Autore: Antonio Brusa
Le crisi economiche: un argomento ideale per il Laboratorio del Tempo Presente*
“It’s the economy, stupid!” fu la frase vincente che Clinton disse a Bush, quando lo sbaragliò alle elezioni del 1992. Bush aveva appena finito di strapazzare l’esercito irakeno, ma, non sapendo nulla di economia, fu colto in castagna, e perse.Oggi ce la potremmo rimpallare a vicenda quella frase, noi – docenti di storia – che in trent’anni di post-modernismo abbiamo fatto di tutto per rimuovere la sbornia di economia politica degli anni ’70, guadagnandone un analfabetismo che ci impedisce di capire le vicende nelle quali ci sembra di precipitare. Non capiamo noi e non capiscono i nostri allievi. Tempi angosciosi, concludiamo scuotendo la testa. Mi piacerebbe adottare quella frase per la Summer School, “Laboratorio del Tempo presente” di quest’anno, la prima dell’Insmli, che ha avuto come tema “Il Novecento attraverso le crisi”.
Indice
- Un progetto di lavoro originale
- Accordiamoci sul concetto di crisi
- Due argomenti importanti: finanza e governo dell’economia internazionale
- Una nuova vulgata del Novecento
- Uno schema per la programmazione
- Fatti e concetti da rivedere
- Considerazioni finali
Un progetto di lavoro originale
Una scuola per essere meno stupidi in tempo di crisi? La nostra è durata tre giorni, di lezioni e discussioni, guidate da Scipione Guarracino, Carlo Fumian, Marcello Flores e Giovanni Gozzini (al quale debbo la citazione di Clinton). Io, in particolare, digiuno come sono di storia contemporanea e da sempre ignorantissimo di economia, vi ho imparato un sacco. Ho capito che devo rivedere molti concetti e fatti, che davo per scontati e che la ricerca attuale ha stravolto. Mi sono sottolineato alcuni concetti, nodali per capire la crisi, ma anche per orientarsi nelle discussioni pubbliche intorno a questa. Mi sembra di aver individuato un filo rosso, una sorta di narrazione che, facendo perno sulle grandi crisi, mi permette di riorganizzare, rapidamente e in modo efficace, quello che so sul Novecento e, poi, mi sono venute tante idee, su film, romanzi, casi di vita che potrebbero rendere vivo un percorso scolastico, ricco di laboratori, approfondimenti e di intrecci interdisciplinari.
Mi sembra che l’argomento “crisi” possa fornire questi strumenti di insegnamento:
- Una visione sintetica e molto compatta del Novecento, utilissima per inquadrare il programma
- Un fiume di suggerimenti per unità didattiche interdisciplinari, fra storia, letteratura, arte, cinema, musica e anche geografia (per esempio i problemi della mondializzazione)
- Un’altrettanto vasta possibilità di laboratori di storia locale/nazionale
- Un nuovo orizzonte per l’uso delle fonti orali in classe: avete mai pensato che un prof o un genitore sono fonti per la conoscenza della crisi del 1973? E che gli allievi stessi sono fonti per quella del 2008?
Fortunatamente non sono solo. A questa scuola hanno partecipato oltre 70, fra docenti e comandati degli Istituti Storici della Resistenza. Ci siamo appassionati al problema e siamo decisi a mettere a punto qualcuno di quegli strumenti. Fra cinque mesi dovrei avere sul mio schermo questi materiali. Li metteremo, con le relazioni dei colleghi storici, in “Novecento.org”, la rivista didattica degli Istituti. Questi sono solo i miei appunti, giusto per mettere a fuoco alcune idee didattiche e per sollecitare il lettore di HL a partecipare a questa opera collettiva.
Accordiamoci sul concetto di crisi
In questa Scuola è stato adoperato in diverse accezioni, non necessariamente in conflitto fra di loro. Carlo Fumian, riprendendolo dal dibattito delle scienze politiche, lo definisce come un “periodo di malessere violento e breve”. Un febbrone, per riprendere le sue parole, dal quale il paziente può uscire male (la recessione), oppure immunizzato dalla malattia. Nel ’29 la crisi dura pochi mesi, poi si entra in recessione. Se è così – mi viene da pensare - quando sento che “stiamo uscendo dalla crisi”, ascolto una cosa imprecisa o falsa. La crisi è esplosa nel 2008. Poi alcuni l’hanno superata e altri sono entrati in recessione. Oggi, nel 2013, dovrebbero dirmi se noi italiani stiamo ancora in recessione o se ne stiamo uscendo.
Questi “colpi violenti” a volte esplodono a ripetizione. Per esempio, alla crisi del ‘29 seguirono altre fibrillazioni, come quella del ’37, con effetti ugualmente terribili.
Fumian ha utilizzato questa accezione del concetto per inquadrare il ’29. Per analizzare gli anni ’70, Marcello Flores, invece, ha utilizzato il termine “crisi” in un’accezione più sistemica. Non si trattò, ha sostenuto, di un “febbrone” solo economico. Anzi, da questo punto di vista non fu peggiore di tanti altri. In realtà, si trattò di un travaglio che colpì molti aspetti della società: culturali, politici, comportamentali, ecologici, di politica internazionale (ricordiamo, solo per fare un esempio, il terrorismo), militari.
In questa accezione, forse più largamente usata in ambito storico, la crisi è sempre un fatto molto complesso (cosa che piace tantissimo agli storici), con molte cause, tante sfaccettature e tanti motivi. Questa immagine si presta, perciò, alla definizione classica di crisi, alla latina - da cribrum - il setaccio che passa al vaglio la storia. La crisi, in questa nuova accezione, fa sempre male, ma si tratta di un parto oppure di un “tornante storico”, per dirla alla francese.
Questo concetto potrebbe essere applicabile anche alla crisi del 1880 e seguenti, che (secondo Fumian, questa volta) fu un periodo di crescita, una “non-crisi”, dal momento che fu il momento di gestazione di quello che noi consideriamo il mondo contemporaneo. Analogamente, il 1973 e seguenti, fu il periodo di gestazione del nostro mondo.
Riassumo con questo specchietto le quattro crisi delle quali normalmente si parla nei manuali e che scandiscono il “lungo Novecento”, distinguendo per comodità “crisi internazionale” da “crisi sistemica”.
1880 | Crisi sistemica/Periodo di crescita economica | Nascita mondo contemporaneo |
1929 | Crisi internazionale | Recessione globale |
1973 | Crisi sistemica/Grandi cambiamenti | Nascita del mondo attuale |
2008 | Crisi internazionale e “finanziaria” | Recessione parziale |
Fumian e Flores usano definizioni di crisi molto “storiche”. Gozzini, che ha parlato della crisi del 2008, mi sembra più propenso a usare la definizione di “crisi finanziaria”: questa crisi inizia per ragioni finanziarie negli Usa, e travolge molte economie, fra le quali quella italiana. Per questa rinvio ai tre pezzi sulle crisi, scritti su HL da Massimiliano Lepratti, con riferimento speciale a quella del 2008, e ai due argomenti che seguono.
Due concetti importanti: finanza e governo dell’economia internazionale
Il concetto di Finanza, con la sua grande famiglia di futures, subprime, spread, broker, rating ecc., ci opprime quasi quotidianamente. E’ decisivo per capire la crisi del 2008, ma ha radici lontane. Risale alle origini del mondo contemporaneo. In principio – nella seconda metà del 1800 - i futures erano forme di assicurazione, che l’imprenditore inventava per garantirsi da eventuali disastri. Ad esempio, un imprenditore agricolo, che non sa se l’anno prossimo il suo raccolto andrà a buon fine, “fa una scommessa contro la sua riuscita”. Se il raccolto va bene, guadagna vendendo il grano. Se va male, vince la scommessa e non ci rimette. Una trovata intelligente. Solo che, una volta che comincia a circolare l’idea, si scommette su tutto e i broker inventano ogni giorno nuove occasioni per scommettere e guadagnare. Negli ultimi decenni del 1900, questa massa di scommesse non ha più un rapporto stretto con il mondo della produzione. Anzi: il suo valore è eccezionalmente più alto. Ogni giorno, ormai da una ventina d’anni, la finanza fa circolare un paio di migliaia di miliardi di dollari. Una cifra immensa. Come se ogni giorno qualcuno gettasse sul tavolo da gioco tutto il debito italiano di un anno. Per avere un’idea di quanto valgano mille miliardi di dollari, pensiamo a quanto ci fa piangere una manovra fiscale di appena cinquanta miliardi di bigliettoni.
Ilgoverno internazionale dell’economia. Prima dell’avvento dell’internazionalizzazione (e poi dell’esplosione della globalizzazione, alla fine del XX secolo), ogni Stato aveva gli strumenti per governare i processi economici che si svolgevano nel suo territorio e, attraverso patti bilaterali, riusciva a dialogare in forme più o meno conflittuali, con gli altri stati.
Con l’avvento dell’internazionalizzazione si è inaugurata l’epoca del “malgoverno dell’economia”. Ma non per “colpa” dell’internazionalizzazione. Questo malgoverno dipende principalmente da una sorta di coazione a comportarsi male, da parte degli Stati. Questi, infatti, cercano di intervenire su un terreno che è fuori dalla loro portata (perché è internazionale) con una logica nazionale. E’ quello che accade negli anni ‘30, quando gli Stati fecero fronte alla recessione, seguita alla crisi, attraverso politiche protezionistiche (a cominciare proprio da Roosevelt). Governarono con la testa rivolta all’indietro, come se si fosse ancora ai giorni della guerra franco-prussiana, e peggiorano la situazione.
Infatti, la conseguenza delle loro politiche, nel 1929, fu quella di cronicizzare la recessione. Questa durò ancora dieci anni. Poi, nel secondo dopoguerra, gli Stati sembrarono finalmente aver appreso la lezione, e inaugurarono politiche di controllo internazionale degli scambi, che contribuirono a costruire il famoso “trentennio d’oro”. Ma sembra che quello fu l’unico momento nel quale gli Stati tennero conto della storia. Verso gli anni ’70, infatti, la rottura dell’equilibrio di Bretton Wood e della parità fra dollaro e oro (1944), e, poi, la deregolamentazione dei mercati, del duo Reagan-Thatcher crearono le premesse per la situazione attuale.
Una nuova vulgata del Novecento
Sarà un mio pallino, ma resto convinto del fatto che non basta, quando si fa didattica (o comunicazione), aprire questioni e dubbi, e terminare il proprio intervento avvertendo che “il problema è più complesso”. Occorre “sporcarsi le mani” con sintesi, immagini, carte che, per quanto provvisorie, facciano il punto e permettano all’interlocutore (ma anche a noi) di orientarsi. Se non lo facciamo noi storici, ragazzi e gente comune adotteranno mappe e racconti, prodotti dalle nuove agenzie di rassicurazione della politica o del mercato. Meglio, allora, che lo facciamo noi, con tutte le avvertenze e le precauzioni: quelle che chi mi legge deve tenere presente, scorrendo questa rapidissima sintesi.
Il racconto del Novecento, dunque, può iniziare con la prima esplosione dell’internazionalizzazione. Siamo alla fine del XIX secolo. L’abbattimento dei costi, che i grandi battelli a vapore consentono, permette al grano, al mais, al vino di fare viaggi che fino a pochi anni prima erano impensabili. Gli Stati restano interdetti. Un po’ ne approfittano, un altro po’ cercano di bloccare questo flusso. Ma le loro politiche protezionistiche sono deboli e, tutto sommato, non riescono a fermarne lo sviluppo. Le crisi che si aprono in questo periodo dipendono spesso dall’incapacità di settori economici locali di far fronte alla nuova competizione internazionale. E’ una scrematura, non una recessione.
Terminata la prima guerra mondiale, il decennio ‘19-‘29 vede di nuovo il mondo crescere. Al suo centro gli Usa e la loro folla di investitori, che scorgono nella ricostruzione europea (e tedesca) una buona fonte di guadagno. Quando, però, si profila l’esplosione della finanza (i soldi facili delle scommesse di cui sopra), questi immensi capitali lasciano precipitosamente il vecchio continente, e si riversano nella borsa di New York. E’ un periodo che alcuni storici chiamano di euforia incontrollata.
1929. La bolla finanziaria esplode e innesca la crisi, che si abbatte su un’economia (quella europea) già colpita dall’abbandono dei capitali americani. Tutti (regimi fascisti, comunisti e liberaldemocratici) reagiscono alla recessione degli anni trenta attivando politiche protezionistiche, chiamate in vario modo a seconda dell’ideologia di riferimento.
Per uscire dalla crisi, occorsero quattro elementi. Il primo fu il pieno impiego. Fu garantito dalla guerra (ahimè). Il secondo: le politiche pianificatrici, che non furono attuate solo nel mondo comunista (anzi: il termine “planismo” fu coniato da W. Lippmann, il celebre giornalista americano). Terzo: il governo internazionale dell’economia, inauguratosi alla fine della guerra e del quale gli accordi di Bretton Wood sono il simbolo; e, finalmente, il Welfare europeo e poi americano.
Di conseguenza, nel 1943 inizia il periodo dei “trenta gloriosi”, durante il quale si registra un incremento economico un po’ dappertutto, il miracolo economico italiano e giapponese e altri fatti interessanti da raccontare, fra i quali, in primo piano, la decolonizzazione.
La crisi degli anni ‘70 ha certamente diversi aspetti “critici”: il petrolio, i mercati che si fermano, la Guerra dei Sei giorni. Non fu ininfluente, per il suo scatenarsi, la decisione degli Usa di abbandonare gli accordi di Bretton Wood (1971). E, come nel 1929, anche questa crisi fu mal governata, ad esempio attraverso l’abuso dell’inflazione (che permette a uno Stato di vendere di più a danno degli altri). Tuttavia, i suoi aspetti decisivi, per quanto “critici” anch’essi, costituiscono le fondamenta del mondo attuale: la nascita della sensibilità ecologica, del femminismo, i nuovi comportamenti, la planetarizzazione della cultura, la rivoluzione digitale.
E’ quest’ultima, probabilmente, che – insieme con la deregolamentazione dei mercati internazionali promossa da Reagan e da Thatcher - innesca le condizioni della crisi successiva. La telematica, infatti, esaspera la velocità della finanza. Non è più necessario recarsi in Borsa, per scommettere. Lo si può fare da casa, dal proprio terminale. E’ il momento in cui diventano indispensabili efficaci istituzioni di controllo e un buon governo di questo traffico caotico. Invece, come abbiamo visto, la nostra è l’età della de-regolamentazione, nei confronti della quale poco possono fare i vari organismi (G8, G20, WTO ecc), dal momento che ogni Stato persegue ottusamente il proprio tornaconto. Le bolle diventano pericolose e incontrollate, esplodono a ripetizione, a partire dall’inizio del XXI secolo. Quella del 2008 innesca la recessione, nella quale noi italiani ci siamo impantanati e dalla quale altri sembrano essersi salvati.
Uno schema per la programmazione
1880/1929 | Avvio del processo di internazionalizzazione La seconda industrializzazione La prima guerra mondiale Il primo dopoguerra | L’industrializzazione italiana Giolitti e la società di massa La guerra di Libia Il Fascismo |
1929/1945 | Crisi e recessione Le risposte alla crisi: Roosevelt, Stalin, Hitler La II Guerra | Il fascismo. L’Italia entra in crisi prima del 1929, a causa della quota ’90. |
1945/1973 | I “Trenta gloriosi” La fine della decolonizzazione | La Repubblica italiana L’industrializzazione italiana |
1973/2008 | Il mondo attuale La globalizzazione La planetarizzazione della cultura La rivoluzione digitale La rivoluzione sociale: femminismo e ecologismo La rivoluzione antropica: le migrazioni | La riconversione produttiva dell’Italia Italia e Ue I cambiamenti sociali I rapporti fra politica e società |
Fatti e concetti da rivedere
Mi sono reso conto, in tanti anni di lavoro con i docenti, che spesso non basta mostrare uno schema, un’interpretazione nuova. E’ sempre utile elencare anche le idee e i racconti che, secondo questa interpretazione, dovrebbero essere messi nel cassetto. Eccone alcuni.
- La crisi del 1880. C’è su tutti i manuali, ma non fu una crisi. Al contrario, si trattò di un periodo di crescita impetuosa, favorita dal processo di internazionalizzazione dell’economia, avviatosi nella seconda metà dell’Ottocento. Localmente, come accadde in alcuni settori dell’economia italiana, produsse degli scompensi. In generale quel periodo vide un aumento di tutti i parametri dell’economia.
- La fallacia del locale. Molti esempi adottati per spiegare la particolarità italiana in realtà non sono significativi di una specificità nazionale. La crisi della Banca di Roma fu solo una delle crisi bancarie mondiali. Le città operaie (Schio, Crespi d’Adda) che testimonierebbero il particolare slancio paternalistico di capitalisti italiani, impallidiscono di fronte alle centinaia di città operaie analoghe americane.
- La sovrapproduzione del 1929. E’ spesso invocata come causa fondamentale di quella crisi. In realtà fu poco influente, in una crisi che fu innescata dallo spostamento massiccio di capitali americani dai settori produttivi europei agli appetitosi investimenti finanziari americani.
- Il ruolo salvifico del New Deal. C’è su tutti i manuali. Tutto il mondo andò in malora, ma Roosevelt salvò l’America con il suo piano di aiuti e la svalutazione del dollaro, si dice. In realtà, il New Deal alleviò solo gli effetti della crisi, ma nessuna delle politiche attuate da Roosevelt riuscì a invertire l’andamento recessivo dell’economia
- Il welfare, politica di sinistra? Questa fa parte anche delle cose che si dicono in politica. In realtà, fu proposto da un conservatore, Lord Beverage nel 1942, nel suo rapporto al Parlamento inglese.
- Lo choc petrolifero fu la causa della crisi del ‘73. In realtà, fu scarsamente influente. Il prezzo del petrolio si ristabilizzò rapidamente.
- La sovrapproduzione del 1973: in realtà, le politiche monetariste, che trovavano nelle teorie di Milton Friedman (la famosa “scuola di Chicago”) il loro fondamento, si basavano sul fatto che esisteva troppa moneta per troppo poche merci.
- La crisi del 2008. Ha effetti negativi solo in alcune regioni del mondo. Altre ne sembrano esenti; altre ancora sembrano andare meglio.
Considerazioni finali
Tre punti conclusivi. Interessano questo tema, ma investono questioni molto più generali e decisive per la formazione storica. Il primo riguarda i tempi del progetto didattico. Se riprendete lo schema della programmazione che ho proposto, noterete che divide l’annualità in quattro parti. Supponiamo di assegnare a tutte un tempo equivalente. Significa che a metà anno si dovrebbe arrivare alla seconda guerra mondiale, e che la seconda metà dell’anno dovrebbe essere dedicata ai tempi più recenti, fino ai nostri giorni. Significa – lo sappiamo tutti benissimo – che questa programmazione va contro le abitudini maggioritarie degli insegnanti. Spero siate d’accordo sulla necessità di ridiscutere questa norma non scritta. Non dal punto di vista formale, che si tratti di una violazione dei programmi, quanto da quello sostanziale: a che serve investire cinque anni per imparare a leggere le mappe del tempo passato, se poi non ci dotiamo di quelle per capire il tempo presente?
Il secondo riguarda i tempi a disposizione. Protesta immediata: non abbiamo tempo. E’ vero. E, peraltro, quando il duo Moratti-Gelmini ne ha sottratto gran parte soprattutto nella scuola di base, nessuno ha fiatato. In ogni caso, oggi è così. Cinquanta ore l’anno nella maggior parte dei corsi, sperando che Educazione alla Cittadinanza o la guerra fra poveri con Geografia non aggravi questo disastro. Al momento, non vedo che due soluzioni:
- Dotarsi di racconti sintetici e potenti (non di bignamini, quindi) del periodo da spiegare. E da questo punto di vista le crisi sono un bel fil rouge del Novecento.
- Costruire sistemi concreti ed efficaci di collaborazione fra discipline. Senza perdere tempo su liste interminabili di competenze, quanto piuttosto mettendosi d’accordo nella cooperazione fra italiano, storia, storia dell’arte, geografia ecc, intorno a temi nodali. Anche da questo punto di vista, le quattro crisi suggeriscono magnifici incroci pluridisciplinari.
Il terzo infine, riguarda il Laboratorio del tempo presente. Questa struttura potrebbe essere aperta in qualsiasi momento del curricolo, in qualsiasi grado e ordine di scuola, quando se ne presenta la necessità. Un problema sociale si impone in tutta la sua urgenza? Discutiamone in classe. Ma non per fare la “ricerca”, peggio ancora la “ricerca su internet” o “la lettura del quotidiano”. Quanto, piuttosto, per mostrare come le capacità di ragionamento storico (nel nostro caso) messe a punto fin a quel momento in classe, danno una mano per capire quel fenomeno e per dire, magari, qualcosa di diverso di quello che gli allievi sentono in classe o ai talk show. Insomma, Il laboratorio è un modo per sottolineare che la scuola deve recuperare il suo senso di “presidio culturale” nella società.
* La Summer School “Il Novecento attraverso le crisi” si è tenuta a San Marino il 9-10-11 settembre 2014. Vedila su www.Novecento.org.