Quando i sovietici installarono i missili SS20 e gli Usa i Pershing, avemmo tutti paura. Erano "armi di teatro" si diceva. Cioè potevano essere usati senza scatenare una Mutua Distruzione Assicurata (MAD), cosa che aveva trattenuto le superpotenze di allora dall'usare le bombe all'idrogeno. Naturalmente non ci credette nessuno, nemmeno in Italia, dove notoriamente siamo di bocca buona, anche perché i Pershing li avevano piazzati proprio qui. Era il 1984. Non so più a quante manifestazioni per la pace partecipai (io e tantissimi altri, di tanti orientamenti politici) e quanti documenti firmammo; ma ricordo che ogni notte, andando a letto, provavo un certo senso di angoscia.

Il fatto era che i tg avevano parlato dell' "Orologio dell'Apocalisse", il Doomsday Clock, che certi scienziati aggiornavano, spostando le lancette verso la mezzanotte o allontanandole, a seconda della vicinanza o meno dalla Fine del Mondo, l'ora dell'Apocalisse. Era il 1984 e quest'orologio segnava tre minuti alla mezzanotte. Ci stavamo, quasi. Perciò andavamo a letto senza sapere se ci sarebbe stato un giorno dopo.

Quell'orologio esiste dal secondo dopoguerra, quando un gruppo di scienziati, afferenti al "The Bulletin of Atomic Scientists" ha cominciato ad aggiornarlo annualmente, mettendolo in bella vista sulla prima pagina della loro rivista. E' stato una volta sola vicino ai due minuti, nel 1953, quando gli Usa sperimentarono la bomba all'idrogeno e l'URRS non ce l'aveva ancora. Poi, per ben tre volte è stato a tre minuti: nel 1947, quando l'URSS sperimentò la sua, di bomba atomica; nel 1984, quella che ricordo io e, sorpresa assai poco piacevole, nel 2015.

Apprendo quest'ultimo aggiornamento dall'articolo di Giovanni Spataro, su "Le Scienze" di questo mese (Luglio 2015, pp. 44 s). E questa è la prima grande differenza con gli anni '80: oggi devo leggere una rivista scientifica per saperlo, perché i media traboccano di Grexit, Isis, Triton e Flegetonte (per non parlare del teatrino italiano, ma questo anche allora faceva spettacolo). La seconda differenza è che quelle lancette diventarono un problema caldissimo dal punto di vista politico. Per motivi diversi, certamente, scatenarono un dibattito, del quale oggi non mi sembra di rilevare qualche traccia. La terza differenza è che il rischio, in passato, fu esclusivamente militare, mentre oggi ha diverse componenti.

Infatti, il rischio militare non si è affatto attenuato: il numero delle bombe nucleari è esorbitante; gli investimenti che le due (ex?) superpotenze vi destinano sono ingentissimi; i possibili lanciatori di bombe si sono moltiplicati e agiscono tutti su fronti molto caldi (Israele- Iran; India-Pakistan; Corea del Nord ecc). Accanto a questo, inoltre, agiscono due altri fattori di rischio: quello ambientale-climatico e quello del controllo difficile delle tecnologie (armi biologiche, ciberterrorismo ecc.). Entrambi, dicono quegli scienziati, sono prossimi alla deflagrazione.

Oggi, dunque, agisce una miscela molto più pericolosa di quelle che ci hanno terrorizzato in passato: ma non riesce a diventare un problema politico centrale. Nel passato, infatti, la gestione politica del conflitto ebbe successo, spostando all'indietro le lancette fatidiche. Oggi, invece, per quanto ogni tanto qualcuno ne parli in giro e si facciano convegni qua e là, anche di grande risonanza, è indubbio che l'idea della prossimità alla Fine non tocchi la sensibilità diffusa, politica e no.

Questo non fa che aumentare i fattori di rischio.

Dice Spataro che ogni volta che le lancette si avvicinano alla fine, la questione fondamentale fu politica. Quella era la causa del rischio e fu a livello politico che si trovarono delle risposte. Questo è vero anche oggi, e ad un grado superiore, potremmo dire, perché si tratta di discutere di interessi, scelte, individuali e collettive, di dirottare investimenti da un settore all'altro, di prevedere che, con l'aggravarsi della crisi, diventeranno inevitabili le esplosioni di conflitti sociali; di costruire capacità di esercitare governo anche al di fuori dei propri confini nazionali.

Una buona politica non chiede solo delle persone perbene e competenti nel proprio settore (come vorremmo tutti). Esige una buona capacità di leggere i problemi, di capire la società, di parlare con le persone, di istruire i cittadini in modo che sappiano stabilire gerarchie credibili dei mille problemi che travolgono la loro esistenza. E questo vuol dire: "humanities" (passi il termine inglese, visto che si tratta di un problema internazionale). L'incapacità diffusa, infatti, dei governanti come dei cittadini, di riconoscere i problemi di una società, è rivelatrice, a mio modo chiarissima, di uno straordinario deficit di "humanities".

Per questo è sorprendente osservare l'attuale "attacco alle humanities", sferrato in modo particolare nel settore formativo. Seguendo, invece, il ragionamento di Spataro ( e degli scienziati del "Bullettin"), essendo la questione politica, ci si dovrebbe impegnare in tutto ciò che aumenta la nostra capacità di comprendere la società. Se si potesse, perciò, fare una postilla al loro lavoro meritorio, vorrei aggiungere, come quarto fattore di rischio, l'insensibilità dei governi verso la formazione storico sociale dei loro cittadini.

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