tfa

  • Sensibilità

    Monteconero, 28 marzo


    Non la insegno come te, ma sai, ho una certa sensibilità alla didattica. L’ho sentita decine di volte, questa frase. Tutte le volte che ho chiesto a un collega di storia come mai avesse deciso di insegnare Didattica della storia in un corso di formazione per insegnanti. Anche perché, la prima volta che l’ho sentita, un editore l’aveva rivolta a me (visto che sei così sensibile alla didattica, perché non dai uno sguardo a questo manuale?). Be’, sono sensibile alla didattica anch’io, lo ammetto. Tanto che, con un certo numero di colleghi (pochi in Italia, molti in tutto il mondo), ci abbiamo lavorato su e ci abbiamo costruito una disciplina, che si chiama “Didattica della Storia”, e vanta due associazioni internazionali.

     

    Questa disciplina ha una sua biblioteca, ormai talmente fornita che è impossibile per ciascuno di noi sfogliare per intero; un suo corpus di fonti, ad esempio i manuali di storia, che occorrerebbe conoscere, per insegnare agli altri come usarli (nella biblioteca delGeorg Eckert Institut, di Braunschweig, ve ne sono oltre 145 mila e più di mille, per la maggior parte italiani, sono quelli che ho raccolto nel fondo-manuali che ho accumulato a Bari). Oppure – altro esempio - i programmi, che è importante studiare e confrontare, cronologicamente o comparando fra loro quelli di Stati diversi, se vogliamo valutare correttamente i programmi vigenti in Italia. Ha dei metodi di indagine, che sono codificati e di cui sarebbe bene aver pratica per non fare la figura del principiante. Questa disciplina ha aperto un certo numero di cantieri di lavoro: dall’uso del digitale, all’uso del patrimonio, ai rapporti fra storia e identità, ai problemi connessi con l’insegnamento delle diverse storie, da quella locale a quella mondiale, ai rapporti fra storia e formazione, alle tecniche di insegnamento: sul manuale, con i giochi, con i laboratori. Eccetera eccetera. Tanto vasto è questo elenco, che nessuno di noi, che facciamo didattica della storia, è in grado di praticarlo per intero. Anche in questa disciplina, come in tutte del resto, ci dobbiamo specializzare. In questi anni lo abbiamo fatto. Lo si è visto, ad esempio, al principio di settembre dell’anno scorso, quando a Roma abbiamo dato l’avvio alla nuova associazione di Didattica della storia (IRAHSSE), con la partecipazione di un’ottantina di studiosi da tutto il mondo, con altrettante relazioni e il solito sistema delle sezioni in parallelo.

     

    Fra le sue tante attività, la Didattica della storia ha trasformato l’ora di storia in un terreno di ricerca. In questo trovo una sua grande utilità all’interno di un corso di formazione. Senza questa indagine scientifica, l’ora di storia ha una grande probabilità di restare “l’ora della pratica insegnante”. Un’ora nella quale una persona che conosce l’argomento (a questo dovrebbe provvedere il corso di laurea, ormai portato a cinque anni, e non il Tfa, come prescrive chiaramente la legge) ne parla a dei giovani visibilmente disinteressati, cercando di farsi capire e di farsi apprezzare. Incombenza complicata, come sanno tutti, da affrontare – ma solo se questa persona fosse sprovvista di conoscenze precise di didattica disciplinare – almeno con una certa sensibilità.

     

    Infatti, la didattica della storia, quando diventa disciplina, si raffredda, purtroppo. Si occupa di studiare, analizzare, progettare, verificare. Insomma, fa quelle cose normali che fa solitamente uno studioso al quale si chiede di produrre del sapere. Gli si chiede – unicamente - che sia di buona qualità. A tale scopo, la comunità degli studiosi specifici si occupa di fare le pulci ai suoi scritti con una deplorevolmente scarsa sensibilità. Questo sistema, così pedante e così accademico, oggi è in grado di fornire un complesso studi affidabili, che permettono a quell’ “ora di insegnamento” di uscire dalla routine della pratica e di entrare in un altro ambiente: quello della sperimentazione, del confronto con gli altri dell’utilizzazione di strumenti, teorie, pratiche provate già in altri contesti. Quello di una visione problematica,  e per questo dignitosa, del proprio lavoro.

     

    Il docente di storia odierno non è più solo (quante indagini abbiamo sulla “solitudine dell’insegnante”!), perché ha disposizione l’archivio delle ricerche compiute in tutto il mondo. Un supporto formidabile, che lo aiuterebbe nella gran parte dei problemi che lo affliggono. Basterebbe accedervi. Ecco un buon significato della frase: “collegare la pratica scolastica alla ricerca”. Una frase che abbiamo ripetuto tante volte, da trasformarla in un luogo comune. Perché non lo sia più, occorre che i futuri docenti studino un po’ di didattica disciplinare. Senza, si ritorna (o si resta, ahimè) in un passato, nel quale questa funzione veniva gestita (e lo viene ancora) dalla sola pedagogia – della quale gli studenti del Tfa hanno un’offerta abbondante – o dal passaparola. Da bocca a orecchio. La didattica orecchiata, ovvero l’arte di arrangiarsi. La necessità di una formazione professionale universitaria del docente sta proprio nella possibilità (speranza, scommessa, desiderio, progetto politico, utopia, chiamatela come volete) di rompere questa routine tradizionale e di avviare una nuova stagione, di docenti consapevoli dei problemi, delle teorie, delle tecniche didattiche specifiche, capaci di usarle, capaci di un approccio critico nei loro confronti, e quindi di scegliere. 

     

    Come è andata con le Ssis, lo sappiamo. Esiste una buona quantità di pubblicazioni, dalle quali apprendiamo che, a parte qualche isola, le Università italiane hanno visto esprimersi felicemente tutta la sensibilità dei colleghi. La partita dei Tfa è appena iniziata. La Sisem (ne diamo notizia in un altro intervento su hl) ha promosso un convegno sull’argomento e Gaetano Greco, che si occupa del Tfa in Toscana, ne ha scritto su “Mundus”, prospettando anche un'indagine sui prossimi corsi. Siamo tutti curiosi di conoscere quanti docenti di storia italiani sono sensibili alla didattica.

  • TFA e Master di formazione. Un confronto tra Italia e Spagna

    Autore: Antonio Brusa


    Intervista a Rafael Valls Mòntes

    Rafael Valls Mòntes insegna Didattica della Storia presso l’Università di Valencia dal 1989. Lavora in un Dipartimento di Didattica delle scienze sperimentali e sociali con 50 colleghi, dei quali dieci sono “strutturati” e quaranta “associati”, cioè docenti di scuola che insegnano presso l’Università. Sono nella sua bella casa, un po’ alla periferia di Valencia, illuminata da un sole autunnale caldo e piacevole. Parliamo di formazione dei docenti e di didattica della storia.


    Tfa italiani e Master spagnoli

    Da quando le Siss furono chiuse dalla Gelmini, in Italia non abbiamo ancora capito come si andrà a finire con la formazione dei docenti. Attendendo i corsi di formazione universitaria, anno dopo anno, si attivano Tfa, poi Pas, poi di nuovo Tfa. Ogni volta le direttive ministeriali arrivano all’ultimo momento, obbligando tutti a soluzioni affannate.

    In Spagna, mi dice Rafael, la legge fu fatta nel 2010. Venne elaborata dai socialisti, ma, quando andarono al potere i popolari, la misero ugualmente in vigore. Venne immediatamente applicata dalle Università. Prima c’era solo un corso di formazione per i maestri, di tre mesi. Il corso attuale – un Master – dura un anno intero; impegna gli allievi per circa 600 ore (60 crediti). Alcuni elementi sono fissati dall’amministrazione centrale, come la durata e gli indirizzi. Le Università, invece, decidono sui crediti, cioè sul peso specifico delle diverse materie di insegnamento, e sul costo. Le Regioni Autonome sul numero dei posti.

     

    Classi di concorso

    Concentriamoci sulla Storia. Da noi è presente in diverse classi di concorso, e il suo peso varia da classe a classe, a seconda dei “compagni di strada”: Italiano, Geografia, Latino, Greco, Filosofia, ecc. A me, per esempio, è capitato di fare corsi di Didattica della Storia di 2, 3, fino a un massimo di sei crediti.

    Qui, in Spagna è più semplice, almeno in questo caso. Chi si vuole abilitare in storia, fa il Master in Storia, Geografia e Storia dell’Arte. E, nel caso di Valencia, i crediti sono: otto per Storia, otto per Geografia e sei per Storia dell’Arte. Ci sono poi altre discipline: un corso di Innovazione e Ricerca (disciplinare) di sei crediti, le discipline socio-psico-pedagogiche: Psicologia dell’apprendimento (4 cfu), Sociologia educativa (4cfu) e Didattica generale (6 cfu), per un totale di 14 crediti. Il tirocinio, che non è gestito dai pedagogisti, ma dalle discipline specifiche e il lavoro finale del master. A conti fatti, il 70% è disciplinare. Abbiamo 80 allievi, divisi in due classi, che pagano un po’ meno di mille euro.

     

    La battaglia dei crediti

    La divisione dei crediti è una fonte perenne di conflitti fra disciplinaristi e pedagogisti. Ho conosciuto esiti imprevedibili di queste battaglie, come una storia bizantina messa nel corso abilitante per insegnanti di sostegno; docenti di medievale, moderna e contemporanea, di latino che si disputavano insegnamenti di uno-due crediti; per non parlare dell’inesauribile varietà degli insegnamenti pedagogici.

    Anche qui c’è stata bagarre. L’Università voleva attribuire le ore disciplinari ai colleghi della facoltà di Storia e Geografia, per quanto la responsabilità dei corsi fosse stata affidata ai Dipartimenti di Didattica. L’argomento è ben conosciuto anche in Italia: i contenuti. Quindi, Storia antica, medievale, moderna e contemporanea. Tuttavia, questi sono corsi che servono per insegnare. Gli allievi devono avere acquisito – nel corso di laurea di primo livello – i crediti di storia sufficienti, e se non li posseggono devono sostenere un esame specifico (di due ore) prima di accedere al Master.

    Siamo riusciti a imporre una regola: poteva concorrere all’incarico solo il docente universitario che avesse fatto almeno tre anni di insegnamento nelle secondarie. E’ stato un buon selettore per eliminare molta concorrenza. I pedagogisti, dal canto loro, volevano mettere le mani sul tirocinio. Ci siamo opposti e abbiamo avuto ragione. Quindi i tutor provengono tutti dalle didattiche disciplinari. Soltanto nel caso in cui non c’è una tradizione didattica, come per esempio a Medicina e a Economia, il tutoraggio è stato affidato a Pedagogia.

     

    Il programma di studi

    Un problema non secondario è quello del programma di Didattica della storia. Ognuno si regola come crede, da noi: al punto che alcuni colleghi di modernistica hanno stilato delle raccomandazioni per evitare, per esempio, che il corso di Didattica sia una reduplicazione del corso di Storia, svolto all’Università.

    Penso che un programma istituzionale di Didattica della storia potrebbe svolgere questi punti (per lo meno, questo è il mio programma): che cosa è la didattica e la sua importanza; i fini dell’insegnamento della Storia; i grandi modelli educativi storici (tradizionale, per scoperta e interattivo); le difficoltà degli studenti nella comprensione storica; analisi dei manuali; presentazione di materiali didattici alternativi; la pianificazione e realizzazione di un'unità didattica, su un tema previsto dal programma o su un altro tema. Il corso, poi, è in stretta relazione con la parte pratica, per quanto i partecipanti non possano sperimentare la loro unità didattica, per questioni di tempo. Infatti, il tirocinio si svolge fra gennaio e marzo, quando non hanno ancora elaborato il progetto. Al termine del corso, vi è il lavoro finale del master, che impegna 6 crediti.

     

    Il tirocinio.

    Conosco una grande varietà di soluzioni, che riguardano soprattutto la suddivisione delle ore: una parte di tirocinio è gestita dai pedagogisti; un’altra dai disciplinaristi. C’è un tutor, a volte uno solo per corso. Chi sia questo tutor, poi lo decidono di volta in volta le Università. A Pavia quelli di storia furono formati nei laboratori Didattica della storia dell’Università. Dunque sono specialisti. A Bari, invece, l’unica tutor era una professoressa di media, risultata prima nelle graduatorie regionali.

    No. Il corso è disciplinare. Il tirocinio è di didattica specifica e impegna 12 crediti. Quindi anche i tutor devono essere specialisti. I tutor lavorano sempre in coppia: un professore del Dipartimento di didattica e un professore, vincitore di concorso regionale. Per partecipare al concorso occorre preparare un progetto di formazione. Una commissione regionale sceglie i migliori. Ogni due studenti vi è un tutor. Purtroppo non sono pagati molto. Un tutor prende 180 euro (90 per allievo) e la sua scuola 300.

     

    Innovare l’insegnamento

    Tempo fa, nel fuoco di uno dei dibattiti che periodicamente investono la scuola, un collega scrisse che non vedeva tutta questa necessità di innovazione. Vedo che presso di voi c’è addirittura un insegnamento apposito.

    Questo insegnamento ha un programma molto concreto. “Innovazione e ricerca” è anch’esso un corso disciplinare, che impegna 6 crediti. Si studiano i modelli alternativi; si presentano le riviste specifiche di didattica disciplinare e gli  esempi esistenti di ricerca e innovazione.

     

    Il titolo

    Il TFA è una soluzione provvisoria. Dovrebbe essere sostituito da una laurea abilitante, proposta dalla Gelmini e sostanzialmente ripresa nel documento ministeriale "La buona scuola", ma c’è chi vuole rendere stabile il Tfa, con la proposta di aggiungerlo ad una laurea quinquennale. SI discute, ancora, se questa formazione debba essere universitaria o no, cioè lasciata interamente o prevalentemente alle scuole.

    Il corso di formazione si fa dopo la laurea di primo livello (la laurea di primo livello spagnola è di quattro anni). Chi frequenta il master, ottiene il titolo necessario sia per poter fare lezioni sia per presentarsi ai concorsi. Prima della crisi le regioni facevano un'offerta pubblica, che oscillava fra i 50 e i 300 posti annuali. Ora i posti scarseggiano. A Valencia, per esempio, sono ormai quattro o cinque anni che non si fanno concorsi pubblici. Nella scuola si perdono 10 mila posti per anno, perché, secondo il programma di governo, i posti dell’amministrazione devono diminuire del 10% ogni anno. I nostri allievi possono avere possibilità solo nella scuola privata.

     

    La didattica della storia in Spagna

    Una forte differenza, tra Spagna e Italia, è costituita dalla presenza nelle Università della Didattica della storia. Qui gli insegnamenti sono quasi inesistenti, sono raramente tenuti da docenti disciplinari che si specializzano in Didattica della storia, mentre, nella maggior parte dei casi, sono – come si dice – “sensibili al problema dell’insegnamento”.

    In Spagna, la Didattica della storia inizia nel 1983, con una riforma universitaria dei socialisti che stabilisce i dipartimenti di didattiche specifiche, sia le scuole normali (scuole per la formazione dei maestri, oggi inglobate nel sistema universitario), sia nei corsi di magistero o di educazione o di formazione dei docenti.In ogni Università vi è un Dipartimento di Didattica, che raggruppa, come nel caso di Valencia, gli studiosi di didattica delle diverse discipline. Solo Madrid e qualche grande Università hanno dipartimenti specifici delle scienze sociali.

    A Valencia i docenti di Scienze sociali (storia, geografia, educazione civica) sono quindici, fra quelli strutturati e gli associati. Si sono specializzati in diverse branche della didattica: chi studia i manuali di storia, chi i problemi degli allievi; chi si occupa della professione insegnante. Non mancano gli studi sul curricolo e sono in aumento gli studi sull’educazione civica, sul patrimonio e sull’insegnamento della storia agli allievi che sono in difficoltà.

     

    Didattica della storia

    Questa è una bella differenza tra Italia, dove la Didattica della Storia è generalmente intesa come un fatto di impegno personale e volontario di professori e ricercatori, e Spagna, dove è invece una disciplina strutturata.

    In Spagna esistono 300 ricercatori professionali, dei quali dodici sono ordinari, riuniti in un’associazione specifica Asociaciòn Universitaria del Profesorado de Didactica de la Ciencias Sociales (web). Questa organizza ogni anno un convegno, su temi diversi, in una diversa università. Ogni docente dispone di un’aula virtuale, nella quale pubblica testi, programmi, dossier e strumenti diversi per l’insegnamento.

     

    Sitografia essenziale

    Università pubblica di Barcellona
    Università di Salamanca
    Università di Saragoza

     

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