Autore: Antonio Brusa

 

La storia

Galvanizzati dal successo dello sbarco in Normandia e, insieme, preoccupati dalla resistenza feroce organizzata dai tedeschi nelle Ardenne, gli angloamericani azzardarono un assalto dietro le loro linee, per tagliarne i rifornimenti e accerchiarle. Obiettivo dell’attacco: le città di Njimegen e di Arnhem, nell’Olanda meridionale, e i ponti che attraversano i loro fiumi. Nome dell’operazione “Market Garden”, tragicamente ottimistico per come andò a finire. Tempo: dal 17 al 26  al settembre. Nove giorni di battaglia, per un autentico disastro. Migliaia di morti, il ponte di Arnhem perso, decine di migliaia di prigionieri. Obiettivo militare completamente fallito. La guerra continuò per tutto il terribile inverno del ’44 e solo nei mesi iniziali dell’anno successivo gli alleati riuscirono a sfondare la resistenza tedesca. Il Museo della Liberazione di Groesbeek, nei dintorni di Nijmegen, è uno dei tre che, sul luogo della battaglia, ne conservano la memoria. L’ho visitato e sono stato colpito sia dallo sforzo didattico che i suoi progettisti vi hanno profuso, sia dallo spirito degli oltre ottanta volontari che mantengono in vita questa istituzione. Ecco il resoconto.

 

Il teatro dell’operazione “Market Garden”, con le due città di Nijmegen e Arnhem. Groesbeek è in basso a destra. Qui vennero paracadutate le truppe d’assalto americane. Le truppe inglesi aviotrasportate attaccarono Arnhem.

 

Indice

  • Il museo
  • Gli oggetti didattici
  • Il memoriale

 

Il museo

Il complesso è composto da due edifici: il museo e il memoriale.

Ancora prima di visitarli, ascoltando la loro storia e osservandoli dall’esterno, scopro che sono essi stessi il primo monumento storico. Infatti l’edificio museale non è altro che uno stabile “industriale”, residuato dell’immensa opera di bonifica che gli olandesi intrapresero dopo la catastrofe dello Zuidersee del 1953, quando il mare ruppe le dighe e inondò i Paesi Bassi. La bonifica terminò a metà degli anni ’80 e uno dei capannoni di lavoro, in luogo di essere smantellato, venne riciclato come contenitore museale. E’ un edificio basso, senza pretese architettoniche, dunque, ma capace di trasmettere una forte carica emotiva al visitatore olandese (ma anche allo straniero che viene informato), perché unisce due momenti di tradizione nazionale, la guerra contro il nazismo e quella contro la furia del mare.

Il percorso museale è scandito in tre periodi, riconoscibili da colori diversi: l’avvento del nazismo, la guerra, la liberazione postbellica. Non ne parlo, né descrivo i documenti raccolti e la loro sistemazione (non sono un esperto museologo), perché sono attratto dai dispositivi didattici. Anche questi sono una testimonianza di un periodo preciso: vi riconosco la didattica post sessantotto, quella che dura fino al principio degli anni ’90, nella quale si osservano i primi tentativi (e il loro entusiasmo) di costruire un rapporto con l’oggetto storico basato sull’interazione, e non solo sul racconto delle guide. Ma è anche la didattica del Novecento, basata sulla tecnologia di quel periodo: elettricità, carta, legno e metallo. Un mondo didattico recente, ma ormai scomparso nel nostro secolo, dominato dai computer e dall’elettronica. Simile a quel mondo che ci ostiniamo a cercare, noi adulti, nei giocattoli esposti nelle librerie della Città del Sole.

 

Il Museo della Liberazione Nazionale di Groesbeek è alloggiato in una costruzione riciclata, utilizzata originariamente per le opere di bonifica dopo l’alluvione del 1953

 

Gli oggetti didattici

La realtà virtuale ha conquistato il ruolo di unica via per “far vedere la storia” e ha privato di credibilità ogni altro tentativo di visualizzazione. Questo museo ci mostra come si faceva una volta: attraverso i diorami o i plastici. La realtà virtuale li ha relegati al ruolo di giocattoli scaduti. Un tempo erano uno strumento didattico di avanguardia. Costoso, richiedeva cura, capacità tecniche e studi. In questi musei ne troviamo esemplari di diverso formato. Alcuni, piccoli, rappresentano momenti emblematici dell’avvento nazista o di guerra, come lo sbarco in Normandia. Uno, a grandezza naturale, fissa una scena drammatica, del tentativo di attraversamento del fiume da parte di soldati americani, costretti a ripiegare e a curare i feriti.

Piccoli plastici: scene di età nazista e lo sbarco in Normandia

 

 

Quasi a grandezza naturale un momento drammatico del tentativo di attraversamento del fiume

 

L’interattività è la parola d’ordine dell’odierna didattica digitalizzata. Come si faceva un tempo? Con le lucette e i pulsanti. Un plastico circolare, di alcuni metri di diametro, con delle sedie attorno. Il visitatore si accomoda. Una voce racconta le fasi della battaglie e, man mano, si accendono le luci che rappresentano l’avanzata di una colonna corazzata tedesca, o l’atterraggio degli alianti inglesi. Un faretto illumina i luoghi interessati dal racconto. Puoi anche premere dei pulsanti e vedere fasi particolari: come nel plastico “elettrico” degli scontri sui ponti di Nijmegen. Entrare dentro la storia? Il computer odierno rende reale questa magia. Nella didattica eroica novecentesca è ancora questione di pulsanti e lampadine. Ecco una schermata che mostra delle scelte. Siamo sotto la dominazione nazista. Ci sono dei collaborazionisti. Tu che faresti? Fai la tua scelta, premi il bottone e vedrai le conseguenze. E, infine, lo vediamo il computer, sempre collegato al pannello elettrico. Una scrittura antica (quella dei primi Word o di Wordstar: ve li ricordate?) accoppiato all’onnipresente pannello, con la sua aria da sommergibile del capitan Nemo.

 

Seduto ai bordi del plastico, il visitatore italiano, riconoscibile dalle scarpe da ginnastica, ascolta la storia e guarda le lucette.

 

 

Gli scontri intorno al ponte sono visualizzati dalle lucette intermittenti

 

 

Tre scelte empatiche sulla collaborazione con i tedeschi

 

 

Un antico computer affiancato da un pannello elettrico

 

Anche la didattica ludica, oggi, sembra non poter fare a meno del computer, dei suoi scenari realistici, della complessa interazione garantita da programmi sempre più complessi (e costosi). Un tempo, era il regno del gioco dell’Oca, che in questo museo è utilizzato per ricostruire gli eventi dal Nazismo alla liberazione; oppure del Monopoli, che riprende lo stesso percorso e lo riformula con le sue regole specifiche. In questo caso, sono documenti autentici: giochi stampati e diffusi nell’immediato dopoguerra. Ma ci sono giochi (o attività ludiche) progettate apposta per il museo. Non sono meno interessanti. Una bilancia e dei pesi: i fatti e i pregiudizi. Riuscite a trovare un equilibrio (il fatto che sconfigge il relativo pregiudizio)? Oppure uno scaffale con  22 caselle. Accoppiatele nel modo giusto. Si accenderà la lucetta verde e avrete vinto. Infine, il gioco che mi ha commosso: un pannello verde con dei buchi, attraverso i quali si vede un colore diverso. Si chiede alla classe di scegliere il colore della pelle che preferisce (immaginate una classe olandese multicolore). Ognuno sceglie il suo, ovviamente. Si solleva il pannello, compare il petto di un giovanotto. Quei colori diversi erano variazioni della stessa pelle, dello stesso uomo. Un giochino senza pretese, oggi diremmo dall’alto della nostra ipertecnologia iperpedagogizzata. Ma un ottimo punto di partenza per una discussione sul tema (e anche un buon modo per chiudere una visita ad un museo sulla guerra).

Funzionano queste semplici macchinette didattiche? A giudicare dai visitatori, sì. 40 mila annuali non sono pochi, per un piccolo museo, con soli tre impiegati stabili e 80 volontari che lo mandano avanti, fanno le guide o gli animatori, puliscono, tengono il bar (ampio e confortevole, come mi capita spesso di vedere oltrealpi) e il piccolo bookshop, che non vende modellini di armi, ma cappellini, magliette, agende e penne, papaveri di stoffa rossa, e libri.

 

Il gioco dell’Oca e il Monopoli sulla liberazione

 

 

La bilancia dei fatti e dei pregiudizi e lo scaffale delle corrispondenze

 

 

Gioco interculturale: scegliete il colore della pelle, poi sollevate il pannello verde

 

Il memoriale

Il memoriale ha l’aspetto di un paracadute. Forse non fu progettato da un archistar, ma questa forma e il materiale trasparente con cui è realizzato, creano un ambiente luminoso che non ti aspetti per un luogo di memoria. Tutto è chiaro, anche il corridoio che circonda la sala delle conferenze, sulle cui pareti sono appesi i simboli dei reggimenti che parteciparono all’impresa. Da un albero stilizzato dondolano dei foglietti. Sono le riflessioni dei bambini al termine della visita. Scrive Bodine: “mai più guerre”. Sarà retorica, buonismo, quello che volete. Ma è meglio che scrivano frasi di questo genere, piuttosto che quelle che, al tempo del nazismo e durante la guerra, i bambini di entrambi i fronti erano portati a scrivere.

Una didattica ingenua? Passata di moda? Una didattica povera, superata dai tempi? E’ facile pensarlo e qualcuno, a questo punto sarà di questa idea. La mia è divisa in due ordini di riflessioni. Il primo riguarda questa struttura e le persone che la fanno andare avanti e il flusso dei visitatori, incessante, anche in un giorno di pioggia, come quando ci sono andato io. Il confronto con l’Italia è spontaneo. Anche da noi ci sono musei di guerra: quelli del Risorgimento; quelli della prima e della seconda guerra mondiale, ai quali ho dedicato un lavoro che vedrete presto su HL; quelli della Resistenza. Ora, al di là del loro successo di pubblico, molto vario (per esempio quelli del Risorgimento non è che ne riscuotano tanto, nonostante il recente 150esimo), nei nostri musei di guerra si celebra qualcosa di nostro: il patriota che combatte per l’Indipendenza, o contro il nemico, o per la libertà e una società più giusta. Ma sempre un italiano. A Groesbeek no. Gli eroi sono americani, canadesi, inglesi, polacchi, e tanti altri. Altri, appunto. Eppure, la cura, la passione per la memoria sono palpabili e concreti, come abbiamo visto, nell’imponente numero di volontari. Memoria nazionale, certamente, ma non assistita e concretizzata da eroi egualmente nazionali. Tanta passione, mi sembra di poter dire, per “l’episodio in sé”. Qualcuno è venuto qui e ha combattuto per la libertà. E questo va ricordato.

Sono solo i pensieri di un visitatore. Nulla di scientifico, ma non posso fare a meno di ricordare il cimitero di Corpusu (Capurso), che i baresi conoscono benissimo, dove sono sepolti i soldati polacchi che caddero in Italia, combattendo contro il nazismo. Confesso di non esserci mai entrato. Mi chiedo quanti miei concittadini hanno fatto come me e mi rammento di un esame (l’argomento era “i luoghi di memoria”), durante il quale la studentessa non seppe dirmi se questi polacchi combattevano con gli Alleati o con i Nazisti.

 

Il secondo ordine di riflessioni è più tecnico. Quella didattica che ho cercato di raccontarvi è essa stessa un cimelio di un passato. Rende palpabile l’enorme distanza che ormai separa gli anni ’80 dall’oggi. E, paradossalmente o miracolosamente, funziona bene ancora. So che in quella regione (la crisi c’è ovunque) si fa l’ovvio ragionamento che tre musei vicini sono troppi e che sarebbe bene accorparli. Mi piacerebbe che non buttassero via questi giocattoli didattici e avessero l’intelligenza di creare loro uno spazio museale. Anche loro, come gli ambienti e le scene di vita degli anni ’40 e ’50, così ben ricostruite, meritano un posto nella memoria sociale.

 

Il memoriale di Groesbeek a forma di paracadute

 

 

L’interno del memoriale

 

 

Lungo il corridoio perimetrale i simboli dei reggimenti di diversa nazionalità impegnati negli scontri

 

 

I ragazzi scrivono le loro impressioni su biglietti, che vengono appesi a un albero.

Mai più la guerra. Bodine

 

*La prima parte è stata già pubblicata su HL. Descrive la didattica dei musei di guerra in Francia. Le parti successive sono dedicate alla didattica di guerra in Italia.

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