Storia molto contemporanea

  • Berlusconi in classe. Paura di studiarlo?

    Autore: Antonio Brusa


    Appunti da Giovanni Gozzini.

    e nel silenzio freddo delle strade
    non vivremo più
    (non saremo più)
    come vuoti di memoria

    http://www.musictory.it/musica/Giorgio+Barbarotta
     
    Una recentissima rassegna di Giovanni Gozzini (L’Italia di Berlusconi come problema storiografico, in “Italia Contemporanea”, 2013, pp. 645-658), mi spinge a proporre l’analoga questione didattica, inevitabile, se non vogliamo escludere dalle nostre classi l’informazione, l’analisi e la discussione sugli ultimi decenni:  si può  parlare di Berlusconi in classe?  Con la sua consolidata abitudine a non studiare la storia recente (o “molto contemporanea”), la scuola del dopoguerra ha largamente contribuito a formare una società incapace di trasformare in conoscenza/coscienza storica l’esperienza dei fatti. Una società che, proprio perché vittima di questa inettitudine, è diventata “vuota di memoria” (per riprendere le parole, questa volta di uno storico, Stefano Pivato).

    Abbiamo assistito impotenti alla cancellazione del ricordo dei padri, che negli anni ’50 ricostruirono con fatica la nazione, e del loro lungo travaglio nei decenni successivi dell’emigrazione. Abbiamo visto trasformarsi in un mito griffato il ’68, con le sue contraddizioni e le sue speranze. Si sono disciolte le Brigate Rosse e il dolore che generarono in molti, così come l’angoscia di una guerra fredda che sembrò interminabile. Svaniti nel nulla partiti e uomini ai quali, solo pochi decenni fa, gli italiani si inchinavano ossequiosi. Farà la stessa fine anche l’ultimo ventennio, quello che si iniziò battezzando una seconda Repubblica, e che rischia di essere ricordato in futuro solo per qualche barzelletta sconcia?

    La rassegna di Gozzini ci mette al corrente di un’ampia serie di opere su questo periodo (le troverete in bibliografia). Ci invita a entrare in un cantiere aperto, nel quale gli storici stanno trasformando il ventennio berlusconiano in un oggetto di studio. Qui riconosciamo la sorta di cassetta degli attrezzi dello storico. Li vorrei enucleare e mettere a disposizione del docente che ha capito l’importanza della rielaborazione, attraverso lo studio disciplinare, dell’esperienza e del ricordo dei fatti recenti. Li presento, dunque, in ordine, rinviando alla lettura dell’articolo originale per approfondire i fatti, le teorie e coglierne le sfumature alle quali ho dovuto rinunciare.  

    In occasione della campagna elettorale del 2001, Berlusconi distribuì 12 milioni di copie di una sua biografia, intitolata Una storia italiana (edizioni Mondadori). Il titolo riassumeva due significati: la storia dell’Italia e quella di un suo cittadino.

     

    I luoghi comuni su Berlusconi
    Al primo posto ci sono i luoghi comuni. Con questi, probabilmente, l’insegnante avrà subito a che fare, quando proporrà quell’attività che (impropriamente) si conviene chiamare “brainstorming”, volta a sondare le preconoscenze degli allievi. Dietro le loro convinzioni, troverà, con ogni probabilità, questi stereotipi. Li definisco “stereotipi colti” dal momento che si tratta di idee che condividono un doppio statuto: da una parte, sono quelle che animano la discussione pubblica, dalla chiacchiera del bar, al discorso in famiglia, al talk show all’editoriale in punta di penna. Dall’altra, però, la loro storia ci rivela che non nascono dal nulla, ma spesso trovano la loro origine negli stessi luoghi della produzione del sapere. Gozzini ne individua due modelli generatori:

    a.    La parentesi. Questo periodo è considerato alla stregua di una malattia passeggera. Insomma: l’Italia non è quella di Berlusconi. Lui vi è entrato come un corpo estraneo ma, terminata la sua vicenda, l’Italia riprenderà il suo corso normale. Una degenerazione provvisoria. Si disse lo stesso del fascismo, da un pulpito autorevole, quello di Croce, lo si ripete di Berlusconi da parte di studiosi e giornalisti, come Deaglio, Cordero o Severgnini (di queste opere, e di altre non comprese nella bibliografia allegata, troverete le referenze nel saggio di Gozzini). L’effetto consolatorio e auto assolutorio di questa posizione è evidente, e spiega abbastanza bene il suo successo popolare. C’è sempre una “società civile”, o “un paese reale”, immuni dalle nefandezze della politica.

    b.    L’eccezione italiana. L’Italia è considerata una anomalia “in sé”. Ora i Guelfi e i Ghibellini, ora la divisione Nord-Sud, ora il rapporto fra cittadini e politica (ecc.), tutto – e quindi anche il “caso Berlusconi”-  sta a marcare un paese che non ha eguali. Un luogo comune anche questo: trovatemi, nella storia, due luoghi, due momenti, due popoli che siano uguali, e potremo dire allora che l’Italia è veramente “la singolarità”. Per quanto riguarda il “caso italiano”, Gozzini ce ne segnala l’origine colta in quel “paradigma eccezionalista”, secondo il quale “la storia del nostro paese è stata una lunga sequenza di ritardi, deviazioni, anomalie rispetto a presunti modelli di modernità”  (pp. 648 s). Fra i tanti padri nobili di questo modo di vedere la nostra storia, si va da Gabriel Almond e Sidney Verba, che nel 1965 pubblicarono un libro fondamentale sulla cultura civica (presente nelle nazioni del nord e ovviamente assente in Italia), fino a Ernesto Galli della Loggia e Loreto di Nucci, che applicano questo modello all’Italia in una loro opera di una decina di anni fa su uno dei temi che piacciono di più ai commentatori politici, quello della reciproca delegittimazione. Anche questo è considerato un tipico tratto della politica italiana, a smontare il quale, però, Gozzini cita significativi esempi americani (la delegittimazione di Obama, da parte di elettori repubblicani, o le carrettate di fango che i contendenti alla presidenza non temono di scaricarsi addosso vicendevolmente).


     

    Nel corso di una trasmissione di Servizio Pubblico, Berlusconi spolvera la sedia del suo interlocutore (Travaglio), prima di adoperarla. Al di là della gag, è evidente la “delegittimazione” di un avversario con il quale non si vuole condividere nulla, nemmeno un contatto fisico indiretto.


    Le parole-concetto
    Accanto agli stereotipi, vi sono alcune parole che ormai fanno parte del lessico della politica diffusa, ma delle quali dobbiamo chiederci quale sia il corretto significato. Spesso, infatti, vengono adoperate in accezioni che impediscono una loro “produttività” conoscitiva, perché sono usate come armi di offesa o di difesa, per accusare l’avversario o sostenere le proprie ragioni. Quelle più adoperate a proposito del ventennio berlusconiano, sono: populismo, democrazia, carisma (con i suoi derivati: liederismo carismatico, potere carismatico ecc), liberismo.

    Democrazia. La quasi totalità degli stati, che siedono alle Nazioni Unite, si definisce “democratica”. Sarà vero? Proprio rispondendo a questa domanda, gli studiosi hanno cominciato a classificare le democrazie attuali. Vi sono quelle che si proclamano tali perché chi comanda è eletto (non consideriamo qui il grado di libertà delle elezioni). Una volta eletto, però, non vuole impicci per il periodo di governo assegnato. “Non parlate al guidatore”, potrebbe essere il suo slogan. Queste si chiamano “democrazie elettorali”. Ve ne sono altre, invece, nelle quali chi comanda deve continuamente dar conto del suo operato ad altri contropoteri, attivi e influenti, quali una magistratura indipendente che non fa differenze fra chi ha potere e chi non ce l’ha, e, soprattutto, il sistema dei media (e più di recente la comunicazione via internet). Queste ultime vengono definite “democrazia liberali” (Larry Diamond e Marc Plattner).

    Populismo. Ecco una bella definizione di Yves Mény e Yves Surel: “I movimenti populisti si fondano su una concezione immediata e irrazionale della sovranità popolare, un’ideologia violenta dell’antipolitica e una fondazione carismatica della nuova élite”.

    Il “populismo” è una categoria politica esistente fin dal XIX secolo. Non necessariamente di destra, dal momento che venne usata, per esempio, dai governi americani nella loro lotta contro i cartelli monopolistici del principio del Novecento.

     

    Carisma. Mi servo della spiegazione che Luigi Gentili fornisce di questo termine religioso applicato alla politica da Max Weber. Secondo il sociologo tedesco, il carisma è l’unico potere “in grado di cambiare la storia, modificando interiormente le coscienze degli uomini”. Esso nasce da una relazione particolare che si instaura fra gli individui e una personalità, percepita – anche fisicamente - come eccezionale. Al tempo di Weber, il modello statuale era quello della Germania guglielmina, caratterizzato da una organizzazione rigida ed efficiente. Oggi non è sempre così. Questa evoluzione storica, ha portato a due tipi diversi di personalità carismatiche. Il Capo carismatico (come Hitler o Napoleone) è quello che impone cambiamenti radicali, servendosi di una catena di comando efficace e rigorosa (e in effetti è il modello preso in considerazione da Weber). Il Leader carismatico (Luther King), invece, è “l’abile costruttore di una cultura che induce le persone a seguirlo” e governa attraverso una rete flessibile. Entrambi, però, hanno due talloni di Achille: il fatto che il riconoscimento del carisma debba essere spontaneo, e il fatto che la carismaticità non sia per nulla ereditaria.

    Liberismo/neoliberismo: per questi termini penso che sia utile indirizzare il lettore al contributo di Cesare Grazioli, qui, su HL, perché ne fa una trattazione specifica per la didattica.

     

    Le fonti
    Certamente, la maggior parte delle fonti che potranno essere usate in classe sono quelle mediatiche: giornali e tv. Le osservazioni di Gozzini ci mettono in guardia sul problema cruciale: quanto corrispondono alla realtà? La parola d’ordine è “cautela”. Occorre, infatti, tenere presente che i giornali italiani, nel corso della loro lunga storia, hanno mostrato una consolidata tradizione di “vicinanza al palazzo della politica” (Carlo Sorrentino, Peppino Ortoleva). Perciò, l’immagine che essi offrono, spesso non corrisponde alla realtà, quanto piuttosto all’immagine di questa che la politica si è formata, o che vuole diffondere.

    Anche per la tv occorre fare attenzione. E’ ben vero che i tg seguono dappresso le orme non esaltanti della carta stampata (come dimostrano abbondantemente i dati dell’Osservatorio di Pavia); ma sembra assai probabile che l’impatto di questi tg (e in generale delle trasmissioni di informazione e dibattito politico) non sposti l’elettorato, quanto piuttosto ne confermi le scelte. Occorre guardare con attenzione e scegliere con oculatezza le fonti significative. La tv non agisce direttamente sulla scelta politica, quanto sulla costruzione di una cultura, che a sua volta favorisce un certo ambiente politico. Sentiamo Gozzini:
    “Il dibattito politico non è più l’incontro di boxe educata alle regole, dei tempi di Jacobelli (anni ’60-70). E’ diventato wrestling: racconto sceneggiato e diretto da una regia, dove non interessa capire bensì fare il tifo e vedere chi vince alla fine. Nuovi generi (reality come L’isola dei famosi, talent show come X factor) proseguono la lezione delle telenovelas nell’indurre un senso del presente e del futuro esclusivamente individuale (senza storia e senza politica) entro il quale essere se stessi (senza studiare, senza prepararsi, senza avere competenze) è l’unica condizione per avere ciò che conta nella vita: il successo” (p. 655).

    Fin qui Gozzini. Immagino, però, che in un lavoro scolastico sarà intuitivo accedere alle fonti orali, ai ricordi dei genitori e degli adulti. In questo caso, sarà bene tenere presente la dinamica affatto particolare di queste fonti, che non veicolano mai quello che il soggetto vide o visse, ma sono una rielaborazione dei ricordi incessante e, quindi, mutevole nel tempo (su queste, rinvio all’articolo sull’uso didattico delle fonti orali, scritto da Carla Marcellini per il n. 3 di Novecento.org).

    Nell’esperienza didattica, queste avvertenze sono tanto più necessarie, quanto più – agli occhi inesperti dell’allievo – fonti mediatiche e fonti orali possono apparire più aderenti alla realtà, di quanto non siano quelle, relative a periodi lontani del tempo, alle quali la scuola lo ha abituato. Al contrario, occorre tenere presente che sono fonti che hanno, spesso, contribuito a creare quella realtà, della quale si vogliono testimoni obiettivi.

     

    I problemi
    Al contrario di quello che può pensare un allievo (e ovviamente non solo lui), il lavoro dello storico non si limita a “raccontare ciò che è accaduto”. Lo storico si pone dei problemi e cerca di risolverli. Cerca i dati, li elabora, si confronta con le opinioni e le tesi dei colleghi. Infine racconta i risultati del suo esperimento di ricerca. Quindi, se vogliamo trasformare in “conoscenza storica” il racconto/ricordo del ventennio berlusconiano, dobbiamo individuare quali sono i problemi, intorno ai quali si è attivata la ricerca, e, per contro, evitare la pratica spontanea, di raccogliere informazioni, metterle in ordine cronologico e tentare alla fine qualche “giudizio personale”.

    Mi sembra che questo punto sia essenziale, in particolar modo quando parliamo di storia recente. Occorre far capire agli studenti che il nostro mondo è un terreno di ricerca, esattamente come il mondo della natura (pur con tutte le differenze epistemologiche e di metodo). La storicizzazione non è un processo che avviene una volta per tutte, e si chiude con la codificazione della sequenza canonica dei fatti e dei giudizi. E’ invece un processo incessante, nel quale i problemi si susseguono, e da ognuno scaturisce un racconto particolare del passato. Se capire questo aspetto del pensiero storico è importante, per quanto riguarda l’apprendimento della storia lontana, diventa vitale per la storia vicina a noi: perché su questo versante critica si gioca gran parte della differenza fra la storia chiacchierata e la ricostruzione storica.

    Qui, dunque, si svolge il cuore della partita della formazione storica del cittadino. Ecco alcuni dei problemi più rilevanti.

    Continuità/rottura. Mentre gli attori politici del tempo si proponevano come i distruttori della tradizione della prima Repubblica, e quindi mettevano in evidenza gli elementi di frattura col passato, gli studiosi odierni tendono a sottolineare gli aspetti di continuità fra prima e seconda Repubblica. Forse la tesi storiografica più sorprendente (e interessante, a giudizio di Gozzini), è quella elaborata da Amato e Graziosi. Secondo questi storici, il modello tradizionale dello sviluppo italiano è stato di tipo “parasovietico”. Si è costruito negli anni ’60, basandosi su questo nesso: democrazia-spesa pubblica-indebitamento. In pratica, attraverso la spesa pubblica, consentita dall’indebitamento, i partiti cercano di guadagnarsi il consenso popolare. Quando la crisi degli anni ’70 rompe il giocattolo, la politica non riesce a costruire un modello diverso, e perciò si ostina a usare quello vecchio, finanziandolo, questa volta, con la svalutazione. Una pratica che dovette cessare con l’ingresso dell’Italia nell’UE. Gli anni ’90, quindi, si presentano come privi di futuro: da una parte - la società civile - , la generazione degli anni ’60 si avvia all’invecchiamento e alla conseguente perdita di capacità propulsive. L’Italia entra nel mondo della gerontocrazia. Dall’altra - il ceto politico - il modello tradizionale non ha più benzina di scorta. Alcuni governi (Amato, Prodi, Ciampi) cercano di invertire il ciclo sovietico dell’indebitamento. Trovano ampia ostilità in una nazione che non vuole mutare il suo modo tradizionale di sopravvivere. Qui entra in campo la proposta politica di Berlusconi, che dietro il sipario della propaganda liberista, è “indulgente, statalista, debitoria”: una riedizione vincente di un passato irrecuperabile.

    Il confronto con il passato. A quale forma di governo del passato assomiglia il governo Berlusconi? Nella patria del fascismo, si tratta di una domanda quasi obbligatoria. Nella polemica antiberlusconiana, era abbastanza frequente l’accusa di essere una sorta di riedizione di quella dittatura. Paul Ginzborg è nettamente contrario:

    “Nel 1999 Berlusconi scriveva “gli individui sono i migliori giudici di ciò che è bene per loro”. Nel 1932 Gentile e Mussolini nella voce Fascismo dell’Enciclopedia italiana, scrissero: “Antindividualistica, la concezione fascista è per lo Stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato”.

    Dunque, i due sistemi sono agli antipodi. Quello berlusconiano si articola su due piani. Da una canto, identifica la politica con il marketing. Il sondaggio, le opinioni, la pancia della gente (come si dice da allora), questi sono gli strumenti per rilevare gli obiettivi dell’azione politica. Dall’altro, questa azione non è mai promossa (dichiaratamente) da una “parte”. Berlusconi si proclama ostile al sistema dei partiti, intesi come soggetti che promuovono il miglioramento della collettività, attraverso un’azione pedagogica e mossi da intenti etici e politici. Crainz e Gibelli definiscono questo sistema “totalitarismo pubblicitario”.

     Berlusconi tra i fiori. E’ il titolo di una foto di Una storia italiana.La vicenda personale, i gusti intimi, le particolarità individuali, 

    fanno parte del messaggio pubblico della politica berlusconiana.

     

    Potere pubblico e patrimonio personale. Inevitabile affrontare uno dei temi più scottanti del periodo. Il capo del governo è uno degli uomini più ricchi del paese: ci sarà un conflitto di interessi? Anche su questo problema, gli storici sottolineano elementi di continuità. I grandi capitalisti italiani (si citano Agnelli e De Benedetti) hanno sempre goduto di rapporti privilegiati con il mondo politico e, dal punto di vista della “società civile”, questa è da lungo tempo abituata al fitto intreccio di reti clientelari e all’insofferenza endemica verso “le regole”, al punto da dimostrarsi assai poco sensibile al tema del conflitto di interessi, anche quando, come nel caso di Berlusconi, questo deflagra in modo vistoso.

    Questo conflitto, per gli storici, è un dato di fatto. A partire dalle prime dichiarazioni di Giuliano Ferrara, che scrisse apertamente che Berlusconi era sceso in campo per salvare le sue proprietà, fino alla sequenza di leggi che hanno protetto sia il monopolio televisivo, sia il loro proprietario dall’intervento della magistratura: tutto ciò appartiene agli eventi, e non alle discussioni partigiane.

    L’intreccio fra pubblico e privato si è rivelato centrale nella periodizzazione del ventennio. Infatti, dopo una primissima fase, nella quale prevalevano gli aspetti liberali del programma, pian piano si è scivolati verso una fase di aperta conservazione (quella appunto “parasovietica” di cui sopra).

    La società civile. Nella polemica (soprattutto della sinistra), la platea alla quale si rivolge Berlusconi è figlia del “riflusso” degli anni ’80. Gli storici hanno molte obiezioni in proposito. Certamente, gli anni ’80 conoscono molte crisi, da quella del “modello parasovietico”, a quella generazionale, alla crisi irreversibile della grande industria con il conseguente tracollo della classe operaia. In realtà, negli anni ’80 si realizza un cambiamento radicale della struttura economica (e conseguentemente sociale) del nostro paese. Le piccole e medie industrie ne diventano l’asse portante, e i protagonisti di questa rivoluzione sono spesso “ex operai ed ex studenti che hanno introiettato la lezione di protagonismo individuale del Sessantotto e, delusi da una politica che nel corso degli anni settanta perde carica riformatrice, scelgono altre strade di vita. Ciò che viene chiamato “riflusso”, perché considerato con gli occhi totalizzanti dell’etica politica, è in realtà un “flusso” verso il dinamismo imprenditoriale, di cui partiti e sindacati capiscono ben poco” (p. 650). E’ questa la base elettorale “forte”, a cui si rivolge Berlusconi; ed è questa la base che i suoi avversari non capiscono, e liquidano con supponenza, accusandola di corruzione e di inciviltà.


    Bibliografia
    Amato G., Graziosi A., Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, Il Mulino, Bologna 2013.
    Colarizi S., Gervasoni M., La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica 1989-2011, Laterza, Bari 2012.
    Crainz G., Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012.
    Gibelli A., Berlusconi passato alla storia. l’Italia nell’era della democrazia autoritaria, Donzelli, Roma 2010.
    Ginzborg, P., Berlusconi in prospettiva storica comparata, in Santomassimo G, (a cura di), La notte della democrazia italiana. Dal regime fascista al governo Berlusconi, Il Saggiatore, Milano 2003.
    Ginzborg, P., Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, Einaudi, Torino 2003.
    Orsina G., Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 2013.

  • Che dire in classe del “populismo”? Il concetto e alcuni problemi di insegnamento.

    Autore: Antonio Brusa
     

    Fig. 1. Il populismofenomeno mondiale,  secondo un disegnatore olandese

     

    Una parola carica di storia
    Il dizionario la mette giù semplice: “Populismo è qualsiasi movimento politico diretto all'esaltazione demagogica delle qualità e capacità delle classi popolari”. Tuttavia,basta passare alla definizione, per quanto stringatissima,dell’Enciclopedia Treccani, o a quella un po’ più articolata delDizionario di Storiografia della Bruno Mondadori, per mettere in luce il problema che ne complica la spiegazione: come tutti i concetti storici, infatti, anche “populismo” ha un significato che cambia nel tempo, e con questo si arricchisce di sfumature e varianti.

    Dalle sue origini, nella Germania  antisemita dell’Ottocento (come ci racconta Francesco Violi), “populismo” è passato, nello stesso secolo, a designare sia un movimento russo, dai caratteri un po’ anarcoidi e molto rivoluzionari, che opponeva il popolo oppresso alla nobiltà e al clero, sia un partito americano, il Populist Party, avversario acerrimo dei Democratici. Una volta entrato nel Novecento, il concetto ha preso a viaggiare. E’ entrato nelle democrazie occidentali, scrive Marco D’Eramo, spiegandoci che Roosevelt era “populista”, quando si batteva contro le oligarchie economiche del suo paese. Si è acclimatato nell’America latina, il “paradiso del populismo”, secondo Loris Zanatta, dove J.D. Perón, il dittatore argentino, ne ha creato una variante di successo, legando all’idea di popolo quella di un leader carismatico, che ne interpreta la volontà. E, finalmente, è giunto nell’Italia repubblicana, con le tante versioni di populismo, da Giannini, il fondatore dell’Uomo Qualunque, fino ai più recenti Berlusconi, Di Pietro, Bossi/Salvini,  Grillo e Renzi. L’Italia, scrive Lucio Caracciolo, pensando anche al sottofondo populista del Fascismo, sembra la culla dei populismi europei. Quello che è certo, è che l’Europa di oggi appare invasa da populismi, un po’ come l’Europa degli anni ’30 fu caratterizzata dal proliferare dei fascismi.  

    Fig. 2 Questa vignetta del 1896 mostra il populistaWilliam Jennings Bryan nelle vesti di un serpente che ingoia l’asinello Democratico.

     

    Movimento di destra o di sinistra?
    Molti movimenti populisti odierni hanno nomi e leaderaccomunati da una chiara ideologia di destra: da Marine Le Pen del Fronte Nazionale in Francia, al Partito per le Libertà di Geert Wilders in Olanda, al Fidesz di Viktor Orbán in Ungheria, allo UKIP di Nigel Farage in Inghilterra, al polacco Giustizia e Libertà degli (ex) gemelli Kaczinsky, e poi i Perussuolamalaiset, ovverossia “I Veri Finlandesi” di Timo Soini, i Democratici Svedesi, il Partito del Progresso Norvegese (e tanti altri). Ne dobbiamo concludere che il populismo è unaideologia politica di destra? (Sul questo si veda l’intervista di Piotr Zygulski a Luca Andriola)   

    Lasituazione spagnola istilla qualche dubbio. Qui, infatti, la partita politica sembra giocarsi fra due movimenti, entrambi inequivocabilmente populisti: Podemos, di sinistra, e l’emergente Ciudadanos, di destra. E, elemento accessorio quanto significativo in quest’epoca di simboli, i loro colori–  rispettivamente il viola e l’arancione - sono emersi nel panorama politico europeo come “colori politici” solo alla fine del secolo passato, avvertendoci che anche “destra e sinistra”, con le loro divise tradizionali, sono realtà soggette a cambiamento.

    Nicolò Talenti, sul “Fatto quotidiano”, discute la definizione che abbiamo visto sopra. La accoglie per il suo richiamo al socialismo ottocentesco, ma la critica per il riferimento alla “demagogia”.E’ una sottolineatura spregiativa ingiusta, argomenta, perché il populismo, proprio perché fa “ricorso al popolo”, rivela una sostanza democratica che va apprezzata positivamente. Dello stesso parere é Nicoletta Tiliacos, dalle pagine del “Foglio”, che, recensendo il libro di Marco Tarchi (L’Italia populista: dal qualunquismo ai Girotondi, Il Mulino, Bologna 2003) afferma come sia soprattutto la sinistra a nutrire un’opinione negativa sul populismo, per quanto ne mostri ampie contaminazioni.

    Fig. 3. Sul fenomeno del populismo, e sulle diverse interpretazioni, si veda il ricco, quanto agile, dossier della Fondazione Feltrinelli, con interventi di Urbinati, Zilioli, Müller e altri

     

    Christian Raimo, su “Internazionale”, ne illustra dapprima il carattere reazionario:“Se c’è una cosa che hanno mostrato la politica italiana ed europea negli ultimi trent’anni, è che ovunque si è affermato un populismo di destra. Antidemocratico, nazionalista, reazionario, sostanzialmente xenofobo, ma non solo: multiforme, mimetico, interclassista, trasversale. La crisi delle ideologie del Novecento si è portata dietro i partiti, i sindacati, ma anche lo stesso impianto dei diritti sociali”. Poi, ne lascia intravvedere le valenze di sinistra, citando Ernesto Laclau (On Populist Reason, London-N.Y, 2005) e, attraverso lui, ricorrendo a Gramsci: “il populismo fino a oggi non è solo stato degradato, è stato proprio denigrato, è stato condannato moralmente. Questo ha significato essenzialmente screditare le masse”.  Come si può, conclude, escludere che sia di sinistra un movimento che considera così centrale l’idea di popolo?

     

    Il concetto di popolo
    Ecco il termine cruciale. “Popolo”. Che cosa intendiamo con questa parola, sulla cui variabilità lo storico ha molto da dire? Popolo aveva un significato ad Atene, come sa qualsiasi insegnante di storia, e un altro a Roma. Nel Medioevo assunse accezioni molto distanti (all’epoca dei regni romano-germanici, per esempio, quando era l’insieme di quelli che potevano combattere; o al tempo delle città comunali, dove spesso fu una consorteria di ceti); nell’Età moderna si definì prima come la totalità dei sudditi, poi come gli abitanti soggetti alle leggi vigenti in un territorio. Dalla fine del Settecento entrò in un rapporto, non sempre lineare, col termine “cittadino”.Oggi è una parola solo apparentemente condivisa e chiara. Infatti, alla domanda “che cos’è il popolo italiano?” ci divideremmo subito. Per alcuni sarebbe l’insieme degli abitanti della penisola; per altri l’insieme dei cittadini italiani; per altri ancora l’insieme dei nati in Italia e dei loro discendenti, per qualcuno anche se viventi all’estero.

    Il “popolo di populismo” è qualcosa di ulteriormente diverso. E’ una sorta di costrutto chimerico, per metà malleabile e per metà solido come la pietra. Da una parte, infatti, esso si riferisce a realtà che vengono rielaborate a seconda delle situazioni. Ma, una volta che questa realtà è stata formata, questa diventa astorica e assoluta.

    Così lo spiega Mario Tarchi (citato da Christian Raimo). Nell’idea populista, il popolo è  una “una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili”.  Esso ha “naturali qualità etiche” in base alle quali contrappone il suo “realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali”.  Esso, quindi, per quanto artificiosamente costruito, rivendica il suo primato contro ogni forma di rappresentanza e mediazione, loro sì, bollate come “politiche”e dunque “artificiose”.Per spiegare la sua natura particolare, Claudio Rise, fa ricorso al concetto di “primordialismo”. Si tratta, scrive, di un “criterio cognitivo, di orientamento a valenza identitaria, in base al quale: a) gli individui classificano sé e gli altri, e b) su queste classificazioni formano poi gruppi, appartenenze che influenzano il comportamento dei membri".

     

    Un popolo compatto, maa geometria variabile
    Il “popolo” dei populisti, dunque, è costruito a partire da una qualche classificazione. E’ il gruppo dei “noialtri”, opposto ai “loro altri”. Ma chi sono i nostri? Dipende. Possono essere quelli d’accordo con il fatto che gli “altri” vadano rottamati; oppure che gli “altri” debbano essere travolti dalla ruspa, o, in alternativa, mandati a quel paese. “Rottamazione”, “ruspa” e “vaffa” sono parole d’ordine che scombinano le classificazioni politiche e sociali abituali, e le ricombinano in nuove appartenenze (è ancora Christian Raimo a parlare). Per questo è difficile identificare un populista con i sistemi che fino al recente passato sono serviti a distinguere la destra dalla sinistra. E per questo, ancora, un populista ha buon gioco nello sfuggire alle etichettature. “Noi, dirà, siamo il popolo. E il popolo non ha colore politico”.

    Questi molti “popoli-populisti” condividono una sorta di narrazione originaria: “Gli altri ci opprimono, ci tolgono diritti e ricchezze. Sono corrotti. Quindi li dobbiamo combattere e eliminare”. E’ un racconto assai simile a quello che le genti europee del diciannovesimo secolo hanno appreso dalla predicazione nazionalistica: che dovevano riscattarsi dal loro lungo servaggio e risorgere. Con una differenza da sottolineare con cura. In fondo, per quanto “inventate”, le nazioni europee si basavano su elementi territoriali, linguistici, storici che venivano ricomposti e riutilizzati alla bisogna. Nei populismi, invece, la libertà nella scelta degli elementi discriminatori è straordinariamente più ampia: si va dal nazionalismo ipertradizionale, all’antieuropeismo, all’egoismo sociale, all’esaltazione parossistica dell’onestà, all’antimeridionalismo, alla xenofobia, al razzismo, alla modernizzazione efficientistica, alla condanna dell’evasione fiscale o alla sua esaltazione, alla ripulsa di ebrei, arabi, zingari (ecc.).

    A onta di questa variabilità, il “popolo-populista” esibisce una compattezza formidabile. E’ la tesi sostenuta da Yves Mény e Yves Surel. La valorizzazione del popolo, scrivono, porta ad una idealizzazione tale della “comunità immaginata”, che questa viene presentata unita, forte e risoluta nel reagire contro chi attenta alla sua identità: esattamente come le nazioni che, due secoli fa, combatterono per acquisire l’indipendenzae il diritto al riconoscimento internazionale (Populismo e democrazia, Bologna, il Mulino 2001. Vedine qui la recensione).

    Fig. 4 Nel disegno di Plantu, populisti di destra e di sinistra sono accomunati nella denuncia del marciume generale. 

    François parla della crescita di una maggioranza popolare antiprogressista in Francia

     

    Perché il populismo
    Si ritiene solitamente che il populismo sia l’antitesi della politica. Gli stessi rappresentanti dei movimenti (o partiti) populisti amano mostrarsi come i suoi nemici. Giovanni Orsina guarda il fenomeno da un punto di vista diverso. Ipotizza che la suadiffusione dipenda da una sorta di ritardo psicologico delle masse. In pratica, secondo lui, è successo questo. Col finire del secolo passato, siamo entrati in una fase storica così diversa, da obbligarci a cercare e costruire nuovi modi di interpretare il mondo. Tuttavia, molte persone pensano di vivere ancora nel XX secolo, “nel secolo delle ideologie e della politica che faceva promesse ambiziose”.  Vivono in un mondo nuovo con gli schemi mentali di un passato, nel quale i partiti costruivano progetti politici di ampio respiro.

    La politica, al posto di “insegnare” che il mondo è cambiato, e di “svegliare la gente dal sogno del Novecento”, prende la strada più facile: insegue i desideri della gente e promette ciò che questa si attende. Impegni che si rivelano, inevitabilmente, irrealizzabili. Di qui la frustrazione e il disprezzo per dei partiti incapaci. Il populismo odierno, quindi, secondo Orsina, nasce da un forte bisogno di politica: solo che chiede una politica d’altri tempi. La sua diffusione esprime uno dei tanti paradossi della nostra epoca, nella quale i partiti sono considerati dei ruderi inefficienti e dannosi, ma, al tempo stesso, se ne rimpiange la capacità di direzione e gli orizzonti verso i quali riuscivano, in un passato che resta ancora fresco nella memoria, a indirizzare masse imponenti di cittadini.

     

    Problemi didattici
    La tesi di Orsina, anche perché espressa con la sinteticità dell’editoriale, va discussa e sfumata. In questa sede – tuttavia - può avere il merito di aprire un dibattito didattico interessante  su due punti. Il primo è che sollecita il docente a collocare il fenomeno “populismo” nelle grandi trasformazioni dei nostri tempi. Per capire questo fenomeno, e la sua spettacolare avanzata in Europa, non basta conoscere la sua definizione (per questo, come per altri concetti analoghi). Occorre ricostruire il contesto, in questo caso dell’età “molto contemporanea”, e, per far questo, l’insegnante deve ritagliare un tempo sufficiente, all’interno della programmazione dell’ultimo anno.

    Il secondo nasce dall’analisi del quadro cognitivo diffuso, che (sempre a giudizio di Orsina) favorirebbe l’avanzata del populismo.  Ecco gli elementi di questo quadro.

    -    Una perdita del senso della realtà, che fa ritenere plausibili operazioni per quanto del tutto improponibili
    -    Un’ostinata ricerca di un capro espiatorio, che porta alla soluzione facile di ogni problema: basta punire un colpevole per risolverlo
    -    La diffusione del “complottismo”: cioè la convinzione che ci sia sempre un soggetto preciso, dietro i problemi che viviamo
    -    L’indignazione cosmica, scatenata dall’osservazione che nessuno adotta soluzioni che appaiono semplici e a portata di mano
    -    L’idea che siamo giunti ad un punto così basso, che peggio di così non si può andare. Tanto peggio, tanto meglio

    Per adoperare categorie cognitive più familiari agli insegnanti di storia, possiamo dire che Orsina allude a quella incapacità di maneggiare situazioni complesse e astratte, che obbliga il soggetto-cittadino a operareipersemplificazioni della realtà e a personalizzare processi storici. E’ il quadro clinico che Anna Emilia Berti delinea nelle pagine di “Mundus”, parlando degli ostacoli alla corretta comprensione della storia. Non è nuovo, e non è per nulla specifico di uno dei tanti “mali” della società che viviamo. Negli anni ’60 del secolo scorso, von Friedberg e Hubner ne scoprivano le tracce nella concezione storica degli adolescenti deltempo. Ecco che come la descrivevano:

    “Gli eventi storici e i loro nessi vengono rappresentati per mezzo di categorie dell’esperienza quotidiana ingigantite, quando non siano semplicemente ridotti (come avviene nei ragazzi fino all’età di circa 13 anni) alle categorie normali della cosiddetta esperienza concreta“immediata”. [...] Tutti gli avvenimenti storici e le situazioni sociali vengono visti sempre come il risultato dello sforzo di singole persone. Le motivazioni e le caratteristiche ad esse attribuite “spiegano” i nessi di condizionamento relativi alla struttura sociale e la continuità della storia” (von Friedeburg, Hubner, Immagine della storia e socializzazione politica (1964), trad. it. in Barbagli (a cura di), Scuola, potere, ideologia, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 271, cit. da Berti).

    Il quadro cognitivo tracciato da Giovanni Orsina, dunque, fa pensare ad una mancata formazione storica generalizzata, piuttosto che a un trauma conoscitivo tipico dei nostri contemporanei.  La diffusione del populismo, dunque, sarebbe una spia di un fatto sociale più vasto, non necessariamente limitato né ai nostri tempi, né al successo di questo o quel partito.

    Infatti, l’individuazione di questo deficit risale a diversi decenni fa ed è caratteristico non solo dell’Italia, (come ci autorizza a dire la ricerca tedesca citata sopra). Esso testimonia la difficoltà di avviare i giovani verso una comprensione adulta dei processi storico-sociali. Più che un bisogno di politica (o forse “oltre al bisogno di politica”), questa diagnosi rivelerebbe un drammatico bisogno di storia. Drammatico, perché il “deficit storiografico” inibisce l’intelligenza di strategie complesse per risolvere i problemi sociali; impedisce a larghi strati sociali di comprenderne la natura e, perciò, li spinge a cercare soluzioni elementari e personalizzate; favorisce la cultura politica dello slogan facile e della personalità risolutrice.

    E’ una specie di semialfabetismo storiografico, forse paragonabile a quell’analfabetismo funzionale sul quale ci ha bene informato Tullio De Mauro (La cultura degli Italiani, Bari, Laterza 2010). Dovrebbe preoccupare, e molto, la società e la politica; dovrebbe metterle in guardia sul pericolo che una società democratica corre, quando si disinveste sulla formazione storica e umanistica in generale.  La soluzione che viene adottata – in Italia come all’estero – è quella di una forte spinta all’ Educazione alla cittadinanza. Questa, tuttavia, in mancanza di quegli strumenti fondamentali di analisi sociale, la cui disponibilità non può che essere il frutto di un lungo e sofisticato lavoro scolastico (e quindi di investimenti), rischia di ridursi a un elenco consolatorio di competenze.

    Intanto, e in attesa di tempi scolasticamente migliori, perché non dirsi, almeno, che sarebbe utile sapere di cosa si tratta in realtà, quando si dice “populismo”?

  • La storia molto contemporanea. Come realizzare, rapidamente, l’ultima parte del programma.

    Autore: Antonio Brusa
    Appunti da Dan Smith

    In questa cartina, tratta dall’atlante di Dan Smith, le nazioni in viola scuro (paesi arabi, Guyana e Brunei) hanno oltre il 30% di immigrati.Seguono Usa, Canada, Arabia, Australia, Libia e paesi europei centro settentrionali con una percentuali di migrazione fra il 20 e il 30%. L’Italia è fra i paesi con meno del 10%.

     

    Perché studiare gli ultimi decenni

    L’atlante di Dan Smith,The State of the World (New Internationalist, Oxford 2014), è un magnifico aiuto per il docente in difficoltà  alla fine del percorso formativo. L’intoppo nel quale si trova solitamente è ben conosciuto: da una parte si vorrebbe finire il programma arrivando ai giorni nostri; dall’altra, fra prima e seconda guerra mondiale, fascismi, comunismi e giornate della memoria, aggiungiamoci gli esami da preparare, il tempo è risicatissimo. La sintesi di Dan Smith permette di tracciare in poche battute le linee dell’ultima parte di questo programma. E’ una sintesi aperta che consente, al docente che voglia (come spero) dedicare a questo periodo un tempo non residuale, di inserire in questo quadro approfondimenti e studi di caso coinvolgenti. 

    Partiamo con le motivazioni (e quindi con gli obiettivi) per studiare questo periodo. Da qualsiasi parte ci voltiamo, dice Smith, troviamo cose che cambiano. Si annunciano ad ogni piè sospinto cose nuove, che, immediatamente dopo, svaniscono. Professori e allievi ne ricavano un senso di incertezza frustrante. Abbiamo bisogno di qualche appiglio; ma soprattutto, abbiamo il dovere di verificare la sensazione, che attanaglia tutti, di avvicinarsi all’orlo di un baratro.

    Come tutti i punti di vista sul periodo che stiamo vivendo, anche questo è oggetto di discussione. Ma non è un difetto. Il tempo presente impone la capacità di problematizzare, proprio con questi suoi aspetti controversi. Esso  richiede il coinvolgimento nella discussione, dal momento che gli allievi sono attori della storia che si studia, al pari dei loro professori e degli autori dei testi che compulsano.

    Una volta aperta la discussione, Dan Smith dispiega i suoi strumenti: una rapida cronologia e l’individuazione di cinque temi che considera fondamentali. Per la conoscenza puntuale di questo dispositivo, rinvio naturalmente all’originale. Qui ne presento una sintesi, con i rimandi sitografici che consentiranno, anche a chi non può consultare l’Atlante, di approfondire questo o quello dei temi che vi sono descritti.

     

    La cronologia

    La mappa sintetica della contemporaneità si articola intorno a tre momenti chiave.


    a.    Il tornante degli anni ’89-91: con il crollo del mondo comunista, finisce anche l’età della guerra fredda, del mondo diviso in blocchi. Dal punto di vista degli Usa (ma certamente non solo) inizia una sorta di età dell’oro, nella quale si afferma la loro centralità. La prima Guerra del golfo li vede nelle vesti di guida di una coalizione di stati, che si mobilita per ripristinare l’ordine internazionale


    b.    Il 2001: gli attentati delle Torri gemelle, ma più ancora il modo aggressivo con il quale gli Usa vi rispondono, segna la fine di questa età effimera. Inizia un periodo più instabile, che tuttavia non ostacola il forte sviluppo economico, durante il quale decollano nuovi centri economici del mondo, come la Cina e l’India, altri segnano il passo. Ma tutti, anche i più poveri, godono di qualche briciola di questo banchetto.


    c.    Il 2008. La crisi finanziaria innesta una nuova spaccatura nel mondo: c’è chi la supera e ricomincia a crescere, c’è chi invece precipita nella stagnazione, se non nella recessione (su questo potranno essere di aiuto i lavori sulle crisi qui su Historia Ludens, e su Novecento.org). 


    E’ una ricostruzione della quale va sottolineato il pregio della facilità (al di là delle discussioni di cui sopra). Si basa su avvenimenti forti, anche facili da raccontare, ben circoscritti. Si può calcolare un tempo abbastanza rapido per spiegarli e studiarli.

    Dentro questa cornice cronologica Dan Smith disegna la struttura del mondo nel quale viviamo: la popolazione, giunta a 7 miliardi di persone, la cui vita è organizzata in Stati (l’ultimo è il Sud Sudan, nel 2010); diverse per istruzione, speranza di vita, religione e etnia. Indica la forma di insediamento principale di questa massa immensa, le città e le megacittà, ma, al tempo stesso avverte che questa popolazione è caratterizzata dalla forte mobilità delle migrazioni.

     

    I temi di studio

    Dan Smith, inoltre, propone cinque temi di studio. Li descrivo brevemente, mettendo in evidenza alcuni aspetti che li rendono problematici. Ciascuno di essi, infatti, presenta aspetti positivi e negativi. E’ fondamentale aiutare gli allievi a passare da una percezione uniforme ad una variegata, che eviti il rischio di essere “o apocalittici o integrati”.  Ad ogni tema ho fatto seguire alcuni sottotemi esemplari, che segnalo anche per il loro carattere fortemente interdisciplinare, a partire naturalmente dalla Geografia e dall’Educazione civile. E’ evidente che, nell’economia di una programmazione, questo sarà il campo dei lavori opzionali, magari assegnati per gruppi.

     

    Benessere e povertà 

    La sperequazione fra le diverse aree geografiche è drammatica. La ricchezza, con il benessere conseguente, è concentrata in alcune regioni del mondo. Tuttavia, l’ultimo ventennio ha visto la rivoluzione delle gerarchie mondiali di questa ricchezza. La Cina balza al primo posto, gli Usa retrocedono al secondo (per la prima volta da un secolo a questa parte), l’India è la terza potenza. L’Europa, come spazio geografico, è ancora il primo mercato mondiale. Le sue divisioni politiche, tuttavia, le impediscono mettere a frutto questo vantaggio. Per quanto riguarda i paesi più poveri, va notato con forza che la quota di umanità che vive con meno di un dollaro al giorno sta diminuendo.

    Sottotemi: crescita e povertà; qualità della vita; ineguaglianza; il debito; obiettivi mondiali dello sviluppo

     

    In questa infografica, che riproduco come esempio, si mostra come i Miliardari, colpiti dalla crisi del 2008, “rimbalzino”, per aumentare nel periodo successivo sia per numero sia per ricchezza complessiva


    Guerra e pace

    Tutti abbiamo negli occhi immagini atroci di guerra. Proprio per questo, occorre rimarcare il fatto che “il periodo che viviamo è il più pacifico dai tempi della Prima guerra mondiale e, come alcuni sostengono, di tutti i tempi” (p.11). Se, poi, ci limitiamo agli ultimi trent’anni, si deve ricordare che si è passati dai 50 conflitti degli anni ’80, ai 37 del decennio successivo, fino ad arrivare ai 30 nei primi dieci anni di questo secolo (pp. 58-59). Certamente le spese militari restano altissime e la guerra rimane la prima causa di morte. Si deve sottolineare (si veda su HL il testo di Yves Michaud), il cambiamento radicale e terribile, imposto dalle nuove guerre, e il fatto che i civili ne sono le vittime principali. Va ancora evidenziato l’incremento dei conflitti religiosi e etnici.

    Sottotemi: i signori della guerra; la corsa agli armamenti; i nuovi fronti di guerra (cibernetica, media); rifugiati; le operazioni di peacekeeping, conflitti religiosi.

     

    Diritti e rispetto

    Nel brevissimo periodo fra il 2008 e il 2012 i paesi stabilmente democratici sono passati dal 43% al 48%. Un dato positivo che va subito immesso in un contesto nel quale le democrazie non sono mai un bene garantito per sempre; che spesso l’esercizio delle libertà viene confiscato da “falsi amici della democrazia” e che le fasi di transizione verso la democrazia (laddove si attivino) sono difficoltose e irte di pericoli.

    Sottotemi: diritti religiosi; conflitti religiosi; diritti umani; diritti dei bambini; diritti delle donne; diritti dei gay


    Salute degli uomini

    Se guardiamo la curva dell’Aids (pp. 13 e 98-99) si vede che le infezioni hanno cominciato a decrescere a partire dalla metà degli anni ’90, e le morti dal 2005. Nel ventennio che fa dal 1990 al 2010, la popolazione mondiale sottonutrita è passata dal 20% al 15%. Ci sono progressi evidenti anche nella cura del cancro. Per converso, si deve tenere conto del fatto che il successo nella lotta contro le malattie varia sensibilmente da regione a regione; così come le regioni più ricche sono esposte a patologie che un tempo non erano epidemiche, come l’obesità.

    Sottotemi: il fumo; obesità e fame; aids e cancro; handicap e società.

     

    Salute del pianeta  

    La scala dei temi, sulla base della quale valutare la salute del pianeta eccede i pochi decenni della contemporaneità immediata. Gli analisti ci danno alcune certezze. La prima è che la natura del problema “Terra”, richiede che la cura sia approntata dall’umanità nel suo complesso. L’aspetto positivo, paradossalmente, è proprio nella gravità della situazione, la cui soluzione impone solidarietà sempre più profonde fra gli umani. Si può fare molto, conclude, Smith: ma ogni giorno che passa aumenta la scala delle difficoltà da superare.

    Sottotemi: i segnali di allarme; l’acqua; i rifiuti; la biodiversità; l’energia, le variazioni climatiche.

     

    Sitografia

    Dall’atlante di Smith, estraggo alcuni siti, dai quali si può partire per un lavoro scolastico. Non elenco i più citati, come quello della Cia o della Banca Mondiale, perché possono essere consultati per la maggior parte delle voci che seguono.

     

    Acqua: www.fao.org
    Alfabetizzazione:  www.uis.unesco.org
    Aspettativa di vita: www.who.int
    Biodiversità: www.iucnreditlist.org
    Crisi alimentari: www.iiss.org
    Debito: www.imf.org
    Diritti dei bambini: www.childinfo.org
    Diritti delle donne: www.ipu.org
    Diritti religiosi: www.religiousfreedom.com
    Disastri naturali: www.ifrc.org
    Ecologia planetaria: www.ecologyandsociety.org
    Guerre: www.pcr.uu.se
    Ineguaglianza economica: www.forbes.com
    Minoranze, diritti: www.minorityrights.org
    Minoranze, lingue del mondo: www.Ethnologue.com
    Pace mondiale: www.visionofhuanity.org
    Religioni, distribuzione: www.cia.gov
    Rifiuti: www.unep.org
    Rifugiati: www.unhcr.org
    Sviluppo, obiettivi: www.un.org
    Urbanizzazione: www.unhabitat.org

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