abbattimento delle statue

  • I grandi tabù della Tratta dei neri e il difficile rapporto fra protesta sociale e ricerca storica.*

    di Antonio Brusa

     

    “L’appello lanciato questa estate da militanti “antirazzisti” in molti paesi democratici ad abbattere le statue di coloro che sarebbero più o meno direttamente legati alla tratta atlantica ha rimesso al centro del dibattito pubblico la questione della schiavitù. Al posto di migliorare la nostra conoscenza del carattere abietto del commercio degli schiavi neri nella pluralità delle sue manifestazioni geografiche, la frenesia vendicatrice alla quale stiamo assistendo non ha fatto altro che rinforzare l’idea, peraltro già ben radicata, secondo la quale non ci fu che una sola Tratta dei Neri: quella condotta dagli Occidentali fra i secoli XV e XIX”.

    Con queste parole, Matthieu Creson apre il suo articolo sulla persistenza del tabù della Tratta”, appena pubblicato dall’autorevole “Revue des deux Mondes” (7 sett. 2020).  Nell’immaginario italiano ci vediamo lontani spettatori di questa vergogna storica. Pensiamo che siano fatti che riguardano gli stati atlantici, europei e americani, ben lontani da noi mediterranei. Le cose non stanno in questo modo. Per due motivi. Il primo è che il fenomeno della schiavitù riguardò direttamente l’Italia fino a tutta l’età moderna, come ci ha insegnato Salvatore Bono (Schiavi. Una storia mediterranea. XVI-XIX secolo, Il Mulino, Bologna: qui il riassunto analitico). Il secondo è che la polemica contro la schiavitù mette sul banco degli imputati l’intero occidente, europei e italiani compresi.

    Per tutti quelli che si occupano di storia, infine, questo è un magnifico, quanto penoso, caso di studio sui rapporti fra la memoria storica, alla quale fanno riferimento i movimenti di protesta, e la ricerca storica.

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    I motivi che hanno scatenato le proteste sono indiscutibili. Non possono che suscitare indignazione in tutto il mondo il razzismo e le ingiustizie sociali che spingono nelle strade tanti cittadini americani. Ciò che Matthieu Creson sottolinea è il discorso storico che accompagna e alimenta molta parte del movimento. Questo discorso è viziato da due rimozioni. La prima è geografica: si rimuove il fatto che la Tratta atlantica non fu l’unica esistente. La seconda è storica: si rimuove il fatto che i primi stati a proclamare illegale lo schiavismo furono europei. Queste due rimozioni cementano due tabù, apparentemente incontrastati in quello che rischia di diventare un processo mondiale all’Europa: “non si può parlare di Tratte che non siano quella atlantica” e “non si può dire bene dell’Europa”.

     

    La rimozione geografica

    Il primo a farne un oggetto di dibattito pubblico è stato Olivier Petré-Grenouilleau, con il suo La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale(Il Mulino, Bologna 2010: vedine un buon riassunto qui)

     

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    Lo storico francese scriveva che se si allarga lo sguardo al di là dello scenario atlantico, spuntano altre due tratte, altrettanto dolorose di quella atlantica. La Tratta musulmana, che prelevava schiavi dall’Africa sub-sahariana per venderli ai paesi mediterranei ed esportarli fino in Estremo oriente; e quella africana, della produzione e del consumo interno degli schiavi. I dati offerti dallo storico lasciavano senza fiato chi si avvicinava per la prima volta a questo problema. Se la tratta atlantica trasferì in America poco meno di 12 milioni di persone, quella interna africana ne riguardò 14 milioni e quella musulmana 19. Indubbiamente, questi dati erano da ponderare tenendo conto di due fattori. Il primo è che la tratta atlantica durò poco più di tre secoli, mentre il periodo preso in considerazione dallo storico per quelle islamica e africana andava dal 620 d. C al 1920. Il secondo è che, mentre per la tratta atlantica le fonti sono numerose e precise (i libri contabili dei negrieri, i contratti di vendita americani ecc.), non altrettanto si può dire delle altre due tratte che devono fare affidamento a stime, che secondo lo stesso Grenouilleau hanno un largo margine di variabilità. Altri storici, infatti, danno cifre diverse, che – tuttavia - essendo sempre dell’ordine dei milioni, non intaccano la sensazione di enormità del commercio islamico e africano.

    (Lo storico francese non si occupava del commercio mediterraneo, i cui dati avrebbero aggiunto peso al terribile quadro della schiavitù mondiale, con i milioni di cristiani, fatti schiavi dai corsari barbareschi, e i milioni di nord-africani fatti schiavi dai cristiani (italiani e maltesi soprattutto), e venduti nei mercati di Livorno, Napoli, Genova e Palermo, insieme con quelli dell’Africa nera che pure giungevano in Italia).

     

    Shitstorm mediatico

    Quando uscì in Francia, nel 2005, il libro di Grenouilleau divise il pubblico. Fu esaltato come opera fondamentale da molti storici, dall’Académie e dal Senato (che pure aveva proclamato, con la legge Taubira del 2001, che lo schiavismo è un crimine contro l’umanità). Dall’altra suscitò vive proteste da parte delle comunità afro-francesi e antillane, che accusarono lo storico di “negrofobia”, chiesero che venisse processato, proprio per la violazione della legge Taubira, e lo sottoposero a un indegno shitstorm mediatico, con insulti e accuse di ogni genere, delle quali la rete, a dispetto del mito della sua memoria indistruttibile, conserva tracce scarse e difficili da reperire (qui una cronologia degli interventi, un tempo ben in vista, oggi quasi introvabili. Noterò ancora che l’articolo di Clionautes, che citavo a questo proposito nel 2016, è sparito).

     

    I fabbricanti di schiavi

    I mercanti occidentali acquistavano gli schiavi nei mercati africani: quelli atlantici, oggi meta del turismo memoriale (ne scrive Elisa Magnani), e quelli indiani, altrettanto celebri, come Zanzibar. Quest’isola era anche un centro di smistamento della tratta islamica, al pari di Timbuctù, dove si concentravano le carovane di schiavi destinate ai mercati della costa nordafricana. Ma come venivano prodotti questi schiavi? Ne sappiamo poco, scrive John Iliffe. A metà Ottocento, un missionario chiese a 177 schiavi liberati in che modo erano stati fatti schiavi. Un terzo dichiarò che era prigioniero di guerra; un altro terzo che si trovava già in condizioni di schiavitù quando fu portato al mercato. Altri erano stati fatti schiavi per debiti; un paio perché erano figli di donne accusate di stregoneria. Come sapevano – e scrivevano – i negrieri, la prospettiva di un buon guadagno incentivava i tribunali africani a comminare la pena della schiavitù per una gran quantità di reati. Al di là di particolari e di cifre che vanno ancora messi in piena luce, ciò che sappiamo è che dietro le Tratte atlantica e islamica agì un sistema schiavistico consolidato nel tempo, interamente africano, fatto di imperi, regni e individui che lucravano sulla riduzione in schiavitù di uomini e donne nere, che evidentemente non consideravano “fratelli” (J. Iliffe, Popoli dell’Africa. Storia di un continente, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 179).

     

    Vittime e carnefici

    “La maggior parte degli studi recenti, di qualsiasi scuola, concludeva Grenouilleau, ci dice che gli africani non furono solamente vittime della tratta, ma anche artefici” (p. 187). Lo storico avrebbe potuto richiamarsi con efficacia alla formula icastica - “nessun popolo è vergine”- che Franco Cassano ha inciso nel suo libro più bello (Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro, Il Mulino, Bologna 2003). Il ruolo della vittima e del carnefice si sono alternati più volte nei tempi lunghissimi dei diversi gruppi umani. Una storia che ne selezioni solo alcuni aspetti impedisce di fare i conti con i passati vergognosi di ciascuno. Rischia, in luogo di creare una società che si riconosce unita nella condanna del crimine della schiavitù, di lacerarla con un desiderio di vendetta, che è un temibile motore dell’alternanza fra vittima e persecutore. Nel pieno della polemica sul suo libro, Grenouilleau scriveva: “È importante comprendere che gli Occidentali, gli Orientali o gli Africani odierni non sono affatto responsabili dei crimini commessi da qualcuno dei loro antenati, e che non serve a niente aizzare le comunità, le une contro le altre. Come scriveva Edouard Glissant a proposito della schiavitù, il lavoro della memoria non deve far rivivere il passato. A noi serve una “memoria che sa andare oltre” (Traite négrière  : les détournements de l'histoire, par Olivier Petre-Grenouilleau, in “Le Monde”, 5 marzo 2005).

     

    La rimozione storica

    Se la schiavitù è un fenomeno che interessò la stragrande maggioranza dei gruppi umani (forse solo gli indigeni australiani ne furono esenti), la sua abolizione è un evento che riguarda esclusivamente l’Europa. In moltissime società esistettero filosofi, poeti e governanti che hanno manifestato la loro avversione per questo istituto. Ma solo in Europa questa ostilità si è concretizzata nella sua messa fuori legge. Questo evento dovrebbe essere celebrato come identitario di una umanità, come quella attuale, che si proclama antirazzista e antischiavista. Non è dunque paradossale il fatto – si chiede Pascal Bruckner - “che le prime società che hanno abolito la schiavitù, dopo averne largamente approfittato, siano le sole ad essere messe sotto accusa, le sole alle quali si chiede una riparazione?” (La tyrannie de la pénitence. Essai sur le masochisme occidentale, Grasset, Parigi 2006, p. 174).  

     

    Il doppio versante della rimozione

    La questione dello schiavismo, per come viene affrontata nei movimenti di protesta mondiali, diventa un tutt’uno con quella del colonialismo europeo, con il conseguente bilancio post-coloniale e con il razzismo. L’evento dell’abolizione, quindi, viene seppellito sotto un cumulo di misfatti che preme anche sul versante interno all’Occidente, incrementando quel sentimento di “autocolpevolizzazione” che caratterizza il rapporto che Europa e Occidente intrattengono con il loro passato, e producendo, di conseguenza, una memoria unidirezionale.  Perché è una strana “memoria della schiavitù quella che impone solo all’Occidente di fare penitenza e di risarcire i discendenti degli schiavi” (Creson, cit.).

    Fernando Duarte ha provato a quantificare l’ammontare di questi risarcimenti. Secondo gli stati africani si tratterebbe di 777 miliardi di dollari (dati del 1999); mentre i trenta milioni di discendenti americani di schiavi africani avrebbero diritto a una compensazione di 250 mila dollari a testa (Réparation de l'esclavage : les descendants d'esclaves doivent-ils recevoir une compensation financière? 2 luglio 2020). Tuttavia, per quanto lo storico non debba trascurare gli aspetti economici nella sua analisi, sarebbe sbagliato farne una questione di soldi. Ce lo fa capire la delibera di professori e studenti del Dipartimento di Letteratura inglese dell’Università di Chicago, approvata dopo l’assassinio di George Floyd, nel luglio del 2020. Vi si stabilisce che per l’anno accademico 2020-2021 verranno accolti solo studenti neri o che si impegneranno  nei Black Studies, la branca delle discipline umanistiche che il dipartimento si propone di sviluppare. È un debito, proseguono i colleghi americani, che la collettività degli studiosi deve pagare, perché “la letteratura inglese, come disciplina, nella sua lunga storia ha ammantato di una razionalizzazione estetica la colonizzazione, lo sfruttamento, l’estrazione dei neri, e l’anti-negritudine (anti-blackness)” e che, quindi, il loro dovere di studiosi è quello di “eliminare l’anti-negritudine persistente e recalcitrante della nostra disciplina”.

     

    Due documenti per comprendere una rivoluzione

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    Immagine4Am I Not a Man and a Brother?, il medaglione disegnato da Josiah Wedgwood nel 1787 contro la schiavitù (Fonte)  

     Si diceva nelle buone famiglie di un tempo che una dote di matrimonio non era adeguata se non avesse compreso qualche ceramica Wedgwood. Josiah Wedgwood era un imprenditore, inventore e designer di ceramiche adorate dalle famiglie borghesi. Era anche amico e fervido sostenitore di Thomas Clarkson, il primo storico del movimento abolizionista. Questo medaglione, autentico logo del movimento, fu regalato a Benjamin Franklin, presidente della società abolizionista della Pennsylvania. Diventò un gioiello esibito dalle signore di tutt’Europa. Più efficace di un libro, commentò Franklin.

    Osservato con gli occhi moderni, quest’uomo nero e incatenato, che supplica di essere considerato un fratello, è lo stigma del “nero inferiore” che spinge il movimento di protesta ad abbattere i monumenti nei quali “un uomo bianco concede la libertà a schiavi neri che ringraziano” (su questo tema si veda l’articolo di Daniele Boschi, qui su Historia Ludens). Osservata con gli occhi di un individuo del XVIII secolo, invece, quest’immagine è rivoluzionaria, perché rompe con la tradizione più “inclusiva” che il mondo antico aveva consegnato alla modernità, quella delle religioni del libro, secondo le quali “non è lecito fare schiavo il fratello”. In base a questa norma, un cristiano (come un musulmano o un ebreo) non poteva ridurre in schiavitù un correligionario, proprio perché la comune fede li rendeva fratelli, ma poteva fare schiavi tutti gli altri. Il medaglione diceva alla gente del XVIII secolo che si è fratelli per il semplice fatto di essere uomini. Una rivoluzione, scrive Olivier Grenouilleau (La révolution abolitionniste,Gallimard, Paris 2017).

    Con un salto di qualche anno, ci troviamo a Napoli, dove Antonio Savarese, medico “dei Reali Eserciti”, uno studioso che viaggiò in lungo e in largo, anche al seguito delle truppe napoleoniche, scrive testi di antropologia fisica e medicina. Letti con gli occhi moderni, sono libri insopportabilmente razzisti. Ci raccontano che i creoli sono un miscuglio indecente di razze e che i bianchi si sono degenerati al loro contatto; che i neri puzzano, hanno un aspetto orribile e assomigliano più a un orango che a un uomo. Letti con gli occhi del tempo, questi testi ci rivelano uno studioso che considerava le colonie americane una tragedia, dal momento che in meno di tre secoli avevano causato lo sterminio della popolazione indigena e ora erano meta di avventurieri e di mercanti dediti “all’industria, tanto vilipesa e censurata, di comprare e vendere uomini di colore nero, traffico che disonora l’uman genere, e che da alcuni governi è stato proibito e da altri sostenuto, malgrado che si vantassero per sommamente civilizzati”. (A. Tuccillo, Il commercio infame. Antischiavismo e diritti dell’uomo nel Settecento italiano, Cliopress, Napoli 2013, pp. 344-346).

    Immagine5La foga iconoclastica non ha risparmiato i monumenti di Victor Schoelcher, il giornalista e uomo politico francese, promotore del decreto del 1848 con il quale venne sancita la fine della schiavitù in Francia e nelle sue colonie. Su di lui si veda: F. Magris, Rivoluzionario o riformista? Victor Schoelcher e l’abolizione della schiavitù, in “Studi Storici”, 54, 3, 2013, pp. 611-622. 

    La rivoluzione abolizionista

    Due documenti – un gioiello e il brano di un libro – ci fanno intuire la differenza dei tempi. Oggi noi consideriamo normale essere contro la schiavitù. Allora era rivoluzionario. Oggi noi assimiliamo razzismo, colonialismo e schiavismo. Tre secoli fa erano fenomeni ben distinti. Se non recuperiamo lo sguardo di quei tempi, non riusciremo a valutare la portata di quella rivoluzione. Torniamo dunque a Grenouilleau che, lavorando su una massa impressionante di documenti, ci offre una visione realistica di come quella rivoluzione si sviluppò.

    Fu una rivoluzione strana, ci avverte il nostro autore. Ha una premessa lunghissima, che affonda nei tempi profondi della civilizzazione occidentale, dagli antichi sofisti e ai loro allievi romani, ai sapienti religiosi e laici di età medievale e moderna. Non era nuova, in occidente (come in altre culture), la considerazione dell’inumanità dell’istituto schiavile. Ciò che è inedito è il fatto che questa disapprovazione si concretizza – alla fine del XVIII in America, in Inghilterra e poi nel resto dell’Europa - nella richiesta della sua abolizione. Non era naturale pensarlo: lo dimostra il fatto che mai (a nostra conoscenza) tale proposito fu espresso nel corso delle numerosissime rivolte che hanno costellato la storia della schiavitù sin dai tempi antichi.

    Il movimento transnazionale che nacque alla fine del XVIII secolo, invece, trasformò questa richiesta in un obiettivo politico con una ostinazione e un’intelligenza rimarchevoli: perché la seconda stranezza di questa rivoluzione consiste nella sua lunga durata. Le date ufficiali (se ci limitiamo a queste) ci dicono che durò quasi un secolo, dal 1792, data nella quale la Danimarca per prima proclamò l’illegittimità della Tratta, fino al 1888, quando crollò l’ultimo baluardo dello schiavismo occidentale, il Brasile dell’imperatore Pietro II.

    Lo storico ricostruisce l’attività politica di questo movimento, che seppe vincere nonostante fosse minoritario e incappasse in numerose battute d’arresto. Le maggioranze (soprattutto quelle inglesi e francesi) agitavano il rischio delle spaventose crisi economiche che la liberazione degli schiavi avrebbe comportato e la paura delle ribellioni delle colonie. Oppure sventolavano la bandiera nazionalistica, come in Francia, dove si chiedeva ai cittadini di non cedere alle idee provenienti dalla nemica di sempre, l’Inghilterra.  Al suo interno, il movimento riusciva a tenere insieme anime diverse: gruppi pietisti americani e inglesi, élites illuminate, intellettuali francesi (ma anche italiani, come abbiamo visto) spesso ostili alla religione, a volte masse operaie, come accadde a Manchester dove ben undicimila cittadini votarono il documento abolizionista. Non necessariamente gli abolizionisti erano anche anticolonialisti. Molti sostenevano un dominio coloniale soft, limitato per esempio al controllo degli empori costieri. Per giunta, dopo la seconda metà dell’Ottocento, quando ci si rese conto che le leggi europee non avevano messo fine al fenomeno, gli abolizionisti spinsero per intervenire sui regni africani anche con i cannoni. (La révolution abolitionniste. Entretien avec l’historien Olivier Grenouilleau).

     

    Una memoria che divorzia dalla storia

    In effetti, il mondo extra-europeo non mostrò grande entusiasmo per questa iniziativa. La Cina abolì la schiavitù nel 1909. Il mondo musulmano – teatro della seconda grande Tratta – fu ancora più restio: l’Arabia Saudita la abolì nel 1962 e la Mauritania nel 1980. Questa refrattarietà generale, il persistere della condizione schiavile, illegalmente o sotto altre forme giuridiche, la stessa ostinata avversione alla liberazione degli schiavi che ci racconta la storia americana, dovrebbero insegnarci quanto fu difficile e meritorio avviare e realizzare il percorso politico e culturale che condusse alla illegittimità della schiavitù e alla sua condanna come crimine contro l’umanità.

    Oggi, invece, quel periodo viene letto con la lente di un ideale antischiavista, antirazzista e anticolonialista del tutto contemporanea. Usata in questo modo, diventa una lente deformata che occulta i protagonisti di una lotta che ci ha consegnato un’eredità che dovremmo giudicare eccezionale, sia alla luce della storia dell’Occidente, sia nel confronto fra Occidente e resto del mondo. Jessica Moody ci informa che i movimenti antirazzisti puntano a ottenere una Giornata della memoria, esemplata sul modello di Auschwitz (The persistence of memory.Remembering Slavery in Liverpool, “Slaving Capital of the World”, Liverpool U.P, 2020, pp. 181-183). Questo paragone, proprio perché voluto dai movimenti attuali, è illuminante. Quella giornata fu scelta dopo una lunga discussione fra le varie proposte. Venne accettata perché, pur ricordando il genocidio, apriva al futuro (la liberazione del campo). E resta ancora oggi, nonostante la storiografia abbia da tempo messo in luce i delitti dei quali l’Armata Rossa si macchiò nel corso della sua avanzata. All’opposto, sembra che i tabù dello schiavismo impediscano di trovare una data comune, capace al tempo stesso di ricordare le sofferenze passate e di spingere gli uomini a guardare a un futuro migliore. Ne è una buona prova il dibattito svoltosi in occasione della scelta della data della “Giornata nazionale della memoria”, prevista nella legge Taubira: dopo aver scartato tutte le date possibili - dalla rivoluzione di Haiti comunque collegata alla Rivoluzione francese e ai suoi proclami, all’abolizione definitiva del 1848 – i parlamentari francesi hanno ripiegato sul 10 maggio, data della promulgazione della legge Toubira.

    Una giornata della memoria istituita per celebrare se stessa è il simbolo, ironicamente istruttivo, di una memoria che ha tagliato i ponti con la storia.

     

    *Ringrazio Luigi Cajani per i suggerimenti e il controllo attento

  • L'assalto alle statue di Colombo

    di Daniele Boschi

     

    Immagine 1. Colombo BostonFig.1: La statua di Cristoforo Colombo a Boston (Massachusetts) decapitata lo scorso 10 giugno. Fonte Un corposo dossier sulla Guerra delle statue

    Historia Ludens è intervenuta più volte sulla questione dell’abbattimento delle statue, con articoli sugli attacchi ai monumenti avvenuti a partire dal giugno scorso, sul dibattito sviluppatosi intorno alla cosiddetta “guerra delle statue” e sulla proposta di abbattere la statua di Costantino il Grande; abbiamo pubblicato inoltre una sitografia analitica e la presa di posizione degli storici che lavorano al progetto Contested Histories dell’IHJR (Institute for Historical Justice and Reconciliation). Ma l’analisi degli eventi più recenti rimarrebbe sicuramente incompleta, se tralasciasse il fatto che la principale vittima della furia iconoclasta, scatenatasi negli USA dopo l’uccisione di George Floyd lo scorso 25 maggio, non è stata il generale Robert Lee, né Jefferson Davis, né alcun altro dei Confederati, ma piuttosto Cristoforo Colombo.
    Il navigatore genovese, pur non avendo mai messo piede sul territorio attuale degli Stati Uniti, è considerato infatti dai suoi detrattori come una figura simbolo del colonialismo, dello schiavismo e del genocidio dei nativi americani. Per questo motivo, circa trenta statue di Colombo sono state vandalizzate, abbattute o rimosse tra il 9 giugno e il 31 luglio di quest’anno, un numero molto più alto di quelle di ognuno dei Confederati preso singolarmente. E non è affatto detto che la vicenda si chiuda così, dato che ci sono ancora svariate decine di monumenti dedicati a Colombo ancora al loro posto, sparsi sul territorio statunitense (lo si deduce confrontando questo elenco con quello delle statue abbattute o rimosse).

     

    Colombo nella memoria degli Stati Uniti

    Gli attacchi alle statue di Colombo negli Stati Uniti hanno alle spalle una lunga storia, che credo sia utile ricostruire sommariamente (per una analisi più approfondita si veda A. Brusa, Colombo eroe o malfattore? in M. Gazzini, Il falso e la storia, Feltrinelli, Milano 2020, in corso di stampa).
    Va tenuto presente anzitutto che la figura di Cristoforo Colombo ha avuto un ruolo molto importante nella definizione dell’identità e delle origini degli Stati Uniti d’America. Nel corso dell’800 Colombo è divenuto l’oggetto di un autentico culto, sia da parte delle élites sia nella cultura popolare della nuova nazione nordamericana. Un importante e ben noto contributo alla costruzione del mito di Colombo fu la celebre biografia di Washington Irving, A History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828), alla quale si devono buona parte degli elementi costitutivi dell’immagine eroica e romantica del navigatore genovese, tramandata a generazioni di scolari fino a non molto tempo fa. A ciò si aggiunge il fatto che, a partire dalla fine del XIX secolo, Cristoforo Colombo è stato innalzato a figura simbolo degli immigrati italiani negli USA e della loro travagliata integrazione in quel paese. Fu anche in seguito alle pressioni esercitate da un influente uomo d’affari italo-americano, Generoso Pope, che il Presidente degli Stati Uniti F. D. Roosevelt riconobbe nel 1934 il Columbus Day (12 ottobre)come festa nazionale[1].

    A Colombo sono dedicate strade, piazze e monumenti in tutti gli Stati Uniti. Numerose contee e città – tra le quali le capitali dell’Ohio e della South Carolina – e una prestigiosa università – la Columbia University di New York - portano il suo nome, o quello da lui derivato di Columbia. In suo onore il territorio della capitale degli Stati Uniti si chiama, appunto, District of Columbia.
    In netto contrasto con questo glorioso passato, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso la figura dell’esploratore genovese è divenuta oggetto di dure critiche, sia da parte della cosiddetta storiografia ‘revisionista’, sia da parte degli attivisti dei movimenti che si battevano per i diritti dei nativi americani e di altre minoranze[2]. Si è cominciata allora a diffondere una nuova immagine di Colombo, visto non più come il grande navigatore che ha scoperto l’America, ma come l’uomo che ha avviato lo sfruttamento e il genocidio degli abitanti originari del Nuovo Mondo. 

    La decostruzione del mito di Colombo ha avuto varie ripercussioni, anche per effetto delle campagne organizzate dalle associazioni dei nativi americani. Come è ben noto, numerose città e stati, a partire dal 1990, hanno abolito il Columbus Day, rimpiazzandolo in molti casi con l’Indigenous Peoples’ Day(o Native Americans’ Day)[3]. E gruppi di attivisti hanno cominciato a chiedere la rimozione delle statue e dei monumenti dedicati a Colombo, che sono stati talora oggetto di vandalismo, soprattutto in questi ultimi anni, fino all’escalation avvenuta a partire dal giugno scorso.

     

    Immagine 2. Washington IrvingFig.2: Washington Irving (1783-1859), autore della History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828), alla quale risalgono buona parte degli elementi costitutivi dell’immagine eroica e romantica del navigatore genovese. Fonte Colombo nella memoria storica dell'America latina

    È utile ricordare che anche nell’America latina la fortuna di Colombo ha seguito una parabola abbastanza simile a quella descritta negli USA. A partire dal secondo decennio del ‘900, diversi Stati dell’America centro-meridionale hanno celebrato il 12 ottobre come Día de la Raza, per ricordare l’incontro e la contaminazione tra spagnoli e nativi americani come elemento fondante della propria identità nazionale. Ma a partire dalla fine del secolo scorso, molti governi hanno cambiato il nome di questa ricorrenza, che è diventata ad esempio in Venezuela il Día de la resistencia indígena e in Argentina il Día del Respeto a la Diversidad Cultural. Inoltre, alcune statue di Cristoforo Colombo sono state abbattute o rimosse, per essere poi sostituite con monumenti dedicati ai protagonisti della resistenza dei nativi contro i colonizzatori europei. Nel 2015, a Buenos Aires, una statua di Juana Azurduy de Padilla, che lottò per l’indipendenza della Bolivia, ha sostituito un monumento del navigatore genovese. E nello stesso anno a Caracas è stato inaugurato un monumento a Guaicaipuro, leader della resistenza ai conquistadores, sullo stesso posto dove prima si ergeva una statua di Colombo, abbattuta nel 2004.
    La trasformazione dell’immagine di Colombo avvenuta negli ultimi decenni è un fenomeno molto complesso. Infatti, come ha messo in evidenza Antonio Brusa (nel saggio che ho già citato) l’azione demistificatrice, tipica di una storiografia critica, è stata accompagnata da un curioso processo di mitopoiesi “che mentre distrugge il vecchio mito – del Colombo modello di cittadinanza – ne produce uno nuovo, del Colombo simbolo del dominio occidentale sul pianeta e concentrato di crimini contro l’umanità”[4]. C’è inoltre un evidente rapporto – secondo Brusa – tra questo processo e lo stretto connubio tra storia e identità, che si è affermato in tutte le società nel passaggio dall’età della guerra fredda al caotico mondo globale dei nostri tempi. Come vedremo, il dibattito statunitense sugli assalti alle statue di Colombo conferma questa interpretazione.

     

     Colombo nei media americani

    Per esaminare le reazioni e i commenti ai recenti attacchi alle statue di Colombo negli Stati Uniti, diamo un rapido sguardo ad alcuni dei principali quotidiani statunitensi: essi rivelano un’opinione pubblica divisa e non di rado perplessa.
    Alcuni commentatori e, soprattutto, molti amministratori locali non sembrano nutrire molti dubbi sul fatto che i monumenti a Cristoforo Colombo vadano rimossi. Ad esempio, lo scorso 23 luglio, il “Chicago Tribune”, di fronte alle pressanti richieste di rimuovere le statue del navigatore genovese dagli spazi pubblici della città, ha pubblicato un editoriale il cui titolo dice già tutto: “Christopher Columbus was a fraud. He doesn’t deserve statues or a holiday in his honor” (Su Cristoforo Colombo ci hanno ingannati. Non merita statue né una festa in suo onore). L’autrice dell’articolo, Dahleen Glanton, afferma che i libri scolastici, sui quali lei stessa e i suoi concittadini si sono formati, sono pieni di bugie riguardo alla cosiddetta “scoperta dell’America”; e fornisce questa breve ma densa descrizione della figura e delle imprese di Colombo:

    Egli fu certamente un esploratore coraggioso e di successo, ma fu anche un uomo malvagio e brutale che non mise mai piede in quel posto dove ora sono gli Stati Uniti. Sbarcò per caso nei Caraibi, lasciando un retaggio di razzie e schiavitù, per poi essere alla fine arrestato e tornare in Spagna in catene, privato della sua nobiltà. Per la maggior parte dei bianchi americani, Colombo è l’intrepido conquistatore che diede inizio alla colonizzazione transatlantica, che ha reso possibile la loro presenza qui. Ma per molti nativi americani, egli rappresenta il perfetto esemplare di un barbaro colonizzatore. Il sanguinoso processo dell’occupazione coloniale delle Americhe cominciò con lui. Sulla scia della colonizzazione un numero enorme di nativi americani furono uccisi, ridotti in schiavitù o altrimenti cacciati dalla loro terra” (le traduzioni di questo e degli altri brani sono mie).

    Altri editorialisti si sono espressi con maggiore cautela. Per esempio, sullo stesso quotidiano (“Chicago Tribune”, 22/07/2020), Blair Kamin aveva manifestato forti perplessità circa la richiesta di rimuovere le statue di Colombo:

    | Per i suoi difensori, che comprendono molti membri della comunità italo-americana di Chicago, Colombo è ben rappresentato come un audace, pioneristico esploratore che aprì la strada alla prosperità e al progresso sia in America che in Europa. Eppure alcuni recenti studi storici lo dipingono come uno spietato colonizzatore e sfruttatore dei nativi. Per alcuni storici, egli è entrambe le cose. Data questa diversità di opinioni, la questione se sia giusto onorarlo si colloca, almeno a mio giudizio, in una zona grigia, diversa dal caso, facile da risolvere, dei monumenti dei capi dei Confederati, che combatterono sia per distruggere l’Unione, sia per perpetuare la schiavitù.

     

    Colombo e le associazioni dei nativi americani

    D’altro canto, come era logico aspettarsi, l’abbattimento o la rimozione delle statue di Colombo sono stati appoggiati, o addirittura promossi, dalle associazioni dei nativi americani.
    Per esempio, dopo che una statua di Colombo è stata decapitata a Boston il 10 giugno scorso, Jean-Luc Pierite, presidente del North American Indian Center, ha dichiarato che quel monumento rappresentava “la violenza di stato subita dai neri e dai nativi americani per oltre 500 anni” e che qualsiasi tentativo di restaurarlo avrebbe incontrato l’opposizione di queste due comunità. A St. Paul nel Minnesota, Mike Forcia, esponente dell’American Indian Movement, ha promosso e organizzato lui stesso l’abbattimento della statua di Cristoforo Colombo nei pressi dello State Capitol. A Baltimora, dopo lo smantellamento di un’altra statua del navigatore genovese il 4 luglio scorso, Jessica Dickerson, rappresentante dell’associazione Indigenous Strong, ha commentato l’evento con queste parole: “Noi non otteniamo molte vittorie, giusto? Questa è una piccola, ma grande vittoria, [Colombo] è stato un assassino per il mio popolo”.

     

    Immagine 3. Colombo Baltimora 1Fig.3: La statua di Cristoforo Colombo nella zona di Little Italy a Baltimora (Maryland), prima che fosse abbattuta il 4 luglio scorso. Fonte Colombo e le comunità italiane

    Vigorose sono state invece le lamentele e le proteste dei rappresentanti delle comunità italo-americane.
    A Baltimora John Pica Jr., presidente dell’associazione Little Italy’s Columbus Day Commemoration, ha dichiarato che la statua di Colombo appena abbattuta era un monumento agli italo-americani e che questi continueranno comunque a celebrare il Columbus Day. A Columbus, capitale dell’Ohio, dopo l’annuncio che la statua dell’esploratore genovese sarebbe stata rimossa dalla West Broad Street, il Columbus Piave Club ha rilasciato una vibrante dichiarazione di protesta, lamentando di non essere stato nemmeno consultato dalle autorità municipali e ricordando il contributo dato dalla comunità italo-americana all’acquisto e alla manutenzione della statua. Non poteva mancare, anche in questo caso, un riferimento al Columbus Day, una ricorrenza con la quale – si legge nella dichiarazione - si celebrano “gli italo-americani e le positive realizzazioni con le quali gli italiani hanno dato il loro contributo alla nostra società”.
    A questo genere di interventi si replica dal fronte opposto sostenendo che gli italo-americani potrebbero benissimo scegliere, come simbolo della propria identità, un altro personaggio storico meno controverso; tra i nomi proposti ci sono Dante Alighieri, Marco Polo, Michelangelo, Garibaldi, Sacco e Vanzetti, Enrico Fermi[5].
    Lo scontro tra i due opposti gruppi etnici (o tra due gruppi che si presumono tali) e tra le loro storie e memorie contrapposte, è talmente forte da condizionare – come abbiamo visto - anche il giudizio di osservatori indipendenti, e conferma in pieno le osservazioni di Antonio Brusa circa il ruolo centrale che ha assunto la questione dell’identità etnica o nazionale nella cultura storica diffusa.

     

    La voce degli storici: la revisione del mito

    Anche gli storici hanno partecipato al dibattito pubblico sulle statue e sulla figura di Colombo, pur svolgendo in esso un ruolo meno importante rispetto a quello che hanno avuto nelle discussioni sui monumenti dei Confederati[6].
    Tra i commenti dedicati agli attacchi alle statue del navigatore genovese, troviamo ad esempio quello dello storico Michael D. Hattem sul “Washington Post”. Hattem ha posto l’accento sul fatto che la storia del mito di Colombo “rivela in che modo la nostra memoria collettiva del passato venga costruita e cambi col passare del tempo, piuttosto che essere una intrinseca espressione del passato”. Egli ha quindi rievocato le principali tappe dell’evoluzione del mito di Colombo negli Stati Uniti: dall’uso del termine Columbia come personificazione femminile dell’America fin dagli anni ’60 del Settecento alle grandi celebrazioni organizzate nel 1792 in occasione del tricentenario della scoperta del Nuovo Mondo; dall’esaltazione di Colombo nella letteratura e nei libri di testo scolastici fino all’uso politico della sua figura nel corso dell’Ottocento, sia per legittimare l’espansione degli Stati Uniti verso Ovest, sia per facilitare l’assimilazione culturale e politica della sempre più numerosa comunità italo-americana. Ma proprio perché la memoria collettiva si evolve nel tempo, non c’è da sorprendersi se personaggi che per un certo periodo sono stati ingigantiti e celebrati cadano poi in disgrazia quando cambia il contesto culturale o politico.
    Ci si può chiedere, però, se la sostituzione dell’ottocentesca immagine eroica di Colombo con l’antitetica rappresentazione del navigatore genovese come una specie di assassino e mostro genocida sia veramente utile alla comprensione della storia di questo personaggio e dei suoi tempi.
    Il giudizio degli storici, naturalmente, è più cauto e sfumato rispetto a quello totalmente negativo che si è diffuso in una parte dell’opinione pubblica. Kris Lane, che insegna storia alla Tulane University di New Orleans, è intervenuto più volte negli ultimi anni nel dibattito pubblico attorno alla figura di Colombo. Nel 2015 ha scritto un editoriale sul “Washington Post” per confutare ‘cinque miti’ riguardanti l’esploratore genovese, tra i quali vi è quello secondo cui egli sarebbe responsabile del genocidio dei nativi delle isole dei Caraibi. In proposito, Lane ha riconosciuto che non vi sono dubbi sul fatto che Colombo abbia oppresso la popolazione di quelle isole e abbia ridotto in schiavitù quasi 1500 nativi per deportarli e venderli in Europa. Peraltro, Colombo non dovette inventare nulla di nuovo, poiché non fece altro che seguire l’esempio dei Portoghesi e degli Spagnoli, che già da molto tempo erano attivi nel commercio degli schiavi. L’accusa di genocidio, invece, va circostanziata, perché Colombo non aveva nessuna intenzione di sterminare i nativi dei Caraibi: voleva piuttosto avere dei sudditi da tassare e governare. Si può parlare quindi di genocidio solo come risultato involontario delle decisioni prese da Colombo e dai suoi familiari.
    Dopo gli attacchi ai monumenti avvenuti nel giugno scorso, Lane ha rilasciato una lunga e interessante intervista, nella quale ha distinto con precisione le caratteristiche di Colombo come personaggio storico da quelle del mito costruito nell’Ottocento attorno alla sua figura: Colombo fu certamente un grande navigatore, anche se sbagliò nel ritenere di poter arrivare in Asia; cercava l’oro, ma forse più per dimostrare ai sovrani spagnoli l’utilità della sua impresa che per avidità personale; diede inizio nel Nuovo Mondo al commercio degli schiavi, ma questa era una pratica molto diffusa - anche se non universalmente accettata - alla fine del ‘400; fu un uomo del suo tempo, ma fece comunque delle scelte in base alla sua personale visione del mondo. Attorno alla sua figura è stato costruito un mito e ora che esso si è rivelato in buona parte privo di fondamento, è naturale che gran parte della gente non senta più il bisogno di celebrare il navigatore genovese e che molti vogliano disfarsi delle sue statue.

     

    La rilevanza storica di Colombo

    Molto diverso è invece il giudizio dello storico italiano Matteo Casini, che insegna all’Università del Massachusetts. Intervistato dal “Boston Globe”, Casini ha affermato che la figura di Colombo “non deve essere vista per ciò che egli ha fatto più di 500 anni fa, ma, prima di tutto, come un simbolo per gli italiani che cominciarono ad arrivare qui alla fine dell’Ottocento”. Ed ha aggiunto:

    Essi combatterono, come tutti sanno, una battaglia estremamente dura per l’uguaglianza razziale e per il riconoscimento sociale, molto simile a quella degli africani e dei nativi americani. La festa del ‘Columbus Day’ e le statue a dedicate a Colombo negli ultimi 150 anni, devono essere considerate come ‘armi dell’orgoglio’ di una minoranza che voleva conquistare il suo posto nella ‘terra delle opportunità’, mediante il duro lavoro, l’accettazione delle regole comuni e una piena integrazione.

    Fa notare poi un altro storico, William J. Connell, che anche se tutti i monumenti dedicati a Colombo dovessero scomparire, il navigatore genovese rimarrebbe ancora con noi: “E la ragione è molto semplice: il 12 ottobre del 1492 è la data più importante nella storia dell’umanità, a partire almeno dall’invenzione dell’agricoltura”. È infatti da quella data che ha avuto inizio il mondo globalizzato nel quale oggi viviamo. È vero, Colombo diede inizio nel Nuovo Mondo alla deportazione degli schiavi e alla spoliazione delle terre dei nativi. Ma queste colpe non sono soltanto sue: sono infatti i due ‘peccati originali’ della Conquista e degli stessi Stati Uniti d’America.
    Data la vivacità del dibattito, e considerando la grande quantità di statue del navigatore genovese che sono tuttora in piedi, tutto lascia prevedere che negli Stati Uniti le discussioni su Colombo e sul Columbus day si protrarranno ancora per molto tempo.

     

    Immagine 4. Contro il Columbus DayFig.4: Studenti di origine messicana manifestano contro il “Columbus Day”. Fonte Il dibattito italiano: il "processo" a Colombo

    Gli attacchi alle statue e alla figura di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti hanno avuto più di una eco anche in Italia. Se in alcuni casi vi è stata una piena adesione alla demolizione della figura eroica dell’esploratore genovese, non sono però mancate diverse voci critiche rispetto a questo completo capovolgimento dell’immagine tradizionale di Colombo e alle sue implicazioni per il tipo di cultura storica veicolata dai media e dalle università.
    Citerò come esempio del primo atteggiamento il Processo a Cristoforo Colombo messo in scena da Jacopo Fo e Mario Pirovano presso la Libera Università di Alcatraz e diffuso in occasione del Columbus Day del 2017. Secondo i promotori dell’iniziativa “Cristoforo Colombo, un italiano, era un assassino, torturatore, schiavista, e bisogna rompere questa italica censura sulla verità dei fatti e insegnare ai ragazzini che di Colombo c’è da vergognarsi che fosse italiano, tale quale a Totò Riina” (così si legge nella presentazione del video). Il processo – molto ben realizzato e facilmente spendibile a livello didattico - vede Mario Pirovano nel ruolo dell’avvocato difensore, mentre Jacopo Fo sostiene l’accusa. Documenti alla mano, Jacopo Fo presenta tutti i principali capi d’accusa contro Colombo, mentre Pirovano cerca inutilmente di difenderlo. Il tutto si conclude con la damnatio memoriae del genovese, eseguita coprendo la sua statua con un sacco della spazzatura.
    In una diversa prospettiva, il “processo a Colombo” è stato di recente oggetto di un saggio dello storico Antonio Musarra. Lo stesso autore ha fornito sul web una accurata presentazione del suo libro (farò qui riferimento soltanto ad essa). Musarra parte dal fatto che il giudizio degli storici su Cristoforo Colombo negli ultimi trent’anni è cambiato radicalmente: Colombo non è più visto ormai come il sognatore dedito ad oltrepassare i limiti del mondo conosciuto, ma come il primo dei conquistadores, come colui che ha dato inizio all’occupazione delle Americhe, che avrebbe poi provocato lo sterminio di milioni di persone. E tuttavia l’assalto alle statue di Colombo, che si configura come una vera e propria damnatio memoriae, suscita – secondo Musarra - molte perplessità. In primo luogo perché processare la storia non è soltanto sbagliato, anzi si può rivelare pericoloso. In secondo luogo perché le accuse mosse a Colombo sono, sotto vari aspetti, esagerate: non ha senso, ad esempio, accusarlo di genocidio, dato che non gli passò mai per la testa di sterminare i nativi americani. In realtà, a coloro che deturpano o abbattono le statue del navigatore genovese, così come a molte amministrazioni americane, la figura storica di Colombo non interessa veramente: egli è assurto a simbolo della violenza colonizzatrice dell’uomo bianco e la generale condanna nei suoi confronti rivela anche la persistente difficoltà degli Stati Uniti di fare i conti col proprio passato.

     

    Immagine 5. Colombo ProvidenceFig.5: Una statua di Cristoforo Colombo a Providence (Rhode Island) vandalizzata in occasione del “Columbus Day” dell’ottobre 2019. Fonte Il "relativismo totalitario"

    Un approccio critico, ma di altra natura, è stato poi quello di Raffaele Romanelli, che in una lettera al presidente e al comitato direttivo della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (pubblicata sul “Foglio” del 24/06/2020) ha denunciato il “relativismo totalitario” che starebbe prendendo piede nel mondo accademico anglosassone. Con riferimento proprio ai recenti attacchi alle statue e alla figura di Cristoforo Colombo, Romanelli ha messo in evidenza come addebitare a Colombo tutti i crimini e le sopraffazioni che hanno fatto seguito alla sua “scoperta” significa cancellare il principio della responsabilità personale - che è uno dei capisaldi dello stato di diritto e dei diritti dell’uomo e del cittadino – per sostituirlo col concetto di una responsabilità di gruppo: un gruppo, quello dei bianchi occidentali, che tende ad assumere connotati genetici e razziali, e che quindi diventa, nel suo insieme, colpevole dello sterminio dei nativi americani e della schiavitù dei neri. Secondo Romanelli questa tendenza si collega a un più generale clima di intolleranza, che si sta diffondendo negli ambienti universitari americani, canadesi e britannici, e che si manifesta anche con la messa al bando di chiunque non accetti il dogma imperante secondo cui le differenze di genere non hanno una base biologica. Si sta affermando, insomma, una sorta di “relativismo totalitario”, nel senso che la verità viene presentata come relativa/soggettiva, in quanto insensibile ai dati (storici o biologici), ma viene al tempo stesso imposta con le tecniche della persecuzione totalitaria.
    È appena il caso di ricordare che la lettera di Romanelli ha preceduto di sole due settimane la Letter on Justice and Open Debate (pubblicata il 07/07/2020 sullo “Harper’s Magazine”) nella quale 153 intellettuali americani hanno denunciato il pericolo che le giuste richieste di una maggiore giustizia, eguaglianza ed inclusione nella società statunitense possano generare anche una crescente intolleranza nel mondo della cultura, dai giornali alle case editrici alle università. Un’analisi di questa lettera e del dibattito che ha suscitato ci porterebbe molto lontano dall’argomento di questo articolo. Ma riprenderemo certamente, su Historia Ludens, la questione della “cancel culture” (sulla quale si veda intanto The Harper’s ‘Letter,’ cancel culture and the summer that drove a lot of smart people mad, sul “Washington Post” del 23/07/2020).

     

    Piste di lavoro didattico

    L’attacco alle statue di Colombo e il capovolgimento del mito costruito attorno alla sua figura sono anzitutto un’espressione del malessere, delle contraddizioni e dei mutamenti che si sono sviluppati nella società e nella cultura degli Stati Uniti e del mondo occidentale negli ultimi decenni. Sebbene la richiesta di una maggiore giustizia sociale e di un definitivo superamento dell’interpretazione tradizionale delle imprese di Colombo sia assolutamente condivisibile, la furia vendicatrice che si è scatenata nei mesi scorsi sembra essere un ostacolo a una riflessione equilibrata.
    A livello didattico, gli assalti alle statue di Colombo possono rappresentare un’ottima occasione per sviluppare ricerche e dibattiti tra gli studenti, non solo negli Stati Uniti ma anche in Italia, dato che il navigatore genovese è stato a lungo celebrato anche da noi come una figura simbolo della storia e dell’identità nazionale. Molti sono gli interrogativi e i problemi che potrebbero essere posti al centro di un percorso didattico. Ad esempio i seguenti: ha ancora senso parlare di una “scoperta” dell’America? è fondata l’accusa di genocidio mossa nei confronti dell’esploratore genovese? È giusto abbattere o rimuovere le statue di Colombo? Che cosa dovremmo fare se anche qui in Italia qualcuno proponesse di rimuoverle? Fino a che punto i libri di testo scolastici hanno superato l’immagine tradizionale di Colombo e delle sue imprese? È legittimo fare processi ai grandi protagonisti della storia?
    Una seconda occasione, collegata a questa, è data dalla possibilità di riflettere sul nesso storia-memoria-politica. Il caso americano mostra come non solo lo stato, ma anche le comunità (in questo caso etniche) facciano pressione sulla memoria collettiva (i monumenti, le festività) e la storia scolastica (le “bugie dei manuali”) e come la storia e gli storici siano in reale difficoltà a far sentire la propria voce. In ogni caso, questo argomento si aggancerebbe al filone didattico del rapporto fra storia e memoria che, in Italia, rischia di essere circoscritto alle celebrazioni del 27 gennaio e dell’11 febbraio.
    Infine, sono di grande interesse le riflessioni sviluppate, in margine al “processo” a Colombo, da Antonio Musarra e da Antonio Brusa sugli stereotipi, sull’epistemologia naïve e sulla difficoltà di far comprendere, anche al di fuori di ristrette cerchie intellettuali, la complessità dei processi storici. A partire dagli stessi fatti e documenti riguardanti la vicenda di Colombo, il dibattito storico e il dibattito pubblico giungono a conclusioni differenti:

    | Quest’ultimo si conclude con una condanna senza appello, mentre la controversia storica può giungere a conclusioni differenziate, di comprensione varia del “fenomeno Colombo”, e – soprattutto – rifiuta a priori l’alternativa eroe/malfattore, che tanto appassiona la gente[7].

    La comunicazione fra ricerca accademica e società – sostiene Brusa - sembra aver funzionato nella divulgazione di alcune conoscenze, ma non nella trasmissione delle capacità di elaborarle. Si è costretti ancora una volta a constatare una preoccupante divaricazione tra storiografia e senso comune storico, tra sapere accademico e cultura popolare, tra una concezione della società e dello sviluppo storico come fenomeni complessi e una visione semplicistica della storia basata su poche convinzioni e sull’importanza decisiva di singoli eventi e personaggi chiave.
    È davvero auspicabile quindi che l’insegnamento della storia possa tener conto delle problematiche e delle contraddizioni che il “processo” a Colombo, e più in generale la “guerra delle statue”, hanno fatto emergere nel dibattito pubblico, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo occidentale.

     

    [1] Il Columbus day divenne poi una vera e propria festa federale nel 1968 (vedi ancora la voce di Wikipedia citata nel testo).

    [2] Oltre al saggio già citato di Antonio Brusa, vedi H. Schuman, B. Schwartz, H. d’Arcy, Elite Revisionists and Popular Beliefs: Christopher Columbus, Hero or Villain?, “Public Opinion Quarterly”, vol. 69, No. 1, Spring 2005, pp. 2-29.

    [3] Vedi Luke O'Neil, Goodbye, Columbus: holiday in decline as brutal legacy re-evaluated, “The Guardian (International Edition)”, 08/10/2018, e la già citata voce di Wikipedia sul Columbus Day.

    [4] A. Brusa, Colombo eroe o malfattore?, cit.

    [5] Vedi ad esempio: Eric Zorn, Ethnic pride, yes. Columbus Day? No, “Chicago Tribune”, 03/03/2020; Chris Leblanc, As Italian Americans in Boston debate the legacy of Christopher Columbus, some want his statue – recently beheaded – permanently gone, “Chicago Tribune”, 17/06/2020; The false narrative about Christopher Columbus, “Chicago Tribune”, 21/07/2020. 

    [6] Questa è l’impressione che ho ricavato dalle fonti più facilmente accessibili sul web. Ma naturalmente è impossibile passare al setaccio lo smisurato numero di quotidiani e riviste online, blog e siti internet che trattano argomenti storici.

    [7] A. Brusa, Colombo eroe o malfattore?, cit.

  • La “guerra delle statue”: dibattito pubblico e pratica didattica*

    di Daniele Boschi

    Statua di Jefferson Davis1. La statua di Jefferson Davis, presidente degli Stati Confederati d’America, a Richmond (Virginia). È una delle tante statue buttate giù dai manifestanti nello scorso mese di giugno sull’onda del Black Live Matters. (Fonte)

    1. IL DIBATTITO ITALIANO

    Il passato non si cancella, si studia

    I principali organi di stampa italiani hanno pubblicato articoli che esprimevano critiche alquanto aspre, o almeno forti perplessità, sulla furia iconoclasta scatenatasi negli Usa e in altri paesi dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis lo scorso 25 maggio. “Abbattono le statue e non i propri cervelli. Gli anti-razzisti cancellano la storia”, titolava ad esempio il quotidiano “Libero” lo scorso 12 giugno, introducendo un lungo articolo in cui Renato Farina deplorava “l’onda della purificazione politically correct” che, non trovando argini o dighe, rischierebbe di travolgere gran parte della tradizione e del patrimonio culturale dell’Occidente. Gli faceva eco quel giorno stesso sul “Corriere della Sera” Pierluigi Battista, deprecando l’ossessione di rendere puro il passato, che – a suo dire - spinge non soltanto ad abbattere o ad imbrattare statue come quelle di Cristoforo Colombo e di Winston Churchill, ma anche a mettere sotto accusa un film come Via col vento e a censurare Dante, Shakespeare e Bizet in quanto autori politicamente scorretti. Pochi giorni dopo, sul “Messaggero” del 20 giugno, Carlo Nordio, prendendo spunto dagli attacchi alle targhe di via dell’Amba Aradam e al busto del generale Baldissera a Roma, arrivava all’agghiacciante conclusione che “l’intero Occidente rischia di perdersi nella sua smania di autodissoluzione”.

    Più moderate e riflessive, ma comunque critiche, erano le opinioni espresse sul quotidiano “La Repubblica” da Marco Belpoliti (l’11 giugno 2020) e da Benedetta Tobagi (il successivo 13 giugno). Il primo affermava che “l'opera di cancellazione della storia è sempre un pericolo” e che “la storia del passato si studia e s'insegna, mentre nel presente è solo la lotta politica che serve a cambiare lo stato delle cose”. La seconda sosteneva che “è possibile scansare gli eccessi del politicamente corretto e incanalare l'ardore demolitorio, salvando le capre della storia e i cavoli della sacrosanta protesta, creando, per di più, luoghi di memoria ‘dinamici’ nelle nostre città”. In che modo? Per esempio, accogliendo il suggerimento di Banksy di rimettere al suo posto la statua dello schiavista Edward Colston, integrandola con il gesto del suo abbattimento.

    Bozzetto di Bansky2. Il bozzetto con il quale Banksy ha illustrato la sua proposta di rimettere in piedi la statua di Edward Colston (abbattuta a Bristol lo scorso 7 giugno), collocando attorno ad essa alcune statue di manifestanti raffigurati nell’atto di tirar giù lo schiavista inglese con delle corde. (Fonte)

    Gli attacchi alle statue spingono l’Occidente a fare i conti con il proprio passato

    Per trovare commenti che manifestano aperta simpatia e condivisione per gli attacchi alle statue bisogna allontanarsi dagli organi di stampa mainstream.

    Per esempio, sull’ “Internazionale” la scrittrice Silvia Ballestra ha spiegato (il 16 giugno 2020) le ragioni per cui, a suo avviso, Indro Montanelli non merita la statua che gli è stata dedicata a Milano (e che era stata imbrattata qualche giorno prima), mentre il giorno seguente la sociologa Francesca Coin ha sottolineato con forza che “la lotta iconoclasta sta costringendo la società occidentale a fare i conti con il razzismo strutturale della sua storia”.

    Sul “Manifesto” (12/06/2020), Alessandro Portelli ha messo in evidenza che una statua, un obelisco, il nome di una strada o di una piazza non servono a ricordare che una persona è esistita, ma a celebrarla; le ragioni per cui negli USA si vogliono rimuovere le statue dei Confederati sono le stesse per le quali noi non dovremmo tollerare l’obelisco che proclama “Mussolini Dux” ai Fori Imperiali. La memoria storica non è in pericolo: in Germania non ci sono statue di Hitler, ma tutti se lo ricordano benissimo.

    Infine, sull’ “Avvenire” (11/06/2020) Franco Cardini ha auspicato che gli attacchi alle statue di Leopoldo II in Belgio e di Winston Churchill nel Regno Unito spingano finalmente a ricordare i molti crimini commessi dall’Occidente colonialista e schiavista: “troppo comodo sarebbe, anche nelle scuole, continuar a condannare genericamente il colonialismo senza conoscerlo e senza studiarlo, fingendo di non sapere che esso fu parte della marcia verso il 'progresso' e l’arricchimento dell’Europa liberista”. E ha aggiunto: “attenzione, non è 'revisionismo'. È puramente e semplicemente revisione alla luce di criteri di approfondimento e di lucidità. Perché se la storia non è revisione – vale a dire esame e verifica continua del passato alla luce del presente e in funzione del futuro –, allora non è nulla”.

    2. LA “GUERRA DELLE STATUE” NEGLI USA

    Come molti commentatori hanno sottolineato, gli attacchi alle statue e ad altri simboli del retaggio colonialista e schiavista dell’Occidente non sono un fatto nuovo, né lo sono, per conseguenza, le discussioni, le riflessioni e le polemiche attorno a questo fenomeno.

    Non essendo possibile in questo articolo ricostruire l’intero dibattito avvenuto su scala globale negli ultimi anni, circoscriverò la mia analisi agli Stati Uniti d’America, che sono il paese occidentale nel quale la recente ondata iconoclasta ha assunto le dimensioni più ampie. Ritengo comunque che, sebbene ogni nazione abbia un rapporto diverso col proprio passato, il dibattito statunitense sulla “guerra delle statue” sia, sotto vari aspetti, paradigmatico, in quanto molte delle opinioni e delle problematiche che in esso sono emerse trovano ampio riscontro, fatte le debite differenze, anche in Europa e in altre nazioni dell’Occidente.

    Alcuni fatti: la battaglia contro i simboli dei Confederati

    È opportuno anzitutto rievocare alcuni fatti accaduti negli Stati Uniti negli ultimi anni (Ringrazio Steven C. Hughes, professore emerito di Storia moderna al Loyola College nel Maryland, per avermi aiutato a comprendere il dibattito in corso tra gli storici statunitensi).

    Secondo la ricostruzione fatta dal “Southern Poverty Law Centre” (SPLC) la battaglia per rimuovere bandiere, statue e altri simboli degli Stati Confederati d’America ha preso piede negli USA dopo il massacro di nove afro-americani avvenuto a Charleston il 17 giugno del 2015. Infatti, quando sui media cominciarono ad apparire le foto in cui l’assassino, il suprematista bianco Dylann Roof, faceva bella mostra della bandiera della Confederazione, si sviluppò un movimento che mirava ad ottenere la rimozione di quella bandiera dagli spazi pubblici.

    Subito dopo l’attenzione si rivolse anche ad altri simboli della Confederazione, a cominciare dalle statue e dai monumenti dedicati a generali e soldati che militarono contro l’Unione nella guerra civile degli anni 1861-65. Divenne presto evidente che il territorio degli Stati Uniti, soprattutto nel Sud, era costellato di centinaia di simboli della Confederazione: non soltanto bandiere e monumenti, ma anche nomi di strade, parchi, scuole, città e contee, basi militari.

    La campagna contro i simboli dei Confederati riscosse subito alcuni successi, ma generò al tempo stesso una forte reazione da parte di gruppi di estrema destra e altri nostalgici, che organizzarono per protesta centinaia di rallies, tra i quali quello tristemente famoso di Charlottesville nell’agosto del 2017, nel corso del quale un suprematista bianco, James Alex Fields Jr., lanciò la sua auto contro una folla radunatasi per una contromanifestazione, uccidendo una donna e ferendo altre diciannove persone.

    Dal 2015 ad oggi oltre un centinaio di simboli dei Confederati sono stati cancellati o rimossi. In particolare oltre ottanta statue sono state tolte di mezzo, delle quali ben 36 nel 2017 e almeno 30 dopo l’uccisione di George Floyd. Ma oltre 700 monumenti e centinaia di altri simboli sono ancora là dov’erano cinque anni fa e la questione, quindi, non è affatto conclusa.

    “You can’t change history”

    I fatti che ho rievocato hanno suscitato, com’è naturale, un ampio dibattito.

    Occorre ricordare che il raduno di Charlottesville dell’11 e 12 agosto del 2017 era stato organizzato da vari gruppi di estrema destra per protestare contro la decisione del consiglio municipale di rimuovere la statua del generale confederato Robert E. Lee da un parco cittadino. Ci furono scontri tra questi gruppi e le persone accorse per una contro-manifestazione e, come ho già ricordato, un suprematista bianco uccise una donna e ferì altre diciannove persone.

    La statua equestre di Robert E. Lee3. La statua equestre di Robert E. Lee a Charlottesville (Virginia). La decisione di rimuoverla fu all’origine del raduno dell’11 e 12 agosto 2017, durante il quale una manifestante venne uccisa. (Fonte)

    Le polemiche che allora scoppiarono furono in gran parte provocate dalle dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il quale - deprecando i fatti accaduti – condannò l’odio, il fanatismo e la violenza provenienti “da molte parti”, mettendo dunque sullo stesso piano i due opposti gruppi di manifestanti. Questo commento di Trump fu subito oggetto di dure critiche e il Presidente fu costretto a precisarne il significato con una esplicita condanna del Ku Klux Klan, dei neo-nazisti e dei suprematisti bianchi.

    Trump intervenne poi altre volte sulla stessa questione suscitando ulteriori polemiche. In particolare il Presidente criticò la rimozione delle statue dei Confederati, chiedendosi se, dopo l’abbattimento delle statue del generale Robert E. Lee, anche quelle di George Washington e di Thomas Jefferson, entrambi proprietari di schiavi, non avrebbero fatto la stessa fine. Rimuovere queste statue – osservò – significava cambiare o cancellare la storia e la cultura degli Stati Uniti.

    In un tweet poi spesso citato, Trump si espresse con queste parole:

    “… can't change history, but you can learn from it. Robert E. Lee, Stonewall Jackson - who's next, Washington, Jefferson? So foolish!”.

    Il passato non cambia, ma cambia il modo di interpretarlo

    Ma i fatti di Charlottesville segnarono un momento di svolta nel dibattito pubblico non solo per la reazione di Trump, ma anche e soprattutto perché essi sollecitarono un autorevole intervento della American Historical Association (AHA). Prendendo spunto proprio dalle parole del Presidente, nell’agosto del 2017 la AHA prese pubblicamente una posizione molto chiara sulla rimozione dei monumenti dei Confederati, con una dichiarazione (Statement), alla quale poi aderirono molte altre società storiche.

    In questo documento – per molti aspetti paradigmatico – la AHA affermò anzitutto che rimuovere un monumento, o cambiare il nome di una scuola o di una strada, non significa cancellare la storia, ma modificare il modo di interpretarla:

    “Un monumento – si legge nello Statement - non è “la Storia”; un monumento commemora un aspetto della storia e rappresenta un momento del passato in cui, per effetto di una decisione pubblica o privata, si è stabilito chi sarebbe stato celebrato negli spazi pubblici di una comunità” (le traduzioni di questo e degli altri brani sono mie).

    La AHA ricordò che gran parte dei monumenti dedicati ai Confederati non furono costruiti subito dopo la Guerra civile, ma molto tempo dopo; e che l’erezione di quei monumenti è l’espressione dello spirito di rivalsa degli Stati del Sud, che dapprima – alla fine dell’800 – segregarono i neri impedendo loro di godere appieno dei benefici dell’emancipazione; e poi - negli anni ’50 e ’60 del ‘900 - lottarono contro il movimento per i diritti civili degli afroamericani. Rimuovere i monumenti dei Confederati non significa voler ‘cambiare’ o ‘cancellare’ la storia, ma soltanto decidere che quei personaggi non sono più considerati degni di essere celebrati pubblicamente.

    Infine, secondo la AHA, la decisione di rimuovere le statue dei Confederati non avrebbe aperto necessariamente la strada verso la rimozione dei monumenti dedicati ai fondatori della nazione, agli ex-presidenti o ad altre figure storiche, certamente non esenti da qualsiasi colpa o difetto. “George Washington – si legge ancora nello Statement - era un proprietario di schiavi, ma il monumento a Washington esiste per celebrare il suo contributo alla costruzione di una nazione”. La sua figura, così come quelle di altri padri fondatori, può essere discussa, ma il dibattito pubblico attorno ai monumenti celebrativi non deve essere sviato da false analogie.

    I monumenti sono la storia

    Nel dibattito che si è svolto negli Stati Uniti a partire dal 2015 (per il quale rimando all’ampia bibliografia pubblicata dalla AHA), la maggior parte degli storici si è schierata su posizioni molto vicine a quella ufficiale della American Historical Association. Non sono mancate tuttavia alcune voci di dissenso, tra le quali vi è stata quella di David Lowenthal.

    Assumendo una posizione diametralmente opposta a quella della AHA, Lowenthal affermò (in una lettera pubblicata il 1° novembre 2017) che “i monumenti sono la Storia” e che la loro rimozione facilita un orwelliano travisamento del passato. Inoltre, contestò l’affermazione che i fondatori della nazione americana siano figure imperfette e non prive di difetti. Che diritto hanno gli storici di oggi di giudicare i proprietari di schiavi del XVIII secolo usando criteri etici diversi da quelli allora prevalenti? Anche le ingiustizie del mondo attuale faranno indignare le generazioni future. Secondo Lowenthal noi dobbiamo conservare anche i monumenti che offendono i nostri sentimenti, proprio perché essi offrono una evidente testimonianza dei pregiudizi e della diversa mentalità degli uomini del passato.

    È utile osservare che le argomentazioni proposte da Donald Trump, dalla AHA e da David Lowenthal sono, in qualche misura, paradigmatiche, perché ricorrono anche in altri contesti. Nel dibattito sulla “guerra delle statue” vi sono - non solo negli Stati Uniti - da una parte coloro che ritengono che esse siano soprattutto monumenti celebrativi e che sia naturale e opportuno rimuoverle quando muta il contesto politico e culturale e i personaggi raffigurati non sono più ritenuti degni di ammirazione. Dall’altra parte, vi è invece chi ritiene che sia sbagliato giudicare uomini ed eventi del passato sulla base dei valori etici e politici del nostro tempo e che le statue ed altri monumenti siano parte integrante della memoria storica e dell’eredità culturale di una comunità, che verrebbe quindi indebolita o mutilata dalla loro rimozione.

    Ricontestualizzare i monumenti piuttosto che rimuoverli

    Tra la rimozione e la conservazione dei monumenti dedicati a personaggi storici controversi esiste tuttavia anche una via di mezzo: lasciare le statue contestate là dove sono, aggiungendo targhe, pannelli esplicativi o altri monumenti, che aiutino gli osservatori a reinterpretare quelle opere e a collocarle in una prospettiva storica ed etico-politica diversa da quella originaria.

    Specialmente nelle prime fasi del dibattito sui simboli dei Confederati, questa terza via è stata più volte evocata dagli storici. Ad esempio, già nell’agosto del 2015, due mesi dopo la strage di Charleston, Günter Bischof, portando come esempio il Memento Park di Budapest, dove sono state ricollocate quarantadue statue dedicate a figure simbolo del comunismo, si era chiesto se una soluzione analoga non fosse proponibile anche per New Orleans:

    “Perché non raccogliere le statue del generale Lee e del generale Beauregard e ricollocarle in una sorta di parco a tema sugli eroi della Confederazione? Questo ‘Memento Park’ di New Orleans sui Confederati potrebbe essere collocato in un posto speciale all’interno del City Park, o forse, ancora meglio, da qualche parte lungo il lido settentrionale, dove c’è ancora molta nostalgia per i Confederati. Le persone che ammirano questi eroi della Confederazione potrebbero onorarli in questo parco. Ma i loro monumenti non adornerebbero più alcuni dei più importanti spazi pubblici nella città”.

    Qualche mese più tardi, in occasione del meeting annuale della AHA nel gennaio del 2016, si constatò che era più facile trovarsi d’accordo sul fatto che alcuni monumenti dei Confederati dovessero essere tolti di mezzo, che non decidere specificamente quali dovessero scomparire dagli spazi pubblici. In particolare, W. Fitzhugh Brundage, storico dell’Università del North Carolina, osservò che ci sono statue “che dovremmo rimuovere. E poi ci sono quelle che forse vorremmo reinterpretare. E poi ci sono quelle che probabilmente alla fine decideremo di tollerare”. E portò come esempio di queste ultime il bassorilievo di Stone Mountain, un monumento alla supremazia dei bianchi che difficilmente potrebbe essere demolito, o reinterpretato.

    Stone Mountain4. Il gigantesco bassorilievo dello Stone Mountain in Georgia, che raffigura Stonewall Jackson, Robert E. Lee e Jefferson Davis. (Fonte)

    Anche dopo i fatti di Charlottesville, alcuni storici proposero di ricontestualizzare i monumenti ai Confederati, piuttosto che spazzarli via. Per esempio, Gary W. Gallagher, interpellato da “HistoryNet” nell’ottobre del 2017, affermò che abbattere le statue può rappresentare un ostacolo alla comprensione del passato e può rendere più oscuri alcuni temi, periodi o movimenti storici. Sarebbe meglio aggiungere testi o altri monumenti accanto alle statue che vengono contestate. E portò come esempio proprio la statua equestre di Robert E. Lee a Charlottesville:

    “Lascerei la statua al suo posto, aggiungerei dei pannelli che illustrano la sua storia, darei un nuovo nome al parco e ordinerei la costruzione di un monumento in memoria degli oltre 250 uomini nati nella contea di Albemarle che militarono nei reparti delle United States Colored Troops. I visitatori di questo parco rinnovato potrebbero riflettere sul modo in cui diverse generazioni hanno commemorato il passato e sulla natura controversa della memoria storica”.

    Il dibattito si allarga: altre statue, nuove controversie

    Con l’ultima ondata di proteste scatenatasi dopo l’uccisione di George Floyd, la “guerra delle statue” negli USA ha assunto una dimensione più ampia, poiché ha coinvolto anche alcuni monumenti dedicati ai padri fondatori della nazione, Thomas Jefferson e George Washington, a un celeberrimo presidente come Theodore Roosevelt, e persino ai capi dell’Unione che sconfissero i Confederati, Ulysses S. Grant e Abraham Lincoln.

    Naturalmente i sostenitori di Trump affermano ora che il Presidente aveva ragione quando nel 2017 aveva previsto che dopo le statue dei Confederati anche quelle di Jefferson e di Washington sarebbero state presto contestate.

    Si potrebbe replicare che questi ulteriori attacchi sono episodi marginali, inevitabili eccessi di una lotta che ha come principale obiettivo quello di porre fine alle violenze e alle discriminazioni contro gli afro-americani.

    È un fatto però che il dibattito stesso si è molto ampliato: non soltanto esso si è esteso dai Confederati a molti altri personaggi controversi, ma riguarda ormai – assai più di prima - anche questioni di carattere generale, come la funzione dei monumenti nella formazione di una coscienza civica e il rapporto delle presenti e future generazioni con il passato e con la memoria storica.

    In difesa di Ulysses Grant e del Freedman’s memorial

    Alcuni storici sono intervenuti in difesa di singoli monumenti. Ad esempio, Chris Mackowski, in un articolo pubblicato il 23 giugno 2020, ha criticato l’abbattimento del busto di Uysses S. Grant nel Golden Gate Park di San Francisco e ha spiegato le ragioni per le quali esso dovrebbe essere rimesso al suo posto. Mackowski ha ricordato che Grant non fu soltanto il vincitore della guerra civile che pose fine alla schiavitù; fu anche, tra i presidenti degli Stati Uniti, il più convinto assertore dei diritti civili prima di Lyndon Johnson e si impegnò a fondo per la soppressione del Ku Klux Klan. Certamente Grant ebbe anche alcuni difetti, ma occorre riconoscere che le sue idee riguardo ai neri e agli ebrei maturarono nel corso del tempo.

    In un altro importante intervento sul “Washington Post” del 25 giugno 2020, David W. Blight, docente di storia a Yale, ha difeso appassionatamente l’Emancipation memorial, noto anche come Freedman’s memorial. Questo monumento, che si trova in Washington D.C., raffigura Abraham Lincoln nell’atto di liberare uno schiavo seminudo che si trova in ginocchio davanti a lui. Anche di questo memoriale è stata chiesta la rimozione, per il fatto che esso presenta l’emancipazione dei neri come una concessione dei bianchi, oscurando il contributo che gli stessi afro-americani diedero alla lotta per l’abolizione della schiavitù. “Considerate le persone che crearono quel monumento e che cosa esso significò per le loro vite in un secolo che non è il nostro”, ha ammonito Blight. Egli ha ammesso che il Freedman’s memorial propone una immagine razzista. Ma ha ricordato che i ventimila dollari necessari per la costruzione del monumento furono raccolti tra i neri; che gli afro-americani parteciparono in massa alla grandiosa cerimonia di inaugurazione il 14 aprile del 1876; e che in quella occasione Frederick Douglass pronunciò una straordinaria orazione nella quale, pur sottolineando i difetti e i limiti di Lincoln agli occhi dei neri, gli riconosceva il merito di aver contribuito in modo decisivo alla loro liberazione. Piuttosto che rimuovere il monumento, conclude Blight, sarebbe meglio affiancargliene un altro, che rappresenti la storia dell’emancipazione dei neri da una generazione all’altra, o magari una statua di Frederick Douglass nell’atto di pronunciare il suo splendido discorso.

    Freedman’s Memorial5. Emancipation Memorial (o Freedman’s Memorial ) in Washington D.C. (Fonte)

    “Erasing History or Making History?”

    A parte gli interventi relativi a singoli monumenti, gli storici statunitensi hanno affrontato anche questioni di carattere più generale. È quanto è accaduto nel webinar organizzato lo scorso 2 luglio dalla AHA sul tema Erasing History or Making History? Race, Racism, and the American Memorial Landscape. In quella occasione James Grossman, direttore della AHA, ha moderato un lungo e interessante dibattito tra Annette Gordon-Reed e David Blight (lo incontriamo di nuovo, ma non è un caso, perché è uno dei più importanti studiosi della guerra civile americana, è il direttore del “Gilder Lehrman Center for the Study of Slavery, Resistance, and Abolition” a Yale, ed ha recentemente pubblicato una monumentale biografia di Frederick Douglass, con la quale ha vinto il Pulitzer Prize in Storia nel 2019). Oggetto del confronto sono stati non soltanto i monumenti ai Confederati, ma anche quelli ai fondatori degli Stati Uniti, al padre francescano Junípero Serra, e poi di nuovo il Freedman’s memorial e diversi altri monumenti.

    Ma nel webinar sono stati affrontati anche interrogativi di più ampia portata: si possono o no stabilire dei criteri generali in base ai quali decidere se un monumento debba essere conservato o rimosso? a chi spetta prendere decisioni di questo tipo e con quale tipo di procedura? quali monumenti sono più efficaci nel coinvolgere i cittadini in una riflessione collettiva su personaggi ed eventi del passato? non sarebbe meglio, d’ora in avanti, costruire monumenti che celebrano valori comuni, piuttosto che individui nei quali supponiamo che quei valori si siano incarnati?

    Senza alcuna pretesa di riassumere l’intero contenuto di questa discussione, trovo indicativo dell’ampiezza ormai raggiunta dalla “guerra delle statue” il fatto che David Blight abbia ipotizzato l’istituzione di una apposita commissione da parte del Congresso degli Stati Uniti per decidere quali monumenti rimuovere e quali lasciare al loro posto negli spazi pubblici; e che James Grossman abbia suggerito che un processo deliberativo di questo tipo si possa ripetere ogni venticinque anni per dare modo ad ogni generazione di ridefinire il proprio rapporto con la storia. In ogni caso – ha osservato Blight - va tenuto presente che, mentre alcuni personaggi storici sono sicuramente indegni di essere celebrati, quasi nessuno è privo di macchie o difetti e non bisogna cedere alla tentazione di voler ‘purificare’ il passato, né lasciare che siano folle di manifestanti a decidere il futuro dei monumenti. Le condizioni ineludibili per decidere se conservare o rimuovere un monumento storico potrebbero essere le seguenti tre: un processo deliberativo; una reale conoscenza dei fatti storici; una buona dose di umiltà nel giudicare gli uomini del passato, sapendo che è nella natura degli uomini essere imperfetti.

    3. LA “GUERRA DELLE STATUE” E LA DIDATTICA DELLA STORIA

    Il dibattito suscitato dalla “guerra delle statue” è interessante anche per le implicazioni e le ricadute che ha, o potrebbe avere, a livello didattico.

    Da un lato, infatti, l’insegnamento della storia non può ignorare i diversi modi in cui il passato viene vissuto e raccontato nel presente; dall’altro lato, le controversie intorno ai monumenti dei grandi personaggi storici rappresentano un’occasione per sviluppare ricerche e dibattiti e per stimolare un approccio critico da parte degli studenti.

    Per quanto riguarda il primo aspetto, la “guerra delle statue” rappresenta un caso esemplare di uso politico della storia, che può essere oggetto di riflessione anche a livello scolastico. Infatti, come ha scritto Luigi Cajani su “Public History Weekly” (03/05/2018), gli usi politici della storia sono ormai diventati, a livello internazionale, “un fenomeno di dimensioni tali che ne rendono ineludibile la conoscenza critica per i futuri cittadini”. Si tratta cioè di un aspetto del complesso rapporto tra passato e presente che non può più essere trascurato da parte dei docenti di storia.

    Più in generale, molti personaggi del passato vengono ricordati non per quello che furono, ma per quello che rappresentano. Analogamente, chi chiede la rimozione delle statue dedicate a personaggi controversi, spesso ha in mente il valore simbolico di quei monumenti, piuttosto che l’effettiva realtà storica. Si apre così un divario tra l’uso pubblico della storia e l’effettiva conoscenza del passato, che può essere oggetto di riflessione e approfondimento anche a livello scolastico.

    Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, è evidente come la “guerra delle statue” possa diventare un un’occasione per rendere più accattivante lo studio di alcuni argomenti che a volte sembrano soltanto ‘scolastici’ e un pretesto per approfondire lo studio di un personaggio o di un evento storico, andando al di là delle informazioni - a volte inevitabilmente generiche - fornite dai libri di testo. Ad esempio, quanti manuali delle scuole medie e superiori italiane presentano in maniera davvero adeguata la storia della schiavitù tra Medioevo ed età moderna? Quanti libri di testo ricostruiscono dettagliatamente le vicende dell’abolizione della tratta degli schiavi e poi della stessa schiavitù a partire dalla fine del ‘700? Quanti, infine, la contestualizzano all’interno del sistema schiavistico mondiale?

    Inoltre, gli attacchi alle statue potrebbero offrire lo spunto per interessanti dibattiti tra gli studenti. Ad esempio, dopo aver approfondito lo studio di un personaggio storico, si potrebbe chiedere agli alunni di una classe di sviluppare e sostenere in pubblico argomentazioni pro e contro la rimozione delle statue che lo raffigurano, utilizzando la metodologia del debate.

    Questo genere di discussioni può portare anche ad affrontare questioni di carattere più generale, come quella relativa alla legittimità o utilità di esprimere giudizi morali sugli uomini del passato prendendo come punto di riferimento i nostri valori etici e le nostre leggi, in parte diversi da quelli dell’epoca in cui quegli uomini sono vissuti. Fino a che punto, ad esempio, ha senso processare Thomas Jefferson o George Washington perché possedevano schiavi, posto che la schiavitù era ai loro tempi una istituzione legale? Si potrebbe replicare naturalmente – come è stato fatto – che anche in quell’epoca non tutti approvavano la schiavitù e le violenze che ad essa si accompagnavano. E questo tipo di domande e considerazioni si possono applicare a molti altri personaggi storici controversi.

    A questo proposito, può essere utile provare ad immaginare in che modo le future generazioni potrebbero giudicare gli uomini di oggi, specialmente se vi fosse un generale cambiamento di alcuni valori. Che cosa accadrebbe, ad esempio, se il vegetarianismo, oggi praticato solo da una minoranza della popolazione, diventasse in futuro l’ideologia dominante e fosse imposto a tutti per legge? Avrebbero ragione o no gli storici del futuro di giudicare la maggior parte di noi alla stregua di crudeli assassini per il fatto che abbiamo continuato ad uccidere gli animali, quando per la nostra alimentazione avremmo potuto in buona misura farne a meno?

    È evidente, infine, che il tema della “guerra delle statue” si presta a collegamenti tra la storia ed altre discipline, come la filosofia, per le questioni etiche appena accennate, e la storia dell’arte, per gli aspetti estetici dei monumenti. E naturalmente l’intero argomento potrebbe anche essere trasposto indietro nel tempo, ad esempio affrontando – in un diverso momento del curricolo scolastico - il tema della distruzione delle statue e della damnatio memoriae nel mondo antico1.

    CONCLUSIONE

    Alla fine di agosto, dopo un ennesimo brutale intervento delle forze dell’ordine contro un giovane afro-americano, le strade di alcune città statunitensi si sono nuovamente riempite di folle di manifestanti e ci sono stati nuovi violenti scontri. Come alcuni commentatori avevano avvertito, è più facile abbattere statue che non risolvere i problemi della disuguaglianza e della discriminazione razziale. Avevano scritto, ad esempio, Steven Stegers e Marie-Louise Ryback-Jansen (su HL il 20 giugno 2020):

    “… che cosa si ottiene con la rimozione o la cancellazione di una statua o di un monumento? Questo atto non annulla le rimostranze e i torti alla sua base: e sono questi che dividono la società. Senza un cambiamento strutturale dei sistemi di giustizia, polizia, educazione e del tessuto sociale dello stato, la rimozione di una statua resta una vittoria di Pirro, un atto puramente simbolico”.

    Inoltre, se da un lato gli attacchi alle statue hanno avuto il merito suscitare un ampio dibattito sulla memoria storica e sul retaggio del passato schiavista e colonialista dell’Occidente, dall’altro lato ci si può anche chiedere, come ha fatto Antonio Brusa (su HL il 19 settembre 2020), se la frenesia vendicatrice che anima i movimenti antirazzisti di questi ultimi anni non renda più difficile il rapporto tra memoria pubblica, protesta sociale e conoscenza storica. È auspicabile quindi che la riflessione su questi temi possa proseguire a tutto campo e produrre i suoi frutti anche nell’insegnamento scolastico.

     

    * Della “guerra delle statue” scatenatasi dopo l’uccisione di George Floyd ho già parlato su HL nel mio articolo del 9 luglio 2020.

     

    Note

    1. Sulla distruzione delle statue nella Grecia e nella Roma antica vedi ad esempio: Distruggere le statue: una storia antica e Da Armodio e Aristogitone ad oggi: quando la storia passa per le statue.

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