Autore: Antonio Brusa


Indice

  • Introduzione
  • Primo passo, la paleografia
  • Secondo passo: gli argomenti
  • Terzo passo: la valutazione
  • Quarto passo: la contestualizzazione

 

Introduzione

Da una ventina di anni a questa parte ci si è accorti dell’importanza degli archivi scolastici. Ne ho visti parecchi, e ci ho lavorato, soprattutto con gli allievi della scuola di specializzazione di Pavia. Molti colleghi, di archivistica ma anche di didattica della storia (Patrizia Angelucci, che ha insegnato questa disciplina a Perugia è fra le più accanite e prolifiche in questo campo) ne fanno oggetto dei loro lavori. Registri, circolari, quaderni, manuali (e così via) sono fonti straordinarie per capire non solo la storia passata della scuola, ma soprattutto per realizzare uno spaccato di storia sociale molto vicino ai ragazzi.

 

 

Rammento questi dati visitando la piccola ma bella mostra, organizzata dagli allievi di un liceo barese (“Giovanni Bianchi Dottula”) sotto la guida della Sovrintendenza archivistica. A un certo punto mi blocco: dei compiti in classe, finalmente. Ne avevo chiesto in giro tante volte, e sempre mi avevano risposto che i registri e la documentazione ufficiale, quella sì viene conservata; ma i compiti, dopo una decina di anni, vanno al macero. Sono troppi. Ed ecco, ben in vista sui banchi, il registro di una Scuola Popolare dell’anno scolastico 1949/50 con ancora, fra le pagine, un fascicoletto di temi. Da molto tempo avevo scritto che l’analisi di queste fonti avrebbe permesso all’allievo di studiare non solo il suo ambiente (la scuola), quanto se stesso, direttamente. Ma, ogni volta, l’irreperibilità di queste fonti per i passati un po’ lontani, mi aveva impedito di andare oltre i desideri.

 

Ora che le ho fra le mani, ne approfitto per esporre agli studenti del magistrale di fronte a me, un abbozzo di laboratorio didattico.

 

1. Primo passo, la paleografia

Al principio un po’ di paleografia spicciola aiuta a prendere confidenza con la fonte. Esaminiamo il supporto grafico, dunque. Il famoso foglio protocollo diviso in due. Ci chiediamo il perché di questa divisione. Il nostro fascicoletto è fatto di una ventina di fogli protocollo; ma ci sono alcuni compiti che sembrano scritti su fogli di fortuna. Perché? Succedeva (e succede) che l’allievo abbia dimenticato il foglio. Questo, a quei tempi, costava. Per di più siamo in una scuola popolare del sud Italia, nell’immediato dopoguerra. Si può fare l’ipotesi che ci troviamo di fronte a una testimonianza di povertà?

 

All’interno del foglio protocollo vi era la brutta copia. Il computer ha abolito le brutte copie. Ma alcuni decenni fa era d’obbligo. Perché? Certamente perché occorreva fare una figura dignitosa. Ma se ritorniamo al costo del foglio, ne possiamo dedurre l’esigenza di risparmiare (guai ad appallottolare il foglio e gettarlo nel cestino, nell’Italia degli anni ’50).  Era dunque l’educazione allo sviluppo sostenibile dell’epoca? Al tempo stesso era anche un’educazione cognitiva: pensate alla necessità di pianificare accuratamente il tempo. Scrivere il tema in brutta e riservarsi un tempo giusto per ricopiarlo in bella, non è l’ultima della angosce anche nei pochi concorsi odierni dove non ci si gioca tutto con crocette e pallini.

 

E ora la scrittura. Invitiamo i ragazzi a confrontare la propria scrittura con quella degli allievi degli anni ’50. Qui tutte le osservazioni saranno lo spunto per considerazioni accattivanti: la penna a inchiostro e la penna biro di oggi; il tipo di scrittura (allora spesso in corsivo, con la penna inclinata). Oggi tondeggiante, soprattutto quella delle ragazze, con forti intrusioni di stampatello. Alcuni elaborati sono chiaramente scritti con la penna e il calamaio; altri con una scrittura più corsiva e fluida: la stilografica. Si può ipotizzare una differenza di censo?

 

Personalmente, alla prima sfogliata ho scoperto la fallacia di una convinzione diffusa: che i ragazzi di oggi non conoscano più i margini e tendano a mangiarsi tutto il foglio. Ho assistito a sfoggi di antropologia apocalittica per spiegare questo fenomeno, che dovrebbero sgonfiarsi, temo, alla vista di quei fogli degli anni ’50, scritti anche loro senza rispetto alcuno dei margini.

 

2. Secondo passo: gli argomenti

Il tema dettato dall’insegnante è di quelli facili facili: “Una pagina del vostro libro”. Prima di emettere giudizi, pensiamo alla classe. Siamo in una Scuola Popolare dell’immediato dopoguerra. Erano scuole riservate a chi avesse superato i dodici anni, senza aver frequentato le elementari. Erano divise in tre livelli: gli analfabeti, i semianalfabeti e “l’approfondimento”. I nostri temi sono stati scritti da allievi di quest’ultimo livello. La scuola prevedeva dalle 10 alle 15 ore di insegnamento per settimana. Quindi era una scuola ridotta. Siamo alla fine dell’anno ed è evidente che l’insegnante (una prof) ha bisogno di una prova che vada su tutto il programma, e sia gestibile da allievi che hanno anche poche possibilità di studiare.

 

Per noi è un ottimo test. Quale pagina del manualetto a loro disposizione (una specie di sussidiario con notizie di storia, geografia e pagine di letteratura) i nostri ragazzi hanno scelto? La quasi totalità si orienta su personaggi storici: Mazzini in gran parte (oltre a un paio di Cavour e di Garibaldi); un Colombo; qualche Dante e soprattutto Guglielmo Marconi. Quando cito questo nome, vedo i ragazzi che sgranano gli occhi. Marconi, chi è costui? Per cavarmela rispondo: “oggi avreste scelto Steve Jobs”. Si rassicurano e capiscono. Era l’eroe di quei tempi, alla stregua di quelli del Risorgimento. Un eroe di un pantheon particolare, nel quale non c’erano soltanto campioni della politica della letteratura e dell’esplorazione. Un eroe scienziato.

 

 

Ovviamente, la domanda è: perché quei ragazzi scelsero quei personaggi? E perché, avendo a disposizione tanti argomenti del loro manuale, optarono per la biografia di personaggi famosi? Noi adulti abbiamo delle risposte (la storia dei personaggi vs quella delle strutture, per esempio). Ma se lo chiediamo agli allievi - voi che avreste scelto? O che cosa scegliereste oggi, nel vostro manuale? – apriamo lo spazio di una bella discussione su che cosa è la storia, sulle nostre gerarchie di importanza e così via.

 

Due ragazzi, però, hanno fatto eccezione: parlano di storia della casa e di storia della stampa. Due argomenti di storia quotidiana, diremmo con il linguaggio post-annalistico. Ce la teniamo per noi, questa osservazione. Significa che la scuola non ha affatto atteso i tempi della storiografia per introdurre (sia pure saltuariamente) nel proprio insegnamento argomenti di storia dal basso, della tecnica e del quotidiano.

 

3. Terzo passo: la valutazione

Sul dorso del protocollo, da sempre, c’è il voto. La nostra professoressa è tollerante e comprensiva. Prendono quasi tutti la sufficienza. Stanno fra il sei e il sette. Due eccezioni che andiamo a guardare. Il migliore prende 7 e mezzo. Ha fatto una sintesi della vita di Mazzini. Ordinato, in bella scrittura. Scrive quello che occorre sapere dell’eroe risorgimentale. In mezzo, tutti gli altri: quelli che, a nostro giudizio, hanno svolto un compito dignitoso e altri molto meno bravi. Nella folla i due che hanno scelto la casa e la stampa, argomenti difficili (lo diciamo noi adulti, guardando i testi), perché hanno obbligato i due allievi a una scrittura non narrativa, poco ripetitiva, con una struttura più elaborata degli altri. La prof, questo non l’ha notato.

 

E il peggiore? È il compito di una ragazza, che narra di Marconi. Affronta il tema così: un breve inquadramento sulla vita, e poi si lancia in una descrizione della radio, delle onde hertziane, delle valvole. Insomma: le piace la tecnologia. Si vede e la descrive e anche bene (e sappiamo che non è facile). Niente da fare: cinque. Insufficiente.

 

Perché?  Avrà detto, la prof: è andata fuori tema. Ma questo non è stato valutato troppo negativamente per altri. Non sarà che tutto questo parlare di tecnologia sia stato percepito come un qualcosa di “poco formativo”? Ma se questa domanda, con le ipotesi esplicative susseguenti, interessa particolarmente noi adulti, agli allievi interesserà invece un altro invito: vi sembrano giusti questi voti? Li avreste valutati allo stesso modo?

 

4. Quarto passo: la contestualizzazione

Come avrete notato, tralascio l’analisi stretta dei testi. Ci vorrebbe troppo tempo e una cultura (di storia e di scrittura) che non è il caso di pretendere, almeno in questo piccolo laboratorio, dai nostri allievi. E, nemmeno, mi soffermo sugli errori  (i relativi, come la prof ha sottolineato in rosso e blu nella foto che qui pubblico; gli errori di ortografia e di sintassi, di vocabolario: ne facevano anche allora, coraggio).

 

Mi interessa, in positivo, mostrare come con poche avvertenze e poche domande si possa ottenere molto da questi documenti (per questo non aggiungo a queste note una bibliografia, che pure potrebbe essere ricca: ma ci saranno altre occasioni).

 

In più, questi documenti ci riservano ancora qualche ragionamento finale, nel momento – è la contestualizzazione -  in cui noi li reinseriamo nel loro ambiente.

 

Il primo è per i ragazzi. Siamo nell’Italia post-bellica. Un paese, già povero di suo, prostrato dalla guerra. E siamo in una città del Sud, una parte d’Italia che trovava una possibilità di sopravvivenza solo nell’agricoltura. Siamo in un periodo che vede sciamare migrazioni inarrestabili, che dall’Italia meridionale si dirigono verso il Nord Europa e l’Oltreoceano. Fra qualche anno, si orienteranno anche verso il Nord Italia. Insomma, siamo in un tempo di crisi la cui durezza è - senza repliche - incomparabile con quella che viviamo ai nostri giorni.

 

Questi temi sono la testimonianza di ragazzi (e delle loro famiglie) che nonostante il momento difficile vanno a scuola. Ci ritornano o decidono di andarci per la prima volta nella loro vita. Si sforzano di scrivere in modo ordinato in una lingua in gran parte nuova, studiano con fatica di persone del passato a loro del tutto ignote, e molti hanno imparato a scrivere in modo accettabile. Perché lo fanno? Facciamo le nostre ipotesi. Confrontiamo i nostri sentimenti e le nostre prospettive con quelle che intuiamo dalla documentazione. E, se c’è tempo e voglia, abbiamo anche a disposizione una belle messe di fonti orali. Infatti - se con sempre maggiore difficoltà ne troviamo per la guerra, il fascismo e la Resistenza - per gli anni Cinquanta esse abbondano. Sono la maggior parte dei nonni attuali.

 

 

Il secondo è per i docenti. Osserviamo il registro. E’ una fonte già molto utilizzata nei lavori didattici. Le innovazioni dei nostri tempi ci propongono altre riflessioni, la cui rilevanza eccede il piccolo contesto didattico. Ci orientano sulla diversità concettuale fra un registro cartaceo, destinato di per sé all’amministrazione e quindi a un archivio, e uno digitale, aperto (in alcune sue parti naturalmente) alla consultazione immediata di ragazzi e delle famiglie. E’ la piccola spia del cambiamento vasto e possente che sta travolgendo il rapporto fra cittadini e istituzioni, che stiamo vivendo ai nostri giorni.

 

Ancora, il registro di quella classe è fonte di un ulteriore insegnamento. Ne riproduco il frontespizio e la seconda di copertina. È questa che ci interessa. Vi si leggono le indicazioni didattiche per i docenti. Essenziali, ma precise. Dicono che occorre interessare gli allievi, coinvolgerli in lavori, farli discutere e che è bene evitare “la lezione formale”. Questa è la prova che distrugge un’altra fallacia, secondo la quale esiste una didattica nuova, intrecciata di laboratori e di momenti partecipativi (magari interattiva) e una didattica tradizionale, basata sulle lezioni frontali. Tradizionale e perciò sperimentata e solida. Non è vero. Anche la tradizione conosceva bene l’inefficacia delle lezioni frontali. Questo documento è inoppugnabile. Come inoppugnabile è la storia successiva, di una scuola che ha sempre rifiutato questa evidenza didattica, e si è chiusa nella pigrizia di un lavoro fatto unicamente di lezioni frontali.

 

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