di Giuliano De Felice

La Convenzione di Faro, finalmente

Finalmente anche in Italia si è iniziato a parlare di archeologia pubblica e partecipata, soprattutto sulla scia della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, meglio nota come Convenzione di Faro, a lungo (15 anni!) discussa e fresca di ratifica in Italia. Una Convenzione tutt’altro che perfetta ma che comunque rappresenta un enorme cambiamento rispetto al passato, soprattutto per l’idea di fondo di far ruotare tutto l’universo del patrimonio culturale (e quindi anche archeologico) intorno al concetto di comunità di patrimonio, definito come

un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future (art. 2).

Patrimonio e identità: parole potenzialmente pericolose

Un’espressione rivoluzionaria, ma anche potenzialmente pericolosa, perché a prima vista sembra adombrare una visione divisiva e prefigurare una competizione fra tanti patrimoni diversi per garantirsi una sopravvivenza per il futuro: quali aspetti specifici dei tanti potenziali patrimoni è necessario conservare e trasmettere? Quali è possibile distruggere? In realtà, ciò che la Convenzione propone è una visione dinamica del patrimonio culturale, definito come

un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi (art. 1).

Un insieme di risorse, in continua evoluzione, non riconducibili a specifiche forme o cronologie, ma riconoscibile dalle relazioni che costruisce con le comunità, vero fulcro di una nuova concezione di ricerca, didattica e valorizzazione del patrimonio stesso. In questo senso anche quando il termine identità viene citato non è in senso proprietario o selettivo, ma all’interno di una cornice in cui viene esplicitamente dichiarato che il patrimonio comprende

tutte le forme di eredità culturale in Europa che costituiscono, nel loro insieme, una fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività (art. 3).

Non si tratta certo della migliore delle definizioni possibili, ma è evidente a questo punto che il vero problema per un’attuazione aperta e non divisiva della Convenzione si sposta sul tipo e sulla qualità del rapporto possibile fra comunità e patrimonio. L’altro termine potenzialmente pericoloso potrebbe essere quello di comunità. Occorre interpretarlo come una “comunità che si costruisce”: un insieme di persone, quali che siano le loro origini e le loro motivazioni, che riconosce il patrimonio culturale non come una certezza imposta, ma come un’occasione per creare: partecipazione, significati, valore.

Archeologia è partecipazione

Fra le discipline legate al patrimonio culturale, l’archeologia è fra quelle che meglio sta rispondendo a questo nuovo scenario, moltiplicando le esperienze partecipative, ampliando la ricerca sulle possibili forme di creazione e funzionamento di comunità di patrimonio e attivando specifici insegnamenti di archeologia pubblica nei percorsi di formazione universitaria. Ma al di là delle esperienze anche molto efficaci messe in atto, la problematica da affrontare nel prossimo futuro è molto ampia, e coinvolge trasversalmente l’intero paradigma del patrimonio culturale, in una procedura che viene definita, questa volta con un’espressione davvero felice ed inequivocabile, dalla Convenzione come se fossero passi di un processo organico:

identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione (art. 5).

L’archeologia, nel suo specifico, ha necessità di individuare e attivare tutte le possibili comunità, perché è evidente che il processo unidirezionale ricerca-formazione-professione-pubblico ha le ore contate, ed è destinata a essere sostituita da un processo partecipativo, fra comunità e patrimonio. Archeologico, nel nostro caso.

Sopralluogo al campo 65. In primo piano la fontana del giardino dell’avancampo e la palazzina comando. Sullo sfondo una delle torrette di guardia1. Sopralluogo al campo 65. In primo piano la fontana del giardino dell’avancampo e la palazzina comando. Sullo sfondo una delle torrette di guardia

Un nuovo campo di lavoro: l’archeologia del passato contemporaneo

Provo a spiegarmi con un esempio. Negli ultimi anni mi sono occupato, nei miei corsi universitari, di analizzare i resti di alcuni luoghi legati ai conflitti del Novecento in diverse aree della Puglia. Non ci sarebbe niente di strano, se non fosse che il mio non è un corso di Storia Contemporanea, ma di Archeologia Digitale. Ogni anno infatti scelgo un tema per lavorare con gli studenti a un progetto di ricostruzione virtuale di siti e contesti archeologici e dopo tanti corsi dedicati a contesti preromani, romani e medievali, ho voluto passare le colonne d’Ercole dell’antichità per esplorare il mare (archeologicamente) poco battuto della modernità e della contemporaneità.

Già, perché esiste, anche se in Italia è poco diffusa, un’archeologia dell’età moderna e anche una archeologia dell’età contemporanea: archaeology of the contemporary past la chiamano, smaliziati, i ricercatori di scuola anglosassone. Past perché se c’è una cosa certa è che l’archeologia si occupa del passato: questo non è in discussione. Più difficile e opinabile, è invece di quale passato si debba occupare e oggi, alla domanda se esiste un limite cronologico oltre il quale l’archeologia non serve più si risponde quasi all’unanimità che si può fare archeologia di tutto il passato, dalla Preistoria ai primi decenni di questo nuovo millennio, indagando industria litica e residui di capanne preistoriche ma anche ruderi di fabbriche, depositi di tram abbandonati e rovine di basi missilistiche della guerra fredda.

L’archeologia scava uomini, non cose

L’archeologia infatti non è una tecnica, ma una mentalità, un modo di approcciarsi ai resti materiali del passato osservando ciò che resta per cercare di capire ciò che non c’è più, e se è in grado di mettere a fuoco periodi diversissimi, è perché - pur nella enorme diversità che può distinguere i resti del Paleolitico da quelli del Novecento -, alla fine non sono i resti, o i reperti la parte più importante, ma la ricostruzione delle storie degli uomini che hanno vissuto quei luoghi e usato quegli oggetti.

Si scavano uomini, non cose, diceva Mortimer Wheeler.

Il nostro corso, diventato così un corso di archeologia digitale del passato contemporaneo, è iniziato con un sopralluogo, per conoscere il contesto, redigere un primo rilievo, fotografare i resti e programmare le attività di ricostruzione virtuale, sul sito del Campo Prigionieri di Guerra n. 65 a metà strada fra Altamura e Gravina, in provincia di Bari. Un luogo con una storia importante e affascinante, che durante la seconda guerra mondiale fu prima campo di prigionia per soldati alleati, con una capienza prevista di 12000 internati, poi campo di addestramento per partigiani e, dopo la fine delle ostilità, centro raccolta profughi. Un luogo legato in tutti i modi possibili alla guerra, di cui rimangono ancora sul terreno alcuni resti, su una superficie di oltre 20 ettari. Praticamente una città.

Il campo prigionieri di guerra n. 65

Arrivati sul sito, e la prima espressione che si leggeva sul viso degli studenti era lo stupore. Immaginate venti studenti magistrali di archeologia addentrarsi in un luogo abbandonato, fra cumuli di detriti e vegetazione infestante: dura però solo un attimo, e rapidamente prevale la curiosità (il vero carburante della già citata mentalità). La mentalità si è messa al lavoro, ed eccoci tutti a riconoscere sul terreno, fra i muri, sui pavimenti di quei ruderi, le tracce degli uomini che ci hanno vissuto.

L’interno di una delle baracche superstiti. Su muri e pavimenti le tracce e i graffiti di prigionieri e soldati di leva, dal 1942 al 19902. L’interno di una delle baracche superstiti. Su muri e pavimenti le tracce e i graffiti di prigionieri e soldati di leva, dal 1942 al 1990

Certo, non 10000, né 1000, ma meno di 100 anni fa. Lo stupore nel riconoscere impronte lasciate sul cemento fresco dei pavimenti, tracce in negativo nel materiale da costruzione, graffiti e disegni sui muri si è trasformato rapidamente in una rigorosa analisi dei resti materiali di quello che da un cumulo di ruderi si era trasformato sotto i nostri occhi in un sito archeologico. Per la precisione un sito archeologico del passato contemporaneo. Un luogo in cui l’archeologia diventa visibile, e potenzialmente fruibile. Nessuno degli studenti ha avuto neanche un’esitazione a riconoscere in questo sito un luogo del patrimonio archeologico, perché non è certo l’imponenza dei resti né la loro vistosità a dare valore ad un contesto. Eppure non è a questo che siamo abituati: al pubblico l’archeologia finisce quasi sempre con il vendere tesori, obbligata a raccontarsi nei parchi archeologici e nei musei e a mettere in mostra bellezza, meraviglie, tesori: un po’ poco per una disciplina che si considera come una mentalità. Analitica, precisa, ma anche indiziaria e visionaria.

Rompere le cronologie, decostruire gli stereotipi identitari

L’allargamento della cronologia fino al passato contemporaneo è uno dei modi migliori per dimostrare come si possa imporre una svolta importante, direi necessaria alla luce della Convenzione di Faro, alla liturgia del patrimonio archeologico, mettendo in evidenza tutte le potenzialità di questa mentalità. La stessa archeologia che viene spesso forzata a costruire false identità fondate sull’orgoglio di sentirsi discendenti di un passato fatto di grandezza e prosperità, qui invece entra in contatto con una dura realtà materiale che lascia intravedere ben poco di maestoso e edificante, ma al tempo stesso si accorge di poter fare (non più per il suo pubblico ma per le sue comunità) molto più che proporre luoghi da valorizzare.

Vengono così a galla i tanti stereotipi che circondano il patrimonio archeologico, perché alla fine del gioco ci si accorge che indagare archeologicamente un luogo recente non solo permetta di capire come le tracce umane siano sempre le stesse in ogni epoca ma finisca inevitabilmente col laicizzarne il significato e mettere in mostra come il vero patrimonio dell’archeologia altro non sia che la Storia.

Hey, but this is my DAD!» Il figlio di un prigioniero neozelandese riconosce il padre sulla locandina dell’evento organizzato al campo 65 per il 2 giugno 20193. «Hey, but this is my DAD!» Il figlio di un prigioniero neozelandese riconosce il padre sulla locandina dell’evento organizzato al campo 65 per il 2 giugno 2019

Comunità di patrimonio

Il percorso di ricerca e formazione realizzato si è inserito perfettamente nella bellissima esperienza di partecipazione promossa dall’associazione campo 65 che da alcuni anni sta raccogliendo una comunità di patrimonio davvero notevole, recuperando e riunendo, anche virtualmente, tante figure diverse, dai discendenti dei prigionieri ai cittadini di oggi, dagli studenti di scuola agli amministratori locali.

Anche grazie al contributo dell’archeologia, quella che si è consolidata intorno al campo 65 è una comunità universale, transgenerazionale, complessa e molteplice che incarna alla perfezione lo spirito della Convenzione di Faro. Il lavoro svolto con gli studenti è un esempio di quello che la partecipazione può fare e di cosa voglia dire che è la comunità a fare il patrimonio, e non viceversa. Non si può infatti forzare nessuno a sentire come proprio un qualsiasi patrimonio culturale, ma si può fare in modo che si sviluppi una sensibilità condivisa che aiuti a riconoscerlo come tale, senza bisogno di cercare a tutti i costi bellezza dove bellezza non c’è mai stata, senza pretese che un luogo o una fase siano più importante di altri.

L’archeologia di comunità si libera dalla necessità di arrovellarsi alla ricerca di identità false e pericolose e insegna a guardare a tutta la stratificazione di tracce e resti, senza gerarchie e senza priorità, dall’antichità più remota al passato contemporaneo, perché è solo nella conoscenza e nella comprensione della Storia che si possono cercare significati e valori che rendano ancora utile fare archeologia nel ventunesimo secolo.

Il render finale del campo, con il montaggio del lavoro degli studenti (Università di Bari, AA 2018-2019, corso di Archeologia digitale)4. Il render finale del campo, con il montaggio del lavoro degli studenti (Università di Bari, AA 2018-2019, corso di Archeologia digitale)

Bibliografia

G. De Felice, Archeologia di un paesaggio contemporaneo. Le guerre del Novecento nella Murgia pugliese, Edipuglia, Bari 2020.

P. Dragoni, M. Cerquetti (a cura di), L’archeologia pubblica prima e dopo l’archeologia pubblica, «Il Capitale Culturale» suppl. 09, Macerata 2019.

D. Manacorda, Cosa intendiamo per archeologia oggi? La riflessione di Daniele Manacorda, «Archeostorie Magazine».

G. Volpe, Archeologia Pubblica. Metodi, tecniche, esperienze, Roma 2000.

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