Regno Unito. A questo proposito Kahn ha dichiarato che “le differenze all’interno della nostra capitale sono la nostra forza più grande, eppure le nostre statue, i nomi delle strade e gli spazi pubblici riflettono un’era passata. E’ una verità scomoda che la nostra nazione e la nostra città debbano una larga parte della loro ricchezza al ruolo che hanno avuto nel commercio degli schiavi e mentre questo è ben riflesso nella nostra sfera pubblica, il contributo di molte nostre comunità alla vita della capitale è stato volontariamente ignorato. Questo non può continuare”. 

    Tuttavia, come è accaduto negli Stati Uniti, anche in Inghilterra l’attacco alle statue non ha preso come bersaglio soltanto i simboli più ovvi del passato coloniale e razzista del paese. Come è stato riportato da tutti i principali media, il 7 giugno a Londra, in margine alle manifestazioni del Black Lives Matter, qualcuno ha imbrattato la statua di Winston Churchillin Parliament Square, scrivendoci sopra le parole “era un razzista”. La sera stessa, un giovane dal volto coperto avrebbe detto a un reporter della BBC di esser stato lui l’autore di quella scritta, motivando così il suo gesto: “Ho etichettato così la statua di Churchill perché lui era un razzista incallito. Ha combattuto i nazisti per proteggere il Commonwealth dall’invasione – non lo ha fatto per i neri, né per la gente di colore, né per alcun altro popolo. Lo ha fatto soltanto per il colonialismo. La gente si arrabbierà – ma io sono arrabbiato per il fatto che per tanti anni noi siamo stati oppressi”.

    Il caso del Belgio e del re Leopoldo II

    In Belgio, all’inizio di giugno, diverse statue del re Leopoldo II (1835-1909) sono state deturpate; ad Anversa una statua del monarca è stata prima vandalizzata e poi rimossa.

    La statua del re Leopoldo II del Belgio in Place du Trône a Bruxelles. Una petizione ne ha chiesto la rimozione. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leopold_II_Statue_at_Place_du_Tr%C3%B4ne_-_panoramio.jpgLa statua del re Leopoldo II del Belgio in Place du Trône a Bruxelles. Una petizione ne ha chiesto la rimozione. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leopold_II_Statue_at_Place_du_Tr%C3%B4ne_-_panoramio.jpg

    Parallelamente il movimento Reparons l’Histoire ha rivolto al comune di Bruxelles una petizione per chiedere la rimozione di tutte le statue di Leopoldo II dal territorio cittadino, a cominciare da quella sulla place du Trône.

    Come è noto, Leopoldo II ricevette nel 1885 dal Congresso di Berlino la sovranità sullo “Stato libero del Congo”, che governò e sfruttò come un suo possedimento privato fino al 1908. Nella petizione si legge questa descrizione del monarca:

    “Riconosciuto come un ‘re costruttore’ e non come un ‘re sterminatore’. Un eroe per alcuni ma anche un carnefice per un grande popolo. Nell’arco di 23 anni quest’uomo ha ucciso più di dieci milioni di congolesi, senza aver messo mai piede in Congo. Per 23 anni utilizzò il popolo congolese come un mero strumento per la produzione della gomma, un prodotto altamente richiesto a quell’epoca. Le persone che vivevano nelle regioni dove si produceva la gomma erano oppresse da un enorme carico di lavoro, a volte persino disumano”.

    La petizione, che alla data del 1° luglio era stata firmata da oltre ottantamila persone, indicava come termine ultimo per la rimozione delle statue il 30 giugno 2020, giorno in cui è caduto il sessantesimo anniversario dell’indipendenza della Repubblica Democratica del Congo. Un’altra petizione, che chiede al contrario di mantenere in piedi le statue, ha raggiunto alla stessa data oltre ventimila firme.

    Per il momento, le statue di Leopoldo II non sono state rimosse. Ma il 30 giugno, per la prima volta, il re del Belgio Filippo ha espresso il proprio rincrescimento per gli atti di violenza e le sofferenze inflitte dai belgi ai congolesi durante il periodo coloniale. Lo ha fatto con una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, nella quale ha anche riconosciuto che il dolore per queste ferite del passato è ravvivato dalle discriminazioni ancora oggi troppo presenti nella società belga.

    "La Francia non abbatterà alcuna statua"

    Per quanto riguarda la Francia, occorre anzitutto ricordare un episodio avvenuto poco prima che si scatenasse il movimento Black Lives Matter. Il 22 maggio scorso a Fort-de-France e a Schœlcher, nel dipartimento francese d’oltremare della Martinica, alcuni manifestanti hanno abbattuto due statue di Victor Schœlcher, l’uomo che scrisse il decreto col quale il governo francese abolì la schiavitù in tutte le sue colonie il 27 aprile 1848. A quanto pare, l’accusa contro Schœlcher è di aver indennizzato lautamente gli schiavisti e di aver oscurato con la sua fama i protagonisti locali della lotta contro la schiavitù.

    Successivamente, dopo l’esplosione delle proteste antirazziste a Parigi e in altre città, il Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, in un discorso pronunciato domenica 14 giugno, ha messo in guardia contro il rischio che la “nobile battaglia” contro il razzismo degeneri in “comunitarismo” e ha preso una posizione molto ferma contro gli attacchi ai monumenti. Ha dichiarato infatti che la Francia “non cancellerà alcuna traccia o nome della sua storia, non abbatterà nessuna statua”.

    Ma questo intervento non ha impedito che diversi monumenti venissero presi di mira nei giorni seguenti. Giovedì 18 giugno, a Parigi, alcuni militanti antirazzisti hanno posto un drappo nero sulla statua del generale Joseph-Simon Gallieni, eroe della prima guerra mondiale, ma anche ispiratore della dura repressione della resistenza della popolazione del Madagascar al dominio coloniale francese (quando fu governatore dell’isola dal 1896 al 1905).

    Qualche giorno dopo, le statue del filosofo illuminista Voltaire – che trasse profitti dal commercio degli schiavi – e del generale e amministratore coloniale Hubert Lyautey (1854-1934) sono state imbrattate con vernice rossa.

    Infine, sempre a Parigi, la statua di Jean-Baptiste Colbert, che si trova davanti all’Assemblea nazionale, è stata cosparsa di vernice rossa e sul suo piedistallo è apparsa la scritta “negrofobia di stato”. Come tutti sanno, Colbert fu ministro di Luigi XIV, ed ebbe un ruolo fondamentale nella riorganizzazione amministrativa, giudiziaria e soprattutto finanziaria dello Stato francese, realizzata negli anni del “Re Sole”; meno noto è il fatto che Colbert fu anche l’ispiratore del «Code Noir», un decreto emanato nel 1685 (due anni dopo la sua morte), che regolamentava la condizione degli schiavi nell’impero coloniale francese.

    James Cook "simbolo del colonialismo e del genocidio" degli aborigeni australiani

    All’altro capo del mondo, in Australia, è stato naturalmente il grande navigatore inglese James Cook (1728-1779) a divenire bersaglio di polemiche.

    Due statue di Cook sono state deturpate a Sidney e una petizione che chiede la rimozione della statua dell’esploratore inglese a Cairns ha raccolto oltre dodicimila firme.

    La petizione si apre con queste parole: “Dal 1972 la statua di James Cook in Sheridan Street si erge come simbolo del colonialismo e del genocidio. E’ uno schiaffo in faccia a tutti i nativi. Per noi rappresenta le spoliazioni, le migrazioni forzate, la schiavitù, il genocidio, il furto delle nostre terre, e la perdita della nostra cultura – insieme a molte altre cose”.

    Il Primo ministro australiano, Scott Morrison, ha difeso Cook e l’eredità del colonialismo, dicendo che l’Australia era un tempo un paese “alquanto brutale”, ma non c’era la schiavitù. Questa affermazione ha scatenato un coro di critiche: in molti hanno ricordato che la schiavitù, o quantomeno il lavoro forzato, furono praticati anche in Australia e nelle isole del Pacifico. E il Primo ministro si è visto costretto a fare marcia indietro:ha chiesto scusa e ha ammesso che i nativi australiani furono spesso trattati in modo crudele.

    Milano chiama Roma: dalla statua di Montanelli alla via dell'Amba Aradam

    Infine, echi del Black Lives Matter sono arrivati anche in Italia, e pure da noi non è mancato qualche episodio di contestazione relativo a statue e nomi di strade.

    A Milano i “Sentinelli”[4] hanno chiesto di cambiare l’intitolazione dei giardini dedicati a Indro Montanelli  e di rimuovere la statua del giornalista che si trova nello stesso parco. Con la seguente motivazione: ‘Montanelli ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale’. Qualche giorno dopo la statua è stata imbrattata  di vernice rossa e sul suo basamento sono comparse le scritte “razzista, stupratore”. Il gesto è stato rivendicato dal gruppo “Rete Studenti Milano” e dal “LuMe” (Laboratorio universitario Metropolitano). Vale la pena ricordare che la statua di Montanelli era già stata imbrattata l’8 marzo del 2019, quella volta con vernice rosa lavabile, per mano di attiviste del movimento femminista “Non Una Di Meno”.

    Il monumento a Indro Montanelli nei Giardini Pubblici a lui dedicati vicino Porta Venezia a Milano. Lo scorso 13 giugno la statua è stata imbrattata con vernice rossa. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Monumento_a_Indro_Montanelli_Giardini_Pubblici_P.ta_Venezia.jpgIl monumento a Indro Montanelli nei Giardini Pubblici a lui dedicati vicino Porta Venezia a Milano. Lo scorso 13 giugno la statua è stata imbrattata con vernice rossa. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Monumento_a_Indro_Montanelli_Giardini_Pubblici_P.ta_Venezia.jpg

    L’atto di accusa dei detrattori di Montanelli si riferisce a fatti ben noti perché raccontati più volte da lui stesso. Quando arrivò in Africa nel 1935 come comandante di compagnia del XX Battaglione Eritreo, formato da ascari, Montanelli, che aveva allora 26 anni, prese come compagna un’adolescente abissina, secondo la tradizione locale. La ragazzina si chiamava Destà. «Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi ovunque mi trovassi, in quella terra senza strade né carte topografiche»[5].

    Alla medesima volontà di “decolonizzare” gli spazi pubblici si ricollegano due episodi avvenuti a Roma. Nella notte tra il 18 e il 19 giugno alcuni attivisti della “Rete Restiamo umani” hanno affisso cartelli con i nomi di George Floyd e Bilal Ben Messaud[6] sulle targhe toponomastiche di via dell'Amba Aradam, nome di un massiccio montuoso a nord di Addis Abeba, dove nel 1936 le truppe del maresciallo Badoglio sconfissero l'esercito etiope in una cruenta battaglia, nella quale gli italiani fecero uso anche di gas asfissianti. La stessa notte al Pincio è stata imbrattata la statua del generale Antonio Baldissera, che fu a capo delle truppe italiane in Eritrea dal 1887 al 1889[7]. Anche questa seconda azione è stata rivendicata dalla “Rete Restiamo umani”, che ha spiegato le proprie ragioni in un lungo messaggio su Facebook, che si apre con queste parole:

    “Black Lives Matter: Dagli Stati Uniti alle sponde del Mediterraneo non si fermerà la protesta. In fermo sostegno alle e ai manifestanti che a partire da Minneapolis hanno riempito le piazze di decine di città del mondo per manifestare contro il razzismo strutturale e hanno deposto simboli di un passato coloniale sempre rimosso, iniziamo ora a smantellare i simboli del colonialismo nella Capitale”.

    Conclusione

    Gli attacchi alle statue e ai monumenti di personaggi storici assunti come simboli dello schiavismo, del razzismo e del colonialismo non sono una cosa nuova. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna gli abbattimenti e le rimozioni di queste ultime settimane appaiono spesso come l’esito di campagne avviate da molti anni. Il fatto nuovo è che, sfruttando l’onda delle grandi manifestazioni di protesta suscitate dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, molte statue sono state effettivamente abbattute o rimosse, a volte col plauso delle autorità locali. Inoltre il movimento ha assunto in alcuni casi un’ampiezza tale da invocare – a torto o a ragione - un profondo ripensamento del modo in cui la storia della moderna società occidentale è stata scritta e raccontata finora. Anche per questo motivo gli attacchi alle statue delle ultime settimane sono stati oggetto di molte riflessioni e commenti da parte di opinionisti, editorialisti, e anche di storici, sui quali mi soffermerò in un prossimo articolo, nel quale illustrerò anche le ragioni per cui questo argomento ha un interesse didattico: da un lato, infatti, l’insegnamento della storia non può ignorare i diversi modi in cui questa viene vissuta e raccontata nel presente; dall’altro lato, le controversie intorno ai monumenti dei grandi personaggi del passato sono un’occasione per sviluppare ricerche e dibattiti e per stimolare un approccio critico da parte degli studenti.    

    [1]Le citazioni tratte da articoli in inglese o in francese sono state tradotte in italiano da me.

    [2]Vedi ad esempio
    https://www.repubblica.it/esteri/2020/06/10/news/usa_statue_colombo_abbattute_e_vandalizzate-258873826/?ref=search

    [3]Così lo definisce il "Guardian" nell'articolo citato, precisando che Rees è il primo sindaco nero del Regno Unito eletto direttamente dai suoi concittadini.

    [4]Vedi il mio articolo del 15 luglio 2019 su “Historia ludens”.

    [5]I “Sentinelli” di Milano si autodefiniscono nel loro sito web come “un movimento informale nato tra il serio e il faceto nell’autunno del 2014 che si contrappone a tutti i soprusi, discriminazioni e violenze che colpiscono la vita di molti: dagli omosessuali ai migranti, dalle vittime di stalking alle vittime di razzismo, dalle donne ai malati desiderosi di un fine vita dignitoso”.

    [6]Informazioni e citazione tratte da
    https://www.corriere.it/esteri/20_giugno_11/proteste-statue-nessuno-tolga-montanelli-suoi-giardini-f35060ec-ab4f-11ea-ab2d-35b3b77b559f.shtml.

    [7]Migrante tunisino morto a Porto Empedocle il 20 maggio scorso mentre cercava di raggiungere terra.

    [8]Baldissera fu anche governatore della colonia Eritrea per un breve periodo nel 1896. Su di lui vedi 
    http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-baldissera_(Dizionario-Biografico)/.

  • PopShoah? Immaginari e pratiche di memoria pubblica intorno al genocidio ebraico

    Autore: Claudio Monopoli

     

    Varcata la soglia del settantesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, dieci anni dopo l’istituzione della Giornata mondiale della memoria, diventa un interrogativo imprescindibile chiedersi come insegnare la Shoah, fuori dalla retorica della celebrazione, immersi come siamo nel nuovo universo immaginario del XXI secolo. E’ l’universo dei nati dopo il 2000, pieno di immagini nuove, e in numero infinitamente superiore, di quelle che lo studente degli anni '90 poteva trovarsi ad osservare. L’origine di questo cambiamento sta nel fatto che quell’evento è divenuto oggetto di una possente industria culturale, fatta di libri, film, fiction, social media. Oggi, la Shoah è anche un insieme di immagini e concetti appartenenti alla cultura pop.

    Una ragazza si fa fotografare presso il Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa di Berlino (da un social)

     

    Come insegnare, dunque, la Shoah in questa nuova situazione? Rispondere a questo interrogativo è stato l’obiettivo della quarta edizione del Corso di Storia e Didattica della Shoah dell’Università degli Studi di Bari. “Popshoah? Immaginari e pratiche collettive intorno all’uso pubblico della memoria dello sterminio degli ebrei d’Europa” è il titolo del convegno, organizzato da Francesca Romana Recchia Luciani e Claudio Vercelli, (16 e 17 ottobre 2015), rivolto a docenti e studenti universitari.

    Il suo primo obiettivo è stato quello di delineare le modalità attraverso le quali la Shoah diventa un oggetto culturale di massa. Se prima a questo termine si associavano atmosfere di indicibilità, ora l’evento storico, proprio a causa della sua forte mediatizzazione, è diventato una metafora narrativa o, ancor di più, una semplice ambientazione per trame di libri o film. L’analisi della produzione cinematografica, proposta da Claudio Gaetani, rivela che è addirittura possibile parlare dei format “Holocaust film”, un genere le cui formule narrative sono usate anche in rappresentazioni di altro tipo, come quelle fumettistiche. Come osservato da Recchia Luciani, questa utilizzazione dell’evento storico provoca una perdita del senso del dramma stesso e crea un fertile terreno per la costruzione di ideologie revisioniste o negazioniste.

     La bambina dal cappottino rosso del film Schindler's List.

    Proiezione a cura della Comunità ebraica di Roma presso Largo 16 ottobre, 7 aprile 2013 (inizio del Yom Ha Shoah)

     

    Per un insegnamento rivolto agli studenti di oggi, cronologicamente lontani da quegli eventi, sarebbe necessaria una rappresentazione non spettacolarizzata, attraverso la quale recuperare il senso del dramma reale. Invece, la produzione filmica americana sembra orientarsi in direzione opposta. Ad esempio, l’immagine della bambina dal cappottino rosso, di Schindler’s List (ne ha parlato Damiano Garofalo), diventa un simbolo, soggetto a riprese e citazioni sul web e nelle fiction televisive, ormai privato di ogni collegamento alla tematica della Shoah. Non solo. Tale processo è stato ripetuto ed applicato anche alla figura di Anne Frank, il cui celeberrimo diario viene spesso utilizzato come testo scolastico sul tema. Oltre alla trasformazione in un “quasi-giallo” della famiglia Frank, testimoniata dalle recensioni al sito web della Casa di Anne Frank, le produzioni americane di Broadway e l’adattamento cinematografico di George Stevens, forniscono, secondo Fiorenza Loiacono, una prospettiva edulcorata della storia di Anne Frank, in cui la Shoah diviene sfondo marginale di una storia squisitamente adolescenziale, arricchita da ideologie individualistiche. Un processo di edulcorazione che si esaspera nella “carinizzazione” della figura della povera ragazza ebrea, operata dai manga giapponesi.

    "Carinizzazione" della figura di Anna Frank attraverso il manga giapponese di Megumi Sugihara e Naoko Takase

     

    Se, di fronte ad un tale panorama culturale, la costruzione negli studenti della memoria storica appare necessaria, tuttavia essa non può essere immaginata come un risultato da conseguire tramite il “rito” della celebrazione. La forma della ritualità e della consuetudine, spiega Cristiano Bellei, pone fine alle domande e moltiplica, in realtà, le banalizzazioni sul tema; così, ad esempio, per uno studente l’ “ebreo” può divenire sinonimo di “perseguitato”, al di fuori di ogni comprensione ed interrogativo circa le reali origini della persecuzione stessa.

    E’ necessario trovare e percorrere quella che Natascia Mattucci definisce la stretta strada che intercorre fra banalizzazione e sacralizzazione, per ricostruire una percezione lontana sia dai miti di indicibilità sia dalle spettacolarizzazioni. E’ un obiettivo che può essere ottenuto, se seguiamo il lavoro di Raffaella Di Castro, ascoltando le testimonianze dei parenti delle vittime della Shoah: testimoni di “secondo livello”, nati fra gli anni '60 e '80, le cui storie oscillano fra una voglia di apertura pubblica delle storie familiari e la necessità di custodirle nella dimensione privata.

    Il punto fondamentale, che occorre necessariamente tener presente per l’insegnamento della Shoah, è la “presentificazione” dell’evento storico. A partire da questo fenomeno, Claudio Vercelli invita i docenti a prendere coscienza, insieme agli studenti, sia delle costruzioni politiche operate sul concetto di Shoah, che includono anche contrapposizioni puramente dialettiche fra foibe e lager, sia dell'utilizzo decontestualizzato di immagini e concetti sul tema negli ormai diffusissimi social network. Come illustrato da Antonio Brusa, il compito del docente è quello di aiutare gli studenti a formarsi una coscienza storica. Questa è il frutto della rielaborazione delle conoscenze storiche e della memoria individuale. Non è, dunque, quello di partecipare a una celebrazione o alla custodia di una memoria pubblica. L’insegnante di storia insegna a studiare quell’oggetto, ormai lontano nel tempo, sia nella sua dimensione “verticale” di momento tragico dell’antisemitismo di lunga durata; sia in quello “orizzontale”, di contestualizzazione all’interno della politica generale di sterminio dei nazisti. Tre sono le configurazioni didattiche suggerite: l’analisi della pianificazione dall’alto del processo di sterminio; lo studio “dal basso”, dei soggetti che vi parteciparono, come vittime o oppressori o bystander; la costruzione culturale che ha accompagnato e ridefinito nel tempo questo processo.

    Osservando questo tema dal punto di vista storiografico, Guri Schwarz ritiene che, oltre alla memoria letterale, ovvero quella legata al contesto e all’unicità dell’evento, esista anche la memoria di tipo esemplare, che connette il singolo oggetto storico ad una o più idee generali. Tali memorie non solo possono coesistere, ma insieme generano anche le differenti interpretazioni storiografiche del tema, come quella che legge la Shoah come punto di arrivo dell’antisemitismo nella Storia d’Europa, o quella che considera tale evento un tassello di una più ampia storia di violenza e genocidi da collegare anche al contesto coloniale.

    Oltre ad una corretta e consapevole strutturazione dell’insegnamento in classe, occorre acquisire una piena consapevolezza dei possibili strumenti didattici. Il concetto stesso di “luogo della memoria”, ha spiegato Elena Pirazzoli, si presenta molto più ampio di come spesso viene inteso ed utilizzato. Per luogo, infatti, non si intende solo un elemento geograficamente localizzato, ma si può anche indicare una qualsiasi unità significativa, anche astratta, che rappresenta un simbolo per una comunità. Ciascun luogo di memoria può essere soggetto di “invenzione”, sia nel senso di scoperta del significato o evento storico ad esso correlato, sia nel senso di una costruzione immaginativa, quando a tale luogo vengano attribuiti significati storici, come accade a molti monumenti commemorativi. Anche i “viaggi della memoria” sono uno strumento didattico, che attraverso il tempo ha modificato usi e significati. Bruno Maida racconta le diverse fasi storiche del processo che ha reso il “viaggio della memoria”, da pratica riservata ai familiari delle vittime della Shoah, a strumento didattico. L’obiettivo di tale viaggio, suggerisce lo studioso, non deve essere la costruzione di ideologie da parte dello studente, ma l’invito ad un’acquisizione di senso di cittadinanza consapevole e partecipe.

    Foto ricordo di studenti di scuola media in occasione nel "Viaggio della memoria" del 2012

     

    L’immaginario, in conclusione, costituisce un filtro e un canale, attraverso il quale la società e gli allievi di oggi si connettono col passato tragico dello sterminio. Le conoscenze che esso veicola sono potenti e di effetto. Costituiscono da una parte un formidabile strumento di attrazione; dall’altra un altrettanto formidabile pericolo di perdere capacità di interrogarsi sugli eventi e di percepirne la drammaticità. Compito della scuola è, esattamente, tener vive le domande e costruire intelligenze capaci di farlo.

  • Ravished Armenia. Che cosa ci può raccontare una foto falsa.

    Autore: Antonio Brusa

    Il fatto e l’immagine
    Avevo notato questa foto cercando in rete materiali sul genocidio degli armeni. Una didascalia scarna ne esaltava l’atrocità: “Una fila di ragazze cristiane, nude, crocifisse”. A file of naked crucified Christian girls. Oltre alla sua efferatezza, però, alcuni particolari mi avevano dissuaso dall’adoperarla nelle mie lezioni sulle immagini e la guerra. Il fatto che le croci testimoniassero un lavoro di falegnameria (il braccio è a incastro), difficilmente conciliabile con i patiboli affrettati, che vediamo in altre fonti fotografiche di quello sterminio; il fatto che le pose delle ragazze richiamassero quelle “artistiche” dei crocifissi, con la precauzione dei capelli che coprono le nudità; la scenografia stessa della foto, ben centrata con la fuga delle croci in prospettiva, chiara opera di mano professionale.

    Fig. 1Startling image from the above showing the crucifixion of Christian girls by the Turks in 1915


    Infatti, si tratta del fotogramma di un film del 1919, Ravished Armenia, prodotto dal colonnello William N. Selig, “l’uomo che inventò Hollywood”, come lo definisce Andrew A. Erish, che ne ha scritto la biografia. Questo film fu ritirato dopo un paio di anni, anche a causa delle proteste turche e del timore che avrebbe potuto sollecitare sentimenti antibritannici nelle terre dell’impero, che Francia e Inghilterra si erano spartite, come bottino della Prima guerra mondiale.  In realtà, la vita effimera di questo film coincise con quella brevissima della Prima Repubblica armena, annessa all’Urss nel 1920.

    Il film riappare con la nascita dell’attuale Repubblica armena (1988). Pochi anni dopo, infatti, ne vengono riscoperti alcuni spezzoni (1994) dai quali si ricavano due film: Ravished Armenia e Credo. Nel 2009, l’ Armenian Genocide Resource Center, della California del Nord, ne ha pubblicato un restauro, per un totale di quasi 24 minuti. Di recente,  Donna-Lee Frieze ha scritto che “dal momento che il film originale non esiste più, la sua funzione come strumento del ricordo è terminata. I nuovi film funzionano come fantasmi (ghosts)” (Three films, one Genocide. Armenian Genocide through “Ravished Armenia (s)”, in N. Eltringham, P. Maclean, Remembering Genocide, Routledge, N.Y., 2014, pp. 38-53).

    Tecnicamente, perciò, quell’immagine di donne crocifisse è un “documento falso”. Anzi, un fantasma del primo falso, dovremmo dire riprendendo le parole di Frieze. Tuttavia, troverete con difficoltà spiegazioni della sua natura così complicata e ingannevole, nelle versioni che circolano nella rete. Alcuni, come abbiamo visto sopra, si limitano ad una didascalia descrittiva. Altri avvertono che si tratta di un “documentario”, o commentano con un laconico “immagini del genocidio”, quando non ne fanno un uso politico esplicito (“testimonianza della barbarie dell’Islam”).

    Fig. 2 La didascaliarecita: “Armene crocifisse nella regione di Der-es-Zog. Alcune donne sono messe in salvo perché, come si vede nell’immagine, i beduini arabi le hanno tirate giù dalla croce.

     

    Le smentite che circolano sono, come è facile pensare, di parte turca. Commentando questo fotogramma, che mostra un’improbabile azione di salvataggio, il sito della Word Turkish Coalition sottolinea  che  viene presentato come vero da una storica tedesca che lavora in Armenia, Tessa Hoffmann. E  lascia intendere che questa è solo una delle tante falsificazioni antiturche.

    Benedetta Guerzoni, ricercatrice presso l’Istoreco (Istituto Storico della Resistenza di Reggio Emilia), ci mette in guardia sulle fonti della vicenda armena. L’uso politico delle testimonianze e delle immagini relative corre lungo tutto il Novecento. In gioco era il riconoscimento, da parte della comunità internazionale, del massacro prima, e poi, dopo il 1945,  del genocidio. E’ comprensibile, quindi, l’invito alla prudenza, formulato dalla studiosa.  Quelle pienamente affidabili, tuttavia, sono una massa così imponente da non lasciare dubbi sulla ferocia dello sterminio, come dimostra nel suo Cancellare un popolo. Immagini e documenti del genocidio armeno  (Mimesis, Sesto San Giovanni 2013), un libro dal quale traggo gran parte delle mie informazioni.

    Guerzoni, infatti,  affronta il caso delle crocifissioni (pp. 314-331), togliendoci ogni incertezza:  per quanto quelle immagini siano un “documento falso”, i fatti a cui si riferiscono sono veri, e purtroppo assai peggiori. Riporta le parole di Aurora Mardiganian, la ragazza che sopravvisse e raccontò quella vicenda: “I turchi non facevano le croci in questo modo. I turchi facevano piccole croci appuntite, facevano spogliare le ragazze, e dopo averle violentate le impalavano. Gli Americani le mostrano in modo più civilizzato. Non possono mostrare cose così terribili” (Quitrovate il testo originale inglese, ancora più crudo della versione che riferisco).

     

    Il falso e il vero nella rete

    Quindi, ci troviamo di fronte al documento falso di un episodio vero. Che cosa possiamo apprendere da un oggetto così strano e contraddittorio?  La confusione è aumentata dal fatto che, nella rete, queste immagini circolano  insieme con documenti autentici, mescolate a volte in modo indissolubile.

    Ne è un esempio questo video, che si presenta con queste parole: “Nel 1919, fu realizzato un film sul massacro e la deportazione degli armeni, basato sulla testimonianza di Aurora Mardiganian, che ne fu anche interprete”. Inizia con scene di archivio della guerra mondiale, poi prosegue mostrando le sequenze, scandite da secche didascalie, che illustrano le varie fasi – tutte ampiamente testimoniate - del massacro: il disarmo dei soldati armeni, i condannati che si scavano la fossa, le uccisioni, le deportazioni, ecc. Il sottofondo musicale accentua il senso della tragedia. Dopo un po’, il fruitore non riesce più a capire se sta guardando un documentario o una fiction.  Ciò che legge è vero; ciò che vede è falso, o indecidibile.

     

    Aurora Mardiganian e le sue memorie
    Nel 1917, Aurora, fuggita rocambolescamente dall’Armenia, incontra a New York un giovane sceneggiatore, Harvey Gates, che si offre per aiutarla a scrivere le sue memorie. Ha una storia drammatica da rivelare, quella dello sterminio della sua gente, un evento le cui notizie circolavano già in Occidente, sollecitate anche dal fatto che la Turchia era alleata con gli Imperi centrali. Le memorie escono dapprima a puntate nelle riviste di Hearst e poi in volume, l’anno seguente. Un successo di oltre 300 mila copie.

    Il racconto  inizia con la Pasqua del 1915, quando Aurora ha 14 anni. Husain Pasha, potente fratello del Sultano, l’aveva chiesta più volte per arricchire il suo harem, dove custodiva già una dozzina di ragazze cristiane. Il padre, ricco uomo di affari armeno, ha più volte rifiutato, sfidando la sua ira. Ma ora, che sono cominciate le persecuzioni, è rischioso dire di no. Per giunta, Husain offre, in cambio della ragazza, la salvezza della famiglia. Ma il padre rifiuta ugualmente, e per loro comincia l’inferno. La famiglia viene massacrata e lei, Aurora, venduta e costretta a marce estenuanti, durante le quali è testimone delle orribili vicende dello sterminio. Riesce a fuggire. Raggiunge Tiflis, e dopo un giro lunghissimo, l’America.

     
    Figg. 3 e 4 La copertina dell’edizione recente di Ravished Armenia (2014),  pubblicata da Indo-European Publishing, riprende il manifesto pubblicitario del film del 1919

     

    Il film
    La storia di Aurora è avvincente. Del suo potenziale commerciale si accorgono  Harvey Gates e sua moglie,  che riescono a diventare i custodi legali del libro. Se ne avvede rapidamente anche il colonnello Selig, che realizza il film e ne compra i diritti, come sappiamo da Anthony Slide, autore di Ravished Armenia and the Story of Aurora Mardiganian (University Press of Mississipi, 2014, introduzione). Sono due notizie essenziali, per interpretare la natura di questo documento e per valutare la tradizione armena, che, comprensibilmente, mette in rilievo il ruolo delle associazioni armene nella realizzazione del film; il fatto che al soccorso dei perseguitati fu destinata una parte di quei trenta milioni di dollari, che l’intera operazione fruttò: una quantità enorme di denaro, commenta Atom Egoyan, regista armeno-canadese, nella sua prefazione al libro di Slide.

    E, infine, per capire la figura stessa di Aurora, una ragazza che spesso viene designata come la “Giovanna d’Arco” dell’Armenia) e la precorritrice di Anna Frank.

    Fig. 5 Il manifesto dell’American Commettee  mette in rilievo il fatto che i proventi saranno destinati a salvare le vite dei perseguitati.

     Il film viene realizzato con la partecipazione di Aurora, che interpreta se stessa, supportata da un cast di attori professionisti e con un notevole impiego di comparse armene, emigrate in California. Girato nel 1918, esce l’anno successivo. Se ne fanno presentazioni ufficiali, prima negli Usa, poi in Inghilterra.
    Il regista del film, Oscar Apfel, afferma di aver puntato tutto sulla veridicità. Non si è tirato indietro nemmeno di fronte agli episodi più cruenti. E’ vero, dice, qualcuno voleva eliminare delle scene, come quella del vecchio prete a cui strappano le unghie, ma lui si è opposto, perché solo in questo modo, dice, la gente poteva rendersi conto di ciò che era accaduto in Armenia. In Inghilterra, tuttavia, queste scelta viene contestata. Dopo una proiezione preliminare, si impone la censura di alcune scene, perché “sono insultanti” e, per di più, il titolo stesso del film viene cambiato. Ora si chiama Auction of souls (“Anime all’asta”). Il film, si afferma, è basato sul rapporto di Lord Brice, un ex ambasciatore, inviato dall’Inghilterra in  Turchia per verificare le notizie sull’eccidio. Aurora non viene nemmeno citata.

       
    Figg. 6 e 7 I due articoli del N.Y Times si riferiscono alle scelte diverse, compiute da Inghilterra e Usa, per la proiezione del film. In Inghilterra, questo viene censurato a causa di alcune scelte considerate indecenti e insultanti per il pubblico. In America, al contrario, si decide che quelle scene sono necessarie per far comprendere appieno quale fosse la condizione della popolazione armena.

     

    Becoming Aurora

    Il suo nome era Arshaluys, che vuol dire “Luce del mattino”. Impronunciabile per un americano, venne cambiato con “Aurora”, così come il cognome, Mardinian, venne trasformato in Mardiganian. La mandarono a scuola, perché sapeva poche parole di inglese. La intervistavano, e man mano che stendevano il testo, lo sottoponevano all’approvazione di testimoni autorevoli, fra i quali appunto Lord Brice. Il libro nacque in questo modo. Poi, quando le chiesero di interpretare se stessa, nessuno la preparò al trauma di rivivere scene angosciose. In seguito, lei confessò lo spavento provato sulla scena, vedendosi circondata da gente col fez in testa, convinta che fosse stata riconsegnata ai turchi, per essere uccisa. Mentre giravano la sua fuga, cadde, provocandosi delle fratture. La fasciarono e lei dovette continuare a recitare. “Presumibilmente, il pubblico immaginò che quelle fasce coprissero delle ferite inferte dai turchi, piuttosto che dai barbari di Hollywood”. Così Sushan Avagyan, in un saggio dal titolo eloquente: Becoming Aurora.

    Quando il film uscì, le venne chiesto di presenziare alle proiezioni. Cominciò a girare nelle varie città americane, per avvalorare lo spettacolo con le sue parole. Ha commentato di recente Timothy Long:“Non possiamo immaginare ciò che poteva sentire una vittima, che doveva recitare se stessa, dopo aver dettato la propria storia, interpretando la ricostruzione filmica e raccontando e ri-raccontando la propria orribile vicenda in tante e sconosciute città americane”.

    Dopo un anno, Aurora crolla. E’ prossima al suicidio. Ma lo spettacolo deve continuare. Allora, selezionano sette ragazze, simili a lei, che presenzieranno alle proiezioni al suo posto. Aurora è entrata nel celebrity system americano.

    Fig. 8 Nel 2007 Atom Egoyan  mette in scena a Toronto le sette repliche di Aurora. Rovescia l’inganno hollywoodiano. Non esiste più un’ “Aurora originale”, ma i sette simulacri prendono vita, raccontano la propria tragedia e coinvolgono gli spettatori in un processo di revisione critica del passato.

     

    I modelli della fonte letteraria

    Sushan Avagyan, una studiosa armena che lavora presso l’Università dell’Illinois, si interroga sullo strano dialogo che poté avvenire fra una ragazza che conosceva appena l’inglese e uno scrittore che non sapeva una parola di armeno. Un testo non è solo una collezione di fatti. Un racconto, una amazing story, è anche altro. E questo altro, scrive la studiosa, è opera di Harvey Gates, non di Aurora.

    Gates lavora su tre piani. Il primo, è quello della opposizione fra cristiani e musulmani:  “Gates enfatizza la dimensione religiosa delle atrocità turche, commesse ai danni degli armeni”. Trasforma Aurora in una sorta di personificazione dell’Armenia e le fa dire:  I often wonder if the good people of America know what the Armenians are—their character. . . . My people were among the first converts to Christ. They are a noble race and have a literature older than that of any other peoples in the world.

    Il secondo piano è l’adozione dei modelli narrativi propri di quei racconti di schiavi neri fuggitivi, che stavano ottenendo un grande successo presso il pubblico americano. La stessa costruzione di Ravished Armenia ne segue le modalità di “fabbricazione”: si intervistava l’ex-schiavo, si scriveva in pochi mesi il suo racconto in forma autobiografica, si cercava qualche testimonianza autorevole, per avvalorarne la credibilità.

    Il terzo piano è quello della sensibilità puritana americana. Gates “usa molte varianti eufemistiche di stupro, come ravished, outraged, o betrothed”.

    Parla di harem e di vizio, non di sesso. Sa che si deve adeguare ai codici e ai tabù del suo pubblico.

     

    La donna e la costruzione del nemico

    Avagyan continua la sua requisitoria, aggiungendo che, mentre il romanzo cerca di sterilizzare le brutalità della gendarmeria turca, il film ne esalta gli aspetti sessuali, trasformando le donne in oggetto, e confinando, in questo modo, l’orrore in un secondo piano.

    While the text tried to sanitize the brutalities of the Turkish gendarmerie, the film went as far as to deliver a sensational exposé of sexual transgression that objectified women and girls, thus downplaying the gravity of the committed crimes.

    La pubblicità che precede e accompagna le proiezioni è estremamente esplicita:

     “Con altre ragazze nude, la bella Aurora è venduta per ottantacinque centesimi”; “La storia sensazionale della depravazione turca”; “Ragazze impalate con le spade” (Slide, pp. 51 s).

    E’ una campagna pubblicitaria, sintetizza Donna-Lee Frieze,  centrata su quattro parole chiave: rape, redemption, religion, race.

    Conclude Benedetta Guerzoni:

    “La tragica realtà delle violenze subite e testimoniate si confonde con l’utilizzo propagandistico, che ne enfatizza il lato morboso a scopo di delegittimazione del nemico. Come in altri casi, anche questo è una conferma di quanto l’iconografia armena abbia risentito delle condizioni contestuali, prima politiche, poi di guerra: in questo modo si spiega anche la strumentalizzazione della questione armena, che viene “inglobata” nel sistema mediatico vigente, in quanto ad esso funzionale. Il film era quindi coerente con la più ampia rappresentazione delle vittime, e delle donne in particolare, durante il periodo bellico. Richiami simbolici molto precisi e codificati sembrano infatti fare da filo rosso alla rappresentazione della donna vittima, non solo armena, come oggetto sessuale su cui il clima di violenza proietta tutta la propria forza. La donna vittima, soggetto debole, è, come si sa, funzionale alla propaganda, ma la pervasività di questo simbolo fa riflettere anche sul peso della violenza nella società civile dell’epoca” (pp.320 s).

    Fig. 9 La fotografia di Aurora Mardiganian, abbigliata con il costume tradizionale, campeggia nella copertina della prima edizione di Ravished Armenia

     

    Il falso come fonte storica

    Che cosa, dunque, si può imparare da una fonte falsa? Secondo la metodologia del fake, predominante in Internet e visibilmente mutuata più da Law & Order che da Marc Bloch, quando si individuano in una testimonianza delle incrinature e quando, soprattutto, gli autori di una certa fonte appaiono viziati da un qualche sospetto, quella fonte diventa inservibile. Conseguentemente, falsum in uno falsum in toto, al processo si perde clamorosamente. E’ la logica tipica di ogni negazionismo.

    Per gli storici non è così. Il falso è una fonte preziosa, perché lascia intravedere particolari e aspetti che, a volte, le fonti dirette nascondono. Occorre solo saper cercare. Se cerchiamo notizie sull’uccisione di quelle sedici povere ragazze, il falso non ci dice nulla. Anzi ci inganna sulle modalità dell’esecuzione. Ma su questo punto, lo storico mette in campo altre risorse: la fonte orale, nel nostro caso, e incroci e verifiche con altre testimonianze.

    Il falso comincia a parlare quando lo interroghiamo sulla sua fabbricazione: sul perché e sul modo con il quale venne realizzato; quando ci interroghiamo sul suo uso, sull’accoglienza che ebbe presso il pubblico. Nel nostro caso, questo falso ha rivelato l’identikit di gruppi umani cinici, che non hanno arretrato di fronte all’utilizzazione (per politica, per guadagno e anche per una nobile causa) di una tragedia. Ha mostrato, sullo sfondo, una società che, per attaccare un nemico, esibiva gli aspetti peggiori di sé. Benedetta Guerzoni ci conforta in questa lettura,  citando un passo, quasi contemporaneo al film, di H. D. Lasswell (Propaganda Technique in the World War I, N.Y 1927), secondo il quale una giovane donna, stuprata dal nemico, suscita una segreta soddisfazione in una massa di stupratori per delega dall’altra parte del fronte. Questa crocifissione finta, dunque, è fonte non della barbarie dei turchi, quanto piuttosto di quella del mondo novecentesco occidentale. Quelle donne bianche, nude e crocifisse sono la chiara visualizzazione di uno slogan: rape, redemption, religion, race.

    Se, inoltre, riflettiamo sul fatto che queste immagini erano in origine dei prodotti di fiction, che solo in seguito, per slittamenti progressivi, sono state utilizzate come documenti storici, che circolano in quanto documenti nel contesto attuale dell’internet, allora siamo autorizzati a considerarle fonti di una barbarie a noi contemporanea.

    Questo falso ci racconta, infine, la storia di una ragazza di sedici anni, che, scampata ad una tragedia, divenne vittima della violenza e dell’avidità dei suoi salvatori.

  • Via Francigena. Uso pubblico e realtà storica *

    Autore: Giuseppe Sergi


     
    Di quello che si de’ astenere il pellegrino e quello che de’ prendere
    Giovanni Sercambi, Cronache delle cose di Lucca, dal 1164 al 1424, A.S.L., Biblioteca Manoscritti, n. 107, c. 352r

     

    "Viae Francigenae" al plurale

    Secondo Abelardo -   lo ha ricordato Umberto Eco negli anni Ottanta del Novecento  -  le parole non si limitano a rispecchiare la realtà, ma danno anche corpo sia alle cose scomparse sia a quelle inesistenti (Postille a Il nome della rosa, in "Alfabeta", 49,giugno 1983, p. 19). La definizione di "via Francigena" si riferisce di sicuro a una cosa oggi scomparsa. Possiamo domandarci: c'è anche il rischio che si riferisca a una cosa inesistente?

    No, il rischio non è così alto: ma certo il Consiglio d'Europa con il suo progetto di itinerario europeo, gli assessorati delle regioni italiane con i loro materiali, le numerose associazioni nate per valorizzare culturalmente o turisticamente la “Via Francigena”, tutti rischiano davvero di dare una consistenza troppo precisa a questa parola, quasi che indichi una grande identificabile e ben tracciata autostrada che percorreva in diagonale l'Europa medievale.

    Non era così: le vie "Francigenae" erano molte, o addirittura moltissime, e non si può neppure parlare di varianti di un percorso principale perché per lo più si trattava di percorsi di pari dignità e pari anche per intensità di transiti. L'esempio lo offre proprio il Piemonte che ha due grandi valichi "Francigeni" alla pari (il Gran S. Bernardo e il Moncenisio) di cui sarebbe assurdo tentare di stabilire quale sia il più 'vero' o il più importante. Non solo, ma molte attestazioni documentarie designano strade di cui noi non riusciamo a tener conto, perché se lo facessimo ci avvieremmo a cartografare gran parte del reticolo viario europeo: valle per valle, zona per zona. Sono le strade di cui le popolazioni locali volevano semplicemente dire che arrivavano dalle Alpi o verso le Alpi si dirigevano.


    Calarsi nella mentalità medievale

    Allora il medievista non deve discutere di via Francigena come se si trovasse sempre di fronte a una carta dell'Europa o comportandosi da uomo attuale che ha istintivamente una mentalità da carta europea: deve, invece, calarsi nella mentalità e nella concezione proprie degli anni in cui la "via" o meglio le "viae Francigenae" erano usate e non erano una lodevole ma artificiale ricostruzione culturale.

    Lo storico ha gli strumenti per valutare tutti quei percorsi alla luce di una completa carta d'Europa (ciò che ben pochi nel medioevo si avvicinavano a poter fare) e, al tempo stesso, per non cadere negli anacronismi un po' frettolosi in cui  cadono facilmente gli enti turistici di oggi. Può essere utile, in questa sede, accennare al potenziale perenne rapporto dialettico fra Ministero dei Beni culturali e del Turismo e le singole Pro Loco: il primo ha l'istinto di cercare il vero percorso di una grande strada medievale (perché sia più semplice da cartografare e da proporre al turismo internazionale); le seconde sono pronte ad applaudire se quell'unico percorso individuato passa sul  territorio  dei  loro  comuni  e  a  mandare  telegrammi  indignati  se  ciò  non avviene.

    Avrebbero torto l'uno e le altre, sia il Ministero sia le Pro Loco: è come se pensassero davanti a carte di scala molto diversa.

    Per fortuna la via Francigena non è Cristoforo Colombo: perché Cristoforo Colombo è uno solo, da qualche parte sarà pur nato, ed è difficile sottrarsi a quella  vera  (in  questo  caso  non  immaginaria)  guerra  di  Pro  Loco  che  si contendono i natali dello scopritore dell'America. Di "viae Francigenae" invece ne possono esistere varie, e se aggiungiamo anche le attestazioni di "Romea", "pellerina" e, in qualche caso, "regia", ne esistono in numero ancora maggiore.

    Il linguaggio della sentenza iniziale di Abelardo, dunque, il linguaggio che parla di cose che non ci sono più, riflette anche il lungo travaglio che avevano avuto quelle stesse cose mentre c'erano ancora. Rivela che ci sono state culture locali e regionali (gli orgogli municipalistici, le tradizioni, ciò che corrisponde, nel passato più lontano, alle Pro Loco di oggi) che si sono comportante in modi diversi.


    Locale,  non localistico

    Attenzione, non sto suggerendo una lettura tutta localista. Non sto dicendo che l'uomo del medioevo aveva solo orizzonti spaziali circoscritti. Non voglio proporre mille piccoli paesaggi mentali al posto dell'unica grande carta d'Europa dell'uomo  contemporaneo.  Sto  dicendo  che  allora  c'erano,  e  convivevano, concezioni dello spazio molte diverse e che ognuna di queste concezioni determinò diverse sedimentazioni documentarie del termine "via Francigena".

    Per gli abitanti di Alessandria, la via Francigena era quella che passava vicino alla loro città. Non si ponevano il problema che ne esistessero altre; così per gli abitanti della valle di Susa, del Torinese o addirittura del Novarese. E' proprio un problema di toponomastica locale, come il nostro dare nome alle vie: nella toponomastica locale la "via Francisca" o "Francigena" era quella che suggeriva il percorso transalpino; non creava alcun disturbo che altre zone avessero pure la loro, diversissima e diversamente direzionata, via Francigena.

    Certo i poteri di dimensione regionale, come i Savoia, sapevano che la loro regione conteneva una pluralità di percorsi, ma non si preoccupavano di gerarchizzarli, né potevano sensatamente tentare (non avrebbero avuto alcun successo) di cambiare a favore di un percorso unico gli usi toponomastici locali.

    I grandi poteri poi, nel medioevo, non erano in grado di costruire grandi percorsi sovraregionali come le strade romane, imponendo nomi appositi del tipo di "via Aurelia" o "via Aemilia". Non potevano farlo, non tentavano neppure, e neanche tentavano di denominare in modo unitario percorsi già esistenti. Ecco, noi in un certo senso siamo deformati dall'idea delle grandi vie romane: perché la nostra odierna concezione - dello spazio ma anche dello stato - è in realtà vicina più a quella romana che a quella medievale. Quindi rischiamo di cercare sulla carta la via Francigena   un po' come si cerca la via Aurelia: e, se lo facciamo, sbagliamo.


     
    Tabula peutingeriana, I-IV secolo, edizione Konrad Miller, 1887-1888 (segmento VII)

    La tabula peutingeriana è una lunga striscia di pergamena, divisa in 11 segmenti, che riporta la mappa del mondo conosciuto e conquistato da Roma. La mappa è conservata presso la Biblioteca Nazionale di Vienna (Codex Vindobonensis). Essa fu rinvenuta nel 1507 in una biblioteca di Worms da Konrad Celtes, bibliotecario dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, che la fece pervenire all’umanista Konrad Peutinger. Nel documento giunto sino a noi manca la parte estrema  occidentale dell'impero, ovvero parte della Britannia e della Penisola Iberica

     

     

    Leggere storicamente le fonti

    Dobbiamo invece tener conto del pensiero degli uomini e storicizzarlo: il pensiero diverso, come abbiamo visto, di chi intraprendeva un viaggio, di chi dalla sua reggia considerava i suoi domìni dall'alto  -  in modo statico ma senza i mezzi per modificare troppo il paesaggio  - e infine il pensiero di chi (il contadino, ma soprattutto il notaio che redigeva i documenti) nei luoghi ci abitava. Per gran parte del medioevo coloro che principalmente incidono sulla toponomastica locale sono questi ultimi, cioè gli abitanti locali.

    Gli  storici  hanno,  in  passato,  lavorato  sui  grandi  itinerari  (quelli  degli eserciti, raccontati dai cronisti) ma anche quelli dei pellegrini colti che, come Sigerico, ce li raccontano in prima persona. Ma ora  - se cercano in ogni regione dove nei documenti notarili locali è rimasta traccia di un nome di strada che di quella strada vuole sottolineare l'internazionalità  - essi si imbattono quasi esclusivamente nella concezione locale dello spazio. Quindi si imbattono in varie e diverse "viae Francigenae", o scoprono che lo stesso percorso che al quinto chilometro si chiama "via Francigena", al ventesimo chilometro si chiama "via regia", oppure "via Romea".  In Piemonte non c'è dubbio che la "strata pellegrina" o "pellerina" (presso Torino) è un percorso di quella che un po' più a nord e un po' più a sud si chiama "Franca" o "Francorum" o "Francisca" o "Francigena", ma che, procedendo verso Vercelli, può anche chiamarsi "strata Lombarda". In Valle d'Aosta la strada percorsa da Sigerico non si chiama via Francigena, bensì "via publica domini comitis": ma avremmo il coraggio di dire che si trattava di una strada diversa? Evidentemente no.


    Lo spazio dei viaggiatori

    A quella locale e a quella regionale possiamo aggiungere almeno altre due concezioni dello spazio: quella dei grandi viaggiatori (mercanti, pellegrini, intellettuali, militari) e quella dei grandi poteri centrali (i re, i papi).

    I grandi viaggiatori, all'inizio del loro viaggio (un mercante astigiano verso le fiere della Champagne, il monaco  che da S. Giusto di Susa si accinge a fare un viaggio religioso-culturale attraverso i principali monasteri europei, il pellegrino diretto a Roma, il principe che avvia una spedizione militare verso la pianura padana) progettavano - insisto, "progettavano" - il loro percorso volta per volta, a seconda di mete e obiettivi e, qualunque fosse la loro scelta (sapevano benissimo di non avere una sola scelta possibile), dovunque transitassero, avevano   buone possibilità di essere percepiti come "viandanti della via Francigena" dagli abitanti delle zone in cui passavano, perché in ogni singola zona non usavano se non raramente percorsi secondari, ma usavano la strada che, per la cultura locale, era quella pubblica, internazionale e dei grandi viaggiatori.

    Il fatto che, sempre nella zona di Torino, sia documentata la "strata publica peregrinorum et mercatorum", elimina poi ogni dubbio sulla possibilità che vi fossero percorsi preferenziali diversi per i pellegrini o per i mercanti: non erano diversi. Le modalità dei viaggi potevano essere differenziate non solo dalle mete, ma anche dalle soste intermedie: monasteri e luoghi di culto nel caso dei pellegrini, mercati e città nel caso dei mercanti, ma senza escludere, perché c'erano, i viaggi misti, con intreccio di motivazioni religiose e commerciali.

    Ciò  che  ho  appena  detto  segna  una  differenza  importante  della  via Francigena rispetto al percorso per Santiago di Compostella: quest'ultimo era infatti un percorso specializzato di pellegrinaggio, all'interno di singoli tratti del quale si innestava poi ogni altro tipo di uso, ma che rimaneva molto caratterizzato. Questa specializzazione d'uso determina anche una maggiore precisabilità del suo percorso, perché ogni tappa aveva acquisito un valore rituale che, per la sua stessa natura, tollerava meno le deviazioni.

     
    Teodomiro davanti alla tomba di San Giacomo, la data dell’invenzione è fatta tradizionalmente risalire all’anno 829.
    Archivo della Cattedrale di Santiago de Compostela, Ms. Tumbo A (1129-1255), c 1v

     

    A fronte di un comune medievale di Torino che poteva imporre ai viaggiatori di sostare almeno una notte in città, ed essenzialmente a questo badava, ci sono stati i numerosi  comuni toscani che, nell'insieme,  hanno  preferito già nel medioevo l'aggettivo "Francigena" rispetto ad altri aggettivi e hanno anche propagandisticamente determinato la maggiore notorietà di un percorso rispetto ad altri, come dichiarò candidamente un assessore regionale al Turismo (in "Su & Giù per la Val di Susa e la Val Sangone", 19 (ottobre 1994, p. 11).

    Da quel nome e da quella notorietà deriva un atteggiamento d'indagine (l'individuazione del "vero" percorso medievale, la distinzione d'uso fra diversi percorsi) che ha forse per la Toscana maggiore giustificazione. Ma per le altre regioni non dobbiamo compiere noi, oggi, le operazioni che il medioevo non aveva compiute. La riapertura e la pubblicizzazione in valle di Susa, qualche anno fa, del "sentiero dei Franchi", deve essere salutata come la lodevole valorizzazione turistico-culturale di uno degli interessanti percorsi medievali - sopravvissuti solo nella memoria popolare e non nell'uso - ma non si devono, come purtroppo è stato fatto, accogliere anche le deformazioni di quella memoria popolare: ad esempio la convinzione che fosse il percorso compiuto da Carlo Magno per sconfiggere i Longobardi, oppure che fosse una strada tutta speciale con cui i pellegrini toccavano i principali monasteri della valle.


    Tanti nomi per tante vie

    Perché il nome "Francigena"? Alcuni studiosi, rispetto a una certa  spiegazione  spontanea  (Francigena  come  strada  "generata,  proveniente" dalla Francia), preferiscono un'altra spiegazione, che considera via Francigena equivalente dell'altrettanto documentato "via Francigenarum" (cioè via percorsa da coloro che sono nati in Francia). Forse entrambe sono spiegazioni accettabili: l'importante è aver chiaro che la "regione di Franchi" nel medioevo non coincideva con l'attuale Francia. Il regno dei Franchi occidentali era diverso dal "regno dei Burgundi" - la grande Borgogna di allora - e ciò spiega perché anche in Savoia e nella Borgogna attuale, pur di là dalle Alpi, si trovano attestazioni di "via Francigena".

    Di tutti i nomi possibili della via (abbiamo visto Francorum, Franca, Francisca, Francexia, Pellerina, Romea e altre varianti più generiche), questo è quello che suona più originale ed esotico sia alle orecchie medievali sia alle nostre: ciò che è più esotico è anche più connotante. Di qui la fortuna storica sull'Appennino tosco-emiliano e nelle aree più vicine a Roma (dove "Romea" rischiava di essere troppo normale). Di qui, anche, la fortuna odierna.

     

    Le strade, le chiese, la Chiesa, il Giubileo

    Chiesa e poteri: un singolare inesatto e un plurale da spiegare. Su questi argomenti il medioevo è una storia di singolari e di plurali da definire. Vediamo perché e incominciamo dalla chiesa. Fino agli anni di passaggio fra i secoli XI e XII, fino a Gregorio VII, a Canossa, al notissimo concordato di Worms, sarebbe anacronistico e sbagliato attribuire alla sede papale la funzione che i secoli successivi ci hanno abituato a riconoscerle.
    Fin oltre l'anno Mille il vescovo di Roma aveva solo un generico primato d'onore, aveva forza dirimente in questioni teologiche, ma non decisionalità centralizzata, superiorità gerarchica rispetto alle sedi arcivescovili e vescovili. Per grandi ambiti regionali avevano più peso le decisioni dei concili dei vescovi di quella certa regione: era così ad esempio per le notissime paci di Dio, che erano appunto decise da assemblee di vescovi e non da Roma.

    Non a caso il primo anno santo - con connessa indulgenza plenaria per chi si recasse a Roma in pellegrinaggio alle quattro basiliche di S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, S. Maria Maggiore e S. Paolo - fu soltanto del 1300 a opera di papa Bonifacio VIII: iniziativa di una chiesa ormai davvero, a quel punto, centralizzata e monarchica.

    L'anno santo, inizialmente ogni 100 anni, fu reso più frequente da papi successivi: ogni 50 da Clemente VI, ogni 33 da Urbano VI, ogni 25 da Paolo II, alla fine del secolo XV.  All'indulgenza, e poi all'insieme nell'anno in cui si poteva conseguire, fu applicata la definizione giubileo (dal corno di montone, chiamato jovèl, con il cui suono i sacerdoti ebraici annunciavano l'anno sabbatico).

     
    Come fu lo perdono di Roma
    Giovanni Sercambi,Cronache delle cose di Lucca, dal 1164 al 1424, A.S.L., Biblioteca Manoscritti, n. 107, c. 351r

     

    Senza dubbio l'anno 1300 registrò un gran numero di transiti dall'Europa settentrionale verso Roma. Ma dobbiamo prendere atto che dei dieci-undici secoli che corrispondono alla durata convenzionalmente attribuita al medioevo, solo gli ultimi due secoli medievali ci mostrano un pellegrinaggio romeo deciso dal centro della chiesa occidentale e con questo livello di formalizzazione. La chiesa di Roma raccolse e ufficializzò tendenze spontanee dei secoli precedenti della cristianità, in particolare dei movimenti penitenziali di ispirazione gioachimita del secolo XIII.

    Il pellegrinaggio di gran parte del medioevo deve dunque essere interpretato in chiave policentrica, differenziando le mete terminali e quelle intermedie, i promotori, gli impulsi spontanei. Sul medesimo asse viario coincidevano pellegrinaggi lunghi e pellegrinaggi brevi, legati a culti locali. Su gran parte del percorso potevano incontrarsi i romei (pellegrini diretti a Roma), quelli diretti al Santo Sepolcro a Gerusalemme, quelli che coprivano in pellegrinaggio la distanza fra i due grandi centri di culto dedicati a S. Michele (Mont-Saint-Michel in Normandia e S. Michele del Gargano).

    Tre tipi di pellegrini che percorrevano la stessa strada, ma ne facevano un uso diverso a seconda dei loro scopi: è sicuro, ad esempio, che il pellegrino devoto al culto di S. Michele non rinunciava mai a una sosta rituale al monastero di S. Michele della Chiusa - presso Torino - mentre quello diretto a Gerusalemme poteva fare altre scelte. Senza escludere che il devoto di S. Michele si desse una duplice meta italiana, sia Roma sia S. Michele del Gargano.

    Pellegrini cristiani entrano al Santo Sepolcro, Riccoldo da Montecroce, Liber peregrinationis, Bibliothèque Nationale, Paris, ms. fr 2810, c.274r

     

    Pellegrinaggi in linea e pellegrinaggi concentrici

    Uno storico e antropologo francese, Alain Guerreau, ha distinto concettualmente  i  grandi  pellegrinaggi  "in  linea"     dai  più  locali  e  brevi pellegrinaggi concentrici.  La grande linea della via Francigena incontra nel suo percorso i molti cerchi ideali disegnati da quelli che potremmo definire "imbuti di devozione" dei pellegrinaggi più locali. Fra gli esempi: S. Michele e S. Giovanni Vincenzo (europeo l'uno, valsusino l'altro; con salita a S. Michele l'uno, con meta al sepolcro di S. Giovanni nella località di S. Ambrogio, ai piedi del monte Pirchiriano su cui sorgeva la grande abbazia, l'altro).  I pellegrinaggi concentrici potevano  non  avere  alcuna  influenza  sui  grandi  pellegrinaggi  in  linea,  ma potevano anche determinare interferenze, sovrapposizioni, piccole deviazioni: un culto locale poteva essere promosso a una dimensione sovraregionale proprio per il fatto di avere un punto di focalizzazione collocato sull'asse di un grande pellegrinaggio.

    L'esempio di S. Michele, appena fatto, continua a invitarci a spostarci dal singolare "chiesa", troppo moderno o almeno bassomedievale, al plurale di chiese, monasteri, centri canonicali, ospizi retti da religiosi. Questi, grazie alla loro collocazione nell'area della via Francigena, prosperavano e garantivano servizi. Per molti di questi centri - che siano centri di preghiera, di cura d'anime o d'assistenza - la via Francigena fu addirittura la ragione principale della loro fondazione: e non solo nel caso degli ospizi, antichissimi, del Moncenisio e del Gran  S.  Bernardo,  ma  anche  nel  caso  di  monasteri  come  Novalesa  in  val Cenischia e S. Giacomo di Stura alle porte di Torino, di collegi canonicali come S. Lorenzo d'Oulx e S. Antonio di Ranverso.


    La concorrenza fra i monasteri

    Fra le moltissime osservazioni che occorrerebbe fare sulla presenza stradale di questi enti, segnalo le tre meno ovvie.

    La prima: fra i secoli XII e XIII si ebbe il passaggio, graduale e diversamente datato a seconda delle zone, dalle presenze religiose miste  - in cui i monasteri si assumevano sia funzioni di preghiera sia funzioni di assistenza  - alle presenze religiose specializzate. Queste ebbero maggior fortuna (anche sotto il rispetto delle donazioni ricevute dalle popolazioni  locali e dell'appoggio garantito  dall'aristocrazia)  dei centri assistenziali e ospedalieri, adatti a una  società medievale più  matura che avvertiva in minor misura i problemi antichi della cristianizzazione e sviluppava invece la dimensione sociale dell'esperienza religiosa.

     
    L'ospitalità dei pellegrini e dei poveri come opera di misericordia  Affresco del refettorio della cattedrale di Santa Maria de la Seu Vella, Lleida, Spagna - XIII sec


    La seconda: questi enti religiosi erano punti di riferimento per i livelli alti della società, e reclutavano i propri membri fra l'aristocrazia e, in qualche caso, fra i borghesi. Ma quelli collocati lungo la via Francigena erano nelle condizioni di differenziarsi nettamente per i loro àmbiti di reclutamento dei monaci, che potevano essere cittadini o regionali nonostante la collocazione stradale. Potevano essere addirittura estranei alla dimensione locale, legati alle origini privilegiate del pellegrinaggio (è il caso di S. Michele della Chiusa, che per molto tempo ebbe monaci prevalentemente alverniati e aquitani, e scarsi coinvolgimenti con la realtà locale della valle di Susa).

    La terza: fra questi centri c'era un'accentuata competizione, la "concorrenza monastica" ben definita  da Bernard Bligny in ricerche di oltre trent'anni fa. E' un'altra conferma che la coscienza della comune appartenenza alla societas Christiana non li induceva a comportamenti unitari, concordati e complementari: perché era naturale contendersi i favori della religiosità popolare; contendersi le soste dei pellegrini più nobili, più ricchi e più generosi; costruire dentro e a margine dei tracciati della strada signorie fondiarie e politiche, coltivate da rustici e attrezzate con castelli: e  i confini di queste signorie erano ovviamente oggetto di frequenti controversie.


    Il potere “generatore” della via Francigena

    Siamo già dunque passati, se pur attraverso gli sviluppi signorili degli enti religiosi, al tema dei poteri. E dobbiamo prendere atto che la via Francigena, a seconda che si snodasse in aree più o meno vicine   ai grandi valichi alpini, determinava interventi diversi del potere. Presso i valichi più obbligati delle Alpi Cozie e Graie  si aveva la massima concentrazione di un intervento umano di alto livello, che possiamo definire politico-concorrenziale: su questi percorsi i diversi poteri medievali potevano solo  realizzare o sottrarre ad altri il controllo di strade poco modificabili e occuparsi della loro manutenzione e attrezzatura.

    Nelle ramificazioni verso la pianura - quindi sulla via Francigena più a valle - si aveva invece un intervento umano più concretamente operante, che possiamo definire politico-progettuale,  perché i poteri qui incidevano non su percorsi obbligati, ma su aree di strada con diverse opzioni possibili.  Sono constatazioni che si possono fare sia per il livello massimo del potere, il potere dei re -  che dall'età carolingia in poi si erano sempre occupati più della transitabilità alpina che della rete stradale  nel  suo  complesso - sia  per poteri  intermedi  come  i  principati territoriali, sia per i poteri signorili più locali.

    La  via  Francigena,  come  le  altre  grandi  strade  del  medioevo,  era  un importante "generatore". Generatore di concorrenze e di conflitti, che a volte determinarono tensioni   inimmaginabili per ospedali rurali piccoli e marginali. Le dispute confinarie fra diocesi di Torino e di St. Jean-de-Maurienne furono accesissime intorno al valico del Moncenisio e sulla striscia stradale corrispondente alla val Cenischia.

    Ma la strada fu anche generatore di strutture politiche. La strada non generava soltanto formazioni politiche ampie ma anche nuclei signorili. Spesso le  famiglie valorizzavano il controllo di un transito o per aumentare la loro forza contrattuale rispetto a poteri superiori o per sfruttare a fondo la loro collocazione attraverso la riscossione di pedaggi. Nei tratti alpini la via Francigena fu sfruttata soprattutto da un’aristocrazia intermedia che, al seguito dei Savoia, individuò nella strada il modo per trovare nuovi ambiti d’affermazione. Famiglie come i “de Aprili”  e i "de Toveto" seguirono i Savoia di qua dal Moncenisio, operarono assiduamente al loro seguito, accettarono incarichi di vario prestigio, soprattutto espressero personaggi adatti per diventare “castellani”, cioè ufficiali preposti alle nuove circoscrizioni.

    Tuttavia, è indispensabile (per quanto difficile) muoversi con grande prudenza, nell'usare questa categoria concettuale della strada-generatore,: perché in passato l’erudizione ha fatto della strada la molla obbligata di ogni processo storico, non solo con spiegazioni monocausali che oggi sarebbero inaccettabili, ma anche presupponendo quelle fissità e inevitabilità dei percorsi che mi sono impegnato a smentire nella prima parte della relazione.


    La strada come “acceleratore”  e “regolatore” di processi

    Più nuova e meno densa di insidie è, sul piano politico, la categoria della strada come "acceleratore" di processi storici. All'interno delle Alpi distinguiamo le zone  marginali  da  quelle  di  grande  transito. Constatiamo  che  nelle  valli  più ‘stradali’  non solo le novità avevano tempi uguali rispetto a quelli (di solito veloci) della pianura, ma realizzavano con un’alta concentrazione (dato il territorio relativamente limitato interessato dai transiti) una sintesi spesso originale fra culture, schemi politici e modelli sociali diversi. La dinastia dei marchesi di Torino nel secolo XI realizzò in valle di Susa, prima che altrove, la  trasformazione del  proprio  ufficio  pubblico  in  potere  dinastico-signorile;  il  modello  delle franchigie per comunità rurali fu adottato nelle valli di Susa e di Aosta prima che altrove.

    Ma la via Francigena era anche un "regolatore". La strada-generatore aveva fatto nascere con facilità lungo il proprio asse la vera novità istituzionale successiva al Mille, cioè la signoria "di banno": la signoria di castello di famiglie ricche di terra e di intraprendenza militare. La strada-acceleratore poteva determinare un precoce  sviluppo di questi nuclei di potere, che per altro erano un modello politico comune alla generalità delle campagne medievali. Tutto questo è vero, ma lungo una via come la Francigena i poteri di grandi dimensioni, i re e i principi territoriali,  si affrettavano a  regolare i loro rapporti con le autonomie signorili, riservando a sé l’alta giustizia, accettando autonomie locali solo in quanto formalmente subordinate, sforzandosi di inquadrarle in ordinamenti di tipo precocemente statale. Lungo la via Francigena le novità signorili nascevano prima ma, poiché non passavano inosservate, dovevano regolare la loro coesistenza con i grandi poteri regionali e sovraregionali.

     
    Affreschi di Llida (citato sopra). Pellegrini che si ristorano

     

    I comuni e le città

    Un fugace cenno precedente ci ha introdotti a un ultimo protagonista politico dell'area di strada, i comuni. Sia per comuni di un certo livello (Asti, Chieri, Torino, Ivrea), sia per comuni medi (come Susa o Aosta), sia per le numerose comunità rurali, la grande strada si poneva come alternativa concreta e preziosa all'agricoltura, alla pastorizia, all'esercizio di diritti locali. Questa alternativa consisteva nello sfruttamento dei transiti, nei suggerimenti commerciali che provenivano dalla collocazione delle comunità e nelle agevolazioni connesse.

    Anche le comunità più piccole che occupavano luoghi cruciali lungo la via Francigena avevano  buona forza contrattuale nei rapporti con il potere.

    Tra Moncenisio e Chambéry la strada era, contemporaneamente, elemento di stabilizzazione e di mobilità. Di stabilizzazione perché costituiva la discriminante intorno a cui si organizzavano le gerarchie politiche, si regolava la coesistenza fra conti, vescovi e signori, si definiva l’identità politica delle comunità. Di mobilità perché non solo innescava la circolazione di modelli istituzionali - notarili, cancellereschi, giuridici -,  non solo suggeriva l’impegno nei commerci di nuovi ceti emergenti, ma stimolava anche la proiezione verso l’Italia e verso sud-est di un’aristocrazia intermedia alla ricerca di nuovi campi d’affermazione.

    Di qua dalle Alpi la strada agiva invece in modo più frastagliato. Suggeriva direzioni  d’espansione  ai  Savoia ma dava anche forza  ai  suoi  concorrenti; garantiva da molti anni l’autonomia e il prestigio di enti religiosi impegnati a costruire dominazioni signorili ma li spingeva anche verso il coordinamento; stimolava da un lato nei Torinesi uno sfruttamento in certo senso ‘passivo’ della strada (controllo di pedaggi, “custodie” di castelli loro affidate dalla signoria vescovile) ma sviluppava d'altra parte nei Chieresi una delle più interessanti vocazioni imprenditoriali e mercantili della regione. E in questa situazione l’aristocrazia  militare  maggiore, invece di rassegnarsi come in Borgogna a un inevitabile superiore coordinamento, poteva giocare con una pluralità di alleanze per tutelare i propri spazi di autonomia.

    In conclusione: se in tema ecclesiastico la via Francigena ci fa assistere a un disseminatissimo plurale (le chiese) che diventa singolare (la chiesa di Roma come promotrice massima dei grandi pellegrinaggi), in tema politico il plurale dei numerosi poteri continua a imporsi, e di singolare troviamo soltanto la costrizione al coordinamento che una grande strada europea imponeva a chi voleva sfruttarne i vantaggi.

     

    *Adattamento da La via Francigena. Chiesa e poteri, in La via Francigena. Itinerario culturale del Consiglio d’Europa, Atti del Seminario di Torino, 20 ottobre 1994, pp. 12-23
    Ricerca iconografica di ARVO (Archivio del volto santo) a cura di Ilaria Sabbatini

     

    Nota bibliografica

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