Autore: Cesare Grazioli

 

Tre definizioni di un concetto molto, molto complicato

 

Indice:

  1. Questione di definizione
  2. Liberismo e impresa
  3. Liberismo e stato
  4. Liberismo oggi

 

 

1. Questione di definizione

 

Liberalism fra inglese e italiano

 

Per cominciare, è indispensabile che sia chiara la distinzione (tutta racchiusa in una sillaba) tra:
il LIBERISMO, di cui qui ci occuperemo - la teoria economica che risale allo scozzese Adam Smith -; e il LIBERALISMO, la teoria politica risalente a John Locke, che contro l’assolutismo sosteneva la divisione del potere (tra esecutivo/governo e legislativo/parlamento), l’inviolabilità delle libertà fondamentali dell’uomo (i diritti civili, diremmo oggi), e l’uguaglianza formale, cioè di fronte alla legge.

Per singolare paradosso, proprio la cultura inglese, che elaborò questi concetti, non li distingue sul piano linguistico, usando per entrambi la parola liberalism.

Tuttavia i due concetti vanno distinti, come prova il fatto che l’uno può stare senza l’altro: ad es. un regime del tutto illiberale come la dittatura fascista di Pinochet in Cile era ultra-liberista in economia; e, viceversa, sistemi politici liberali o liberaldemocratici* sono stati e possono essere poco o per nulla liberisti, come ora vedremo.

* definiamo qui liberaldemocratico un sistema liberale basato sul suffragio universale, mentre il liberalismo classico ottocentesco limitava il voto, cioè i diritti politici, a chi aveva determinati requisiti di censo e/o di istruzione.

 

La libertà secondo Adam Smith

 

Certamente Adam Smith, il primo teorico del liberismo, lo intendeva come la proiezione sul piano economico del liberalismo politico: sosteneva infatti la libertà dell’impresa, la libertà del mercato, la libertà dei commerci.

 

Ma cerchiamo di capire: libertà di chi, e da chi/ da che cosa?

 

Smith adottò il punto di vista dell’imprenditore capitalista o, per dirlo più concretamente, dell’industriale creatore del moderno sistema di fabbrica nella prima rivoluzione industriale.
(A .Smith, Saggio  sulla natura e l’origine della ricchezza delle nazioni, 1776).

 

Per Smith sono i profitti dell’imprenditore, tramite i suoi investimenti produttivi, che generano lo sviluppo economico generale. Con disarmante sincerità, Smith aggiungeva che, per il benessere e la ricchezza di una nazione, era necessaria l’esistenza di una maggioranza di poorlabours, cioè di lavoratori salariati sulla soglia della povertà, con salari sufficienti solo a sfamare sé e (al più) l’unico loro bene, i figli: quei poorlabours vennero poi definiti da Marx ‘proletariato di fabbrica’.

 

Tre definizioni di liberismo

 

Se è chiaro che la libertà economica teorizzata da Smith è (soprattutto) quella dell'imprenditore capitalista, la sua concezione diventa coerente. Da allora liberismo significa tre cose:

  1. Libertà della singola impresa di operare in un mercato “autoregolato”, nel quale lo Stato non intervenga, cioè non voglia fissare i prezzi, o programmare-incentivare lo sviluppo di un settore o di un altro, o costituire aziende statali: insomma, un’economia basata su un sistema di aziende private in regime di libera concorrenza fra loro
  2. Libertà di commercio internazionale, senza che lo Stato fissi dazi doganali e altre misure protezionistiche: in questo caso, liberismo è sinonimo di libero-scambismo.
  3. Libertà dell’impresa nel gestire la forza-lavoro, senza vincoli posti da leggi dello Stato o dai lavoratori coalizzati in organizzazioni sindacali (i sindacati dei lavoratori esistono perché è ovvio che se il contratto di lavoro è pattuito individualmente tra il datore di lavoro e il singolo lavoratore, il primo è di norma in posizione di forza, data la oggettiva disparità del loro rapporto).

 

2. Liberismo e impresa

 

Il liberismo secondo le imprese


Vediamo la prospettiva degli imprenditori, ovvero delle imprese.

Le imprese tendono sempre ad essere liberiste nel 3° significato sopra indicato, cioè a preferire la più ampia libertà/discrezionalità nel gestire la forza-lavoro: esempi facili, tratti dall’attualità italiana, sono la contrarietà delle imprese all’art.18 dello Statuto dei lavoratori (che regola i casi di licenziamento individuale), e il loro favore alla possibilità di avere un gran numero di contratti di assunzione “flessibili”. In questo caso, il “liberismo” è inteso come libertà dell’impresa dai vincoli posti dal sindacato e dalle leggi a tutela del lavoro dipendente (contro i “lacci e laccioli”, secondo una espressione di largo uso nel mondo delle imprese).

Il liberismo nel 1° significato (mercato autoregolato, senza interferenze statali) significa per le imprese essere contrarie a tre situazioni molto diverse:

  1. a una economia statalizzata e pianificata (di tipo socialista sovietico)
  2. a una economia mista (in parte pubblica, in parte privata, come era quella italiana dagli anni ’30 fino ai ’90; o quelle inglese e francese nel 2° dopoguerra)
  3. a un’economia in cui lo Stato abbia un ruolo di indirizzo, cioè di programmazione economica, e/o di intervento in funzione anticiclica (ovvero di spesa pubblica per espandere la domanda nelle fasi recessive, quando il mercato, cioè l’economia privata, si trovi in difficoltà), come accadde col New Deal di Roosevelt negli Stati Uniti degli anni ’30; e come accadde dal secondo dopoguerra in gran parte d’Europa, con le politiche del Welfare State.

 

Una metafora calcistica per capire il liberismo
 
Il 1° tipo di liberismo assegnerebbe allo Stato il ruolo del servizio d’ordine, il più discreto possibile (“c’è ma non si vede”), il quale sorveglia lo stadio, reprime i tifosi violenti, assicura “legge e ordine”, e si disinteressa completamente di quanto accade in campo. Agli occhi di questo tipo di liberismo, l’economia pianificata (a) è quella dello Stato che, anziché limitarsi al ruolo suo proprio di servizio d’ordine, sequestra lo stadio, caccia le squadre e si mette a giocare, per di più cambiando le regole e anche le misure delle porte; l’economia mista (b) gli appare quella in cui lo Stato entra in campo, confondendosi con gli altri giocatori; la programmazione economica (c) gli appare  infine paragonabile al caso di un servizio d’ordine che si metta a svolgere il ruolo di allenatore, o di arbitro della partita.

Naturalmente, il liberista che preferisce la musica sinfonica al calcio, può paragonare il ruolo dello Stato a quello della polizia municipale di servizio al teatro (o della maschera che controlla i biglietti); e paragonerebbe le altre situazioni qui indicate alla maschera che assumesse la direzione artistica del teatro (a); o che si intrufolasse tra gli orchestrali (b); o si mettesse a fare il direttore d’orchestra (c).

 

Una contraddizione interna al liberismo

 

Il liberismo in questa prima accezione, come autodeterminazione del sistema delle imprese private, ha una contraddizione intrinseca, rilevata già dallo stesso Smith:

  • da una parte, infatti, il principio della libera concorrenza dovrebbe basarsi su un sistema di molte imprese in competizione tra loro sulla qualità dei prodotti e/o sui prezzi;
  • dall’altra, però, questa concorrenza può servire ad alcune imprese per “mettere fuori mercato” e/o assorbire le concorrenti, fino ad arrivare a una situazione di monopolio, che è l’opposto della concorrenza stessa (non a caso gli Stati Uniti per primi hanno adottato da un secolo, sia pure con scarso successo, una legislazione antitrust).

 

Aziende liberiste solo di nome

 

Infine, le aziende sono spesso molto poco liberiste nel 2° significato, cioè libero-scambiste, e ci limitiamo qui a pochi esempi tratti dalla storia del Novecento, tra gli innumerevoli possibili.

Negli Stati Uniti dei “ruggenti” anni ‘20, la grande industria era ferocemente liberista nel 3° significato (si arrivò a uccidere dei sindacalisti…), e nel 1° (in omaggio a un antistatalismo radicato nella cultura americana del “self-made man”); ma per nulla nel 2°, anzi ottenne dallo Stato tariffe protezionistiche tali da impedire praticamente le importazioni di molte merci.

Lo stesso si può dire della Confindustria italiana negli anni ‘50, che quasi eliminò i sindacati nelle fabbriche (e basò lo sviluppo di quell’epoca anche sui salari più bassi d’Europa), e si oppose a ogni ipotesi di programmazione economica (che invece, sulla base del keynesismo condiviso nel resto dell’Occidente, era largamente praticata altrove).

Questa industria fu – nelle sue componenti maggioritarie – schierata a difesa del guscio protezionistico vigente dalla fine dell’Ottocento, e rafforzato dal fascismo: tanto che inizialmente avversò l’adesione alla Cee, sostenuta dai governi del tempo (e che si sarebbe poi rivelata vantaggiosissima per le stesse imprese: la Cee divenne subito il principale mercato di sbocco per i prodotti italiani).

 

3. Liberalismo e stato

 

Il liberismo secondo lo stato fascista

 

Vediamo ora la prospettiva degli Stati, cioè della politica economica dei governi.

Ci riferiamo ovviamente a Stati ad economia di mercato (cioè capitalistica), perché è ovvio che i regimi di tipo sovietico, che statalizzarono e centralizzarono l’economia eliminando il mercato, furono l’opposto del liberismo in tutti  e tre i sensi.

Più complesso sarebbe il discorso per Stati autoritari di tipo fascista, o, in qualche modo, per  quella forma di capitalismo di Stato oggi vigente in Cina, che al di là della propaganda, sembrerebbe più simile ai sistemi fascisti che a quello comunista.

Quegli Stati erano liberisti nel 3° significato (lasciavano cioè totale libertà d’azione alle imprese nei confronti dei lavoratori, privando questi ultimi del diritto di scioperare e di organizzarsi in sindacati non controllati dal regime; sia pur con la “foglia di fico” dell’ordinamento corporativo).

I sistemi fascisti erano invece nettamente anti-liberisti nel 2° significato, cioè erano protezionisti (fino all’autarchia, nel caso italiano; o alla gestione statale del commercio estero, in forme bilaterali gestite dal governo, nel caso del nazismo tedesco); ed erano anti-liberisti nel 1° significato, visto che il fascismo e il nazismo intervennero pesantemente nell’economia: il fascismo con la statalizzazione di molte banche e imprese, fino a creare lo “Stato imprenditore e banchiere”, a fianco dell’economia privata; il nazismo, con i “piani quadriennali” che decretavano quali settori incentivare e quali no.

 

Il liberismo secondo gli stati liberaldemocratici

 

Ma anche per gli Stati liberaldemocratici ad economia di mercato, è opportuno distinguere i tre significati di liberismo sopra richiamati, con esempi tratti dal passato e dal presente.

Nell’America di Roosevelt, il New Deal fu anti-liberista in tutti tre i significati sopra indicati: mantenne le barriere protezionistiche ereditate dai governi repubblicani degli anni venti; introdusse concrete misure a favore dei sindacati e dei lavoratori, per sostenere l’occupazione e i redditi da lavoro, e perciò la domanda interna; attuò numerose misure non tanto di programmazione, quanto di intervento diretto dello Stato, con grandi opere pubbliche per rilanciare l’occupazione e i consumi. Eppure, il New Deal non si proponeva certo di limitare l’economia di mercato, né tanto meno di renderla “socialista”, quanto piuttosto di salvarla e rafforzarla, e così accadde, anche se solo parzialmente: sappiamo che fu poi la 2° guerra mondiale a risollevare definitivamente l’economia americana dalla depressione degli anni ’30.

In gran parte dell’Europa occidentale, per tutta la “età dell’oro” (i trent’anni successivi al 1945) i governi si ispirarono a Keynes e al Welfare State, tanto che in Germania fu coniato il termine “economia sociale di mercato”. Ciò portò a una situazione pressoché opposta a quella dell’America degli anni venti. Lo Stato interveniva sia con misure dirette e indirette a favore dei lavoratori, per favorire la piena occupazione e una serie di “diritti sociali” dentro e fuori i luoghi di lavoro; interveniva inoltre sul mercato programmando lo sviluppo (con formule quali: politiche industriali, “concertazione” e “politiche dei redditi”, incentivi alla ricerca e a settori considerati strategici), e/o assumendo direttamente la gestione di alcuni settori economici considerati strategici come trasporti, energia, sanità, scuola, ecc.

Anti-liberisti, dunque, secondo il 1° e il 3° significato, gli Stati europei erano invece libero-scambisti, a partire dai trattati fondatori della Ceca (1950) e della Cee (1957), almeno per il commercio dei beni industriali. Per la verità, la Cee fu, e la Ue è tuttora, un mercato di libero scambio industriale ma al contempo un sistema di protezionismo agrario, cioè di difesa (onerosissima!) degli agricoltori-allevatori europei dalla concorrenza extra-europea.

 

Il caso italiano

 

Il caso italiano, come spesso accade, è più complesso. Nel dopoguerra, e soprattutto dal 1947 (cioè dall’inizio della formula del centrismo, con De Gasperi capo del governo ed Einaudi ministro del Tesoro), i governi italiani adottarono una graduale apertura al libero-scambismo, anche superando le resistenze della Confindustria (con le già citate adesioni alla Ceca e alla Cee); e fecero propria la posizione della Confindustria, liberista nel 3° significato (cioè in senso “antioperaio”), e nel 2°, ovvero rinunciarono a una politica di programmazione economica (di “programmazione” si riparlò solo dagli anni ’60, ma non fu mai attuata).

Così facendo delegarono lo sviluppo esclusivamente alla spontaneità del mercato. Al contempo, però, quei governi mantennero (rispetto all’epoca fascista), ma anche crearono ex novo, importanti settori di industria pubblica: l’Iri, il maggiore gruppo italiano; l’Agip e poi l’Eni, colosso nel settore energetico; poi l’Enel nel campo dell’elettricità, e la Montedison, colosso chimico e nelle fibre sintetiche, ed altri. Si trattò di settori che ebbero un ruolo essenziale nel favorire il “miracolo economico”.

Secondo la metafora calcistica che abbiamo già utilizzato, lo Stato italiano dai ’40 ai ’60 rinunciò a svolgere il ruolo di giudice/arbitro del mercato, ma svolse (molto più di altri Stati occidentali) il ruolo di giocatore, a fianco e/o in competizione con gli altri giocatori (privati). Dalla fine degli anni ’60, poi (pressato dalle lotte operaie di quegli anni), assunse un ruolo diverso anche nei rapporti tra imprese e lavoratori, attuando importanti leggi a tutela del lavoro: vedi soprattutto  la legge 300 del 1970, chiamata Statuto dei lavoratori.  

 

4. Il liberismo oggi

 

L’Occidente e le politiche keynesiane

 

In Occidente, la teoria economica keynesiana fu rimessa in discussione e poi abbandonata dalla fine degli anni ‘70, di fronte al crescente indebitamento degli Stati (dovuto principalmente all’aumento della spesa pubblica legata ai costi del Welfare State). Per la verità, a giudizio di molti economisti, quell’indebitamento derivava non tanto dal keynesismo, quanto dal modo unilaterale con cui era stato applicato. La teoria di Keynes, infatti, venne interpretata come la giustificazione del “deficit spending”, ovvero della necessità che lo Stato finanziasse lo sviluppo anche ricorrendo all’indebitamento.

In realtà, secondo Keynes, lo Stato deve giocare un ruolo “anticiclico”, ma questo significa:

  1. spendere, anche indebitandosi cioè creando deficit, durante le fasi recessive del mercato;
  2. ma, all’opposto, drenare risorse (soprattutto con la leva fiscale) e in tal modo ridurre le sue spese e i suoi debiti, durante le fasi favorevoli del ciclo economico, quando c’è meno bisogno della spesa pubblica per alimentare la domanda e la produzione.

Però, ben si capisce, è politicamente più facile per gli Stati giocare il ruolo di “cicala” che quello di “formica”, cosicché le loro politiche di alta spesa pubblica produssero un crescente indebitamento, che a sua volta portò buoni argomenti al neo-liberismo, avversario della teoria keynesiana.

 

Il monetarismo neoliberista

 

Il monetarismo neo-liberista, nuovamente imperante dagli anni ’80, assume come dogmi il pareggio del bilancio dello Stato, la riduzione della spesa pubblica e delle tasse, con la formula “meno Stato più mercato” (liberismo del 1° tipo), e con una “deregulation” sia nei rapporti di lavoro (liberismo del 3° tipo) sia, soprattutto, nella riduzione dei controlli sui movimenti di capitale finanziario (liberismo del 2° tipo, in questo caso applicato non solo alla liberalizzazione della circolazione internazionale delle merci, ma soprattutto a quella dei capitali), con la conseguenza di una enorme finanziarizzazione dell’economia (ricordiamo che il volume di scambi solo di valute estere  passò da 15 miliardi di dollari al giorno del 1975 a 3.200 nel 2007, cioè si è moltiplicato x 213 volte).

Da allora, le politiche economiche seguite sia dagli organismi internazionale come il Fmi, la Banca mondiale, l’Ue (Unione europea) e la Bce (Banca centrale europea), sia dai singoli Stati (specie quelli europei, sotto l’egemonia della Germania e, forse più ancora, della grande finanza globale e dei suoi periodici attacchi speculativi a questa o a quella moneta o economia nazionale) sono state ispirate alle ricette liberiste, in tutte tre le accezioni (fino a fare diventare il pareggio di bilancio legge costituzionale, come hanno fatto l’Italia e altri Stati europei nel 2012 su pressione del governo tedesco della Merkel).

 

Si notino i due paradossi conclusivi:

 

  1. nella fase più acuta della tempesta finanziaria esplosa nel 2007-08, fu lo Stato a salvare le banche e il mercato (soprattutto negli Usa, con onerosissimi interventi a vantaggio di alcune grandi banche, fatti dallo Stato, cioè a carico dei contribuenti);
  2. le severissime ricette di rigore finanziario neoliberista imposto ai Paesi in difficoltà dagli anni ’90 ai nostri giorni (in Sud America: Messico, Brasile, Argentina nell’ordine; e oggi in Europa: vedi il caso della Grecia) hanno quasi sempre avuto l’effetto di… uccidere il malato!

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