di Laura Rizzo *

Della scuola serale si parla molto poco. In questi giorni di furibonda attività a distanza, ancora meno. Eppure è una realtà vivida e forte. Lavorarci, un’esperienza da consigliare a chiunque voglia fare il docente. Ti passano davanti mondi lontanissimi, storie forti, alunni difficili che hanno avuto problemi con la legge, bulli, pupe e marinai. Hai persone che tornano a 50 anni con la vergogna negli occhi e le unghie nere di grasso, perché fino a un’ora prima di compilare la domanda d’iscrizione, erano in officina; e ora siedono tra i banchi, con una dignità direttamente proporzionale al bisogno di dare pane ai propri figli. E quindi, ritentare la carta dello studio, del pezzo di carta, abitare le aule scolastiche lasciate troppi anni prima. Hai alunni che dipendono dal tuo sorriso quotidianamente e che a casa non ci vogliono tornare, perché figli di realtà deprivate e violente.

Hai gruppi di stranieri provenienti da tutte le parti del mondo, molti dei quali arrivati qui in Italia con un barcone. Trovarsi di fronte a giovanissimi che hanno superato passaggi nel deserto, prigionia, sete, fame, percosse, paura di morire e che arrivando nella tua aula col viso segnato dalle cicatrici ricevute, ti porgono un sorriso spiazzante, ti forma. E ti cambia la vita per sempre.

Hai a che fare, contemporaneamente, con sedicenni in preda alle furie ormonali, che ti scappano nell’ora di ricreazione dal cancello, quarantenni che ti chiedono di uscire per recuperare i figli lasciati soli a casa, bengalesi che scambiano la lettera effe con la lettera pi, albanesi che non mettono le doppie, africani recalcitranti alle antiche regole di una scuola fissata su canoni e stereotipi, ma che, di contro, per educazione e rispetto, non si soffiano il naso in classe, ma zitti zitti in corridoio, e alla fine dell’anno ti portano una mano sulla spalla, commuovendosi ai saluti, dicendoti grazie e chiamandoti madame.

Nella complessità già connaturata a questo pastiche di una scuola serale, abitata da utenti dalle mille sfaccettature di età, provenienza geografica e formazione scolastica, si è inserito il Covid 19. Una variabile davvero inaspettata che ha, dalla sera alla mattina, reso questo equilibrio fatto di occhi, mani, sorrisi, pronomi storti, ausiliari senza l’acca e gli accenti e rapporti umani solidissimi un disastro. Come gestirlo? Come rattoppare una classe che ti scappa da ogni parte, che ha la forza di cento cavalli in potenza ma non i mezzi per farlo? Come reagire a un crollo verticale dell’attenzione, che in classe si teneva sul filo degli sguardi, del tono della voce, dei giochi alla lavagna per insegnare loro che penne e anni hanno sempre le doppie, se no sono guai seri? Come, soprattutto, correggere i mille errori che si fanno sui quaderni e che in un’aula venivano gestiti in un privatissimo face to face, girando tra i banchi, senza che il vicino di sedia potesse accorgersene per estremo rispetto di questo ritorno a scuola tardivo che porta mille paure e difficoltà o che fa di un africano privo di scolarizzazione un allievo più debole di una signora russa con la laurea in ingegneria presa nel suo paese?

Tutto quello che si è perso in una notte, non potrà mai essere recuperato, purtroppo. I mesi necessari per consolidare avverbi, congiuntivi, dialoghi al ristorante e alla stazione, messi in scena tra i banchi, in aula, per simulare situazioni quotidiane con cui sbrigarsela in Italia, scrittura di lettere ai genitori lontani o compilazione di un curriculum, Napoleone e l’uomo sulla luna non saranno per l’a.s. 2019-2020 forti fortissimi come per gli anni scorsi. Non c’è stata la mano della professoressa a segnare gli errori necessari a migliorare, a parlare bene in un paese in cui si è arrivati per mettere in piedi nuove vite. La lingua italiana per restare viva, per comprare una maglietta, un fiore a una fidanzata, per difendersi da un datore di lavoro che tenta di barare, per contrattare con un padrone di casa, per imparare, sia stranieri che italiani a parlare d’amore, no, non è stata sorretta dall’impalcatura che la presenza in classe dà. Ma si è messo in atto un piano differente, che privilegiasse altri aspetti, quelli umani, come un feroce paradosso. Quello che in una scuola serale è più forte dell’articolo determinativo o della Rivoluzione francese è il filo umano di vite sospese che a volte spariscono dalla classe, che possono deragliare con la stessa facilità con cui lo avevano fatto mesi prima. Per cui, insieme alla grammatica, va tenuto stretto il legame, con una colla speciale, per evitare la dispersione scolastica.

La DaD ha tenuto insieme il puzzle, pur se con un video di mezzo, i pochissimi mezzi a disposizione per gente poco scolarizzata, analfabeta digitale, priva di computer, a volte senza una dimora stabile. E questo è un dato vincente. L’appuntamento con la lezione, gestito tra whatsapp e una facile piattaforma ha visto tutti presenti, sempre, chi da casa mentre gestiva i figli o i parenti anziani, chi dalle comunità di accoglienza, chi direttamente dalla tromba delle scale, rifugiato per vergogna dei parenti presenti. Quello che si è fatto e che si continuerà a fare fino all’esame di giugno, pare, ad oggi, da gestire con un elaborato su una attività lavorativa o un percorso di vita o di studio, è un castello di carte che non è crollato. Precario, pieno di difficoltà oggettive, ma romanticamente in piedi. E quello che fino a marzo si è consolidato in classe, umanamente, si è poi raccolto in DaD. Senza ombra di dubbio.

foto LAura

Non avrei mai immaginato di leggere Favole al telefono di Rodari, durante una pandemia, su Google meet, in collegamento virtuale, a un gruppo di alunni migranti e non, coi giga sì e no, composto da 7 africani, 3 pakistani, 2 italiani (un sedicenne e una cinquantenne), un bengalese, due mauriziane. No, non lo avevo considerato.
Ma soprattutto non me lo scorderò mai più. Non avrei immaginato di vedere alunni in Ramadan chiedere di togliere il video e l’audio, mentre facevo lezione, per continuare a pregare e tornare ligi subito dopo il tempo richiesto, per continuare a seguire. Si sono messi in piedi teatrini veri e propri, attraverso lo schermo, con i pupazzetti dei gladiatori e il Colosseo in 3D per spiegare la storia romana, si è aperta la plancia del Risiko per continuare a parlare del mondo e anche di questa emergenza, mostrando a chi nemmeno sa quanto è grande il continente da cui arriva, dove si trova la sua famiglia; si è parlato di futuro e di presente e di integrazione con le canzoni italiane, accontentando anche i loro gusti e andando da De André a Ghali (qui si è rivelato utile il mio Linguaggi di ieri e di oggi: la canzone italiana nel XXI secolo e le generazioni 2.0 ); si sono scritte lettere non d’amore per provvedere a una educazione sentimentale, aggirando la vergogna, salvo poi raccogliere il romanticismo puro; si sono messe in campo le ricette dei paesi d’origine per costruire una mappa gastronomica come in un pranzo ideale.

Abbiamo fatto a distanza ogni cosa nel modo in cui si poteva, colti di sorpresa da un black out che ha messo in evidenza le falle di questo sistema, già esistenti, vero, ma che ha stimolato una ricerca di soluzioni necessaria. Per quello che era possibile. Come era possibile. Nessuno è contento della didattica a distanza, nessuno può affermare che fare scuola con un video sia come prendere la mano di un alunno e portarla su un foglio, o lavorare gomito a gomito su una espressione matematica, o ridere, suggerire con gli occhi. Ma ci siamo trovati come se avessimo a cena 30 persone e improvvisamente ci finisce la bombola del gas.

Ho visto colleghi resistenti anche a usare whatsapp nel periodo a. C. (avanti Covid) mettersi e imparare piattaforme. Giuro, mai lo avrei immaginato. Se non ci si ammorbidisce in emergenza, non si va da nessuna parte. E se si lavora a contatto con realtà forti, bisogna stare dietro alle storie dei ragazzi, lasciando che il pragmatismo permetta di risolvere ogni imprevisto e dimenticando convenzionali idee di ordine e bellezza del mondo stereotipate in modelli manzoniani.

Non è andato tutto bene, no, assolutamente no, ma la fase sperimentale può avere margini di miglioramento, come in ogni sacrosanta emergenza. La situazione ha prospettive ignote. Adattarsi, cucinando sopra 40 accendini accesi, è quello che ci chiede l'oggi ed è quello che si è provato a fare. Stando tutti insieme appassionatamente dietro un video, a guardarci come reciproca e necessaria finestra sul mondo. Soprattutto il gruppo dei migranti ha risentito fortemente del lockdown. Lo stop totale li ha depressi, demotivati, impauriti per la propria sorte e per quella delle famiglie in Africa a cui non potevano restituire il denaro, né che potevano raggiungere in caso di malattia. Ma non hanno saltato una lezione, mai. E questo è un dato da registrare come una vittoria. E allora che DaD sia, in video, collaborativi e sorridenti.

DaD and alive.


*Insegnante di lettere nel CPIA 1 – Bari, sede “G. Verga”

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