liberismo

  • La crisi che ruppe il Novecento (1973-1979). Il racconto e i modelli

    Autore: Massimiliano Lepratti

     

    Indice:

    Prologo: il “trentennio glorioso” (1945-'75)

    La crisi degli anni ‘70

    Conclusione: 1979, si esce dalla crisi e si crea un nuovo paradigma

     

    Prologo: il “trentennio glorioso”1 (1945-'75)

    Tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine del 1973 l'economia del cosiddetto Primo mondo (Europa occidentale, Nord America e Giappone) visse un periodo di enorme prosperità.

    Il pianeta intero in quel trentennio vide la sua ricchezza aumentare più di quanto non fosse accaduto nei mille anni precedenti. In alcuni Paesi, come l’Italia, si parlò di miracoli economici e l'idea che  la crescita del benessere fosse un fenomeno inarrestabile si consolidò nella mentalità dell'emisfero Nord del pianeta.

     


    Alla radice del trentennio glorioso vi erano tre fenomeni interconnessi:

    1. la ricostruzione post – bellica aveva prodotto in Europa una grande vivacità economica. Il settore edilizio conobbe una grande espansione: si costruivano case e le si riempiva progressivamente di elettrodomestici e di automobili. I lavoratori delle campagne, attratti dalla possibilità del benessere urbano, migravano nelle fabbriche cittadine aumentando la richiesta di nuove case, mobili, elettrodomestici e automobili, in un circolo virtuoso che sembrava inarrestabile.
    2. Il sistema di produzione fordista (la catena di montaggio e l'ottimizzazione dei tempi) continuò la sua corsa negli USA e si diffuse in Europa, aumentando a dismisura la quantità di merci prodotte ogni anno. Ma a differenza di quanto avvenuto negli anni '20 l'aumento delle merci e dei profitti fuaccompagnato da un parallelo aumento dei salari operai che rese possibile ai lavoratori l'acquisto di una buona parte delle stesse merci  da loro prodotte (elettrodomestici, utilitarie...).
    3. L'intervento statale sia nella pianificazione economica, sia nella costruzione dello stato sociale. Entrambe le idee traggono origine dalle teorie di John Maynard Keynes, economista che sviluppò il suo pensiero innovativo soprattutto grazie all'osservazione della crisi del 1929. Secondo Keynes il sistema dei liberi mercati non è sempre in grado di mantenere alta la domanda di beni e quando questo non accade si manifestano le crisi. Per evitarle occorre che lo Stato intervenga a sostenere la domanda, attività che, dopo la prematura morte di Keynes (1946) si realizzò in diversi modi: programmando in modo coordinato la produzione industriale nazionale, sviluppando una serie di servizi sociali pubblici a cui è stato dato il nome di “Stato sociale”, favorendo l'aumento dei salari. La costruzione dello Stato sociale in particolare si è rivelata un'idea economicamente (oltre che socialmente) felice, grazie al “moltiplicatore”, un meccanismo  che può essere spiegato con un esempio. Lo stipendio di un medico dell'ospedale pubblico ad un'osservazione immediata apparirebbe una spesa a perdere per lo Stato. In realtà una parte di quello stipendio verrà utilizzato dal medico per acquistare beni, supponiamo un'abitazione. I soldi transiteranno quindi in due tasche: quelle del dottore e quelle del costruttore, arricchendo entrambi. Ma il costruttore a sua volta utilizzerà una parte del denaro ricevuto dal medico per comprarsi ad esempio un'automobile nuova. E quindi il produttore di automobili diverrà la terza tasca entro la quale il denaro moltiplicherà i suoi effetti, e così via. Ma non è finita: ciascuno tra i diversi soggetti presso cui passeranno i soldi  aumenterà la sua attività economica e la conseguente quantità di tasse che dovrà pagare allo Stato il quale, alla fine del ciclo, si vedrà ripagare lo stipendio versato inizialmente al medico.

     

    La crisi degli anni ‘70

    1973-4: la fine della pace (economica) dei Trent'anni

    Trent'anni di sviluppo economico tumultuoso avevano radicato nella mentalità comune la convinzione che l'economia ormai avesse trovato la ricetta di una crescita infinita, che le generazioni successive avrebbero goduto per sempre di maggior benessere rispetto a quelle precedenti, che la crisi fosse il retaggio di epoche passate.

    A interrompere questi racconti intervenne improvvisa la crisi del 1973-'74, durante la quale il mondo occidentale conobbe un fenomeno di profonda influenza sulle sorti dell'economia: la brusca carenza di petrolio e il conseguente aumento a livelli stellari dei prezzi dell'energia.

    Tuttavia la crisi di quel biennio fu l'ultima tappa di un processo di svuotamento degli elementi che avevano sostenuto i miracoli economici post bellici. Per questo occorre ripercorrere cronologicamente i fatti strutturali che resero  così esplosiva la carenza petrolifera.

     

    1968 – '69: salari crescenti e profitti calanti

    Il 1968 è passato alla storia per la traccia indelebile lasciata in quell'anno dal movimento studentesco. In Italia il 1969 è stato un anno altrettanto importante a causa delle lotte sviluppate da un altro movimento, quello degli operai, il cui esito più significativo è rappresentato dall'adozione nel 1970 dello Statuto dei lavoratori. Ma se l'Italia rappresenta un caso specifico per la vivacità delle lotte sociali che ha espresso in quegli anni, in linea generale la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70 hanno espresso un momento di forza operaia e di crescente difficoltà per l'economia capitalista all'interno del Primo mondo. Il processo innescato negli anni '50 e (soprattutto) negli anni '60, prevedeva la ripartizione fra imprenditori e lavoratori degli utili crescenti generati dalle attività economiche.

     

     

    Tuttavia in alcuni Paesi (e l'Italia ne è un esempio) la forza delle rivendicazioni operaie aveva portato i lavoratori ad ottenere aumenti percentualmente superiori a quelli riportati dalla controparte. I profitti crescevano meno dei salari, un fatto anomalo nell'intera storia del capitalismo, dovuto principalmente alle condizioni di forza sindacale e politica sviluppatesi nel secondo dopoguerra.


    1971: dollari, lire e  altre monete iniziano a fluttuare

    Un secondo passaggio fondamentale nella storia economica dei primi anni '70 fu rappresentato dall'abbandono della stabilità monetaria.

    All'origine del fenomeno vi era la guerra che gli Stati Uniti conducevano contro il Vietnam; per finanziarne i costi il governo USA stampava continuamente dollari il cui valore era garantito dalle riserve in oro detenute a Fort Knox. Ma ad un certo punto la quantità di dollari circolanti divenne eccessiva perché si continuasse ad assicurare la loro trasformazione in oro. Perciò il 15 agosto 1971 il presidente statunitense Nixon dichiarò nullo il legame fra dollaro e oro: il dollaro valeva di per sé, scisso da ogni riferimento a beni concreti e garantito solo dalla forza politica del governo USA.

     

     

    Le conseguenze inizialmente non furono gravi, il sistema mondiale fece finta di nulla e le altre monete continuarono ad essere cambiate allo stesso valore (nel 1964 ci volevano 624 lire per un dollaro, 627 nel 1974), ma   nel corso degli anni '70 e all'inizio degli anni '80 i valori delle divise cominciarono ad oscillare pericolosamente (il 19 luglio del 1985 si arrivò ad un cambio di 2200 lire per un dollaro!) e  questo fattore contribuì a potenziare la crisi del 1973-'74 e la successiva del 1979, soprattutto per quei Paesi che dovevano importare petrolio, pagandolo in dollari e che erano pertanto obbligati ad esborsi sempre maggiori man mano che sia il greggio, sia la divisa statunitense si apprezzavano.

     

    Anni '70: la sovrapproduzione

    Ma i successi dei lavoratori prima e l'instabilità dei cambi fra monete da soli non avrebbero spiegato la portata di ciò che avvenne negli anni '70.

    Il fattore più importante nel favorire il mutamento storico fu la crisi da sovrapproduzione che fin dagli anni '60 negli USA e negli anni '70 e '80 in Europa iniziò a far sentire la sua morsa.

     

     

    A differenza della crisi da sottoconsumo del 1929 questa volta il problema non era la mancanza di domanda da parte di lavoratori troppo mal pagati per potersi comprare le automobili che producevano. Al contrario, le paghe operaie crescenti e l'intelligenza di alcuni imprenditori - che avevano cominciato a produrre beni di prezzo accessibili ai loro dipendenti (un caso per tutti: la 500 FIAT) - avevano evitato il ripetersi delle dinamiche degli anni '20. Il problema del 1973 era un altro: dopo alcuni decenni di acquisti di massa (il famoso consumismo, alimentato da grandi strategie pubblicitarie) le case di molte famiglie occidentali cominciavano ad essere colme e in alcuni casi perfino a strabordare di merci. In abitazioni in cui era già presente un frigorifero, una lavatrice, una lavastoviglie, un mobilio adeguato, due o tre televisori e un paio di automobili, di quali altri beni di un certo valore si poteva aver bisogno ?

    Inevitabilmente si arrivò a un calo della domanda di nuove merci e di conseguenza le strategie di produzione e di vendita delle imprese dovettero riorientarsi per far sì che le famiglie anziché comprare ex novo un bene che prima non possedevano (televisore, automobile), si limitassero a sostituire i beni che già avevano  con altri, più belli, più grandi, più colorati e pieni di optional. In termini tecnici finiva l'epoca dei  mercato di riempimento e iniziava quella dei mercati di sostituzione (assai meno redditizi perché la concorrenza nel disputarsi la sostituzione di un prodotto obbligava le diverse case produttrici a ribassare i prezzi e a farsi una guerra commerciale feroce).  

     

    1973: la prima crisi energetica

    Il miracolo economico degli anni '60 si era tradotto in crescite impressionanti del Prodotto interno lordo (PIL), ossia della ricchezza prodotta dalle nazioni: in Giappone, per l'intero decennio il PIL, aumentò di una media del 10,1% all'anno, in Italia del 5,4%2. All'inizio degli anni '70 i fattori ricordati sopra stavano già ridimensionando la forza propulsiva dei miracoli economici e in questo contesto l'aumento impressionante del costo dell'energia rappresentò il colpo definitivo per le speranze di crescita sostenuta.

     

    1973: l’Opec chiude i rubinetti del petrolio

    Nel secondo dopoguerra l'economia dei Paesi industrializzati era fortemente dipendente dal petrolio, da tempo divenuto la più importante fonte di energia per la produzione industriale, la produzione agricola e il sistema dei trasporti. La sua relativa scarsità (come è noto il petrolio non è una fonte rinnovabile) veniva vista come un problema solo guardando a tempi molto lunghi, e il suo prezzo molto basso permetteva di non appesantire i costi delle economie occidentali. Ma nel 1973 accadde l'imprevisto: l'OPEC (l'alleanza dei Paesi produttori di petrolio, quasi tutti di lingua araba) decise di sospendere improvvisamente le forniture di greggio agli Stati occidentali. Questi ultimi avevano infatti appoggiato Israele, facilitandogli la vittoria nella guerra dello Yom Kippur, che nell'ottobre di quell'anno lo aveva opposto agli Stati arabi di Siria ed Egitto. La ritorsione dell'OPEC si tradusse in un aumento improvviso e molto elevato del prezzo del petrolio, che nel girò di poco tempo crebbe di oltre tre volte. Fu in quel momento che l’Italia conobbe la prima crisi da “penuria di energia”, che obbligò a ridurre le spese per il riscaldamento o a impedire l’uso delle automobili nelle domeniche.

     

     

    La scarsità di petrolio e la forte crescita dei suoi costi si tradussero rapidamente nell'intero Occidente in una riduzione generalizzata delle attività di produzione e di trasporto, in un ulteriore calo dei profitti imprenditoriali e in un aumento del prezzo di tutte le merci, ossia in un meccanismo di inflazione.

     

    1970/1980: l'inflazione, spauracchio dell'Occidente

    La parola “inflazione” evoca in tutti coloro che hanno vissuto negli anni '70 e '80 uno spauracchio, un avvenimento di gravità tale che qualunque meccanismo per porvi rimedio acquista un'aura di positività.

    In realtà il fenomeno di aumento generalizzato dei prezzi non è un male o un bene in assoluto, ma come molti fenomeni ha effetti diversi a seconda del gruppo sociale da cui lo si osserva. Per i lavoratori dipendenti l'inflazione è negativa solo se non esistono meccanismi di adeguamento automatico dei salari all'aumento del costo della vita (la cosiddetta “scala mobile”); è invece tendenzialmente neutra negli altri casi. Per coloro che sono indebitati l'inflazione è un aiuto: al momento della restituzione del prestito il valore del debito in termini reali sarà infatti diminuito (mentre invece per coloro che detengono crediti l'inflazione si rivela un danno, poiché per loro vale il ragionamento contrario).

     

     

    Nella mentalità comune il manifestarsi di aumenti continui e diffusi nei generi di prima necessità portò ad associare l'inflazione ad un male tout court. E nel corso di pochi anni la lotta contro l'aumento dei prezzi, scatenatasi a partire dal 1979, fu uno dei cavalli di Troia utilizzati cambiare il volto all'economia e alla società mondiali.


    Conclusione: 1979, si esce dalla crisi e si crea un nuovo paradigma

    Se la crisi del 1973 - '74 ha lasciato un segno profondo nella memoria comune in quanto primo momento di difficoltà delle economie occidentali a partire dal 1945 (difficoltà plasticamente rappresentate dalle domeniche senza auto nell'Italia di fine 1973), la crisi del 1979 ebbe minore impatto comunicativo, ma lasciò tracce ancora più profonde nelle politiche economiche del trentennio successivo.

     

    1979: la seconda crisi petrolifera

    La cronaca del 1979 registrò una seconda crisi petrolifera con dinamiche molto simili a quella del 1973-'74: un forte aumento del prezzo del petrolio dovuto a un evento politico nell'area asiatica (in quest'occasione si trattò dell'avvento al potere di Khomeyni in Iran e della successiva guerra con l'Iraq di Saddam Hussein; entrambi gli avvenimenti determinarono un brusco calo della produzione di petrolio). Anche in questo caso l'aumento dei prezzi del greggio si tradusse in  una forte inflazione, diffusa in tutto il mondo occidentale.

     

     

    1979-'82: le risposte neoliberiste cambiano la politica economica mondiale

    Alla fine degli anni '70 la situazione economica del cosiddetto Primo mondo aveva quindi accumulato diversi elementi critici da un punto di vista capitalistico: crisi di sovrapproduzione, crescita dei salari/calo dei profitti, incertezza nei valori delle monete, inflazione.

    Nell'arco di un triennio (1979-'82) le risposte di politica economica a questo stato di cose, provenienti dal mondo anglosassone e diffuse poi in tutto l'Occidente, modificarono profondamente gli orientamenti economici planetari.

    Per comodità l'insieme di queste risposte viene chiamato neoliberismo e sebbene il termine sia molto impreciso è ormai indubbio che in quel periodo si sia passati dal keynesismo del “trentennio glorioso”, al declino dello Stato come regista e attore dello sviluppo economico (complice anche l'avvento al potere di due politici fautori della primazia del privato, Margareth Tatcher nel Regno Unito dal 1979 e Ronald Reagan negli USA dal 1980).

     

     

    Tra i tanti segnali di questo cambio di paradigma per semplicità qui ne vengono ricordati solo tre, il cui impatto ha segnato profondamente anche i decenni successivi.

     

    1. Dal primato del lavoro al primato della lotta all'inflazione. Come si diceva sopra, l'inflazione danneggia in particolare chi detiene un credito, ossia colui che si ritroverà ad essere ripagato a distanza di tempo dal prestito concesso con una moneta ormai svalutata. Il principale detentore di crediti è il sistema bancario nel suo complesso e fu da lì che il più importante fra i suoi rappresentanti, il governatore della Banca centrale statunitense Paul Volcker, mosse l'attacco all'aumento dei prezzi. Nel giro di poco tempo Volcker, appena assurto nell'agosto 1979 al ruolo più importante nella politica monetaria mondiale, ridusse bruscamente la quantità di banconote in circolazione per operare un raffreddamento dell'attività economica e dell'inflazione3.

     

     

    Il piano diede i suoi frutti, ma le conseguenze di medio e lungo periodo furono pesanti: la riduzione dell'inflazione e del denaro circolante determinò una diminuzione delle attività industriali e dei posti di lavoro, nonché l'inizio di un lungo processo di perdita di valore dei salari (spiegabile attraverso la dinamica del mercato del lavoro: essendoci meno posti disponibili, pur di accedervi le persone tendono ad accontentarsi di paghe e condizioni meno vantaggiose).

     

    2. I capitali iniziano a viaggiare in modo compulsivo. Il secondo segnale di un cambiamento economico duraturo si ebbe con la deregolamentazione dei movimenti dei capitali. Fino alla fine degli anni '70 i capitali bancari e finanziari di un Paese avevano grossi vincoli se volevano muoversi verso altri lidi. Nella nuova situazione di crisi questi impedimenti furono giudicati eccessivi e le leggi che limitavano il movimento internazionale dei capitali furono abolite, a cominciare dagli USA. Il principio che informava le nuove disposizioni era la necessità di rendere più “liquidi” i capitali, ossia più facilmente in grado di arrivare laddove vi fossero occasioni di profitto. Nel tempo tuttavia la deregolamentazione si rivelò un'arma potentissima nelle mani di chi muoveva capitali non per aprire nuove attività produttive in luoghi differenti, ma per operare in un'ottica speculativa di breve e brevissimo periodo, muovendo freneticamente grosse cifre laddove vi fosse l'occasione di spuntare guadagni immediati e ritirandole subito dopo.

     

    3. Addio a Keynes e al consumo illimitato di energia. Rispetto alla crisi del 1929, la crisi degli anni '70 ha interpretazioni rese più difficili dalla vicinanza storica del periodo e dall'intenso  dibattito ideologico che si è avuto da allora fino ad oggi su quali  fossero le migliori risposte di politica economica allo stato di crisi.

    Quanto si può affermare con ragionevole sicurezza è che tra il 1973 e il 1979 entrò in crisi il modello keynesiano costruito nel lungo secondo dopoguerra e che ciò che ne è seguito non è stato in grado di ricostruire condizioni stabili di crescita economica, tanto è vero che dagli anni '90 in poi una serie di crisi finanziarie ha fatto da prodromo alla grande crisi iniziata nel 2008.

    Un'ulteriore considerazione va infine spesa sullo spartiacque rappresentato dagli anni '70 anche per ciò che riguarda le politiche energetiche. Prima di quegli avvenimenti la riflessione sul petrolio, sui suoi impatti ecologici e sulla mancanza di rinnovabilità avevano interessato solo pochissimi ambientalisti ante litteram. Dagli anni '80 in poi il dibattito su un modello di sviluppo ecologicamente compatibile e su possibili alternative energetiche al petrolio e agli altri fossili è divenuto progressivamente sempre più centrale.

     

     

     

    Note:

    1. La definizione di Trentennio glorioso proviene dagli economisti francesi. Individua un periodo in cui il progresso  economico e sociale nei Paesi del Primo mondo ha conosciuto una crescita mai vista né prima, né dopo.
    2. Negli anni '90 in entrambi i Paesi si era scesi all'1% circa, e alla fine degli anni 2000 a valori negativi.
    3. Tecnicamente il risultato si ottiene aumentando il tasso di interesse riconosciuto a chi lascia depositati i soldi in banca (e in questo modo non li immette in nuove attività industriali). Tuttavia coloro i quali hanno precedentemente contratto prestiti a tassi variabili si trovano a dover restituire rate di debito aggravate dall'aumento dei tassi di interesse. Il fenomeno toccò in maniera drammatica i Paesi del Sud del mondo che dalla decisione di Volcker in poi videro crescere i propri debiti con l'estero in misura insostenibile (il primo a denunciare le enormi difficoltà della nuova situazione fu il presidente del Messico nell'agosto del 1982) e per ripagarli dovettero tagliare buona parte della spesa sociale, danneggiando pesantemente le ampie fasce povere delle loro popolazioni.
  • Si fa presto a dire LIBERISMO

    Autore: Cesare Grazioli

     

    Tre definizioni di un concetto molto, molto complicato

     

    Indice:

    1. Questione di definizione
    2. Liberismo e impresa
    3. Liberismo e stato
    4. Liberismo oggi

     

     

    1. Questione di definizione

     

    Liberalism fra inglese e italiano

     

    Per cominciare, è indispensabile che sia chiara la distinzione (tutta racchiusa in una sillaba) tra:
    il LIBERISMO, di cui qui ci occuperemo - la teoria economica che risale allo scozzese Adam Smith -; e il LIBERALISMO, la teoria politica risalente a John Locke, che contro l’assolutismo sosteneva la divisione del potere (tra esecutivo/governo e legislativo/parlamento), l’inviolabilità delle libertà fondamentali dell’uomo (i diritti civili, diremmo oggi), e l’uguaglianza formale, cioè di fronte alla legge.

    Per singolare paradosso, proprio la cultura inglese, che elaborò questi concetti, non li distingue sul piano linguistico, usando per entrambi la parola liberalism.

    Tuttavia i due concetti vanno distinti, come prova il fatto che l’uno può stare senza l’altro: ad es. un regime del tutto illiberale come la dittatura fascista di Pinochet in Cile era ultra-liberista in economia; e, viceversa, sistemi politici liberali o liberaldemocratici* sono stati e possono essere poco o per nulla liberisti, come ora vedremo.

    * definiamo qui liberaldemocratico un sistema liberale basato sul suffragio universale, mentre il liberalismo classico ottocentesco limitava il voto, cioè i diritti politici, a chi aveva determinati requisiti di censo e/o di istruzione.

     

    La libertà secondo Adam Smith

     

    Certamente Adam Smith, il primo teorico del liberismo, lo intendeva come la proiezione sul piano economico del liberalismo politico: sosteneva infatti la libertà dell’impresa, la libertà del mercato, la libertà dei commerci.

     

    Ma cerchiamo di capire: libertà di chi, e da chi/ da che cosa?

     

    Smith adottò il punto di vista dell’imprenditore capitalista o, per dirlo più concretamente, dell’industriale creatore del moderno sistema di fabbrica nella prima rivoluzione industriale.
    (A .Smith, Saggio  sulla natura e l’origine della ricchezza delle nazioni, 1776).

     

    Per Smith sono i profitti dell’imprenditore, tramite i suoi investimenti produttivi, che generano lo sviluppo economico generale. Con disarmante sincerità, Smith aggiungeva che, per il benessere e la ricchezza di una nazione, era necessaria l’esistenza di una maggioranza di poorlabours, cioè di lavoratori salariati sulla soglia della povertà, con salari sufficienti solo a sfamare sé e (al più) l’unico loro bene, i figli: quei poorlabours vennero poi definiti da Marx ‘proletariato di fabbrica’.

     

    Tre definizioni di liberismo

     

    Se è chiaro che la libertà economica teorizzata da Smith è (soprattutto) quella dell'imprenditore capitalista, la sua concezione diventa coerente. Da allora liberismo significa tre cose:

    1. Libertà della singola impresa di operare in un mercato “autoregolato”, nel quale lo Stato non intervenga, cioè non voglia fissare i prezzi, o programmare-incentivare lo sviluppo di un settore o di un altro, o costituire aziende statali: insomma, un’economia basata su un sistema di aziende private in regime di libera concorrenza fra loro
    2. Libertà di commercio internazionale, senza che lo Stato fissi dazi doganali e altre misure protezionistiche: in questo caso, liberismo è sinonimo di libero-scambismo.
    3. Libertà dell’impresa nel gestire la forza-lavoro, senza vincoli posti da leggi dello Stato o dai lavoratori coalizzati in organizzazioni sindacali (i sindacati dei lavoratori esistono perché è ovvio che se il contratto di lavoro è pattuito individualmente tra il datore di lavoro e il singolo lavoratore, il primo è di norma in posizione di forza, data la oggettiva disparità del loro rapporto).

     

    2. Liberismo e impresa

     

    Il liberismo secondo le imprese


    Vediamo la prospettiva degli imprenditori, ovvero delle imprese.

    Le imprese tendono sempre ad essere liberiste nel 3° significato sopra indicato, cioè a preferire la più ampia libertà/discrezionalità nel gestire la forza-lavoro: esempi facili, tratti dall’attualità italiana, sono la contrarietà delle imprese all’art.18 dello Statuto dei lavoratori (che regola i casi di licenziamento individuale), e il loro favore alla possibilità di avere un gran numero di contratti di assunzione “flessibili”. In questo caso, il “liberismo” è inteso come libertà dell’impresa dai vincoli posti dal sindacato e dalle leggi a tutela del lavoro dipendente (contro i “lacci e laccioli”, secondo una espressione di largo uso nel mondo delle imprese).

    Il liberismo nel 1° significato (mercato autoregolato, senza interferenze statali) significa per le imprese essere contrarie a tre situazioni molto diverse:

    1. a una economia statalizzata e pianificata (di tipo socialista sovietico)
    2. a una economia mista (in parte pubblica, in parte privata, come era quella italiana dagli anni ’30 fino ai ’90; o quelle inglese e francese nel 2° dopoguerra)
    3. a un’economia in cui lo Stato abbia un ruolo di indirizzo, cioè di programmazione economica, e/o di intervento in funzione anticiclica (ovvero di spesa pubblica per espandere la domanda nelle fasi recessive, quando il mercato, cioè l’economia privata, si trovi in difficoltà), come accadde col New Deal di Roosevelt negli Stati Uniti degli anni ’30; e come accadde dal secondo dopoguerra in gran parte d’Europa, con le politiche del Welfare State.

     

    Una metafora calcistica per capire il liberismo
     
    Il 1° tipo di liberismo assegnerebbe allo Stato il ruolo del servizio d’ordine, il più discreto possibile (“c’è ma non si vede”), il quale sorveglia lo stadio, reprime i tifosi violenti, assicura “legge e ordine”, e si disinteressa completamente di quanto accade in campo. Agli occhi di questo tipo di liberismo, l’economia pianificata (a) è quella dello Stato che, anziché limitarsi al ruolo suo proprio di servizio d’ordine, sequestra lo stadio, caccia le squadre e si mette a giocare, per di più cambiando le regole e anche le misure delle porte; l’economia mista (b) gli appare quella in cui lo Stato entra in campo, confondendosi con gli altri giocatori; la programmazione economica (c) gli appare  infine paragonabile al caso di un servizio d’ordine che si metta a svolgere il ruolo di allenatore, o di arbitro della partita.

    Naturalmente, il liberista che preferisce la musica sinfonica al calcio, può paragonare il ruolo dello Stato a quello della polizia municipale di servizio al teatro (o della maschera che controlla i biglietti); e paragonerebbe le altre situazioni qui indicate alla maschera che assumesse la direzione artistica del teatro (a); o che si intrufolasse tra gli orchestrali (b); o si mettesse a fare il direttore d’orchestra (c).

     

    Una contraddizione interna al liberismo

     

    Il liberismo in questa prima accezione, come autodeterminazione del sistema delle imprese private, ha una contraddizione intrinseca, rilevata già dallo stesso Smith:

    • da una parte, infatti, il principio della libera concorrenza dovrebbe basarsi su un sistema di molte imprese in competizione tra loro sulla qualità dei prodotti e/o sui prezzi;
    • dall’altra, però, questa concorrenza può servire ad alcune imprese per “mettere fuori mercato” e/o assorbire le concorrenti, fino ad arrivare a una situazione di monopolio, che è l’opposto della concorrenza stessa (non a caso gli Stati Uniti per primi hanno adottato da un secolo, sia pure con scarso successo, una legislazione antitrust).

     

    Aziende liberiste solo di nome

     

    Infine, le aziende sono spesso molto poco liberiste nel 2° significato, cioè libero-scambiste, e ci limitiamo qui a pochi esempi tratti dalla storia del Novecento, tra gli innumerevoli possibili.

    Negli Stati Uniti dei “ruggenti” anni ‘20, la grande industria era ferocemente liberista nel 3° significato (si arrivò a uccidere dei sindacalisti…), e nel 1° (in omaggio a un antistatalismo radicato nella cultura americana del “self-made man”); ma per nulla nel 2°, anzi ottenne dallo Stato tariffe protezionistiche tali da impedire praticamente le importazioni di molte merci.

    Lo stesso si può dire della Confindustria italiana negli anni ‘50, che quasi eliminò i sindacati nelle fabbriche (e basò lo sviluppo di quell’epoca anche sui salari più bassi d’Europa), e si oppose a ogni ipotesi di programmazione economica (che invece, sulla base del keynesismo condiviso nel resto dell’Occidente, era largamente praticata altrove).

    Questa industria fu – nelle sue componenti maggioritarie – schierata a difesa del guscio protezionistico vigente dalla fine dell’Ottocento, e rafforzato dal fascismo: tanto che inizialmente avversò l’adesione alla Cee, sostenuta dai governi del tempo (e che si sarebbe poi rivelata vantaggiosissima per le stesse imprese: la Cee divenne subito il principale mercato di sbocco per i prodotti italiani).

     

    3. Liberalismo e stato

     

    Il liberismo secondo lo stato fascista

     

    Vediamo ora la prospettiva degli Stati, cioè della politica economica dei governi.

    Ci riferiamo ovviamente a Stati ad economia di mercato (cioè capitalistica), perché è ovvio che i regimi di tipo sovietico, che statalizzarono e centralizzarono l’economia eliminando il mercato, furono l’opposto del liberismo in tutti  e tre i sensi.

    Più complesso sarebbe il discorso per Stati autoritari di tipo fascista, o, in qualche modo, per  quella forma di capitalismo di Stato oggi vigente in Cina, che al di là della propaganda, sembrerebbe più simile ai sistemi fascisti che a quello comunista.

    Quegli Stati erano liberisti nel 3° significato (lasciavano cioè totale libertà d’azione alle imprese nei confronti dei lavoratori, privando questi ultimi del diritto di scioperare e di organizzarsi in sindacati non controllati dal regime; sia pur con la “foglia di fico” dell’ordinamento corporativo).

    I sistemi fascisti erano invece nettamente anti-liberisti nel 2° significato, cioè erano protezionisti (fino all’autarchia, nel caso italiano; o alla gestione statale del commercio estero, in forme bilaterali gestite dal governo, nel caso del nazismo tedesco); ed erano anti-liberisti nel 1° significato, visto che il fascismo e il nazismo intervennero pesantemente nell’economia: il fascismo con la statalizzazione di molte banche e imprese, fino a creare lo “Stato imprenditore e banchiere”, a fianco dell’economia privata; il nazismo, con i “piani quadriennali” che decretavano quali settori incentivare e quali no.

     

    Il liberismo secondo gli stati liberaldemocratici

     

    Ma anche per gli Stati liberaldemocratici ad economia di mercato, è opportuno distinguere i tre significati di liberismo sopra richiamati, con esempi tratti dal passato e dal presente.

    Nell’America di Roosevelt, il New Deal fu anti-liberista in tutti tre i significati sopra indicati: mantenne le barriere protezionistiche ereditate dai governi repubblicani degli anni venti; introdusse concrete misure a favore dei sindacati e dei lavoratori, per sostenere l’occupazione e i redditi da lavoro, e perciò la domanda interna; attuò numerose misure non tanto di programmazione, quanto di intervento diretto dello Stato, con grandi opere pubbliche per rilanciare l’occupazione e i consumi. Eppure, il New Deal non si proponeva certo di limitare l’economia di mercato, né tanto meno di renderla “socialista”, quanto piuttosto di salvarla e rafforzarla, e così accadde, anche se solo parzialmente: sappiamo che fu poi la 2° guerra mondiale a risollevare definitivamente l’economia americana dalla depressione degli anni ’30.

    In gran parte dell’Europa occidentale, per tutta la “età dell’oro” (i trent’anni successivi al 1945) i governi si ispirarono a Keynes e al Welfare State, tanto che in Germania fu coniato il termine “economia sociale di mercato”. Ciò portò a una situazione pressoché opposta a quella dell’America degli anni venti. Lo Stato interveniva sia con misure dirette e indirette a favore dei lavoratori, per favorire la piena occupazione e una serie di “diritti sociali” dentro e fuori i luoghi di lavoro; interveniva inoltre sul mercato programmando lo sviluppo (con formule quali: politiche industriali, “concertazione” e “politiche dei redditi”, incentivi alla ricerca e a settori considerati strategici), e/o assumendo direttamente la gestione di alcuni settori economici considerati strategici come trasporti, energia, sanità, scuola, ecc.

    Anti-liberisti, dunque, secondo il 1° e il 3° significato, gli Stati europei erano invece libero-scambisti, a partire dai trattati fondatori della Ceca (1950) e della Cee (1957), almeno per il commercio dei beni industriali. Per la verità, la Cee fu, e la Ue è tuttora, un mercato di libero scambio industriale ma al contempo un sistema di protezionismo agrario, cioè di difesa (onerosissima!) degli agricoltori-allevatori europei dalla concorrenza extra-europea.

     

    Il caso italiano

     

    Il caso italiano, come spesso accade, è più complesso. Nel dopoguerra, e soprattutto dal 1947 (cioè dall’inizio della formula del centrismo, con De Gasperi capo del governo ed Einaudi ministro del Tesoro), i governi italiani adottarono una graduale apertura al libero-scambismo, anche superando le resistenze della Confindustria (con le già citate adesioni alla Ceca e alla Cee); e fecero propria la posizione della Confindustria, liberista nel 3° significato (cioè in senso “antioperaio”), e nel 2°, ovvero rinunciarono a una politica di programmazione economica (di “programmazione” si riparlò solo dagli anni ’60, ma non fu mai attuata).

    Così facendo delegarono lo sviluppo esclusivamente alla spontaneità del mercato. Al contempo, però, quei governi mantennero (rispetto all’epoca fascista), ma anche crearono ex novo, importanti settori di industria pubblica: l’Iri, il maggiore gruppo italiano; l’Agip e poi l’Eni, colosso nel settore energetico; poi l’Enel nel campo dell’elettricità, e la Montedison, colosso chimico e nelle fibre sintetiche, ed altri. Si trattò di settori che ebbero un ruolo essenziale nel favorire il “miracolo economico”.

    Secondo la metafora calcistica che abbiamo già utilizzato, lo Stato italiano dai ’40 ai ’60 rinunciò a svolgere il ruolo di giudice/arbitro del mercato, ma svolse (molto più di altri Stati occidentali) il ruolo di giocatore, a fianco e/o in competizione con gli altri giocatori (privati). Dalla fine degli anni ’60, poi (pressato dalle lotte operaie di quegli anni), assunse un ruolo diverso anche nei rapporti tra imprese e lavoratori, attuando importanti leggi a tutela del lavoro: vedi soprattutto  la legge 300 del 1970, chiamata Statuto dei lavoratori.  

     

    4. Il liberismo oggi

     

    L’Occidente e le politiche keynesiane

     

    In Occidente, la teoria economica keynesiana fu rimessa in discussione e poi abbandonata dalla fine degli anni ‘70, di fronte al crescente indebitamento degli Stati (dovuto principalmente all’aumento della spesa pubblica legata ai costi del Welfare State). Per la verità, a giudizio di molti economisti, quell’indebitamento derivava non tanto dal keynesismo, quanto dal modo unilaterale con cui era stato applicato. La teoria di Keynes, infatti, venne interpretata come la giustificazione del “deficit spending”, ovvero della necessità che lo Stato finanziasse lo sviluppo anche ricorrendo all’indebitamento.

    In realtà, secondo Keynes, lo Stato deve giocare un ruolo “anticiclico”, ma questo significa:

    1. spendere, anche indebitandosi cioè creando deficit, durante le fasi recessive del mercato;
    2. ma, all’opposto, drenare risorse (soprattutto con la leva fiscale) e in tal modo ridurre le sue spese e i suoi debiti, durante le fasi favorevoli del ciclo economico, quando c’è meno bisogno della spesa pubblica per alimentare la domanda e la produzione.

    Però, ben si capisce, è politicamente più facile per gli Stati giocare il ruolo di “cicala” che quello di “formica”, cosicché le loro politiche di alta spesa pubblica produssero un crescente indebitamento, che a sua volta portò buoni argomenti al neo-liberismo, avversario della teoria keynesiana.

     

    Il monetarismo neoliberista

     

    Il monetarismo neo-liberista, nuovamente imperante dagli anni ’80, assume come dogmi il pareggio del bilancio dello Stato, la riduzione della spesa pubblica e delle tasse, con la formula “meno Stato più mercato” (liberismo del 1° tipo), e con una “deregulation” sia nei rapporti di lavoro (liberismo del 3° tipo) sia, soprattutto, nella riduzione dei controlli sui movimenti di capitale finanziario (liberismo del 2° tipo, in questo caso applicato non solo alla liberalizzazione della circolazione internazionale delle merci, ma soprattutto a quella dei capitali), con la conseguenza di una enorme finanziarizzazione dell’economia (ricordiamo che il volume di scambi solo di valute estere  passò da 15 miliardi di dollari al giorno del 1975 a 3.200 nel 2007, cioè si è moltiplicato x 213 volte).

    Da allora, le politiche economiche seguite sia dagli organismi internazionale come il Fmi, la Banca mondiale, l’Ue (Unione europea) e la Bce (Banca centrale europea), sia dai singoli Stati (specie quelli europei, sotto l’egemonia della Germania e, forse più ancora, della grande finanza globale e dei suoi periodici attacchi speculativi a questa o a quella moneta o economia nazionale) sono state ispirate alle ricette liberiste, in tutte tre le accezioni (fino a fare diventare il pareggio di bilancio legge costituzionale, come hanno fatto l’Italia e altri Stati europei nel 2012 su pressione del governo tedesco della Merkel).

     

    Si notino i due paradossi conclusivi:

     

    1. nella fase più acuta della tempesta finanziaria esplosa nel 2007-08, fu lo Stato a salvare le banche e il mercato (soprattutto negli Usa, con onerosissimi interventi a vantaggio di alcune grandi banche, fatti dallo Stato, cioè a carico dei contribuenti);
    2. le severissime ricette di rigore finanziario neoliberista imposto ai Paesi in difficoltà dagli anni ’90 ai nostri giorni (in Sud America: Messico, Brasile, Argentina nell’ordine; e oggi in Europa: vedi il caso della Grecia) hanno quasi sempre avuto l’effetto di… uccidere il malato!

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