Autore: Raffaele Pellegrino
La ritualizzazione banalizzante unita a una pedagogia dell'orrore fine a se stessa violano sempre più pesantemente la memoria della Shoah che, ad ogni gennaio, diventa un cartello pubblicitario di strumentalizzazione politico-mediatica della nostra società.
Il volume Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico (a cura di F. R. Recchia Luciani e C. Vercelli, il nuovo melangolo, Genova 2016, con contributi dei curatori stessi, Bellei, Brusa, Di Castro, Gaetani, Garofalo, Loiacono, Maida, Mattucci, Pirazzoli, Schwarz) si rivela così il punto di inizio e di sviluppo di quella sete di critica razionale, sempre più necessaria ai nostri giorni.
Recchia Luciani fa proprio il monito di Primo Levi "di arginare tale deriva riduttivistica, semplificante e stereotipizzante della comprensione immaginativa ed empatica" della Shoah”, consapevole che la missione diventa sempre più gravosa e delicata con il passare degli anni. Ciò non significa eliminare l'elemento emozionale e patico, che, come la filosofa stessa ammette, "è indubbiamente rilevante ed efficace, nell’ambito dell’apprendimento, ad inaugurare un sapere attraverso lo stimolo di una curiosità motivante". Ma significa sottolineare che "esso non può e non deve surrogare alla conoscenza profonda e verace della verità fattuale e storica che solo un processo cognitivo analitico-razionale può indurre". Decostruire i prodotti dell' "industria della memoria" significa alloraraccogliere la sfida di risalire alla codifica degli strumenti per conoscere la storia". In breve, si tratta di scrutare, definire genealogicamente il termine "pop".
Pop e Kitsch, grigiore e banalità
Dunque occuparsi di pop Shoah, sottolinea Vercelli, "è un tentativo, in prima approssimazione, di muoversi verso l’identificazione di un complesso di fenomeni sociali, non facilmente definibili perché tra di loro molto articolati e quindi differenziati, ma che hanno immediatamente a che fare con la fruizione pubblica dell’evento storico maggiormente periodizzante nella storia del secolo appena trascorso". La contemporaneità (pop) ha risolto l'annosa questione di Auschwitz come indicibile, irrappresentabile, torcendola a merce spettacolarizzata dell'homo consumens, virandola a "kitsch", nota Vercelli, quando egli sposta efficacemente questo termine dall'ambito economico-commerciale alla sfera storico-sociale: "il kitsch non indica solo una modalità di rapportarsi agli oggetti, e di fruirne concretamente, ma anche il bisogno di credere nelle illusioni di una falsa autenticità. Non a caso viene accostato alla medietà del vivere quotidiano e, in immediato riflesso, ai suoi aspetti più mediocri". L'uomo-kitsch, aggiunge ancora Vercelli, è "colui che al contenuto preferisce l’involucro e all’etica della responsabilità sostituisce un atteggiamento estetizzante, basato sulla ripetizione di ciò che reputava come il sempre identico ad un qualche calco originario, ritenuto immodificabile".
Ciò richiama la mediocrità, la banalità del male della Arendt, propria dei carnefici, il grigiore dell'uomo di Levi, comune e strutturale, latente o manifesto, nell'animo di ciascuno di noi, già evocati nell’Introduzione. Infatti, il messaggio del dramma del trauma, sostiene il sociologo Alexander, rivisitato efficacemente da Schwarz, è che il male è dentro di noi, e dentro ogni società, dunque se siamo tutti vittime e carnefici, prosegue Alexander, allora non esiste più un pubblico che possa distanziarsi in modo legittimo dalla sofferenza collettiva, e da qui, osserva Schwarz, emerge l'etica dei “moral universals, ovvero dei valori morali universali che condizionerebbero il modo in cui guardiamo il mondo attuale", "consentendo l’affermarsi di ideali e valori incentrati sulla difesa dei diritti umani, attraverso la drammatizzazione della Shoah stessa, sottratta sempre più al suo contesto storico originario e ricollocata in un quadro che consente – e anzi impone – continui parallelismi, analogie,confronti con l’attualità".
Allora la domanda sulla Pop Shoah, perché è un interrogativo, un guardarsi intorno e dentro alla luce della storia, è una lotta mai sopita contro la degenerazione della memoria in kitsch-Shoah, sradicata dal suo tempo e dai suoi luoghi. Riflettere sulla Pop Shoah, nell'epoca della post-modernità, afferma Bellei a partire da Lipovetskty, permette di definire la stessa cultura pop, intesa come "la ricerca dell’anticonformismo attraverso la fruizione di conformismi identitari pronti per essere indossati. La velocità è essenziale, essa è il riflesso dell’impossibilità di soddisfare un desiderio svincolato dal contesto biologico. Il segreto di questo paradosso è la sua autoreferenzialità".
Ciò significa che le stesse categorie usate in passato per riflettere sulla Shoah devono essere rivisitate, tanto che la stessa operazione arendtianadi "indugiare sugli orrori", ammonisce Recchia Luciani, da essere metodo ermeneutico conoscitivo rischia invece, oggi,"di divenire una prassi estetizzante del tuttoautoreferenziale”, priva di ogni significato,aperta al rischio della deformazione, spianando la strada alle derive di "liturgia" della memoria da un lato e negazionistiche dall'altro.
Il cappottino rosso
Un esempio efficace degli effetti incontrollati dell'incontro tra cultura pop e male assoluto è rappresentato dal cappottino rosso visto dallo sguardo di Schindler, e, dunque, dall'immagine in senso lato, nota Garofalo, il quale ricordando la Sontag e la Woolf, afferma che "tutte le immagini delle vittime rappresentano una sorta di retorica basata sul fatto che esse reiterano, semplificano, scuotono, creano l’illusione del consenso, evocando una ipotetica esperienza di condivisione". Reiterare, semplificare e scuotere sono le tre operazioni mediatiche proprie delle "temibili agenzie informativo-formative che gestiscono la conoscenza storica diffusa" il cui antidoto risiede nella funzione educativo-formativa della scuola, sottolinea Brusa, che si occupa qui di Didattica della storia della Shoah.
D'altronde, non è affatto azzardato definire la società contemporanea come una società divoratrice insaziabile di immagini, tanto che Mattucci sottolinea che essa "è sospinta da una compulsione a consumare immagini che possono divenire surrogati dell’esperienza diretta, arrivando persino a esercitare uno strapotere nella determinazione di quel che esigiamo dalla realtà. C’è il rischio che dietro la pretesa di mostrare il mondo ci sia l’intento di nasconderlo. Le immagini senza una narrazione che le supporti e ne ricerchi il senso rischiano di perdere di vista nessi e contesto".
Il mercato mediatico trova terreno fertile di coltura nel progressivo, inarrestabile deserto della scomparsa dei testimoni sopravvissuti, quasi tentando di riproporre ossessivamente i prodotti culturali di massa che esso stesso crea, per una sorta di coazione a ripetere, tanto che, osserva acutamente Gaetani, "la trasmissione codificata della tragedia non punta a raccontare un campo di concentramento, quanto un set cinematografico. Quando, infatti, si portano le scolaresche in Polonia nei cosiddetti viaggi della memoria scegliendo come periodo di partenza gennaio o febbraio, mesi in cui il tempo è potenzialmente inclemente, sembra che non si faccia altro che cercare di inseguire la percezione del luogo per come essa è stata trasmessa dal cinema. Visitare Auschwitz in primavera, infatti, produce uno strano effetto alienante, perché la macabra bellezza dei salici che si susseguono alle betulle, che circondano il luogo in cui sono state uccise migliaia e migliaia di persone, a un certo punto, non ha più interessato nessuno, non è stata più descritta, non è stata reputata cinematograficamente e drammaticamente efficace".
I testimoni
È una questione delicata, verificata sul campo, come emerge dalle interviste della Di Castro, lei stessa ebrea di terza generazione (cioè nata tra gli anni Sessanta e Ottanta), ai suoi coetanei, quando "nel parlare di Shoah con i non ebrei, comune a tutti gli intervistati è la sensazione che nel troppo rumore delle Giornate della memoria, la reale portata di quel passato resti, in qualche modo, inascoltata, banalizzata, travisata, se non addirittura rimpicciolita".
Un vero viaggio della memoria, ammonisce giustamente Maida, "è prima di tutto un rapporto tra storia e autobiografia, è un punto di intersezione tra il passato, che contiene tutti i fatti e gli eventi, el a scelta che ognuno di noi opera selezionandone alcuni, che riteniamo essenziali, per cercare di rispondere alle domande che abbiamo nel nostro presente", anzi, riflettendo sulla stessa nozione di "viaggio della memoria", sarebbe più giusto parlare, come suggerisce David Bidussa,di "viaggi di memoria", "perché la memoria non è un soggetto, ma un oggetto. Proprio per questo un viaggio della/di memoria ha bisogno, prima di tutto, della/di storia". Parlare di viaggio di memoria significa inevitabilmente e immediatamente parlare di luoghi della memoria, tematica che affronta Pirazzoli, individuando subito una "sfocatura", potremmo dire, nella percezione della storia, "nella rappresentazione offerta alla cultura di massa".Auschwitz è diventato una metonimia, afferma la studiosa, cioè un campo per indicare l’intero sistema concentrazionario e il suo "prodotto", e questo ha generato l'effetto di descriverlo nella sua articolazione "di campo di prigionia (Auschwitz I), di eliminazione (II– Birkenau) e di lavoro (III – Monowitz), ma allo stesso tempo ha accentrato l’attenzione, facendo scivolare in secondo piano, nella percezione dei non specialisti, la distinzione fondamentale tra Konzentrationslager e Vernichtungslager, campi di concentramentoe campi di sterminio", esempio lampante di come anche i luoghi vivano il trauma della frattura tra realtà storica e rappresentazione di massa.
L'eccesso pop a cui giunge la Shoah si rivela quello di non essere più studiata, ricordata, raccontata storicamente, ma, capovolgendo i poli del tempo, viene ad essere essa stessa "sussunta nel dominio dello spettacolo generalizzato e della comunicazione virale", per usare un'efficace espressione di Recchia Luciani, la quale definisce la posta in gioco di tutto il volume: "nel caso della Shoah questa lacerazione tra quel che è stato e quel che è, ma anche tra il vero e il falso, tra storia e fiction, nonché l’incommensurabilità consustanziale di queste contrapposizioni, segnala uno spazio vuoto in cui porsi la domanda radicale relativa ai margini di sconfinamento e contiguità tra cultura e barbarie, così spesso molto più affini di quanto non siamo disposti ad ammettere", la stessa lacerazione su cui si interroga Loiacono, quando, desiderosa di capire "il divario esistente tra la Anne Frank reale e l’Anne di cui portiamo avanti la memoria", ritiene indispensabile "attuare un’operazione di decostruzione del prodotto Anne Frank creato dalla cultura di massa, e di ricostruzione e ristoricizzazione della sua figura, quanto meno per trarre dalla effettiva conoscenza della sua storia e del suo diario gli elementi utili alla cognizione della Shoah in quanto evento storico".
a domanda "Pop Shoah?" diventa allora un sussulto del presente di fronte alla responsabilità consapevole del passato a cui la storia ci chiama ogni giorno.
Come uscire dalla ritualità scolastica *
Si tratterebbe di avviare un lavoro di formazione sulla memoria continuo e coerente, laddove l’abitudine delle scuole è di disperderlo in tante “monadi memoriali”, ognuna pensata come a sé stante; ognuna pensata come momento decisivo per condurre gli allievi verso quelle “assunzioni morali” che costituiscono in realtà il grado elementare e “meno colto” del rapporto fra storia e memoria. La recente legge di riforma dell’insegnamento (107/2015), più comunemente conosciuta come “La buona scuola”, contiene un dispositivo che consente questa programmazione di lungo periodo. Nel discutibile gergo ministeriale si tratta del PTOF . E’ lo strumento che consente al docente di armonizzare in un percorso pluriennale l’insieme delle attività didattiche, disciplinari e no (e quindi anche le ricorrenze memoriali). Al momento attuale, il curricolo degli studi storici è organizzato in due quinquenni. Il primo è a cavallo fra la primaria e la secondaria di primo grado; il secondo mette insieme biennio e triennio. Dieci giornate per ciclo, specificatamente destinate al lavoro di formazione della coscienza storica degli allievi, non sono poche (soprattutto se viste in un’ottica interdisciplinare). Esse permettono di dislocare, in un tempo disteso e sufficiente, istanze formative che l’insegnante solitamente concentra affannosamente nel fatidico 27 gennaio, per riprenderle, a mo’ di contrappasso didattico, il successivo 10 febbraio. E per ricominciare l’anno successivo.
E’ questa ripetizione che genera quel senso di ritualità opprimente e vuota, denunciata dalla gran parte degli insegnanti. Per liberarsene, occorre costruire un progetto, nel quale le singole giornate si succedono come momenti di crescita, e non come ricorrenze. Cosa inserire in questi momenti? E’ proprio quella ricchezza dell’ “oggetto Shoah”, così come si è andata costruendo nel corso di questi settant’anni, a fornire il serbatoio inesauribile al quale attingere. Ci sono storie personali (di vittime, di salvati, di giusti e di carnefici); politiche di sterminio da ricostruire e capire; vicende di lungo periodo, come quella dell’antisemitismo; contesti di comparativi; storie sociali e culturali, come quella della violenza. E tutto questo può essere studiato confrontando opinioni di storici, lavorando su fonti le più disparate, osservandone il modo con il quale tali conoscenze vengono rielaborate (o negate) nei media e come quei fatti vengono usati dalla politica. Lo sterminio degli ebrei ha generato un contenitore di storie e di problemi che possono essere “spalmati” nel tempo, secondo una progressione di complessità individuata dal docente, aprendo ogni volta nuovi scenari da esplorare.
Si potrebbe, in questo modo, costruire una didattica della Shoah cognitivamente solida. Una progressione finalmente basata sull’incremento conoscitivo, e non più legata (solo) alla preoccupazione di “correggere le storture dei media” (vera fatica di Tantalo); o di non turbare le sensibilità infantili; o di calibrare la vista di immagini forti. Consigli di buon senso, e da seguire, ma che richiamano allo storico quelle “ricette di Zia Rosalia” che Lucien Febvre denunciava come tipiche di una metodologia non ancora adeguata al rigore richiesto dall’approccio scientifico. Ci si potrebbe avviare verso un progetto di training di lungo respiro, nel quale l’allievo si cimenta con problemi sempre più complessi e profondi, che lo portano, da una parte, ad una conoscenza progressivamente più ricca di ciò che accadde settant’anni fa, ma dall’altra, alla consapevolezza sempre più nitida della pluralità dei soggetti, che in tempi diversi, hanno collaborato per produrre quelle immagini - la bambina col cappotto rosso, il bambino di Varsavia, il vagone piombato – con le quali la nostra società ricuce in continuazione il proprio legame con la tragedia dello sterminio, rinverdendo, ogni volta, la speranza che non si ripeta.
*Il brano che segue è tratto dall’articolo di Antonio Brusa (pp. 44 s)