identità

  • Educazione “della” memoria contro educazione “alla” memoria.

    di Antonio Brusa

    01 Non è una questione di preposizioni articolate

    Negli ultimi decenni le scuole di tutto il mondo - investite da uno tzunami di “Giornate della Memoria” e del conseguente compito di promuovere l’educazione “alla” memoria - sono diventate uno dei campi di battaglia delle politiche identitarie degli stati. Noi – insegnanti e ricercatori di storia – dovremmo batterci perché, al contrario, diventino il luogo dell’educazione “della” memoria. Un luogo dove gli allievi apprendano a valutare criticamente le politiche memoriali – nazionali e sovranazionali -, apprendano che il ricordo sociale - la memoria pubblica - è un aspetto fondamentale della vita democratica e che, perciò, la discussione di ciò che conviene ricordare, e degli scopi per i quali occorre ricordare, fa parte dei diritti-doveri di un cittadino.

    La memoria dei fatti del passato, soprattutto di quello vissuto, ossia la capacità di selezionarne alcuni e di fissarli nel ricordo extrascolastico, e la memoria collettiva, ossia la selezione degli eventi attorno ai quali la comunità dei cittadini è convocata, sono gestite principalmente dalla politica e dal dispositivo dei media. Sono questi che decidono i fatti da ricordare e, quindi, sollecitano i cittadini “a” ricordarli. Sono questi, dunque, che concretamente ne plasmano la memoria. La scuola pubblica, istituzione preposta alla formazione dei cittadini, dovrebbe rivendicare il proprio ruolo. Dovrebbe denunciare il fatto che un’educazione intellettuale che ubbidisca a regole esterne al mondo scientifico/didattico contraddice il dettato costituzionale, che affida tale compito alla scuola e all’Università, luoghi garanti della libertà dell’insegnamento/apprendimento. E, per contro, dovrebbe promuovere la formazione di una “memoria educata”.

    Quali sono le condizioni per questa educazione “della” memoria? Ecco quelle che mi sembrano fondamentali: la contestualizzazione, l’inserimento nel curricolo, il rapporto fra storia e memoria e il rapporto con l’educazione civica.

    La contestualizzazione

    Quali che siano le attività e i materiali che vengono preparati per la Giornata della Memoria e la competenza e la passione che li caratterizzano, molti insegnanti si accingono ad affrontarla con l’idea che essa riguardi il rapporto fra i propri ragazzi e un evento estremamente tragico del passato. Questa è solo una parte della storia. A più di due decenni dall’istituzione della prima Giornata della Memoria, oggi constatiamo che questa è un frammento di un universo di iniziative politiche volte a utilizzare il passato come marcatore identitario. I soggetti di queste iniziative non sono soltanto gli stati, ma anche singoli gruppi politici e gruppi sociali emergenti (di genere, etnici, localistici ecc.). Spesso queste memorie rivendicate o imposte sono in conflitto, a volte si elidono vicendevolmente. La conoscenza di questo scontro è la prima condizione per evitare che la scuola ne diventi lo scenario inconsapevole. L’analisi dei motivi che hanno trasformato la memoria del passato in un terreno di azione politica aggiunge agli obiettivi più consolidati dello studio – ad esempio - della Shoah (l’antisemitismo, il genocidio, il nazismo e i perpetratori del genocidio, il rapporto con gli altri), quelli relativi al rapporto “verticale” fra cittadini e stato (perché i governi vogliono agire sulla memoria, individuale e collettiva?) e “orizzontale” fra stati e gruppi sociali (perché il passato viene usato in chiave identitaria?). La maggior parte delle risposte che riusciamo a dare a queste domande ci riportano alla mente un proverbio arabo, ricordato volentieri da Marc Bloch, che “siamo figli più del presente che del passato”, e, quindi, ci conducono, direttamente o indirettamente, alla realtà della globalizzazione. Mettono in evidenza la necessità di contestualizzare l’atto del ricordo. Studiare a scuola la Shoah è un fatto molto diverso, oggi, da ciò che poté essere negli anni ’60 o al tornante del secolo, quando ne venne istituita la Giornata commemorativa. Una conseguenza non secondaria di questo cambiamento è il deperimento delle riflessioni didattiche e dei materiali messi a punto nel corso del tempo, o, quanto meno, la necessità di una loro attenta revisione.

    02 L'inserimento nel curricolo

    La ricchezza degli spunti didattici che offre la Shoah, e la sua complessità, fanno sì che raramente essa venga affrontata in classe in una completezza enciclopedica. Si sceglie, di volta in volta, questo o quell’aspetto che al momento appare al docente più efficace. La necessità di una contestualizzazione, che qui proponiamo, accresce certamente questa complessità. Per di più, questa andrebbe moltiplicata per le giornate memoriali più accorsate che mi sembrano - oltre a quella della Memoria - la Giornata del Ricordo, quella della Legalità e quella delle Vittime del mare (non sono a conoscenza di ricerche sulla loro frequentazione nelle classi italiane. Sulla deprimente corsa alla commemorazione si veda qui).

    Ovvia, quindi, l’urgenza di un’organizzazione curricolare, nella quale le varie esigenze formative trovino il loro posto e si possano accumulare nel tempo. Altrettanto ovvia la necessità di “agganciare” i diversi aspetti, messi in evidenza negli oggetti della commemorazione, a temi che dovrebbero essere sviluppati in un curricolo di storia attento ai problemi che si incontrano studiando i vari periodi storici, più che al dettaglio degli eventi. Ad esempio: la formazione dello stato, il rapporto fra stato e cittadini, le pedagogie dello stato e, andando verso i nostri giorni, l’emergere delle questioni identitarie e la loro rilevanza politica e sociale. Le ricorrenze memoriali, in questo modo, diventerebbero “casi di studio” ben acclimatati nel curricolo, e non eventi eccezionali che vi irrompono dall’esterno. Andrebbero a far parte di quel “laboratorio del tempo presente”, autentico banco di prova delle capacità di ragionamento storico acquisite dagli allievi.

    Alla complessità dell’oggetto va aggiunta la complessità del bagaglio epistemologico e metodologico che occorre possedere per affrontarlo in modo maturo. Jörn Rüsen ce ne fornisce un quadro schematico in tre fasi:
    a. L’insieme delle capacità che permettono all’allievo di analizzare un dato fatto storico (analisi dell’evento, comparazione con altri eventi, classificazione ecc.)
    b. L’insieme delle capacità che gli permettono di confrontare le ricostruzioni storiografiche con quelle del senso comune.
    c. La capacità di osservare in parallelo una doppia evoluzione interpretativa: quella storiografica e quella della memoria pubblica o del senso comune. *

    È chiaro che non si può mettere in pista questo complesso di sapere e di saper fare in una sola giornata. Se ne devono “spalmare” le singole operazioni in un curricolo che parta dalle più semplici (non necessariamente incluse nel punto a) e giunga a quelle più complesse, che non saranno sempre quelle del punto c. Come spesso accade nell’insegnamento, la realizzabilità di un obiettivo in classe dipende anche dalla strategia didattica e dai mediatori adoperati. Giusto per fare un esempio che mostri come anche in una scuola media si può praticare qualcosa del livello medio-alto, si pensi al confronto che si può instaurare fra il risultato di una rapida inchiesta su che cosa pensano i familiari degli allievi a proposito della Shoah e una ricostruzione storiografica.

    Solitamente, la programmazione degli eventi memoriali si limita alla ricerca di “qualcosa che non si è fatto l’anno scorso”, o di “qualcosa che sia adatto a quella certa classe”. E ciò è in armonia con una “educazione alla memoria”, il cui problema principale è interessare gli allievi, coinvolgerli, suscitare le loro emozioni o trovare quegli argomenti talmente efficaci da scolpire quel dato evento nella loro memoria. Strategie sempre utili, ma che sono altra cosa rispetto a quel processo di crescita coerente che dovrebbe portare all’educazione della memoria, cioè alla progressiva autonomia degli allievi nella valutazione e nella scelta degli eventi degni di essere ricordati.

    Il rapporto fra storia e memoria

    È impossibile riassumere in poche battute l’imponente dibattito sul rapporto fra storia e memoria che ha coinvolto negli ultimi decenni parti significative della comunità storiografica mondiale. Per quanto concerne l’educazione della memoria, credo che occorra tenere conto di due aspetti, che riguardano rispettivamente la memoria individuale e quella collettiva.

    Il primo è relativo all’esplosione della “società della conoscenza”, intendendo con questa espressione una società nella quale i media mettono a disposizione delle masse l’intero sapere umano, e, al tempo stesso, costituiscono per queste masse il mezzo per rendere pubblico il “proprio” sapere. Si crea, in questo modo, una platea universale nella quale ciascuno esprime la propria opinione su qualsiasi argomento e, per quello che ci riguarda, sul passato. A differenza dei contadini del Seicento, che probabilmente avevano una visione del mondo, presente e passato, circoscritta al loro ambiente di vita, il cittadino odierno iscrive nella propria memoria fatti che un tempo si sarebbero letti solo nei libri. Il fascismo e il genocidio degli ebrei, le foibe, l’uccisione di Falcone e Borsellino, il naufragio di Lampedusa del 2013, quindi, possono far parte dell’idea di passato del cittadino comune. Con quale criterio e con quali accortezze questi eventi sono stati selezionati, e vengono richiamati e reinterpretati nel discorso comune? Rispondendo a questa domanda, Stefano Pivato ha espresso il suo – e nostro - sconcerto in un aureo libretto dal titolo emblematico Vuoti di memoria (Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Laterza 2007). Potremmo aggiungere che quelle memorie che appaiono allo storico così “vuote”, in realtà sono “selvagge”, essendosi formate in modo spontaneo, senza alcuna assistenza esperta, nel vorticare tumultuoso delle conoscenze.
    Il secondo aspetto è quello - che ho già richiamato - della scoperta del passato da parte della politica. È una sorta di ripresa di politiche culturali, già sperimentate dagli stati europei ottocenteschi e primo novecenteschi. Nel nuovo scenario della globalizzazione, tuttavia, occorre legittimarsi non più al cospetto di pochi stati europei, ma di fronte alla massa enorme di otto miliardi di persone. Il passato cessa di essere (solo) un terreno da studiare, per diventare l’inesauribile repertorio di argomenti, fatti, personaggi da utilizzare a supporto delle proprie richieste di riconoscimento. Si creano così quadri memoriali composti da primati, che magnificano la grandezza del soggetto, e da torti subiti, che ne motivano le pretese di risarcimento. I soggetti (stati, gruppi politici o sociali) premono sulle scuole per riformulare i programmi di storia in chiave nazionalistica, di genere, etnica o localistica, e si agitano nel pubblico per nuove iniziative monumentarie o commemorative (Sul conflitto mondiale della memoria). E, a conti fatti, tutti constatano che l’intervento pubblico è più remunerativo di quello scolastico: dà risultati immediati e apprezzabili dagli elettori, dalle famiglie e dai membri del gruppo, e ottiene riscontri amplissimi nei media. Al contrario, l’apprendimento storico è lento, chiuso nelle aule, se ne vedono (forse) gli effetti dopo anni di studio, e ad ogni sondaggio dà risultati deludenti. Per giunta, più è aggiornato, meno è capito in famiglia. Ecco alcune buone ragioni per un progressivo disinvestimento nell’insegnamento storico, controbilanciato dal parallelo aumento di giornate commemorative.

    In questo quadro, l’educazione della memoria si propone come un lavoro sociale di civilizzazione delle memorie individuali, indispensabile in una società democratica che richieda ai cittadini scelte e orientamenti che tengono conto di fatti e non di “fattoidi”. Al tempo stesso costituisce una buona reazione alla deriva de-disciplinarizzante della formazione, dal momento che richiama e reinterpreta le istanze formative memoriali all’interno del curricolo.

    03 Storia, memoria, educazione civica

    La Legge sull’educazione civica (92/2019) e la più recente proposta di legge sull’introduzione delle competenze non cognitive (A.S. 2372) sono legate dal filo rosso della de-disciplinarizzazione della formazione. Il dibattito parlamentare, che in tempi rapidissimi portò alla reintroduzione dell’educazione civica come materia a sé stante, si è rivelato un sondaggio di opinione fra i parlamentari sul rapporto fra discipline e formazione. Tutti, infatti, senza distinzione politica, hanno approvato entusiasticamente questa nuova materia che finalmente non si sarebbe studiata sui libri e che avrebbe riguardato la vita reale. Una materia utile e non da aula scolastica (le citazioni sono quasi letterali: controllate il resoconto che ho pubblicato su HL). Nel corso del dibattito, si è sollecitata l’introduzione dell’educazione dei sentimenti, degli atteggiamenti e di una quantità di altri buoni comportamenti – rigorosamente non cognitivi - puntualmente ripresi nella proposta di legge sulle competenze non disciplinari. Proposta di legge anch’essa approvata a larghissima maggioranza.

    Sul perché di questa ondata di consensi anti-disciplinari, i commenti si orientano su due interpretazioni: da una parte c’è chi sostiene che siano il frutto del pensiero unico liberal-capitalista; dall’altra, si argomenta intorno alla perdita di interesse verso le discipline umanistiche, a favore delle discipline Stem, quelle che la società apprezza come utili. Almeno per quanto riguarda l’Italia, le fonti parlamentari smentirebbero entrambe le ipotesi, dal momento che fra i cordiali sostenitori di entrambe le leggi troviamo esponenti della sinistra anticapitalista, e le discipline condannate perché “troppo scolastiche” sono tutte, senza distinzioni.

    Credo che l’unica spiegazione consista nel fatto che il mondo politico, non solo quello italiano, richiede un riscontro visibile dell’investimento formativo. Un riscontro visibile alle famiglie, al cittadino comune. Sono questi, in ultima analisi, che negano alla politica il tempo della lunga formazione disciplinare. E le competenze non disciplinari hanno giusto questo vantaggio: il buon rapporto con i compagni, la partecipazione a iniziative ambientali, il sostegno a una campagna umanitaria, la denuncia del bulletto non hanno bisogno dei lunghi allenamenti delle discipline, per produrre un gesto, un comportamento, un qualcosa che tranquillizzerà le famiglie sul buon funzionamento della scuola.

    La legge sull’Educazione civica non fa cenno alle questioni memoriali che, come abbiamo appena visto, sono parte costitutiva di una cittadinanza democratica. Noi ci abbiamo provato, invece. Con l’Istituto Comprensivo n.6 di Modena (all’interno della rete di scuole LabSto21), abbiamo prodotto un curricolo di educazione civica multidisciplinare che contempla, fra le sue attività, anche quella dell’educazione della memoria, nel quale la Giornata della Memoria diventa un segmento normale della programmazione. Avremo modo di parlarne su HL, a sperimentazione terminata. Per il momento, lanciamo la questione: educazione alla memoria, o educazione della memoria?


    * Il testo citato è J. Rüsen, What is Historical Consciousness? A Theoretical Approach to Empirical Evidence, University of British Columbia, Vancouver, 2001.

    * I disegni delle ragazze e dei ragazzi della scuola primaria “Montessori” di Bollate, prodotti in occasione del Giorno della Memoria, pubblicati in Ti prometto che non dimenticherò mai. SHOAH: Il buio e la luce della speranza, edizione Kindle e Il Melograno, 2017, sono ricavati da Gariwo. La foresta dei giusti:
    https://it.gariwo.net/gallerie-fotografiche/altro/progetto-memoria-i-disegni-dei-ragazzi-18631.html

  • Lezione 2. Formazione storica e identità

    di Antonio Brusa

    01Fig. 1: A. Mucha, La resurrezione del popolo slavo, P. Finolezzi, Art Nouveau e Indipendentismo slavo nell’opera di Alphonse Mucha Fonte Il paradigma classico della didattica della storia – basato sui cinque elementi: aula, programma, manuali, lezione, interrogazione – si forma nel contesto di una complessa operazione di pedagogia nazionale, messa in atto dagli stati europei nel 1800. Una strategia che si attiva lungo molti canali: la filiera scuola-università, quella della produzione mitopoietica (le Invenzioni, come ci ha insegnato Eric Hobsbawm), l’intensa produzione di feste, inni e calendari nazionali, l’intervento sull’arredo urbano (nomi delle strade, monumenti, edifici pubblici), il sostegno alla produzione lirica (in Italia soprattutto), la sacralizzazione dell’ambiente (i parchi nazionali, che custodiscono la natura vergine della nazione) e la progressiva patrimonializzazione del passato, che inizia con i grandi monumenti e finisce ai giorni nostri con il “patrimonio immateriale” delle tradizioni e financo delle ricette. Una strategia complessa e costosa.

    L'identità vale tanti soldi

    Uno scopo vitale per quei giovani stati: la costruzione dell’identità nazionale. Vitale, perché occorreva trasformare gli abitanti delle centinaia di migliaia di località europee in cittadini di uno stato.

    Ma, a questo punto, occorre fermarsi, e capire bene che cos’è l’identità.

    Possiamo definire l’identità in due modi: essenzialista e relazionale. Il primo “guarda dentro” l’identità, ne osserva i componenti. Il secondo, invece, mette l’accento sul rapporto fra soggetto e mondo circostante. I due concetti danno luogo a scuole di pensiero (e anche scuole politiche) in forte opposizione. Ma non andiamo lontani dal vero se affermiamo che, anche ad avere una posizione essenzialista, non si può negare i componenti di un’identità provengono da ogni dove; e, per converso, il sostenitore dell’identità essenzialista non avrà difficoltà a riconoscere come originale il coktail individuale, per quanto risulti composto di elementi appartenenti ad altri soggetti. Questa identità può essere, ancora, declinata in due dimensioni: quella individuale, e quella collettiva. Questa, a sua volta, può essere mondiale, sovraregionale, nazionale, cittadina, di gruppo ecc.

    L'identità cambia nel tempo

    Nelle campagne dell’ancien régime le identità, individuali e di gruppo erano piuttosto semplici, rispetto alle nostre. In un villaggio isolato (come per esempio poteva accadere nelle immense praterie dell’impero russo) i contadini avevano certamente un’identità di genere e di generazione. Non avrebbero mai visto in vita loro un pope o un signore. Quindi, non avevano bisogno di identità più raffinate, che li distinguessero da quei personaggi. Ma con l’avvento della società moderna (urbanizzazione, industrializzazione, e stato) le identità tendono a diventare sempre più complesse, fino ad arrivare ai giorni nostri, quando – dice la gran parte degli studiosi – ogni soggetto del pianeta terra ha identità multiple e cangianti.

    Chi costruisce le identità?

    Nell’ancien régime i soggetti “formatori di identità” sono la famiglia, ma soprattutto la chiesa e la comunità (di villaggio o di quartiere). Con l’avvento degli stati, quelle identità non funzionano più. Perciò, subentra lo stato, con la pedagogia che abbiamo visto sopra. Il nuovo meccanismo funziona a meraviglia per decenni. Ne secondo dopoguerra comincia a incepparsi. Gli stati si indeboliscono progressivamente e, di pari passo, si indeboliscono le identità che riescono a offrire. In questo spazio vuoto si precipita un nuovo soggetto: il manager identitario. Può essere un soggetto religioso (l’Isis), politico (la Lega degli anni ’80), di costume (i dark); e i luoghi di formazione identitaria si diffondono nel territorio. La rete diventa il luogo principe dove il manager offre il suo servizio, spesso, a milioni di uomini e donne bisognosi di chiarezza e certezza, in un groviglio identitario che non riescono più a gestire.

    Che fa la scuola in questa nuova situazione?

    Ha due scelte di fronte a sé. La prima è gettarsi nel mercato identitario ed entrare in concorrenza coi suoi molti manager. Tutti producono identità? La scuola dice: la mia è la migliore e i cittadini si devono adeguare. In fin dei conti è quello che fece la Moratti, con i suoi programmi del 2003, che imponevano ai cittadini italiani l’identità giudaico-cristiana.

    La seconda è quella di sostegno. Noi sappiamo che oggi è difficile costruirsi un’identità, o meglio ancora “gestire le molteplici identità”. La scuola può aiutare il soggetto a costruirsi un’identità di “alta qualità”. I ragazzi, oggi, costruiscono la propria identità nel gruppo dei pari e nella rete. Osservano le prodezze degli amici, gli eroi della rete: sono questi i modelli culturali in base ai quali si “autoforma”. La scuola può presentare ai suoi allievi i migliori modelli culturali del mondo: come guardare il mondo, come rapportarsi con gli altri, come pensare al futuro.

    E la storia?

    Anche la storia ha due strade “identitarie” di fronte a sé.

    La prima è quella di una storia che spinga gli allievi ad aderire alla comunità nazionale, proponga loro modelli da imitare, li muova all’amore e al senso del dovere nei confronti della “madre-patria” (quale che essa sia: nazione, gruppo, entità sovranazionale ecc).

    La seconda è quella culturale-cognitiva, nella quale la storia insegna ai giovani a leggere il mondo, capire processi profondi, che resterebbero invisibili senza gli specifici “occhiali” della storia. Lavora sul cognitivo (e non può fare altro, perché è una scienza), ma così facendo, crea nei fatti una comunità di colti, capaci di capire la complessità sociale e capaci, di conseguenza, di prendere decisioni responsabili. Questa dovrebbe essere la “nuova” cittadinanza democratica.

    La strategia identitaria degli stati.

    Negli ultimi trent’anni è accaduto un fenomeno imprevedibile: una quantità notevole di stati e di soggetti collettivi ha ripreso pari pari le strategie identitarie ottocentesche, dando luogo a una sorta di gigantesco re-enactement di situazioni che tutti pensavano passate. Sono gli stati dell’Europa Orientale (soprattutto), ai quali si aggiungono molti stati di nuova costituzione, e la sterminata quantità di gruppi emergenti (etnici, di genere, religiosi, ecc). Ci danno la possibilità di conoscere questa strategia dal vivo, e non più soltanto sui libri. Osservandola, capiamo la struttura di questa narrazione storica identitaria. I suoi elementi costitutivi ce ne mostrano la natura mitologica:
    a. L’antichità. Le radici affondano nella preistoria o, in mancanza di questa nei tempi più antichi
    b. I primati. Il mio gruppo ha prodotto nel tempo alcune grandi scoperte (dal vino, agli spaghi, al trapano, per non parlare della democrazia o della città) che meritano il rispetto di tutti
    c. La grandezza. Un tempo, il mio gruppo o il mio stato erano vasti, spazialmente e culturalmente, molto più di adesso.
    d. La sofferenza e il martirio. L’antica grandezza è stata repressa da nemici (passati o ancora presenti)
    e. Gli eroi. Morti nella difesa della grandezza passata, o combattenti vittoriosi dei nemici.
    f. La resurrezione. Oggi è il tempo di riprendersi gli antichi spazi e di conquistare quel rispetto e quel riconoscimento al quale, per i meriti accumulati nella nostra storia, abbiamo diritto.

  • Ötzi e il clandestino

    Bari-Roma, 15 ottobre

     

    Una ricostruzione di Ötzi nel museo a lui dedicato a Bolzano www.iceman.it


    La stampa di oggi riporta la notizia che nel sangue di 19 abitanti svizzeri, austriaci e altoatesini è stato trovato l’aplogruppo G nel cromosoma Y. E’ lo stesso presente nel sangue di Ötzi, “l’uomo di ghiaccio” conservato a Bolzano. Una variante genetica molto rara. Titola “La Stampa”:Ritrovati i parenti di Ötzi. Illustra il ritrovamento con una cartina (che in realtà mostra solo una parte dell’Alto Adige e dell’Austria, forse gli Svizzeri sembrano discendenti con meno diretti) intitolataLa zona degli eredi.

    Probabilmente qualcuno ricorderà la battaglia per questa eredità. Scoppiò subito dopo il ritrovamento dei resti. Giacciono dalla parte austriaca o da quella italiana? Questione di metri (e degli accordi De Gasperi-Gruber, ovviamente del tutto ignari che avrebbero suscitato un tale impiccio testamentario), si stabilì che erano sul versante italiano. Nel frattempo, per mettersi al sicuro, gli austriaci li portarono a casa loro, per studiarli, affermarono. Dopo qualche battaglia diplomatica, si rassegnarono a consegnarli all’Italia. Italia? A Bolzano, come si usa distinguere da quelle parti. Fu una buona scelta, diciamolo subito, perché il museo costruito intorno a questa straordinaria testimonianza dell’età del rame è ammirevole, dal momento che unisce cura scientifica, attenzione e sapienza didattica al rispetto per il corpo di un uomo, morto tragicamente.

    Ma, come tutti ricorderanno, dietro il giusto orgoglio di essere i custodi di questo reperto, si celava, neppure tanto discretamente, una bella battaglia identitaria. Ötzi era un antenato. O meglio: testimoniava l’antichità di un lignaggio. Giusto. Ma di chi? Gli uomini, si sa, si spostano, e la storia antica è piuttosto indifferente ai confini politici moderni. Perciò, fatti fuori legalmente, gli austriaci tornano alla carica e se la vedono con gli abitanti del versante meridionale delle Alpi (appunto, gli Altoatesini, per quanto la parola “meridionale” non vada loro molto a genio). Ma entrano in gioco anche i trentini e gli attuali bresciani. Cosa altro dedurre, infatti, dalla scoperta che l’ascia di rame che il malcapitato portava con sé ha forme testimoniate nella provincia di Brescia; oppure che le erbe che aveva ingerito sono delle valli alpine meridionali? E chissà se lo stambecco (il suo ultimo pasto) non proveniva da quel di Innsbruck. A far fuori tutte queste velleità ereditarie, una ricerca di alcuni anni fa stabilì che nessuno dei gruppi umani attualmente residenti nella regione è portatore di geni appartenenti a Ötzi. Si concluse allora: chissà dove saranno finiti i suoi discendenti, o chissà se si saranno estinti e chissà da quanto tempo.

    Adesso questi risultati hanno ridato fiato alle trombe identitarie. Ben 19 discendenti. “Almeno 19”, riportano i media con i limiti dovuti, perché dubitare fa molto scientificamente corretto. Poi, messe da parte rapidamente le precauzioni, ecco che si aggiunge la foto di un “manager svizzero”, suo lontano erede, il quale si confessa molto contento delle sue nobili origini, corroborate (dice lui) con l’ evidente somiglianza e con il fatto che anche a lui piace la carne di stambecco.

    Non sono un esperto di genetica e nemmeno di statistica. Sono un lettore, e invito gli amici a leggere con attenzione. L’aplogruppo in questione sembra essere originario dei monti dell’Himalaya, è testimoniato nel Pakistan e nel vicino Oriente e oggi, dice Walter Parson, il ricercatore autore della scoperta, è piuttosto raro. Se è vero, dunque, che “almeno” 19 svizzeri, sud-tirolesi e austriaci ne sono portatori, non se ne dovrebbe dedurre che questi signori sono in relazione genetica sia con Ötzi, sia con gente che viene da quelle lontane regioni? E visto che quel poveretto è morto da tanto tempo, perché non sottolineare questa ulteriore parentela, dal momento che pakistani, irakeni e siriani sono vivi e oltretutto cercano disperatamente di attraversare il Mediterraneo per venire da noi, anzi: vogliono proprio andare in Austria e in Svizzera? Non sarebbe anche questo uno scoop giornalistico, una spettacolare “carrambata neolitica”?

    Il professor Parson ha utilizzato un campione di 3700 donatori di sangue della regione dal quale è stato escluso chi “veniva da troppo lontano o aveva famiglie con incroci genetici complessi”. E’ evidente che al professore piace - come dice una nota pubblicità – “vincere facile”.

     

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