Black Lives Matter

  • Il 1619 Project riscrive la storia degli Stati Uniti

    di Daniele Boschi

     

    “Historia Ludens” ha già pubblicato di recente diversi articoli sulla storia della schiavitù (dall’intervento di Antonio Brusa sui grandi tabù della tratta dei neri alla sitografia curata da Antonio Prampolini) e sugli attacchi alle statue promossi dal Black Lives Matter (il 9 luglio, il 7 ottobre e il 4 novembre del 2020). Questo articolo si propone di sviluppare ulteriormente questo filone di ricerca.

     

    Introduzione

    “Nell’agosto del 1619, una nave apparve in questo punto dell’orizzonte, vicino Point Comfort, un porto sulla costa della colonia britannica della Virginia. Trasportava più di 20 africani ridotti in schiavitù, che furono venduti ai coloni. L’America non era ancora l’America, ma questo fu il momento in cui ebbe inizio. Nessun aspetto del paese, che si sarebbe formato qui, non è stato influenzato dai 250 anni di schiavitù che seguirono quell’evento”.

    Con queste parole, impresse su una foto che riproduce l’orizzonte marino di fronte a Point Comfort, si apriva l’edizione speciale del 14 agosto 2019 del “New York Times Magazine” (d’ora in avanti NYTM), con la quale è stato lanciato il 1619 Project1. Un progetto che mira a ridefinire l’intera storia degli Stati Uniti d’America, ponendo al suo centro le vicende della schiavitù, del razzismo e dei conflitti che essi hanno provocato.

    Immagine 1 The 1619 Project wordmarkFig.1: Il logo del 1619 Project Fonte L’iniziativa del NYTM è stata accolta con entusiasmo da una parte dell’opinione pubblica americana, ma ha suscitato anche perplessità e critiche. Alcuni storici hanno avviato una accesa discussione pubblica con i responsabili del progetto. La polemica ha raggiunto la politica ai suoi più alti livelli, anche a causa dell’esplosiva situazione creata dalle proteste del Black Lives Matter nell’estate del 2020. E anche le scuole e le università sono diventate un terreno di scontro tra fautori e oppositori del progetto.

     

     

     

    Immagine 2 first africans in virginia markerFig.2: Questa targa indica il luogo dove i primi africani arrivarono in una colonia britannica del Nord America, la Virginia, nell’agosto del 1619 FonteOrigine e scopo del progetto

    L’idea di pubblicare un’edizione speciale del NYTM in occasione del quadricentenario dell’arrivo dei primi schiavi africani sulle coste della Virginia, è stata di Nikole Hannah-Jones. Giornalista di punta della rivista newyorchese e grande amante di Twitter, dove ha quasi mezzo milione di followers, Hannah-Jones ha ricevuto il pieno appoggio del caporedattore Jake Silverstein e si è avvalsa della collaborazione di una squadra di colleghi e studiosi di prestigio.

    Lo scopo del 1619 Project era quello di “ripensare la storia del paese considerando il 1619 come il suo momento fondante e ponendo le conseguenze della schiavitù e il contributo dei neri americani al centro del racconto che facciamo a noi stessi riguardo a chi siamo veramente2.”

    Come Silverstein ha poi precisato nella sua presentazione del progetto:

    “Il 1619 non è conosciuto dalla maggior parte degli americani come una data importante nella storia del nostro paese. Quelli che la conoscono sono tutt’al più una percentuale minima rispetto a coloro che possono dirvi che il 1776 è l’anno di nascita della nostra nazione. E se invece vi dicessimo che le contraddizioni che caratterizzano questo paese ebbero origine verso la fine di agosto del 1619?”

     

     L'edizione speciale del NYTM

    L’edizione speciale a stampa del NYTM del 14 agosto 2019 conteneva dieci saggi storici e un saggio fotografico. In formato più ampio si potevano leggere inoltre una storia illustrata della schiavitù e un articolo sull’insegnamento scolastico della schiavitù. Centinaia di migliaia di copie supplementari della rivista sono state stampate per essere distribuite nelle scuole, nelle biblioteche e nei musei.

    L’edizione online del 1619 Project, comprende, oltre ai testi già elencati, anche altri materiali, che vengono continuamente arricchiti, tra i quali una serie di podcast e un curriculum per le scuole, sviluppato in collaborazione con il Pulitzer Center.

    Sette dei dieci autori dei saggi principali del progetto sono di origine afroamericana. Oltre a ricostruire vari aspetti e momenti della storia della schiavitù, questi saggi tendono a mostrare come molti dei problemi che tuttora affliggono gli Stati Uniti abbiano le loro radici nelle vicende dell’oppressione degli afroamericani, nell’ideologia razzista che essa ha prodotto e nello sforzo fatto dai bianchi per perpetuare, fino a oggi, il loro dominio sui neri.

    Lungo è infatti l’elenco delle storture dell’attuale società statunitense che sono riconducibili – secondo gli autori del progetto - al conflitto razziale: dalla brutalità del capitalismo americano alle false credenze nelle differenze fisiologiche dovute alla razza; dal carattere antidemocratico di alcune convinzioni e strategie politiche alla crudeltà del sistema carcerario; dalle carenze del sistema sanitario pubblico alle perduranti differenze di reddito tra bianchi e neri; dall’eccessiva importanza dello zucchero nella dieta americana alla congestione del traffico nelle grandi città, senza dimenticare la persistente tendenza dei bianchi a ‘rubare’ la musica dei neri.

    Ma la presenza dei neri sul suolo americano non ha soltanto creato problemi. Ha anche dato un fondamentale contributo alla crescita economica del paese e soprattutto alla travagliata affermazione di un sistema politico democratico. Quest’ultimo tema è al centro del più importante e del più controverso dei dieci saggi dell’agosto 2019, quello scritto da Nikole Hannah-Jones.

     

    L'America non è stata una democrazia finché i neri americani non la hanno resa tale

    La giornalista del NYTM, in un lungo testo, che prende avvio dalle sue umili origini e dalla sua personale esperienza, ha ripercorso in modo originale e brillante quattro secoli di storia. La sua tesi principale è che gli Stati Uniti d’America non sono diventati una vera democrazia se non grazie alle battaglie dei neri.

    Gli Stati Uniti sono infatti una nazione che si fonda su un ideale e allo stesso tempo su una menzogna. L’ideale è quello consacrato nelle celebri parole della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776: “Tutti gli uomini sono creati uguali e dotati dal loro Creatore di alcuni inalienabili diritti”. La menzogna risiede nel fatto che gli uomini bianchi, che scrissero quel testo, non pensavano che esso dovesse essere applicato alle centinaia di migliaia di neri che vivevano in mezzo a loro in condizioni di schiavitù.

    E tuttavia i neri hanno creduto ardentemente in quella promessa di libertà e di giustizia. La loro resistenza e le loro proteste hanno aiutato il paese ad essere all’altezza dell’ideale in nome del quale era stato fondato. “Senza le idealistiche, vigorose e patriottiche lotte dei neri americani, la nostra democrazia apparirebbe oggi, con ogni probabilità, molto differente – potrebbe anzi non essere affatto una democrazia”.

    Scrive ancora Hannah-Jones:

    “Quel tanto di democrazia che la nazione ha oggi, è nato sulle spalle della resistenza dei neri. I nostri padri fondatori possono non aver creduto veramente negli ideali che proclamarono, ma i neri ci hanno creduto. … Per generazioni, noi abbiamo creduto in questo paese con una devozione che esso non meritava. La gente nera ha visto il peggio dell’America, eppure, in qualche modo, noi crediamo ancora nel suo lato migliore”.

     

    Immagine 3 Slave pen of Price Birch CojpgFig.3: Prigione per schiavi della Price, Birch & Co., in Alexandria, Virginia (1865 circa). In prigioni come questa gli schiavi erano detenuti temporaneamente prima di essere venduti Fonte Gli altri saggi

    Gli altri saggi del 1619 Project affrontano la storia della schiavitù, e la sua eredità nella società statunitense dalla fine del XIX secolo fino a oggi, sotto molteplici punti di vista. Anzitutto, sotto il profilo economico, il saggio di Matthew Desmond mette in evidenza come molti aspetti della ‘brutalità’ del cosiddetto low-road capitalism statunitense abbiano avuto origine nelle piantagioni di cotone che fiorirono nel XIX secolo negli stati del sud: esse accumularono una enorme quantità di ricchezza e adottarono, per prime, tecniche di contabilità, strumenti finanziari e sistemi di controllo e di sfruttamento della manodopera, che sarebbero stati poi utilizzati in molti altri settori del sistema capitalistico.

    Modernità e brutalità connotano anche la storia delle piantagioni di canna da zucchero della Louisiana, ricostruita da Khalil Gibran Muhammad, che sottolinea che quello stato “guidò la nazione nel distruggere le vite della gente nera in nome dell’efficienza economica”. Una vicenda che tuttora non viene quasi mai raccontata nei libri di testo scolastici e nei musei storici; e viene edulcorata nelle presentazioni a beneficio dei turisti, che visitano oggi ciò che resta di quelle antiche piantagioni. La produzione di canna da zucchero continua, peraltro, ad avere un ruolo di primo piano nell’economia degli Stati Uniti, con ricadute non del tutto positive sulla salute dei suoi cittadini, che soffrono in misura crescente di diabete e di obesità.

    Un’altra pesante eredità dello schiavismo è evidente, secondo Bryan Stevenson, nel sistema penale e carcerario statunitense. La severità delle pene previste per gli schiavi che violavano le leggi si è perpetuata nei cosiddetti Black Codes del periodo successivo all’emancipazione. E si ritrova di fatto anche in molte norme e pratiche dei nostri giorni. Anche se oggi gli afroamericani hanno gli stessi diritti dei bianchi, essi vengono spesso trattati in modo molto più duro. Ragazzi dell’età di tredici anni, quasi tutti neri, vengono condannati all’ergastolo per reati diversi dall’omicidio; e la probabilità che un afroamericano venga condannato a morte, per un crimine la cui vittima è un bianco, è 22 volte più alta dell’incidenza che ha la pena di morte quando la vittima del reato è un nero.

    Anche in ambito medico e sanitario i pregiudizi e le paure dei bianchi hanno avuto pesanti ripercussioni sul trattamento riservato agli afroamericani. La scienza medica, come ha documentato Linda Villarosa, teorizzò, a partire dalla fine del XVIII secolo, l'esistenza di specifiche caratteristiche fisiologiche tipiche dei neri, come la loro presunta maggior resistenza al dolore fisico e la debolezza dei loro polmoni. Queste teorie, alcune delle quali giustificarono anche crudeli esperimenti, non sono del tutto scomparse neanche al giorno d'oggi.

    Inoltre, dopo l'abolizione della schiavitù, i programmi di assistenza sanitaria, realizzati a livello sia federale che statale, hanno indirettamente - ma spesso intenzionalmente - escluso dai propri benefici gran parte degli afroamericani. Jeneen Interlandifornisce nel suo saggio diversi esempi di queste politiche discriminatorie: dal sabotaggio dell'assistenza sanitaria offerta ai neri appena emancipati nell'età della Ricostruzione alle limitazioni dei piani varati durante il New Deal rooseveltiano, arrivando fino al rifiuto degli stati del sud di estendere il Medicaid, come richiesto dall’Affordable Care Act del 2010. Le politiche discriminatorie nei confronti dei neri aiutano a comprendere come mai gli Stati Uniti siano attualmente l'unica nazione ad alto reddito priva di un sistema di assistenza sanitaria che tuteli tutti i suoi cittadini.

    In ambito politico, la difesa ad oltranza dei privilegi delle élites bianche del sud ha portato, fin dal XIX secolo, alla elaborazione di una ideologia profondamente antidemocratica, tuttora molto diffusa nel partito repubblicano. Jamelle Bouie ne ricostruisce le origini, a partire dalla teoria della nullification, elaborata da John C. Calhoun (1782-1850), secondo la quale i singoli stati avevano il diritto di invalidare la legge federale statunitense. Il rifiuto della democrazia maggioritaria ha preso poi anche altre forme, ad esempio la manipolazione dei sistemi elettorali, e si ritrova ai nostri giorni nei presupposti ideologici del Tea party e di altre battaglie condotte dai repubblicani.

    Trymaine Lee affronta invece il tema del racial wealth gap, che tuttora separa i neri dai bianchi negli Stati Uniti. In media gli americani bianchi sono sette volte più ricchi dei neri. Questi ultimi rappresentano quasi il 13% della popolazione statunitense, ma possiedono appena il 3% della ricchezza del paese. Lee mostra come questa disuguaglianza abbia avuto origine dalle politiche e dalle pratiche messe in atto a partire dagli ultimi decenni dell’800 per ostacolare il riscatto economico degli afroamericani, con mezzi sia legali che extra-legali. Dall'abolizione della schiavitù fino alla metà del '900 qualsiasi progresso o miglioramento economico dei neri è stato visto come una minaccia per la supremazia dei bianchi. Gli afroamericani sono stati spesso privati con la violenza dei beni che avevano accumulato e sono stati esclusi dagli aiuti e dai benefici economici concessi ai meno abbienti all'epoca del New Deal.

    La segregazione dei neri è anche all’origine di un fenomeno che a prima vista non ha nulla a che fare col razzismo: si tratta degli ingorghi del traffico automobilistico nelle grandi città. Infatti, secondo Kevin M. Kruse, in molte città statunitensi i modelli di insediamento abitativo e lo sviluppo delle reti di trasporto sono stati pesantemente condizionati, dagli anni Cinquanta fino a oggi, dalla volontà dei bianchi di tenersi il più possibile lontano dai neri. In particolare, nel caso di Atlanta (Georgia), analizzato da Kruse, il potenziamento della rete stradale ha creato nuove possibilità di movimento, che hanno reso possibile la fuga dei residenti bianchi dal centro ai sobborghi della città, onde evitare la mescolanza con gli afroamericani. La congestione del traffico urbano è stata una conseguenza quasi inevitabile di questi due fattori.

    Infine, una storia in parte diversa è quella raccontata da Wesley Morris nel suo saggio dedicato alla musica popolare americana, nel quale mette in evidenza come i bianchi abbiano spesso imitato, o ‘rubato’, la musica dei neri. Lo hanno fatto per primi i protagonisti dei minstrel shows: artisti bianchi che, con la faccia dipinta di nero, scimmiottavano con intento caricaturale i canti e le danze degli afroamericani nei decenni che precedettero la guerra civile. E molti importanti filoni della musica bianca contemporanea - dal rock al soft-rock al cosiddetto blue-eyed soul - si sono ispirati alla musica afroamericana, non sempre in modo così evidente ed esplicito. Ma questa contaminazione artistica non è stata in se stessa sufficiente a promuovere l’integrazione razziale.

     

    Il primo impatto del progetto

    Il progetto del NYTM è stato accolto con favore, o addirittura con entusiasmo, da una parte considerevole dell’opinione pubblica americana. Il mondo politico si è subito diviso in modo quasi scontato tra l’area democratica, che ha appoggiato il progetto, e quella repubblicana, che lo ha osteggiato. Meno prevedibile è stata la reazione dell’accademia e dei circoli intellettuali: in questo ambito le perplessità e le critiche sono venute non solo da destra, ma anche da sinistra.

    Il 06/09/2019 il World Socialist Web Site (WSWS), emanazione della Commissione Internazionale della Quarta Internazionale, ha stroncato il progetto  bollandolo come “una falsificazione della storia per motivi politici”, che ha lo scopo di “creare una narrazione storica che mira a legittimare il tentativo del Partito Democratico di costruire una coalizione elettorale basata sulla scelta di accordare la priorità alle ‘identità’ personali – ovvero, il genere, le preferenze sessuali, l’etnicità e, soprattutto, la razza”. Secondo il WSWS, Hannah-Jones e il NYTM mirano a diffondere una ricostruzione ideologica e mistificante della storia degli Stati Uniti, basata sul falso presupposto che il razzismo sia iscritto nel DNA dei bianchi americani; d’altra parte, essi hanno ignorato completamente, nei loro scritti, sia i fattori economici che sono stati il fondamento del sistema schiavistico e hanno poi determinato il suo superamento, sia le vicende della lotta di classe, nel corso della quale gli oppressi di ogni colore hanno spesso combattuto insieme, andando al di là delle differenze razziali.

    Tra il novembre del 2019 e il gennaio del 2020 il WSWS ha pubblicato una serie di interviste a storici di prestigio, che hanno criticato vari aspetti delle tesi del 1619 Project, secondo punti di vista che solo parzialmente coincidono con quello proposto dalla rivista dell’internazionale trotzkista (lo sottolinea questo commento apparso sulla “American Historical Review”, sul quale tornerò più avanti). In seguito queste interviste, insieme ad altri testi, sono state raccolte in un libro intitolato The New York Times’ 1619 Project and the Racialist Falsification of History.

     

    Cinque storici chiedono correzioni

    Alla fine di dicembre del 2019, quattro storici già intervistati sul WSWS3, insieme ad un quinto, Sean Wilentz (della Princeton University), hanno inviato una letteraal NYTM, nella quale non soltanto hanno ribadito alcune delle critiche già espresse in precedenza, ma hanno chiesto alla rivista di ‘correggere’ alcune parti del progetto.

    I cinque storici, pur lodando lo sforzo del 1619 Project di evidenziare la centralità della schiavitù e del razzismo nella storia degli Stati Uniti, hanno accusato gli autori del progetto di aver commesso alcuni errori e distorsioni di importanti fatti storici.

    In particolare, essi hanno dichiarata priva di fondamento la tesi secondo cui i padri fondatori degli USA si ribellarono alla Gran Bretagna nella seconda metà del ‘700 per difendere l’istituto della schiavitù; hanno contestato l’affermazione secondo cui i neri americani combatterono per lo più “da soli” la loro battaglia per la libertà; hanno criticato il modo parziale e distorto in cui era stata presentata la figura di Abraham Lincoln; e hanno osservato infine che l’esistenza di un rapporto genealogico tra la schiavitù e le moderne pratiche capitalistiche è stata respinta da diversi storici in quanto priva di fondamento empirico.

    Secondo i cinque storici, gli autori del progetto hanno lasciato prevalere l’ideologia sulla comprensione dei fatti storici. Oltre a chiedere la correzione degli errori e delle distorsioni, i firmatari della lettera hanno invocato anche una maggiore trasparenza circa l’identità degli accademici che hanno collaborato al progetto.

    Vale la pena di osservare che, sebbene i cinque storici non abbiano nominato gli autori dei saggi, le loro critiche si concentravano di fatto sul testo di Nikole Hannah-Jones, al quale si riferivano implicitamente i primi tre dei quattro capi d’accusa sopra riportati, mentre il quarto riguarda il saggio di Matthew Desmond.

     

    Immagine 4 Abraham LincolnFig.4: Abraham Lincoln (1809-1865). La sua figura è stata ridiscussa nel dibattito sul 1619 Project Fonte  La risposta nel NYTM

    Jake Silverstein, caporedattore del NYTM, ha risposto alle critiche dei cinque storici sostenendo che le loro osservazioni non riguardano questioni di fatto, ma piuttosto l’interpretazione di importanti eventi e personaggi della storia americana.

    In particolare, secondo Silverstein, l’affermazione di Hannah-Jones, secondo cui i coloni americani si dichiararono indipendenti dalla Gran Bretagna per proteggere l’istituto della schiavitù, si basa sul lavoro di storici come David Waldstreicher e Alfred W. e Ruth G. Blumrosen, che hanno richiamato l’attenzione su eventi come la sentenza dell’alta corte britannica nel caso Somerset v. Stewart del 1772 e la Dunmore Proclamation del 17754.

    Per quanto riguarda invece la figura di Abraham Lincoln, Silverstein scrive che Hannah-Jones non voleva, né poteva, ricostruire nei dettagli i continui cambiamenti di posizione del 16° presidente degli USA sulla schiavitù e sui diritti dei neri; ma intendeva piuttosto mettere in evidenza il fatto che Lincoln, tuttora visto da molti come un santo, subordinò per molto tempo la liberazione dei neri alla predisposizione di un progetto per organizzare il loro ritorno in Africa, perché pensava che la coesistenza tra bianchi e neri emancipati sul suolo americano sarebbe stata troppo problematica.

    Silverstein ha quindi negato l’opportunità di effettuare le correzioni richieste.

     

    La replica dei firmatari della lettera

    La risposta del caporedattore del NYTM è stata giudicata del tutto insoddisfacente da due dei cinque firmatari della lettera. Gordon S. Wood e Sean Wilentz hanno ribattuto punto per punto alle argomentazioni di Silverstein. “Tutti vogliamo la giustizia, ma non a spese della verità”, ha sottolineato Wood in un articolo pubblicato sul WSWS il 24/12/2019. E Wilentz ha osservato che “aver cura dei fatti è tanto più importante alla luce dell’attuale situazione politica”, caratterizzata dallo svilimento della verità e dagli attacchi alla libertà di stampa portati avanti dall’amministrazione Trump, appoggiata da gruppi dell’estrema destra e dalla Russia di Putin (“The Atlantic”, 22/01/2020).

     

    La posizione dell'American Historical Association

    La American Historical Association (la più importante società storica americana) non ha preso ufficialmente posizione sul 1619 Project. Tuttavia, nel febbraio del 2020 la “American Historical Review”, che è la rivista ufficiale dell’Associazione, ha pubblicato un lungo e interessante commento, firmato a nome della redazione da Alex Lichtenstein, che sostanzialmente ha smontato le accuse rivolte ad Hannah-Jones e al NYTM dai cinque storici firmatari della lettera.

    In breve, secondo Lichtenstein, la tesi fondamentale alla base del progetto, ovvero l’idea della centralità della schiavitù nella storia americana, per quanto possa apparire sorprendente per gran parte dell’opinione pubblica americana, è in realtà ampiamente scontata per la maggior parte degli storici. E quanto ai presunti errori imputati ad Hannah-Jones, essi sono in realtà soprattutto sottolineature enfatiche di affermazioni niente affatto così peregrine e riguardano comunque soltanto uno dei numerosi testi proposti dal NYTM: non si vede quindi come possano da soli screditare l’intero progetto.

    Quest’ultimo – ha concluso Lichtenstein - non è privo di imperfezioni e alcuni aspetti dei saggi e dei materiali raccolti possono essere discussi; ma sarebbe una vergogna se gli storici americani non si adoperassero per cominciare ad includere anche la storia della schiavitù e le esperienze degli afroamericani nella memoria collettiva del paese.

     

    Un intervento critico, ma in difesa del progetto

    Molti altri storici e opinionisti, oltre gli studiosi già citati, hanno preso posizione sul 1619 Project. Tra i tanti interventi, è particolarmente interessante il commento, molto articolato, di Leslie M. Harris (“Politico”, 06/03/2020). Esperta di storia della schiavitù, Harris, che insegna alla Northwestern University, era stata consultata dal NYTM prima della pubblicazione del progetto; e aveva contestato con forza l’affermazione secondo cui i coloni americani si ribellarono alla Gran Bretagna per difendere la schiavitù. Ma il NYTM non ha tenuto conto delle sue osservazioni. Inoltre, secondo Harris, nel saggio di Hannah-Jones vi sono anche altre imprecisioni, relative al modo in cui viene descritta la condizione dei neri e degli schiavi nell’era coloniale.

    Tuttavia – secondo la storica della Northwestern University – il 1619 Project, considerato nel suo insieme, è un salutare correttivo rispetto alla storiografia pedissequamente celebrativa, in voga fino alla seconda metà del Novecento. Gli Stati Uniti non sono stati fondati per proteggere la schiavitù, ma il NYTM ha ragione nel sostenere la centralità di questa istituzione nella storia della nazione. La discussione tra gli storici è reale, ma non è una contesa tra bianchi e neri.

    I cinque firmatari della lettera al NYTM hanno affermato di sostenere tutti gli sforzi per mettere in rilievo la centralità della schiavitù e del razzismo nella storia degli Stati Uniti. Tuttavia, i più noti tra loro hanno largamente ignorato la storia dei neri nei loro libri. “È facile correggere i fatti – scrive Harris – è molto più difficile correggere una visione mondiale che in larga parte ignora e travisa il ruolo degli afroamericani e della razza nella nostra storia”.

    Per fortuna – conclude Harris - da circa mezzo secolo un gruppo sempre più numeroso di studiosi, sia bianchi che neri, ha lavorato in questa direzione. E anche il 1619 Project si inserisce, benché in modo imperfetto, in questa corrente di idee e di ricerche.

     

    Schiavitù e capitalismo

    Sebbene la maggior parte delle critiche degli studiosi si siano concentrate sulle tesi di Nikole Hannah-Jones, diversi storici hanno preso di mira anche il saggio del sociologo Matthew Desmond sul rapporto genetico tra schiavitù e capitalismo.

    Lo hanno fatto anzitutto, come ho già accennato, i cinque storici firmatari della lettera al NYTM del dicembre 2019. Ma ad essi si sono aggiunti anche altri studiosi, in particolare Phillip W. Magness, storico dell’economia e direttore dell’American Institute for Economic Research. In un articolo pubblicato sul sito web di questo istituto l’11 febbraio 2020, Magness ha affermato che, mentre i difetti degli altri contributi forniti dal 1619 Project potrebbero essere corretti abbastanza facilmente, il saggio di Matthew Desmond è a tal punto costellato di errori di fatto e di dubbie interpretazioni storiche che l’intero lavoro ne risulta squalificato.

    Magness osserva che le argomentazioni di Desmond sono in gran parte riprese da quel filone di ricerche, definito talvolta come New History of Capitalism, i cui risultati sono stati fortemente contestati. E in effetti, secondo Magness, le tesi di Desmond sul rapporto genealogico tra schiavitù e capitalismo sono in realtà del tutto prive di fondamento. Desmond sostiene infatti che le sofisticate tecniche mediante le quali le grandi imprese capitalistiche moderne tengono sotto controllo ogni aspetto della propria attività e del lavoro dei propri dipendenti furono sviluppate nelle grandi piantagioni degli stati del sud. Ma egli sembra ignorare il fatto che queste tecniche, a cominciare dalla partita doppia, erano già molto diffuse in Europa tra la fine del Medioevo e gli inizi dell’età moderna.

    Desmond afferma inoltre che nei sessant’anni che precedettero la guerra civile vi fu un eccezionale aumento della produzione di cotone, reso possibile da un più efficiente e brutale sfruttamento del lavoro degli schiavi. Egli riprende questa tesi dallo studio di Edward E. Baptist, The Half Has Never Been Told. Slavery and the Making of American Capitalism (Basic Books, 2014). Ma sia Baptist che Desmond trascurano il fatto che altre ricerche avevano in precedenza dimostrato che l’incremento della produzione di cotone in quel periodo fu causato soprattutto dall’introduzione e dal perfezionamento di nuove varietà biologiche di quella pianta.

    Quindi, conclude Magness, intere parti del saggio di Desmond dovrebbero essere modificate, inclusa la sua tesi principale che collega il capitalismo moderno alla schiavitù5.

     

     Immagine 5 Hanna JonesFig.5: Nikole Hannah-Jones, la giornalista del “New York Times Magazine” che ha ideato il 1619 Project FonteIl NYTM si corregge. Hannah-Jones vince il Premio Pulitzer

    Sebbene Silverstein avesse inizialmente negato l’opportunità di fare ‘correzioni’, il NYTM ha poi effettivamente modificato, nel marzo del 2020, uno dei passaggi più controversi del saggio di Hannah-Jones. Infatti, nella versione online del testo, si legge ora che “una delle ragioni principali per le quali alcuni tra i coloni americani [e non semplicemente “i coloni americani”] decisero di dichiarare la propria indipendenza dalla Gran Bretagna fu che essi volevano proteggere l’istituto della schiavitù”. Una nota di Silverstein ha spiegato i motivi di questa modifica.

    Due mesi più tardi, nonostante le perplessità e le critiche avanzate da diversi studiosi, Nikole Hannah-Jones ha ricevuto il Pulitzer Prize for Commentary per il saggio, definito “di grande respiro, stimolante e personale”, con il quale ha introdotto il “pioneristico” 1619 Project.

     

     Le critiche  e gli attacchi della destra

    Oltre a ricevere critiche da storici e opinionisti indipendenti o di sinistra, il 1619 Project è stato attaccato, in modo più radicale, anche dalla destra, sia nel mondo politico che in quello intellettuale. In generale, l’accusa che la destra fa al NYTM è di aver messo in campo una iniziativa antipatriottica, razzista e antistorica, piegando i fatti per farli combaciare con una visione ideologica e faziosa.

    Si può portare come esempio delle critiche della destra l’articolo pubblicato su “Newsweek” il 27/08/2019 da Newt Gingrich, esponente di primo piano del Partito repubblicano. Gingrich ha respinto con forza l’idea di mettere la schiavitù al centro della storia americana, bollandola come “left-wing propaganda” spacciata per verità.

    Secondo Gingrich non si può mettere il 1619 al posto del 1776. Questo slittamento all’indietro della data di nascita della nazione americana porta inevitabilmente ad oscurare il fatto che gli ideali che ispirarono la Dichiarazione di indipendenza, lungi dall’essere “falsi quanto furono scritti”, come ha affermato Hannah-Jones, sono stati invece il punto di partenza di una grande rivoluzione morale e politica, nella quale i bianchi hanno lottato al fianco dei neri. Una rivoluzione che dagli Stati Uniti si è poi propagata ad altre parti del mondo.

    Le critiche della destra sono state all’origine dell’iniziativa politica intrapresa dal senatore repubblicano Tom Cotton, che nel luglio del 2020 si è fatto promotore del Saving American History Act: una proposta di legge che mirava a proibire l’assegnazione di fondi federali6alle scuole che utilizzano il 1619 Project. Nel presentare questa proposta, Cotton ha dichiarato che il progetto del NYTM è “una rappresentazione della storia revisionista e divisiva sul piano razziale, che nega i nobili princìpi di libertà ed eguaglianza sui quali è stata fondata la nostra nazione”.

     

    Immagine 6 Black Lives MatterFig.6: La protesta del Black Lives Matter (Hollywood, 7 giugno 2020). Uno dei cartelli dei manifestanti evoca l’anno 1619 FonteIl 1619 Project e il Black Lives Matter

    Da quando nel giugno del 2020 sono divampate le proteste per l’uccisione di George Floyd, le polemiche sul 1619 Project si sono in parte sovrapposte a quelle suscitate dal Black Lives Matter e dai suoi attacchi alle statue, che hanno preso di mira non soltanto i monumenti ai leader dei Confederati, ma anche quelli dedicati ai “padri fondatori”, come George Washington.

    “Call them the 1619 riots“ – “Chiamateli i tumulti del 1619”, ha scritto Charles Kesler in un graffiante editoriale sul “New York Post” (19/06/2020). “Ne sarei onorata. Grazie”, ha replicato Hannah-Jones su Twitter.

    Il dibattito attorno al 1619 Project è quindi in parte confluito in una discussione più generale relativa alla storia americana e alle problematiche della razza e del razzismo.

    Alla fine dell’estate del 2020 si è poi aperta una nuova pagina della polemica. Sulla rivista “Quillette” (19/09/2020), lo storico Phillip W. Magness, di cui abbiamo già riferito le critiche al saggio di Matthew Desmond, ha segnalato che nella home page dell’edizione online del progetto erano spariti due riferimenti al 1619 come momento fondante della storia della nazione americana. Magness ha quindi accusato il NYTM di aver creato un “buco della memoria” (memory hole), come quello usato dal Ministero della Verità in 1984 di George Orwell.

    Ha suscitato inoltre un certo clamore il fatto che le osservazioni di Magness siano state riprese e amplificate da Bret Stephens in un editoriale pubblicato sul “New York Times” (09/10/2020). A. G. Sulzberger, editore del quotidiano, ha subito precisato che Stephens aveva parlato a titolo personale e che il “New York Times” continuava ad appoggiare il 1619 Project. Per parte sua, Silverstein ha spiegato le ragioni delle modifiche fatte all’edizione online del progetto e ha sostenuto che esse non intaccano affatto la sua tesi di fondo.

     

     La "White House Conference on American History"

    Il 17 settembre 2020 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha convocato la prima “White House Conference on American History”, in apertura della quale ha dichiarato:

    “Il nostro compito è difendere l’eredità della fondazione dell’America, la virtù degli eroi americani, e la nobiltà del carattere americano. Noi dobbiamo spazzare via la contorta rete di bugie dalle nostre scuole e dalle nostre classi, e insegnare ai nostri ragazzi la magnifica verità riguardo al nostro paese. Noi vogliamo che i nostri figli e le nostre figlie sappiano che sono i cittadini della più straordinaria nazione nella storia del mondo”.

    Dopo aver condannato le folle che abbattono le statue dei fondatori e i radicali che bruciano le bandiere americane, il Presidente ha aggiunto:

    “La sinistra ha deformato, distorto e profanato la storia americana con inganni, falsità e bugie. Non c’è miglior esempio di questo che il 1619 Project del ‘New York Times’, che è stato completamente screditato. Questo progetto riscrive la storia americana per insegnare ai nostri ragazzi che il nostro paese è stato fondato sull’oppressione, e non sulla libertà”.

    La “White House Conference on American History” ha suscitato una secca reazioneda parte della American Historical Association, che ha deplorato questa iniziativa, sostenendo che essa alimenta ‘guerre culturali’ che distraggono gli americani da altre più rilevanti problematiche attuali, e che “per imparare dalla nostra storia, dobbiamo affrontarla, comprenderla in tutta la sua disordinata complessità e sentirci responsabili tanto per i nostri fallimenti, quanto per le nostre conquiste”. Questa dichiarazione è stata sottoscritta da altre 46 associazioni di storici e studiosi di altre discipline.

     

    Immagine 7 Dichiarazione di indipendenzaFig.7: La Dichiarazione di Indipendenza (4 luglio 1776) è stata generalmente considerata finora come l’atto di nascita della nazione statunitense FonteAltre iniziative

    Il 6 ottobre 2020 Peter Wood, Presidente della National Association of Scholars, ha chiesto la revocadel premio Pulitzer a Hannah-Jones. Wood ha motivato la richiesta ricordando le critiche avanzate nei confronti del 1619 Project da molti eminenti storici e il tentativo del NYTM di modificare – a suo dire in modo subdolo - i testi originari del progetto. La lettera di Wood è stata sottoscritta da una trentina di docenti universitari.

    Successivamente, il 2 novembre 2020, il presidente Donald Trump, il giorno prima delle elezioni presidenziali che avrebbero segnato la sua sconfitta, ha istituito la 1776 Commission, con lo scopo di promuovere tra le nuove generazioni una maggiore consapevolezza dei nobili princìpi sui quali è stata fondata la nazione americana e che hanno alimentato la sua eccezionale esperienza storica, contrastando così la tendenza a svilirli e denigrarli mediante ricostruzioni false e ingannevoli.

    Anche a seguito della sconfitta di Trump e dei repubblicani nelle elezioni del novembre del 2020, sia la proposta di legge del senatore Cotton, sia l’attività della 1776 Commission si sono arenate. Tuttavia, i repubblicani hanno proseguito la loro battaglia a livello locale. Anche le scuole e le università sono diventate quindi un terreno di scontro tra fautori e oppositori del 1619 Project.

     

     Il 1619 Project  nelle scuole

    Fin dal primo momento gli autori del progetto hanno manifestato un particolare interesse per l’insegnamento scolastico.

    In un articolo pubblicato in appendice ai saggi dell’agosto del 2019, Nikita Stewart aveva messo in evidenza come la storia della schiavitù sia ancora oggi insegnata poco e male negli Stati Uniti. Stewart citava i risultati di una ricerca condotta nel 2017 dal Southern Poverty Law Center, dalla quale era emerso che circa il 60% degli oltre 1700 insegnanti intervistati ritenevano che i propri libri di testo trattassero in modo inadeguato il tema della schiavitù; inoltre i circa mille studenti consultati risultavano avere conoscenze scarse o erronee in proposito (oltre il 90% di loro non sapeva che la schiavitù è stata la causa principale della guerra civile americana).

    Il 1619 curriculum mira appunto a correggere questa educational malpractice. Ma quante scuole lo stanno utilizzando?

    Secondo Jake Silverstein, caporedattore del NYTM, nell’ottobre del 2020 oltre 4000 insegnanti avevano già utilizzato il curriculum. Non sorprende quindi che i repubblicani abbiano tentato di frenarne la diffusione in alcuni Stati, promuovendo progetti di legge rivolti a bloccare i finanziamenti pubblici alle istituzioni scolastiche e universitarie che hanno scelto di adottare il progetto del NYTM. È accaduto in Arkansas, Iowa, Mississippi, Missouri e South Dakota. Misure analoghe sono state proposte dai repubblicani anche in altri Stati per scoraggiare l’insegnamento di dottrine ritenute “divisive, sessiste o razziste”. Tra queste vi è anche la cosiddetta Critical Race Theory (CRT), ovvero quella teoria secondo la quale la discriminazione razziale è tuttora una caratteristica strutturale della società statunitense.

    Queste iniziative hanno suscitato reazioni e commenti negativi sia da parte degli insegnanti, sia da parte dei pedagogisti e degli storici. Ad esempio, Michelle Bacon Curry, insegnante di inglese nelle scuole superiori nello Iowa, ha affermato di aver usato il 1619 curriculum nelle sue classi, aggiungendo che una eventuale interdizione di questi materiali la spingerebbe a raddoppiare i suoi sforzi per perseguire i suoi obiettivi didattici.

    Secondo Mark Schulte, direttore del ramo del Pulitzer Center che si occupa della formazione scolastica, i tentativi di impedire l’utilizzo del 1619 Project per scopi didattici nascono da una erronea interpretazione del progetto. Infatti i materiali del curriculum non hanno lo scopo di convincere gli studenti a condividere determinate idee, ma piuttosto di incoraggiarli a porre domande, a riflettere e a discutere.

    Le iniziative promosse dai repubblicani in molti Stati, per limitare ciò che gli insegnanti possono dire in classe sui temi della razza, dell’oppressione e del sessismo, non si sono fermate. E sabato 12 giugno 2021 migliaia di educatori e altre persone si sono riunite, sia fisicamente che virtualmente, presso i siti storici di oltre 20 città per mettere in chiaro che si opporranno a questi tentativi di limitare la libertà di insegnamento. Diverse migliaia di insegnanti hanno firmato una dichiarazione, proposta dallo Zinn Education Project, che afferma: “Noi sottoscritti educatori rifiutiamo di mentire ai giovani riguardo alla storia degli Stati Uniti e alla realtà odierna – senza riguardo per le leggi”.

     

    Una concezione identitaria della storia e del suo insegnamento?

    Prima di concludere, può essere interessante osservare che sia alcuni tra i promotori e sostenitori del 1619 Project, sia una parte dei suoi critici sembrano condividere una concezione identitaria della storia e del suo insegnamento (sulla ripresa delle narrazioni storiche identitarie rinvio a quanto ha scritto Antonio Brusa, anche qui su “Historia ludens”).

    Infatti, su entrambi i fronti della culture war in atto attorno al progetto del NYTM, si va alla ricerca dei momenti e dei valori ‘fondanti’ della nazione statunitense e/o della comunità afroamericana e si punta alla narrazione di un’epica lotta nella quale eroi, vittime e carnefici svolgono un ruolo ben preciso, in un mondo dove non sembra esistere una via di mezzo tra il bene e il male.

    Questa è chiaramente la visione della storia proposta dal Presidente Trump e dai suoi seguaci, a cominciare dal senatore Tom Cotton. Ma la stessa Hannah-Jones, ideatrice del progetto, sembra seguire una strategia narrativa nella quale la rievocazione dei fatti storici si intreccia con la costruzione di un mito di carattere identitario. Alquanto diverso, naturalmente, da quello dei repubblicani.

    Infatti, la giornalista del NYTM tende da un lato ad evidenziare il contributo patriottico degli afroamericani alla costruzione degli Stati Uniti, e dall’altro lato ad esaltare il loro ruolo come comunità ben distinta all’interno della nazione americana. “Dicono che il nostro popolo sia nato sull’acqua”, cioè sulle navi dei negrieri, scrive Hannah-Jones nella parte conclusiva del suo saggio. “Il nostro modo di parlare e di vestiree il ritmo della nostra musica riecheggia l’Africa ma non è africano. Dal nostro completo isolamento, sia rispetto alle nostre culture native sia rispetto all’America bianca, noi abbiamo plasmato la più rilevante cultura originale di questa nazione” (i corsivi sono miei). E poi conclude dichiarandosi orgogliosa della bandiera a stelle e strisce e osservando che il suo popolo è diventato “il più americano di tutti”.

     

    Il 1619 Project  e l'afrocentrismo

    Ci si può chiedere, infine, che rapporti vi siano tra il 1619 Project e l'afrocentrismo, ancora molto presente nella cultura della cosiddetta diaspora africana (vedi in proposito questo articolodi Sarah Balakrishnan). Ci sono naturalmente alcuni punti di contatto, ad esempio il rifiuto del primato della cultura bianca e occidentale. Ma c'è anche questa fondamentale differenza: mentre l'afrocentrismo, nelle sue diverse espressioni, tende a considerare la storia e la cultura africana come il punto di partenza della riscossa dei neri, il 1619 Project vuole mettere i neri al centro della storia degli Stati Uniti, mostrando scarso interesse per le radici africane della loro cultura. Anzi, come abbiamo visto sopra, Hannah-Jones, che è l'ideatrice del progetto, sottolinea il fatto che la cultura afroamericana si è formata fuori e lontano dall'Africa: simbolicamente sulle acque del middle passage, più concretamente sul suolo del continente dove gli schiavi venivano sbarcati alla fine di quel viaggio. E mentre l'afrocentrismo è tendenzialmente separatista e si è spinto fino a coltivare il sogno di un ritorno dei neri nella loro terra di origine, il 1619 Project si batte per l'uguaglianza dei bianchi, dei neri e di tutti gli altri gruppi etnici all’interno della comune patria statunitense.

     

    Conclusione

    Nonostante tutte le perplessità e le critiche che abbiamo passato in rassegna, il 1619 Project sta andando avanti e per il prossimo novembre 2021 è stata annunciata la pubblicazione di due libri che proporranno una versione più ampia dei contenuti dell’edizione dell’agosto 2019.

    Da quest’altra parte dell’Atlantico, come storici e come insegnanti, non possiamo non guardare con grande interesse alle molte questioni storiografiche, pedagogiche e didattiche sollevate in questo ampio dibattito statunitense. Le Guerre per la storia, infatti, non mancano nel nostro antico continente. In alcuni stati, soprattutto quelli dell’Europa ex-comunista si combattono in modo virulento. Nell’Europa occidentale in forme meno esagitate, ma ugualmente pericolose per chi ritiene che la storia sia una disciplina che insegna a leggere il mondo e guarda con preoccupazione la marea montante di chi vuole, invece, che la storia sia uno strumento di rivendicazione identitaria e politica.

     


     Note

    Ho riportato la versione originale delle parole di apertura dell’edizione online del progetto, che ho ripreso da un articolo di Phillip W. Magness. Successivamente questo testo è stato leggermente modificato. La traduzione dall’inglese è mia e lo stesso vale per tutti i testi citati tra virgolette da qui in avanti.

    Anche in questo caso riporto la versione originale del testo, che riprendo dall’articolo di Magness citato nella nota 1.

    Victoria Bynum (Texas State University), James M. McPherson (professore emerito alla Princeton University), James Oakes (City University of New York) e Gordon S. Wood (professore emerito della Alva O. Wade University e della Brown University).

    La sentenza dell’alta corte britannica nel caso Somerset v. Stewart nel 1772 dichiarò illegale la vendita di uno schiavo fuggiasco perché la schiavitù non era contemplata dalla common law inglese; la Dunmore Proclamation, emanata dal governatore della Virginia nel 1775, offrì la libertà agli schiavi fuggiaschi che si fossero arruolati nell’esercito britannico. Entrambi questi eventi, secondo gli storici citati sopra, avrebbero contribuito a spingere i coloni che possedevano schiavi alla ribellione contro la madrepatria.

    Magness ha successivamente sviluppato le sue critiche al saggio di Desmond e ad altri aspetti del progetto del NYTM in un volume intitolato The 1619 Project: A Critique, pubblicato nel 2020 dall’American Institute for Economic Research.

    Per fondi federali si intendono quelli provenienti dal governo centrale. Occorre tenere presente che, negli Stati Uniti, il governo centrale contribuisce alle spese del sistema scolastico pubblico in misura assai ridotta. Ad esempio, nell’anno scolastico 2017-18 i fondi federali hanno coperto appena l’8% della spesa complessiva, mentre il 47% è stato assicurato da risorse provenienti dai singoli Stati e il restante 45% da fondi delle comunità locali (vedi https://nces.ed.gov/programs/coe/indicator/cma).

     

    Sitografia

     

    I saggi pubblicati nell’edizione speciale del “New York Times Magazine” dell’agosto 2019:

     

    Bouie, Jamelle, America holds onto an undemocratic assumption from its founding: that some people deserve more power than other

    Desmond, Matthew, In order to understand the brutality of American capitalism, you have to start on the plantation

    Hannah-Jones, Nikole, Our democracy’s founding ideals were false when they were written. Black Americans have fought to make them true

    Interlandi, Jeneen, Why doesn’t the United States have universal health care? The answer has everything to do with race

    Kruse, Kevin M., What does a traffic jam in Atlanta have to do with segregation? Quite a lot

    Lee, Trymaine, A vast wealth gap, driven by segregation, redlining, evictions and exclusion, separates black and white America

    Morris, Wesley, For centuries, black music, forged in bondage, has been the sound of complete artistic freedom. No wonder everybody is always stealing it

    Muhammad, Khalil Gibran, The sugar that saturates the American diet has a barbaric history as the ‘white gold’ that fueled slavery

    Stevenson, Bryan, Slavery gave America a fear of black people and a taste for violent punishment. Both still define our criminal-justice system

    Stewart, Nikita, 'We are committing educational malpractice’: Why slavery is mistaught — and worse — in American schools

    Villarosa, Linda, Myths about physical racial differences were used to justify slavery — and are still believed by doctors today

     

    Articoli e interventi online:

     

    AHA Issues Statement on the Recent "White House Conference on American History”,  www.historians.org, September 2020

    Balakrishnan, Sarah, Afrocentrism Revisited: Africa in the Philosophy of Black Nationalism, “Souls”, Volume 22, Issue 1 (2020), pubblicato online l’08/02/2021

    Editor’s Desk, 1619 and All That, “The American Historical Review”, Volume 125, Issue 1, February 2020, pp. xv–xxi, pubblicato online il 03/02/2020

    Ellison, Sarah, How the 1619 Project took over 2020, “The Washington Post”, 13/10/2020

    Gingrich, Newton, Did Slavery Really Define America For All Time?, “Newsweek”, 27/08/2019

    Harris, Leslie M., I Helped Fact-Check the 1619 Project. The Times Ignored Me, “Politico”, 06/03/2020

    Historian Gordon Wood responds to the New York Times’ defense of the 1619 Project, “World Socialist Web Site”, 24/12/2019

    Kesler, Charles, Call them the 1619 riots, “New York Post”, 19/06/2020

    Levine, Carole, Republicans in 5 States Seek to Keep 1619 Project Curriculum out of Schools, “Nonprofit Quarterly”, 15/02/2021

    Magness, Phillip W., The Case for Retracting Matthew Desmond’s 1619 Project Essay, “American Institute for Economic Research”, 11/02/2020

    Magness, Phillip W., Down the 1619 Project’s Memory Hole, “Quillette”, 19/09/2020

    Niemuth, Niles - Mackaman, Tom – North, David, The New York Times’s 1619 Project: A racialist falsification of American and world history, “World Socialist Web Site”, 06/09/2019

    Pledge to Teach the Truth, “Zinn Education Project”, 21/06/2021

    Schwartz, Sarah, Lawmakers Push to Ban ‘1619 Project’ From Schools, “Education Week”, 03/02/2021

    Schwartz, Sarah, 8 States Debate Bills to Restrict How Teachers Discuss Racism, Sexism, “Education Week”, 15/04/2021

    Serwer, Adam, The Fight Over the 1619 Project Is Not About the Facts, “The Atlantic”, 23/12/2019

    Silverstein, Jake, We Respond to the Historians Who Critiqued The 1619 Project, “The New York Times Magazine”, 20/12/2019

    Silverstein, Jake, An Update to The 1619 Project, “The New York Times Magazine”, 11/03/2020

    Silverstein, Jake, On Recent Criticism of The 1619 Project, “The New York Times Magazine”, 16/10/2020

    Stelter, Brian - Darcy, Oliver, 1619 Project faces renewed criticism — this time from within The New York Times, CNN, 12/10/2020

    Stephens, Bret, The 1619 Chronicles, “The New York Times”, 09/10/2020

    Strauss, Valerie, Teachers across the country protest laws restricting lessons on racism, “The Washington Post”, 12/06/2021

    The 1619 Project, “Wikipedia”

    Twelve Scholars Critique the 1619 Project and the New York Times Magazine Editor Responds, “History News Network”, 26/01/2020

    Wilentz, Sean, American Slavery and ‘the Relentless Unforeseen’, “History News Network”, 19/11/2019

    Wilentz, Sean, A Matter of Facts, “The Atlantic”, 22/01/2020

    Wood, Peter, Pulitzer Board Must Revoke Nikole Hannah-Jones' Prize, www.nas.org, 06/10/2020

     

    Bibliografia

     

    Magness, Phillip W., The 1619 Project: A Critique, American Institute for Economic Research, 2020.

    North, David - Mackaman, Thomas (eds.), The New York Times’ 1619 Project and the Racialist Falsification of History, Oak Park (Michigan), Mehring Books, 2021.

  • Passato e presente negli attacchi ai monumenti sull'onda del Black Lives Matter

    di Daniele Boschi

    La statua di Albert Pike in Washington D.C. ancora in piedi sul suo piedistallo di granito, dal quale è stata rovesciata lo scorso 19 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Pike_Statue,_Washington_DC_.jpgLa statua di Albert Pike in Washington D.C. ancora in piedi sul suo piedistallo di granito, dal quale è stata rovesciata lo scorso 19 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Pike_Statue,_Washington_DC_.jpg

    Nella Judiciary Square in Washington D.C., a circa mezzo miglio dal Campidoglio, una statua di bronzo alta più di tre metri raffigurava Albert Pike, poeta, giurista, massone e ufficiale dell’esercito degli Stati Confederati durante la guerra civile americana (1861-65). Lo scorso 19 giugno un gruppo di dimostranti ha abbattuto questa statua e le ha dato fuoco, cantando “No justice, no peace, no racist police”. Negli Stati Uniti il 19 giugno, Juneteenth, è una giornata dedicata alla celebrazione dell’emancipazione dalla schiavitù e quest’anno è stata un’occasione per rinnovare le proteste contro il razzismo, divampate a seguito dell’uccisione dell’afro-americano George Floyd, avvenuta a Minneapolis lo scorso 25 maggio.   

    Quella di Albert Pike è soltanto una delle numerose statue abbattute o rimosse nelle ultime settimane sull’onda del movimento Black Lives Matter, che dagli Usa si è propagato anche al di qua dell’Atlantico. Un po’ dappertutto gli attivisti del movimento hanno preso di mira statue e monumenti che celebrano o rievocano personaggi e fatti in qualche modo collegati alla storia della schiavitù, del razzismo e del colonialismo.

    In questo articolo racconto alcuni episodi e le reazioni che hanno suscitato. In un prossimo articolo analizzerò i commenti apparsi sui quotidiani e sul web, anche alla luce delle riflessioni che da diversi anni gli storici e gli esperti di public history hanno sviluppato riguardo all’uso degli spazi pubblici per commemorare personaggi ed eventi del passato, e alle controversie che quest’uso può generare. Antonio Prampolini sta preparando una sitografia completa su questo argomento, in attesa della quale si può consultare questo elenco provvisorio.

    L’attacco alle statue dei Confederati

    Oltre alla statua di Albert Pike, molti altri monumenti che rievocano la lotta dei Confederati contro gli stati dell’Unione durante la guerra civile americana sono stati attaccati o rimossi negli USA nelle ultime settimane.

    Ad esempio, il 1° giugno una statua del generale Robert E. Lee è stata buttata giù davanti alla High School di Montgomery (Alabama) a lui intitolata. Poche ore prima, Steven Reed, primo sindaco nero della città, aveva parlato a una folla eccitata davanti alla scuola elementare dedicata a E. D. Nixon, uno dei principali organizzatori del famoso Montgomery Bus Boycott (1955-56), durante il quale gli afroamericani avevano rifiutato di usare i bus urbani. Reed aveva detto di condividere la rabbia e il desiderio di cambiamento dei propri concittadini, ma li aveva invitati alla calma. Non tutti però hanno seguito il suo consiglio e quattro persone sono state arrestate dopo l’abbattimento della statua.

    Il 10 giugno a Richmond in Virginia una folla di dimostranti ha abbattuto la statua di Jefferson Davis, presidente della Confederazione. Il giorno seguente il sindaco Levar Stoney ha commentato questo evento in un tweetcon le seguenti parole: "Jefferson Davis era un razzista e un traditore che fuggì dalla nostra città mentre le sue truppe eseguivano l’ordine di incendiarla e raderla al suolo. Non ha mai meritato di stare sopra quel piedistallo” [1].  E ha preannunciato la rimozione di altri simili monumenti.

    In molti casi sono stati, in effetti, i sindaci o altre autorità locali a ordinare lo smantellamento dei monumenti. Lo hanno fatto per manifestare la propria adesione alla protesta antirazzista, oppure per prevenire disordini o incidenti (o per entrambe le ragioni). Ad esempio, Greg Fischer, sindaco di Louisville nel Kentucky, ha fatto rimuovere la statua a cavallo di John B. Castleman, un personaggio controverso, poiché dapprima combatté nell’esercito dei Confederati, dove raggiunse il grado di maggiore, ma poi espresse ammirazione per Abramo Lincoln e si schierò contro l’esclusione degli afro-americani dai parchi cittadini. Fischer aveva tentato già l’anno scorso di arrivare alla rimozione della statua, ma senza successo; il suo operato è stato contestato da diverse associazioni locali e una controversia legale è tuttora in atto.

    L'offensiva si allarga

    Rimanendo per ora negli Stati Uniti, occorre aggiungere che l’attacco alle statue e ai monumenti si è allargato in queste ultime settimane fino a toccare anche personaggi storici di ben altro rilievo rispetto ai più o meno celebri generali e ufficiali dell’esercito confederato.

    A Portland, nell’Oregon, sono state abbattute le statue di Thomas Jefferson e di George Washington, entrambi proprietari di schiavi, come è ben noto.

    Nel Golden Gate Park di San Francisco è stata rovesciata la statua di Ulysses S. Grant, comandante dell’esercito che sconfisse i Confederati nel 1865 e poi presidente degli Stati Uniti. Grant è ritenuto colpevole di aver sposato una donna proveniente da una famiglia di proprietari di schiavi e di aver diretto personalmente il lavoro di questi schiavi in una piantagione nel Missouri. Egli stesso inoltre fu proprietario di uno schiavo, che liberò nel 1859.

    Sempre nel Golden Gate Park, insieme alla statua di Grant, è stata buttata giù anche quella di Francis Scott Key (1779-1843), l’autore dell’inno nazionale statunitense, “The Star-Spangled Banner”. L’accusa nei suoi confronti non è solo quella di aver posseduto schiavi, ma anche di aver utilizzato il suo ruolo di procuratore di distretto in Washington D.C. per ridurre al silenzio i fautori della causa abolizionista.

    Infine, il Museo di Storia Naturale di New York ha deciso di rimuovere la statua di Theodore Roosevelt, che finora troneggiava davanti all’ingresso del Museo. La statua mostra il 26° presidente degli Stati Uniti a cavallo e accanto a lui, a piedi, un nativo americano e un africano. Lo stesso pronipote del Presidente, Theodore Roosevelt IV, si è detto d’accordo con la decisione: «Il mondo non ha bisogno di statue, relitti di un’altra era, che non riflettono né le virtù della persona che intendono onorare, né i valori di uguaglianza e giustizia. Questa composizione equestre non riflette l’eredità di Theodore Roosevelt. È tempo di rimuoverla e andare avanti». Ma il presidente Donald Trump ha twittato: «Ridicolo, non fatelo!».

    "Colombo rappresenta il genocidio"

    Se l’attacco ai monumenti di personaggi più o meno illustri della storia degli USA potrebbe lasciarci abbastanza indifferenti qui in Italia, le cose stanno forse in modo un po’ diverso quando ad esser sotto tiro sono le statue dedicate al nostro Cristoforo Colombo, accusato di essere stato un colonizzatore e uno sterminatore dei nativi americani. Anche con lui se la sono presa gli attivisti del movimento Black Lives Matter nelle ultime settimane.

    Il primo episodio, riportato anche dai quotidiani italiani[2], è avvenuto a Richmond in Virginia, dove il 9 giugno, in un parco cittadino, la statua alta due metri e mezzo del navigatore genovese è stata abbattuta, bruciata e trascinata fino a un vicino laghetto, dove è stata gettata. Il piedistallo è stato imbrattato con le scritte "questa terra è dei Powhatan", il nome della popolazione nativa della Virginia, e "Colombo rappresenta il genocidio".

    Immagine 2 ColomboLa statua di Cristoforo Colombo che si ergeva presso il Minnesota State Capitol, buttata giù dai dimostranti lo scorso 10 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Christopher_Columbus_Statue_Torn_Down_at_Minnesota_State_Capitol_on_June_10,_2020.jpgStatue di Colombo sono state sfregiate, abbattute o rimosse anche a Saint Paul nel Minnesota, a Boston , a Camden nel New Jersey, a Houston nel Texas, a San Francisco e in diverse altre città. Un caso particolare è quello del Congresso della California, che ha deciso di rimuovere dalla propria sede le statue di Cristoforo Colombo e della regina Isabella di Castiglia.

    Anche se queste iniziative sono state prese sull’onda delle proteste del Black Lives Matter, in molti casi esse sono anche il risultato delle lotte portate avanti da molti anni dalle associazioni dei nativi americani. Anzi, a Saint Paul nel Minnesota è stato l’ “American Indian Movement” ad organizzare l’attacco alla statua di Colombo, dopo anni di inutili trattative con le autorità locali.

    Su un altro fronte, questi eventi hanno suscitato la reazione del “Movimento Associativo degli Italiani all’Estero” (MAIE), il cui presidente, Ricardo Merlo, è attualmente sottosegretario agli Esteri nel governo Conte. Merlo ha dichiarato che “gli attacchi alle statue di Cristoforo Colombo sono atti vili e scellerati” ed ha aggiunto che “pensare oggi di rivedere la storia è anacronistico, inutile, sbagliato”.

    Abbattimenti e rimozioni di statue in Gran Bretagna

    Come è noto, le proteste del Black Lives Matter si sono propagate dagli USA all’Europa. E anche da questa parte dell’Atlantico alcune statue, considerate come simboli del razzismo e del colonialismo, sono state abbattute o rimosse.

    Il piedistallo vuoto della statua di Edward Colston a Bristol, abbattuta lo scorso 7 giugno durante le proteste del “Black Live Matters”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Edward_Colston_-_empty_pedestal.jpgIl piedistallo vuoto della statua di Edward Colston a Bristol, abbattuta lo scorso 7 giugno durante le proteste del “Black Live Matters”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Edward_Colston_-_empty_pedestal.jpg

    Cominciamo dall’Inghilterra. Lo scorso 7 giugno a Bristol, nel corso di una manifestazione antirazzista, la statua di Edward Colston (1636-1721), membro della Royal African Company e mercante di schiavi, è stata abbattuta, trascinata per le strade della città e gettata nelle acque del porto. Il giorno seguente, l’evento è stato stigmatizzato dal portavoce del Primo ministro Boris Johnson, che ha dichiarato: “I cittadini possono fare campagne per la rimozione di una statua, ma quello che è accaduto ieri è un’azione criminale … Il Primo ministro comprende appieno l’intensità dei sentimenti, ma in questo paese risolviamo le controversie in modo democratico e se si vuole la rimozione della statua ci sono procedure democratiche che si possono seguire”.

    Invece il sindaco di Bristol Marvin Rees, primo sindaco nero del Regno Unito[3], ha mostrato comprensione per i dimostranti e ha dichiarato: “Penso che la situazione era arrivata a un punto critico e la gente sentiva che la statua doveva essere buttata giù … Non posso fingere e non fingerò che la statua di un mercante di schiavi nella città in cui sono nato e cresciuto non fosse un oltraggio per me e per le persone come me”.

    Le “procedure democratiche” sono state invece rispettate a Oxford, dove sulla scia del Black Lives Matter è ripresa la campagna per la rimozione della statua di Cecil Rhodes dalla facciata dell’Oriel College. Il movimento Rhodes Must Fall è nato nelle università del Sudafrica nel 2015 e da lì si è esteso alla Gran Bretagna. Nel 2016 l’Oriel College, pur accettando il dialogo con gli studenti, rifiutò di rimuovere la statua[4]. Ora sembra che le cose siano cambiate, dato che lo scorso 17 giugno l’organo direttivo del College ha votato a favore della rimozione della statua e per l’istituzione di una commissione che si occuperà del tema dell’eredità di Rhodes e del modo di migliorare la condizione degli studenti e dei dipendenti del College appartenenti alle minoranze etniche. 

    Un’altra statua presa di mira è stata quella del mercante di schiavi Robert Milligan (1746-1809) nella East London. Oltre tremila persone hanno firmato una petizione per la sua rimozione e lunedì 8 giugno la statua è stata ricoperta con cartelli recanti la scritta “Black Lives Matter”. Il giorno successivo la statua è stata rimossa per decisione delle autorità locali.

    Ancora più significativo è il fatto che il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha annunciato l’istituzione di una commissione che riesaminerà tutti i “landmarks” della capitale del Regno Unito. A questo proposito Kahn ha dichiarato che “le differenze all’interno della nostra capitale sono la nostra forza più grande, eppure le nostre statue, i nomi delle strade e gli spazi pubblici riflettono un’era passata. E’ una verità scomoda che la nostra nazione e la nostra città debbano una larga parte della loro ricchezza al ruolo che hanno avuto nel commercio degli schiavi e mentre questo è ben riflesso nella nostra sfera pubblica, il contributo di molte nostre comunità alla vita della capitale è stato volontariamente ignorato. Questo non può continuare”. 

    Tuttavia, come è accaduto negli Stati Uniti, anche in Inghilterra l’attacco alle statue non ha preso come bersaglio soltanto i simboli più ovvi del passato coloniale e razzista del paese. Come è stato riportato da tutti i principali media, il 7 giugno a Londra, in margine alle manifestazioni del Black Lives Matter, qualcuno ha imbrattato la statua di Winston Churchillin Parliament Square, scrivendoci sopra le parole “era un razzista”. La sera stessa, un giovane dal volto coperto avrebbe detto a un reporter della BBC di esser stato lui l’autore di quella scritta, motivando così il suo gesto: “Ho etichettato così la statua di Churchill perché lui era un razzista incallito. Ha combattuto i nazisti per proteggere il Commonwealth dall’invasione – non lo ha fatto per i neri, né per la gente di colore, né per alcun altro popolo. Lo ha fatto soltanto per il colonialismo. La gente si arrabbierà – ma io sono arrabbiato per il fatto che per tanti anni noi siamo stati oppressi”.

    Il caso del Belgio e del re Leopoldo II

    In Belgio, all’inizio di giugno, diverse statue del re Leopoldo II (1835-1909) sono state deturpate; ad Anversa una statua del monarca è stata prima vandalizzata e poi rimossa.

    La statua del re Leopoldo II del Belgio in Place du Trône a Bruxelles. Una petizione ne ha chiesto la rimozione. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leopold_II_Statue_at_Place_du_Tr%C3%B4ne_-_panoramio.jpgLa statua del re Leopoldo II del Belgio in Place du Trône a Bruxelles. Una petizione ne ha chiesto la rimozione. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leopold_II_Statue_at_Place_du_Tr%C3%B4ne_-_panoramio.jpg

    Parallelamente il movimento Reparons l’Histoire ha rivolto al comune di Bruxelles una petizione per chiedere la rimozione di tutte le statue di Leopoldo II dal territorio cittadino, a cominciare da quella sulla place du Trône.

    Come è noto, Leopoldo II ricevette nel 1885 dal Congresso di Berlino la sovranità sullo “Stato libero del Congo”, che governò e sfruttò come un suo possedimento privato fino al 1908. Nella petizione si legge questa descrizione del monarca:

    “Riconosciuto come un ‘re costruttore’ e non come un ‘re sterminatore’. Un eroe per alcuni ma anche un carnefice per un grande popolo. Nell’arco di 23 anni quest’uomo ha ucciso più di dieci milioni di congolesi, senza aver messo mai piede in Congo. Per 23 anni utilizzò il popolo congolese come un mero strumento per la produzione della gomma, un prodotto altamente richiesto a quell’epoca. Le persone che vivevano nelle regioni dove si produceva la gomma erano oppresse da un enorme carico di lavoro, a volte persino disumano”.

    La petizione, che alla data del 1° luglio era stata firmata da oltre ottantamila persone, indicava come termine ultimo per la rimozione delle statue il 30 giugno 2020, giorno in cui è caduto il sessantesimo anniversario dell’indipendenza della Repubblica Democratica del Congo. Un’altra petizione, che chiede al contrario di mantenere in piedi le statue, ha raggiunto alla stessa data oltre ventimila firme.

    Per il momento, le statue di Leopoldo II non sono state rimosse. Ma il 30 giugno, per la prima volta, il re del Belgio Filippo ha espresso il proprio rincrescimento per gli atti di violenza e le sofferenze inflitte dai belgi ai congolesi durante il periodo coloniale. Lo ha fatto con una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, nella quale ha anche riconosciuto che il dolore per queste ferite del passato è ravvivato dalle discriminazioni ancora oggi troppo presenti nella società belga.

    "La Francia non abbatterà alcuna statua"

    Per quanto riguarda la Francia, occorre anzitutto ricordare un episodio avvenuto poco prima che si scatenasse il movimento Black Lives Matter. Il 22 maggio scorso a Fort-de-France e a Schœlcher, nel dipartimento francese d’oltremare della Martinica, alcuni manifestanti hanno abbattuto due statue di Victor Schœlcher, l’uomo che scrisse il decreto col quale il governo francese abolì la schiavitù in tutte le sue colonie il 27 aprile 1848. A quanto pare, l’accusa contro Schœlcher è di aver indennizzato lautamente gli schiavisti e di aver oscurato con la sua fama i protagonisti locali della lotta contro la schiavitù.

    Successivamente, dopo l’esplosione delle proteste antirazziste a Parigi e in altre città, il Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, in un discorso pronunciato domenica 14 giugno, ha messo in guardia contro il rischio che la “nobile battaglia” contro il razzismo degeneri in “comunitarismo” e ha preso una posizione molto ferma contro gli attacchi ai monumenti. Ha dichiarato infatti che la Francia “non cancellerà alcuna traccia o nome della sua storia, non abbatterà nessuna statua”.

    Ma questo intervento non ha impedito che diversi monumenti venissero presi di mira nei giorni seguenti. Giovedì 18 giugno, a Parigi, alcuni militanti antirazzisti hanno posto un drappo nero sulla statua del generale Joseph-Simon Gallieni, eroe della prima guerra mondiale, ma anche ispiratore della dura repressione della resistenza della popolazione del Madagascar al dominio coloniale francese (quando fu governatore dell’isola dal 1896 al 1905).

    Qualche giorno dopo, le statue del filosofo illuminista Voltaire – che trasse profitti dal commercio degli schiavi – e del generale e amministratore coloniale Hubert Lyautey (1854-1934) sono state imbrattate con vernice rossa.

    Infine, sempre a Parigi, la statua di Jean-Baptiste Colbert, che si trova davanti all’Assemblea nazionale, è stata cosparsa di vernice rossa e sul suo piedistallo è apparsa la scritta “negrofobia di stato”. Come tutti sanno, Colbert fu ministro di Luigi XIV, ed ebbe un ruolo fondamentale nella riorganizzazione amministrativa, giudiziaria e soprattutto finanziaria dello Stato francese, realizzata negli anni del “Re Sole”; meno noto è il fatto che Colbert fu anche l’ispiratore del «Code Noir», un decreto emanato nel 1685 (due anni dopo la sua morte), che regolamentava la condizione degli schiavi nell’impero coloniale francese.

    James Cook "simbolo del colonialismo e del genocidio" degli aborigeni australiani

    All’altro capo del mondo, in Australia, è stato naturalmente il grande navigatore inglese James Cook (1728-1779) a divenire bersaglio di polemiche.

    Due statue di Cook sono state deturpate a Sidney e una petizione che chiede la rimozione della statua dell’esploratore inglese a Cairns ha raccolto oltre dodicimila firme.

    La petizione si apre con queste parole: “Dal 1972 la statua di James Cook in Sheridan Street si erge come simbolo del colonialismo e del genocidio. E’ uno schiaffo in faccia a tutti i nativi. Per noi rappresenta le spoliazioni, le migrazioni forzate, la schiavitù, il genocidio, il furto delle nostre terre, e la perdita della nostra cultura – insieme a molte altre cose”.

    Il Primo ministro australiano, Scott Morrison, ha difeso Cook e l’eredità del colonialismo, dicendo che l’Australia era un tempo un paese “alquanto brutale”, ma non c’era la schiavitù. Questa affermazione ha scatenato un coro di critiche: in molti hanno ricordato che la schiavitù, o quantomeno il lavoro forzato, furono praticati anche in Australia e nelle isole del Pacifico. E il Primo ministro si è visto costretto a fare marcia indietro:ha chiesto scusa e ha ammesso che i nativi australiani furono spesso trattati in modo crudele.

    Milano chiama Roma: dalla statua di Montanelli alla via dell'Amba Aradam

    Infine, echi del Black Lives Matter sono arrivati anche in Italia, e pure da noi non è mancato qualche episodio di contestazione relativo a statue e nomi di strade.

    A Milano i “Sentinelli”[4] hanno chiesto di cambiare l’intitolazione dei giardini dedicati a Indro Montanelli  e di rimuovere la statua del giornalista che si trova nello stesso parco. Con la seguente motivazione: ‘Montanelli ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale’. Qualche giorno dopo la statua è stata imbrattata  di vernice rossa e sul suo basamento sono comparse le scritte “razzista, stupratore”. Il gesto è stato rivendicato dal gruppo “Rete Studenti Milano” e dal “LuMe” (Laboratorio universitario Metropolitano). Vale la pena ricordare che la statua di Montanelli era già stata imbrattata l’8 marzo del 2019, quella volta con vernice rosa lavabile, per mano di attiviste del movimento femminista “Non Una Di Meno”.

    Il monumento a Indro Montanelli nei Giardini Pubblici a lui dedicati vicino Porta Venezia a Milano. Lo scorso 13 giugno la statua è stata imbrattata con vernice rossa. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Monumento_a_Indro_Montanelli_Giardini_Pubblici_P.ta_Venezia.jpgIl monumento a Indro Montanelli nei Giardini Pubblici a lui dedicati vicino Porta Venezia a Milano. Lo scorso 13 giugno la statua è stata imbrattata con vernice rossa. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Monumento_a_Indro_Montanelli_Giardini_Pubblici_P.ta_Venezia.jpg

    L’atto di accusa dei detrattori di Montanelli si riferisce a fatti ben noti perché raccontati più volte da lui stesso. Quando arrivò in Africa nel 1935 come comandante di compagnia del XX Battaglione Eritreo, formato da ascari, Montanelli, che aveva allora 26 anni, prese come compagna un’adolescente abissina, secondo la tradizione locale. La ragazzina si chiamava Destà. «Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi ovunque mi trovassi, in quella terra senza strade né carte topografiche»[5].

    Alla medesima volontà di “decolonizzare” gli spazi pubblici si ricollegano due episodi avvenuti a Roma. Nella notte tra il 18 e il 19 giugno alcuni attivisti della “Rete Restiamo umani” hanno affisso cartelli con i nomi di George Floyd e Bilal Ben Messaud[6] sulle targhe toponomastiche di via dell'Amba Aradam, nome di un massiccio montuoso a nord di Addis Abeba, dove nel 1936 le truppe del maresciallo Badoglio sconfissero l'esercito etiope in una cruenta battaglia, nella quale gli italiani fecero uso anche di gas asfissianti. La stessa notte al Pincio è stata imbrattata la statua del generale Antonio Baldissera, che fu a capo delle truppe italiane in Eritrea dal 1887 al 1889[7]. Anche questa seconda azione è stata rivendicata dalla “Rete Restiamo umani”, che ha spiegato le proprie ragioni in un lungo messaggio su Facebook, che si apre con queste parole:

    “Black Lives Matter: Dagli Stati Uniti alle sponde del Mediterraneo non si fermerà la protesta. In fermo sostegno alle e ai manifestanti che a partire da Minneapolis hanno riempito le piazze di decine di città del mondo per manifestare contro il razzismo strutturale e hanno deposto simboli di un passato coloniale sempre rimosso, iniziamo ora a smantellare i simboli del colonialismo nella Capitale”.

    Conclusione

    Gli attacchi alle statue e ai monumenti di personaggi storici assunti come simboli dello schiavismo, del razzismo e del colonialismo non sono una cosa nuova. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna gli abbattimenti e le rimozioni di queste ultime settimane appaiono spesso come l’esito di campagne avviate da molti anni. Il fatto nuovo è che, sfruttando l’onda delle grandi manifestazioni di protesta suscitate dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, molte statue sono state effettivamente abbattute o rimosse, a volte col plauso delle autorità locali. Inoltre il movimento ha assunto in alcuni casi un’ampiezza tale da invocare – a torto o a ragione - un profondo ripensamento del modo in cui la storia della moderna società occidentale è stata scritta e raccontata finora. Anche per questo motivo gli attacchi alle statue delle ultime settimane sono stati oggetto di molte riflessioni e commenti da parte di opinionisti, editorialisti, e anche di storici, sui quali mi soffermerò in un prossimo articolo, nel quale illustrerò anche le ragioni per cui questo argomento ha un interesse didattico: da un lato, infatti, l’insegnamento della storia non può ignorare i diversi modi in cui questa viene vissuta e raccontata nel presente; dall’altro lato, le controversie intorno ai monumenti dei grandi personaggi del passato sono un’occasione per sviluppare ricerche e dibattiti e per stimolare un approccio critico da parte degli studenti.    

    [1]Le citazioni tratte da articoli in inglese o in francese sono state tradotte in italiano da me.

    [2]Vedi ad esempio
    https://www.repubblica.it/esteri/2020/06/10/news/usa_statue_colombo_abbattute_e_vandalizzate-258873826/?ref=search

    [3]Così lo definisce il "Guardian" nell'articolo citato, precisando che Rees è il primo sindaco nero del Regno Unito eletto direttamente dai suoi concittadini.

    [4]Vedi il mio articolo del 15 luglio 2019 su “Historia ludens”.

    [5]I “Sentinelli” di Milano si autodefiniscono nel loro sito web come “un movimento informale nato tra il serio e il faceto nell’autunno del 2014 che si contrappone a tutti i soprusi, discriminazioni e violenze che colpiscono la vita di molti: dagli omosessuali ai migranti, dalle vittime di stalking alle vittime di razzismo, dalle donne ai malati desiderosi di un fine vita dignitoso”.

    [6]Informazioni e citazione tratte da
    https://www.corriere.it/esteri/20_giugno_11/proteste-statue-nessuno-tolga-montanelli-suoi-giardini-f35060ec-ab4f-11ea-ab2d-35b3b77b559f.shtml.

    [7]Migrante tunisino morto a Porto Empedocle il 20 maggio scorso mentre cercava di raggiungere terra.

    [8]Baldissera fu anche governatore della colonia Eritrea per un breve periodo nel 1896. Su di lui vedi 
    http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-baldissera_(Dizionario-Biografico)/.

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