Autore: Cesare Grazioli

 

Indice:

A. Il processo di trasformazione della mondializzazione in globalizzazione
B. Il processo di formazione della società di massa e la sua diffusione nel mondo

 

Introduzione

 

Che il Novecento contenga una quantità di fatti, notizie e problemi che è difficile gestire, è un dato che, anno dopo anno, appare sempre più vistoso. Inoltre, la tendenza dei docenti è in genere quella di cominciare la spiegazione con i fatti dell’Ottocento e procedere cronologicamente. In questo modo, non si arriva mai a trovare il tempo per studiare il mondo attuale. Per ovviare a questo problema, occorrerebbe individuare i processi fondamentali, quelli che attraversano il secolo e giungono fino ad oggi. Vanno colti osservando il secolo “da lontano”, come se lo guardassimo dalla Luna, per riprendere un’espressione di Leften Stavros Stavrianos, lo storico greco-canadese che promosse lo studio della Storia Mondiale (1913-2004). La proposta che segue, dunque, individua due processi fondamentali - la nascita della globalizzazione e la formazione della società di massa – e li articola in tre periodi. E’ la proposta di un programma essenziale, di base, che il docente potrà arricchire con approfondimenti e laboratori.

(versione corretta il 17 marzo 2013)


A. Il processo di trasformazione della mondializzazione in globalizzazione


Se vogliamo individuare il periodo storico in cui si può parlare di un mondo non ancora globalizzato, ma già organizzato come un unico “sistema-mondo”, esso iniziò certamente a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento. Quel sistema-mondo era organizzato secondo un rapporto di subordinazione centro-periferia: era dominato dall’Europa ed orchestrato dalla Gran Bretagna, che avevano sottomesso Asia e Africa ed “europeizzato” le Americhe e l’Australia. Era realmente un sistema integrato, caratterizzato da una larga circolazione di merci, capitali, notizie, persone (basti pensare all’emigrazione transoceanica). Da questo momento iniziale può partire un racconto in tre fasi.

 

La regina Vittoria redarguisce il nipotino, il Kaiser Guglielmo


Primo periodo: da inizio Novecento al 1945. La distruzione del sistema-mondo basato sul primato britannico

 

La prima parte del Novecento, soprattutto il trentennio 1914-1945, ci appare come il periodo in cui quel “sistema-mondo” relativamente unitario d’inizio secolo si distrusse, frantumandosi in diversi “mondi”, ovvero sistemi economici e politici separati e contrapposti. Non cambiarono le relazioni tra centro e periferia (la dipendenza coloniale di Asia e Africa), bensì quelle all’interno del “centro”, ove venne meno il primato britannico coi meccanismi che nell’Ottocento gli avevano garantito il dominio del mondo (il gold standard, il primato della sterlina e della potenza marittima inglese).

 

Mussolini, Hitler e Hiroito in una caricatura americana, durante la seconda guerra mondiale

 

Questo crollo avvenne nel fuoco delle due guerre mondiali e della devastante crisi economica degli anni ’30. Alla metà degli anni ’30, non esisteva più un unico sistema-mondo, ma un disordine sistemico, che portò alla seconda guerra mondiale. I sistemi economici e politici, separati e vicendevolmente contrapposti, erano:

 

  • gli Usa, chiusi nel loro isolazionismo;
  • Gran Bretagna e Francia, che puntavano sugli scambi privilegiati all’interno dei rispettivi imperi coloniali;
  • l’Urss dei piani quinquennali, isolata dal mercato mondiale;
  • la Germania nazista, col suo sistema di scambi bilaterali con i paesi satelliti;
  • l’Italia dell’autarchia;
  • il Giappone col suo progetto della “sfera di co-prosperità dell’Asia orientale”. Il tragico esito di questo disordine sistemico, fu la II Guerra mondiale.

 

Secondo periodo: dal 1945 ai primi anni settanta. Il nuovo ordine, basato sul primato americano e sul “bipolarismo asimmetrico”, e “l’età dell’oro” dell’Occidente.

 

Dalla  II guerra mondiale uscì un unico vincitore sul piano economico-finanziario, gli Usa, ma due vincitori sul piano militare (e ideologico): Usa e Urss. Il loro comune interesse a liquidare il colonialismo europeo favorì l’impetuoso processo di decolonizzazione che si diffuse dai due giganti asiatici, India e Cina, al resto dell’Asia (fino alla metà dei ’50) e nel decennio successivo in Africa. La decolonizzazione fu la prima causa del profondo cambiamento nel rapporto centro-periferia.

 

Ma anche al “centro” del sistema, ovvero nel “nord del mondo”, si creò un nuovo scenario. Qui il “bipolarismo asimmetrico” fra Usa e Urss divenne presto una “guerra fredda”: una forma di conflitto funzionale agli interessi di entrambe le superpotenze. All’Urss, che solo con la paura del nemico imperialista poteva cementare i paesi del “socialismo reale” entro i rigidi schemi dell’economia pianificata staliniana; agli Usa, che senza la paura del comunismo non avrebbe potuto alimentare quel complesso industrial-militare che fu un indispensabile volano economico (il warfare state, come è stato definito) nell’America dei ‘50.

 

Probabilmente il momento iniziale di questo nuovo ordine mondiale, è costituito dalla Conferenza di Bretton Woods, che tra il ’44 e il ’45 pose le basi dell’”età dell’oro” dell’Occidente. In quell’occasione furono stabiliti:

 

  • la centralità del dollaro e la sua convertibilità in oro,
  • il sistema di cambi fissi fra dollaro e le restanti monete,
  • la nascita di organismi come la Banca mondiale e il Fmi, che dovevano favorire la liberalizzazione degli scambi in un sistema di economia di mercato aperta, sotto l’egemonia del gigante americano.

 

A ciò si aggiunse la lungimirante scelta di esportare il fordismo, inteso come sistema di produzione e di consumo di beni durevoli, che (oltre al già citato riarmo) assicurò all’Occidente un periodo di crescita economica eccezionale per intensità e durata, durante il quale si produssero trasformazioni socio-culturali senza precedenti nella storia del pianeta.

 

Breznev e Nixon si incontrano nel 1972


Terzo periodo: dall’inizio degli anni ’70 alla fine degli anni ’80. Prende forma il mondo attuale, globalizzato

 

La svolta è segnata da un complesso di fenomeni, apparentemente non collegati, distribuiti tra l’inizio dei ’70 e la fine degli ’80:

 

  • nel 1971, la scelta di Nixon di svalutare il dollaro, abbandonando la sua convertibilità in oro e con esso il sistema dei cambi fissi di Bretton Woods;
  • l’impennata dei prezzi del petrolio della metà degli anni ’70;
  • la stagnazione economica che colpì il mondo industrializzato;
  • le “quattro modernizzazioni” avviate in Cina da Deng Xiaoping nel ’78, che proiettarono la Cina verso una crescita economica senza pari per intensità e durata;
  • la rivoluzione tecnologica avviata nella Silicon Valley nella seconda metà dei ’70, che impose i quattro nuovi settori strategici del presente: elettronica, informatica, telecomunicazioni, biotecnologie;
  • la “rivoluzione conservatrice” di Reagan (dei primi anni ’80, ma iniziata in Gran Bretagna dalla Thatcher), all’insegna del “mercatismo” (“meno Stato, più mercato”), della “deregulation” sia del lavoro (la flessibilità, quasi sempre tradotta in precarietà del lavoro), sia – soprattutto – della finanza, con un impressionante finanziarizzazione dell’economia globale.

 

Un dato dice più di mille commenti: la circolazione di capitali sul mercato mondiale centuplicò in poco più di un ventennio, passando da 15 miliardi di dollari al giorno del 1975 a 1500 nel 1997. La rivoluzione reaganiana ebbe i suoi capisaldi nel rafforzamento del dollaro, nel riarmo e nella nuova guerra fredda che, nonostante gli sforzi di Gorbaciov di autoriformare il sistema sovietico, portarono alla caduta del muro di Berlino, alla dissoluzione del blocco socialista e, nel ’91, all’autodissoluzione della stessa URSS e del “comunismo reale”.

 

I tre protagonisti della scena mondiale degli anni ‘80


Oggi, il presente

 

Con gli occhi di chi, nel ‘900, visse con sbalordimento questi eventi, il crollo del comunismo sovietico e la fine della guerra fredda, sembrò la svolta epocale, la fine del Secolo breve, come scrisse lo storico inglese J.E.Hosbawm. Guardando quegli eventi dall’osservatorio attuale, invece, ci appaiono ben più rilevanti questi fenomeni:

 

  • la finanziarizzazione dell’economia avviata da Reagan,
  • il conseguente susseguirsi di bolle speculative sempre più frequenti e più deflagranti,
  • la delocalizzazione dell’economia globale e lo spostamento del suo baricentro verso l’Asia e verso altri paesi di nuova industrializzazione (come il Brasile e la Turchia).

 

Questi sommovimenti sono stati tanto importanti, da cambiare radicalmente le gerarchie e le relazioni internazionali. Che anche nel nostro piccolo orizzonte nazionale il presente sia iniziato negli anni ’80, ce lo dice il “macro-problema”, il fardello che il l’Italia si trascina sulle spalle da quel decennio ad oggi: il rapporto tra debito pubblico e pil al 120%. Un debito che raggiunse questo livello nel corso degli anni ‘80. Ce lo dice anche il ruolo sempre più marginale che l’Italia assume, nel nuovo quadro mondiale, politico ed economico.

 

B. Il processo di formazione della società di massa e della sua diffusione nel mondo

 

Nascita e trasformazioni della società di massa.

 

Se osserviamo il Novecento non dall’ “alto” delle relazioni e dei rapporti di forza tra le grandi aree del mondo, ma “dal basso”, cioè dall’interno delle società e dei gruppi umani, il fenomeno di gran lunga più rilevante (anche per i molteplici aspetti che include: politici, economici, di cultura e mentalità collettiva) ci appare la formazione della società di massa. Le tracce di questo inizio si trovano nella seconda metà dell’Ottocento. Fino ad allora la grande maggioranza della popolazione (in Europa e nel mondo) - ovvero le masse contadine, il proletariato urbano  -  subiva una triplice, drastica esclusione:

 

  • politica (anche in Europa, dove il suffragio era ristretto ai più ricchi);
  • economica, dal momento che era relegata alla pura sussistenza, con un accesso marginale all’economia di scambio;
  • culturale, a causa del diffuso analfabetismo.

 

A questa esclusione popolare si deve aggiungere quella di genere, che impediva alle donne sia la partecipazione alla vita politica, sia l’accesso a professioni qualificanti e rendeva loro difficile l’accesso all’istruzione superiore.

 

 

Fino a quel tempo, inoltre, l’individuo  – e questo valeva non solo per le masse subalterne, ma per quasi tutti i gruppi sociali – tendeva a concepirsi non come “persona”, portatrice di diritti individuali, ma come membro di un gruppo, di una comunità ristretta. Era il componente di una “piccola patria” che ovviamente cambiava secondo i contesti sociali: la casata nobiliare o il lignaggio; la corporazione o il gruppo dei “pari”; la comunità di villaggio, la parrocchia o il rione urbano. Questo avveniva anche in Europa, nonostante l’enfasi sull’individuo che la cultura europea aveva posto già dai tempi della Riforma protestante, dell’Illuminismo, della Rivoluzione francese, del liberalismo.

La distruzione delle piccole patrie e la nascita della società di massa hanno causato, a loro volta:

 

  • la progressiva inclusione delle masse subalterne;
  • la “nazionalizzazione delle masse” fino alla seconda guerra mondiale e, successivamente, la tendenza alla loro sempre più accentuata atomizzazione. Una tendenza per tutte: la diffusione delle famiglie “monoindividuali” .

 

Gli agenti della trasformazione sociale: lo Stato, la politica, le ideologie

 

L’espressione “nazionalizzazione delle masse” è da tempo condivisa dagli storici per descrivere i complessi processi attraverso cui gli Stati, tra secondo Ottocento e inizio Novecento, ruppero le “piccole patrie” e fecero sentire lo Stato nazionale come “comunità di destino”. Gli strumenti di questa trasformazione furono, in genere: la scuola, la leva militare obbligatoria, l’“invenzione di tradizioni nazionali”, vere e proprie liturgie collettive laiche, ecc. Ad essi vanno aggiunte alcune riforme fondamentali: l’estensione del suffragio, la legislazione sociale, ecc. Questi processi accomunano i paesi dell’Occidente, per quanto con cronologie diverse.

Al nazionalismo liberale, democratico e progressista d’inizio Ottocento si sovrappose tra fine Ottocento e inizio Novecento quello aggressivo e imperialista, intriso di razzismo e spesso di antisemitismo, che in nome del “sacro egoismo” scatenò l’immane carneficina della Grande Guerra. A quel tempo, un’altra ideologia, di segno opposto, il socialismo internazionalista e pacifista, ebbe un grande ruolo nel mobilitare le masse operaie e nel conferire loro una forte identità collettiva.

Se intendiamo le ideologie come grandi visioni dei rapporti tra individui, società e stato, i decenni dal 1919 al 1945 ci appaiono come quelli in cui le ideologie seppero mobilitare le masse nelle forme più estreme, in un coacervo di esperimenti e soluzioni diverse e tragiche. Durò poco l’illusione che ad imporsi fosse l’ideologia dei vincitori, il liberalismo, per quanto fosse stato corretto in senso liberaldemocratico, con il suffragio universale e la diffusione dei grandi partiti di massa. Prima si affermò la rivoluzione bolscevica in Russia, e con essa il mito del “fare come in Russia”. Poi irruppero sulla scena del dopoguerra i partiti-milizia, che in Italia,in Germania e poi in molti paesi europei, si trasformarono in regimi di massa, dimostrando che era possibile un’inclusione e una mobilitazione delle masse non democratica ma in forme totalitarie e populiste, imperniate sul rapporto diretto tra le masse e un capo carismatico, e su un ancora più esasperato nazionalismo.

Negli Stati Uniti tra le due guerre, l’inclusione delle masse avvenne secondo due ricette diverse. Negli anni ’20, la rivoluzione fordista, ovvero la creazione della società dei consumi di massa di beni durevoli (auto, radio, elettrodomestici); e dopo la brusca frenata dovuta alla crisi del ’29, il New Deal, applicazione delle teorie di Keynes, ovvero l’idea che lo Stato dovesse intervenire per alimentare la domanda, che il mercato lasciato a sé stesso non era in grado di riattivare. Anche il fordismo e il New Deal, si noti, vanno considerate due potenti forme di organizzazione dei rapporti tra individui, società, Stato: ideologie, insomma (se si abbandona l’accezione spregiativa con cui la parola viene spesso intesa).

 


Due film di Chaplin sono emblematici di questo periodo: Tempi moderni (1936)  e Il grande dittatore (1940)

 

La II Guerra mondiale non rappresentò una cesura, all’interno di questo processo. Infatti, sconfitto il comune nemico, il nazi-fascismo, la contrapposizione tra il modello sovietico e il capitalismo liberal-democratico disegnò non solo i confini tra i blocchi, ma plasmò le economie e le società di tutto il mondo. Durante il  trentennio che va dal 1943 al 1973, il modello occidentale fuse fordismo e keynesismo, e creò – in Europa ben più che negli Usa – la più grande autoriforma del capitalismo: il welfare state. Secondo questa nuova politica, lo Stato assunse il ruolo di redistributore dei redditi, e promosse una nuova generazione di diritti (dopo quelli civili e politici): i diritti sociali. In quei decenni, emersero anche nuovi soggetti, in primo luogo le donne e i giovani, con la nascita delle culture giovanili.

 

Ideologie, mercato, media: fine delle ideologie o nuove/vecchie ideologie?

 

La patria, la razza, il partito, la classe, il mercato, il genere, la generazione furono le parole-chiave delle grandi ideologie che fino agli anni ’70-’80 hanno contribuito all’inclusione delle masse nella vita collettiva, e hanno costruito identità collettive diverse, più ampie e inclusive delle “piccole patrie” tradizionali. Queste masse, una volta politicizzate, non hanno cessato di trasformarsi. La tendenza di fondo del passato più recente, infatti, può essere espressa con la formula del “passaggio dal noi all’ io”. Ovvero l’atomizzazione dell’individuo. Di questo processo sono espressione due fenomeni che caratterizzano il mondo attuale:

 

  • l’ “ideologia della fine delle ideologie”, o se si preferisce l’emergere del cosiddetto “pensiero unico”, mercatista e ultraliberista, che dagli anni ’70 ha ribaltato le priorità del keynesismo e dell’economia sociale di mercato nella quale confluivano la tradizione liberal e quella socialdemocratica; 
  • l’evoluzione del capitalismo dal fordismo al post-fordismo, ovvero dalla centralità dei beni standardizzati per i consumi durevoli della famiglia (auto, elettrodomestici, ecc), a quella di beni personalizzati, spesso usa-e-getta, rivolti al consumo individuale; la trasformazione sempre più serrata della società di massa in società dell’informazione: aspetto, questo,  che rimanda alle trasformazioni antropologiche associate ai media.

 


Obama visto dalla destra americana

 

I media, è superfluo ricordarlo, hanno scandito tutta la storia degli ultimi cent’anni: la radio e il cinema sonoro dagli anni ’20; la televisione dai ’50, con la sua crescente pervasività e le sue trasformazioni dai ’70; internet e i social network dagli ’80 al presente. E’ appena il caso di osservare quanto le direzioni di questi fenomeni possano essere diverse e opposte, se si osservano, da una parte, il movimento No global e l’uso della rete nelle campagne elettorali del democratico Barach Obama negli Usa; dall’altra, i rischi di un nuova deriva populista, generata dall’adesione fideistica delle folle a un capo, già sperimentata in Italia con la “telecrazia” berlusconiana; e come può profilarsi, in una versione del tutto nuova, basata sulla “rete” (come le vicende italiane di questi mesi potrebbero mostrare).

Questo sito utilizza cookies tecnici e di terze parti per funzionalità quali la condivisione sui social network e/o la visualizzazione di media. Chiudendo questo banner, cliccando in un'area sottostante o accedendo ad un'altra pagina del sito, acconsenti all’uso dei cookie. Se non acconsenti all'utilizzo dei cookie di terze parti, alcune di queste funzionalità potrebbero essere non disponibili.