Autore: Antonio Brusa
Esce l’ennesimagraduatoria delle Università italiane. Hanno questo in comune. C’è un gruppetto di testa, di Università del Nord che, come in una gara di ciclismo, lottano per il primo posto. Segue il gran mischione del gruppo. In coda arrancano una decina di Università meridionali, che si alternano come nel gruppo di testa, solo che si contendono, ahimé, la maglia nera.
Le classifiche si basano sui due indicatori generali, la ricerca e la didattica. Per il primo valgono le pubblicazioni, le partecipazioni a progetti internazionali e tanto altro, che qui non metto in discussione. Per la didattica – parlo della “didattica universitaria” - valgono qualità come “l’attrattività da altre regioni”; “l’occupazione post laurea”; “l’ammontare delle tasse” e tante altre cose utilissime. Nemmeno queste, le metto in discussione. Pongo solo una domanda: che c’entrano con la didattica?
Studio didattica della storia da quasi quarant’anni. Ne conosco solo una parte, ma quello che so mi permette di sottolineare con tranquillità che nulla di ciò che in Italia viene considerato “didattica universitaria” ha qualcosa a che vedere con quell’insieme di ricerche e di pratiche che, nel mondo degli studi specialistici, si considera “didattica”. Il gruppo (ormai abbastanza nutrito) di studiosi di didattica lavora intorno a problemi quali gli argomenti di studio nei diversi paesi, la strutturazione dei curricoli, gli strumenti a disposizione di studenti e professori, le tecniche di insegnamento e l’efficacia degli apprendimenti, le idee più difficili da combattere.
Potrei proseguire un elenco piuttosto lungo e scommettere con chi legge: trovatemi una sola delle voci che interessano gli studiosi di didattica della storia (e a questi aggiungeteci i colleghi di linguistica, di scienze, di matematica ecc), che faccia parte dei criteri che permettono di affermare che una qualunque di esse riesca meglio nell’Università di Verona, piuttosto che in quella Bari. Questo, magari, potremmo saperlo per delle scuole, dove con opportune ricerche (non con i test Invalsi, non apriamo un'altra questione), potremmo capire dove si studia bene e dove male, e che cosa si studia e quali conoscenze, alla fine, un ragazzo è riuscito a fare proprie. Ma porsi l’identica domanda per una Università qualsiasi è del tutto fuori luogo. Possiamo informarci sulle scuole, perché queste hanno accettato, con difficoltà e dopo un travaglio che è durato decenni, che si può studiare il lavoro di un docente; e che proprio indagando sul suo lavoro che l’insegnamento disciplinare può crescere. La sua esperienza può essere formalizzata, comparata con quella degli altri e messa a disposizione di tutti.
Alla fine degli anni ’70 questa consapevolezza cominciava a diffondersi nelle scuole, al punto tale che arrivò a lambire qualche Università. La mia, per esempio. Nel mio raggruppamento, infatti, (non esistevano ancora i dipartimenti, ma c’erano i raggruppamenti, nati dalla speranza che lavorando insieme lo si facesse meglio) venne istituita una commissione didattica, alla quale i colleghi medievisti inviarono me. Ricordo che il primo a parlare fu il mio amico di antropologia, Antonino Colaianni. Disse, io a lezione faccio così e così, e poi organizzo dei gruppi di lavoro dove mi comporto così. Il secondo replicò più o meno con queste parole: se tutti mettiamo in comune quello che facciamo in aula, allora diventiamo una scuola media e non va bene. Noi siamo l’Università, dove la ricerca e la didattica sono libere. La riunione finì, e con essa la commissione didattica, della quale, anzi, si sanzionò che poteva parlare di tutto, meno che dell’insegnamento.
L’esempio è personale, ma la regola è nota. Il docente universitario è signore di quello che fa con la sua materia e con i suoi ragazzi. Per la prima, i controlli sono stati introdotti. Saranno sbagliati, migliorabili. Condivido molti giudizi critici. Ma oggi uno che scriva poco ha vita un po’ più difficile di ieri. Per la seconda i controlli sono assenti. Impensabili. E, se ci sono, riguardano cose accessorie rispetto ai processi di apprendimento: orari di lezione, di ricevimento, gradimento degli allievi, registro elettronico, ecc. Criteri che non contesto, come quelli che ho elencato sopra. Vorrei solo far riflettere sul fatto che presuppongono un ragionamento che sposta la valutazione dall’aula universitaria verso l’esterno. Dice, in pratica, questo ragionamento: se tu lavori bene in facoltà, allora molti giovani correranno da te, e molti di loro avranno successo dopo la laurea. Se i tuoi studenti sono sfigati, be’ stai sereno. Questa è la prova che hai lavorato male.
Il bello è che la stragrande maggioranza dei miei colleghi è pronta a scrivere articoli di fuoco contro l’asservimento degli studi al mercato. E’ la stessa maggioranza che, di fronte all’alternativa di spostare il controllo dentro il lavoro didattico, si immola sulle barricate della libertà di insegnamento.
Il docente universitario che si occupa di didattica disciplinare (o di una delle tantissime pedagogie esistenti) studia l’insegnamento degli “altri”, cioè dei colleghi che lavorano nelle scuole. Egli considera quasi un sacrilegio sottoporre il proprio lavoro a una ricerca altrui. Per questo, quando – ad esempio - si parla di “didattica della storia” si intende una disciplina che si occupa dei problemi di insegnamento/apprendimento in ogni tipo di scuola, meno che nell’Università, perché una “didattica della storia universitaria”, si conviene con estrema naturalezza che non debba esistere.Di conseguenza, conosciamo (o stiamo imparando molto) su come si insegna, e cosa vuol dire “insegnare bene”, solo per quanto riguarda le scuole. Ma, per quanto riguarda l’Università, dovremmo constatare che non sappiamo nulla. La didattica delle nostre Università è un continente inesplorato.
Dal momento, quindi, che non sappiamo nulla di ciò che riguarda i processi di apprendimento degli studenti italiani, l’onestà ci dovrebbe imporre la conclusione che NON possiamo confrontare “come studiano” gli studenti lombardi, pugliesi o siciliani. Possiamo solo contare i loro posti letto, i corsi e gli stage ai quali hanno accesso, e quanto pagano di tasse. E, di conseguenza, possiamo solo stilare graduatorie che premiano chi ha già più risorse e sottraggono soldi a quelli già sventurati di loro.
Che cosa stabiliscono, in sostanza, queste graduatorie? Differenze di territori; forse particolari interessi politici ed economici. Ma, mi dispiace per i cultori dei “poteri forti”, dentro e fuori i governi, mostrano anche la natura ancipite delle Università, che si vuole rigorosamente scientifica per quanto riguarda la ricerca, e gelosamente artigianale per quanto riguarda l’insegnamento. Una natura alla quale sono così attaccate, da accettare che produca ingiustizie macroscopiche, quali le classifiche universitarie per “merito didattico”.