indicazioni programmatiche

  • Cambiare i programmi? Le buone proposte che possono diventare cattive

    di Antonio Brusa

    1. Una buona idea: aumentiamo le ore di storia.

    Insegnare è difficileInsegnare è difficile

    Delle tre proposte di riforma dell’insegnamento storico, che Mariangela Caprara formula su “il Mulino” di settembre, la seconda è quella da sottoscrivere senza esitazione. Questa: «L’incremento delle ore settimanali di storia, distinta dalla geografia (sul cui insegnamento sarebbe auspicabile una seria riflessione a parte), sempre fino alla conclusione dell’obbligo scolastico, è il secondo passo indispensabile. Un numero di ore adeguato è necessario non già per trasmettere una grande quantità di informazioni/nozioni, ma per consentire lo svolgimento della didattica anche in forma laboratoriale e collegata con le realtà territoriali (musei, biblioteche, archeoclub, associazioni)».

     

    Quante ore in più? Mi accontenterei di tornare agli assetti pre-riforma Moratti: con gli insegnanti di area storico-geografica delle elementari che potevano gestire 9 ore settimanali; gli insegnanti delle medie che usufruivano di quattro ore la settimana, con un “bonus” di 30 ore per quelli di terza, per insegnare Educazione Civica, e con il reintegro degli orari specifici delle superiori. Certamente: ricordo molto bene le lamentele dei colleghi degli anni ’80-’90 (che il tempo non bastava, che il programma era troppo vasto ecc.). Ma i tagli che a quegli orari sono stati operati dal duo Moratti-Gelmini (la prima li ha pensati, la seconda realizzati), sono talmente disastrosi che sarei soddisfatto se tornassimo alle dotazioni di venti anni fa. Si è perso da un terzo a oltre la metà del vecchio curricolo di studi, col trucchetto della geostoria, l’abolizione dei moduli nelle elementari e l’introduzione di un’Educazione alla Cittadinanza che, in qualche istituto, porta la Storia, la Geografia e l’Educazione Civica a materie da un’ora la settimana.

    Scrissi allora che Gelmini, volendo introdurre una nuova disciplina, ne stava eliminando tre. È quello che sta, purtroppo, accadendo.

    Credo che qualsiasi discorso sullo stato della conoscenza storica nelle nostre scuole non possa che transitare da queste forche caudine: avete diminuito le ore. Come potete pensare che l’insegnamento non tenda a peggiorare?

    2. Può andar peggio? Sì

    In realtà, il fondo non è stato raggiunto e possiamo ancora peggiorare. E un potente incentivo a farlo viene involontariamente, proprio dai buoni propositi di alcuni colleghi. Ne è un esempio la prima, delle proposte di Mariangela Caprara. Eccola:

    «Che fare? Innanzitutto, va ripristinato il sistema “a spirale” dell’apprendimento dei contenuti, con la ripetizione di tutto il percorso cronologico dalla preistoria all’età contemporanea in 5 (scuola primaria) + 5 (medie + biennio = assolvimento dell’obbligo scolastico) + 3 anni, tenendo conto del limite attuale dell’obbligo scolastico, ossia i 16 anni».

    Attenzione: non conviene invertire i tempi. PRIMA occorre la certezza della restituzione delle ore; DOPO si può pensare ad una diversa distribuzione della materia. Prendiamo il caso della primaria. Attualmente, la storia generale inizia in quarta (e non in terza, come scrive Caprara) e si completa con la secondaria di primo grado. Se, come si suggerisce, si tornasse al vecchio programma SENZA l’incremento di ore corrispondente, gli insegnanti di primaria dovrebbero svolgere l’intera storia generale, avendo a disposizione una o due ore la settimana (si varia a seconda degli istituti). Se già al tempo della ministra Falcucci (metà degli anni ’80), l’insegnante elementare, pur disponendo di un numero di ore molto maggiore, si lamentava del fatto che non riusciva a “terminare il programma”, in quali condizioni lo metterebbe il compito di lavorare su tutta la storia, con il risicato monte ore di cui dispone oggi?

    3. Il male minore, purtroppo.

    Quindi: INNANZITUTTO, restituite a storia/geografia le ore perse. Poi battaglieremo su che storia insegnare e come insegnarla. Altrimenti, la soluzione che a suo tempo fu elaborata da Moratti, cioè quella di “spalmare” il vecchio programma triennale della media in cinque anni, resta la via d’uscita meno dolorosa. Non conviene invertire i tempi nemmeno per quanto riguarda gli assetti strutturali. Oggi, il grande problema del primo ciclo è la difficoltà di saldare il lavoro dei maestri con quello dei professori. È denunciato da molti, ma si fa poco per suggerire proposte (e realizzarle). Eppure, nella maggior parte dei casi, entrambi lavorano nel medesimo istituto comprensivo. Nella proposta di Caprara, di un ciclo composto da medie+biennio (perdonatemi le vecchie definizioni, ma sono enormemente più veloci), si pensa che il collegamento fra i due gradi, corrispondenti a istituti che spesso non hanno nulla in comune, sia più facile?

    Probabilmente, la collega Caprara, pur insegnando in un Liceo Classico, non ha presente la realtà degli insegnanti del biennio, che si trovano una classe composta da allievi che provengono da istituti i più disparati. Come faranno, quei docenti, ad “agganciarsi” all’insegnamento precedente, se non a partire da una “comprensivizzazione” (passatemi il termine) di media e biennio? E quando questa venisse prospettata, quale sarebbe il destino del liceo classico?

    È il caso di ricordare che il timore di mettere mano all’assetto quinquennale della secondaria superiore è di quelli che immediatamente fanno scattare proteste corali, guidate spesso proprio dai sostenitori del Liceo Classico.

    4. La terza proposta di Caprara

    «Il terzo passo è il più difficile, perché è il più rivoluzionario: affidare l’insegnamento della storia esclusivamente a laureati in storia, chiudendo così la stagione, non proprio felice, della storia insegnata insieme all’italiano e alla filosofia da laureati in discipline non storiche, sia alle medie sia alle superiori».

    Si tratta di una delle richieste più antiche dei colleghi storici, e la questione di apparentamenti disciplinari che penalizzano la Storia è un topos di quasi tutti gli interventi didattici del dopoguerra.

    Confesso che, quando facevo parte della Commissione De Mauro, e vi si ragionava di un’area geo-storico-sociale, pensai realmente che fossimo vicini alla soluzione di questo annoso problema. Forse sognavo: due ore di storia, due di geografia e una di scienze sociali/educazione civica. Cinque ore la settimana lungo tutto il curricolo. Ne viene una cattedra che sta su tre/quattro classi. Gestibile dal docente, che si avvantaggia di una “presenza” in aula significativa e rispettata dall’allievo.

    Erano tempi nei quali si poteva pensare anche ad una formazione coerente tra i vari gradi di scolarità. Infatti, ne parlai con i colleghi della mia Facoltà e in poco tempo varammo un corso di laurea in Storia e Scienze Sociali. In tante altre Facoltà non si pensò diversamente. Certamente, non si trattava del professore di “sola storia”. Ma la compagnia delle scienze sociali e della geografia è indubbiamente più consona al nostro mestiere di quella, pur rispettabile, dei letterati e dei filosofi.

    StoriaStoria

    Finì come sapete. O forse no. Forse tutti conoscono le traversie universitarie, il crollo dei corsi di laurea. Ma non è altrettanto noto che ci sono istituti scolastici nei quali un insegnante combina nella sua cattedra nove ore di geografia, o nove di educazione alla cittadinanza in nove classi diverse. 270 allievi: di che qualità dell’insegnamento possiamo parlare?

    Né è più appagante la cattedra di chi entra in classe per due ore la settimana. Il fatto è che, con l’autonomia, di insegnanti di “sola storia” ce ne sono già in giro, e non sembrano gli insegnanti più felici del mondo. Chi insegna, sa quanto “vale” agli occhi del discente un insegnante da un’ora/due la settimana, per quanto questi possa essere uno “specialista della disciplina”.

    Conti della serva, conti penosi. È vero. Ma se non li teniamo presenti, rischiamo di produrre degli specialisti condannati a essere professori ben oltre l’orlo della crisi di nervi.

    5. Tempi di riforma

    Si avvicinano i tempi della riforma dei programmi. Non so se questo è stato il motivo che ha sollecitato «Il Mulino» a pubblicare l’articolo di Caprara (che peraltro interviene frequentemente sia questa rivista, sia sul blog Le parole e le cose, molto attento alle questioni scolastiche). Ma sono abbastanza sicuro che, non appena si cominceranno a conoscere i risultati dei lavori delle Commissioni, che credo già all’opera, a questo articolo (e a qualcun altro che nel frattempo è già apparso) ne seguiranno degli altri.

    Spero che la discussione pubblica non perda di vista il contesto nel quale le riforme si debbono realizzare, e lasci perdere principi astratti, per nulla supportati da riscontri scientifici (come la pretesa superiorità dell’insegnamento ciclico a spirale). Per quanto mi riguarda, non ho nulla contro l’idea di fare del blocco media+biennio il cuore del curricolo verticale di storia, che credo di essere stato il primo a formulare in Italia alla fine degli anni ’90 (quando ne scrissi, i burocrati del Ministero inventarono, per descriverla, il termine “scavalco”, fortunatamente andato in disuso).

    Ma perché questa riforma sia fattibile, occorrono altre condizioni. Allora, con il primo governo Prodi, pensammo che si potessero ottenere. Ci eravamo sbagliati. Ma possiamo ritenere da quegli errori la consapevolezza che mettere in atto un dispositivo formativo verticale, senza avere la garanzia di precisi collegamenti fra i gradi scolastici che lo debbono mettere in pratica, non sia un’operazione saggia.

    Se si volesse andare indietro negli anni, e cercare che cosa non ha funzionato, alcuni elementi balzano agli occhi con evidenza tale, da non poter essere trascurati. Il primo è la mancanza di aggiornamento sui programmi della scuola di base, pur essendosi questi auto-presentati come innovativi. Il fondo che ha finanziato, per esempio, l’aggiornamento del programma Profumo è stato così irrisorio da giustificare la diffusa ignoranza del dettato legislativo. Ne è una prova autorevole la stessa Caprara che non sa che la storia generale inizia in quarta, che non sa che NON è per nulla suggerito di studiare i dinosauri in terza (come aveva invece prescritto la Moratti) e che le attività propedeutiche del primo triennio elementare devono avere precisi caratteri storici (quindi vi si può proporre lo studio della storia, anche contemporanea). Ma la prova più evidente di questa disattenzione generale è che i manuali sono costruiti in omaggio a un senso comune diffusissimo nelle scuole, che è appunto quello di una terza elementare concepita come un kindergarten della preistoria.

    Il secondo è che i programmi che attualmente sono in vigore nella secondaria superiore, a differenza della scuola di base, si presentano come restaurativi. Riprendono, a volte quasi alla lettera come per la parte Medievale, le indicazioni dei programmi del 1960. Programmi allora innovativi, oggi nati vecchi di mezzo secolo.

    Questi fatti (insisto: fatti) presentano al legislatore due problemi. Il primo è quello di armonizzare un curricolo discontinuo. Deve decidere, e deve affrontare su una base chiara il confronto con la scuola. Il secondo è che (vuoi per la mancanza di aggiornamento disciplinare nella scuola di base, vuoi per la volontà politica nelle superiori), lo zoccolo duro dell’insegnamento storico italiano è ancora quello tradizionale. Se si vuole cambiare per migliorare le cose, è lì che bisogna agire.

     

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  • Valditara, i dinosauri e l’ossessione identitaria

    di Antonio Brusa

    Immagine1  È diventata virale la dichiarazione del ministro Giuseppe Valditara sui dinosauri e sul fatto che questi – e le altre eccessive conoscenze previste nei programmi attuali - impediscono di concentraci sull’essenziale e, perciò, impongono l’urgente progettazione di nuovi programmi, più snelli e più adatti a capire il mondo contemporaneo. E così, i dinosauri sono diventati l’argomento principale di discussione in rete, forse anche nelle scuole, e ci accingiamo ad assistere a non so quanti talk show dove si discetterà sull’alternativa spinosa “dinosauri sì/dinosauri no”. Ora, fermo restando che sono totalmente d’accordo con quanto scrive Enrico Bucci, ricercatore presso la Federico II, su “Il Foglio”, e cioè che i dinosauri, se studiati bene, ci possono insegnare molte cose, alquanto utili anche per i nostri tempi, direi che, se vogliamo proprio parlarne, occorre farlo sulla base dei documenti.

    Veramente i programmi vigenti prescrivono lo studio dei dinosauri e sono ingolfati da una massa ingestibile di argomenti? Ecco il testo incriminato:

    “… il curricolo sarà articolato intorno ad alcuni snodi periodizzanti della vicenda umana quali: il processo di ominazione, la rivoluzione neolitica, la rivoluzione industriale e i processi di globalizzazione e di mondializzazione” (Indicazioni 2012).

    Dunque, i contenuti fondamentali del quinquennio che va dalla quarta primaria alla fine della secondaria di primo grado sono quattro/cinque. Mi sembra che l’essenziale quei programmi lo indichino con precisione. A questo nucleo obbligatorio segue un invito ad “aggiornare” gli altri argomenti soliti di una programmazione (e quindi a rivedere i manuali, cosa ahimè che non accade di frequente, vedi il caso della piramide feudale), ma che spetta al docente inserire in un progetto la cui stesura, stando ad un dettato costituzionale che nessun decreto ministeriale può intaccare, è di sua stretta competenza.

    Dunque: le Indicazioni del 2012 segnalano un nucleo solido, fatto di pochi argomenti, intorno al quale il docente può articolare il suo curricolo. E questa storia inizia col processo d’ominazione, ben sessanta milioni di anni dopo la scomparsa dell’ultimo dinosauro. Se il Ministro voleva un programma essenzializzato e senza dinosauri, ce l’ha già. Basterebbe farlo funzionare.
    Già, perché la pratica, come sovente accade nelle scuole, non ha molto a che vedere con la norma. E’ vero, perciò, che in molte scuole si disegnano dinosauri a più non posso (con grande soddisfazione dei bambini, riconosciamolo) e, soprattutto, che gli insegnanti si affannano, per esempio in quarta, a spiegare tutti i popoli del Vicino Oriente, facendosi un problema se hanno saltato gli Ittiti o non ce la fanno a spiegare i Micenei. Quindi, la domanda lecita è: da dove nascono queste abitudini, con le conseguenti angosce didattiche?

    I documenti ci danno una risposta precisa. Queste angosce vengono dalle Indicazioni programmatiche del 2004, promulgate dalla Ministra Letizia Moratti. Sono queste che annullano i “vecchi” programmi della Ministra Franca Falcucci (di tutt’altra pasta: e occorrerà parlarne), e introducono nel secondo biennio della primaria (dunque nelle classi seconda e terza) l’argomento “La terra prima degli uomini”, spalancando la porta ai dinosauri. E poi, se si ha la pazienza di leggere tutti gli allegati di quel lunghissimo testo, e contare gli argomenti di studio obbligatori, si vedrà che superano largamente il centinaio, bloccando in definitiva l’autonomia progettuale del docente.

    Quei programmi, almeno da questo punto di vista, piacquero tanto che – nonostante le correzioni dei due programmi successivi (Fioroni e Profumo) - i sussidiari hanno continuato a mettere la preistoria in terza (cosa non prevista dai programmi 2012) e a infarcirli degli argomenti soliti, dando al docente l’impressione che, in fondo, nulla era cambiato, nemmeno per i dinosauri.

    Se, perciò, il ministro vuole un programma essenzializzato senza dinosauri, può tenersi tranquillamente quello del 2012, e magari darsi da fare per eliminare le scorie lasciata dalla sua predecessora Moratti. 

     

    Immagine2  Dietro i dinosauri, la politica identitaria

    A meno che l’obiettivo sia un altro: quello di riprendere il lato “politico” di quei programmi. E, cioè, il fatto che erano programmi identitari, che ambivano a trasformare la scuola in una fabbrica di ragazzi dall’identità “giudaico-cristiana” (letterale). Un aspetto di quei programmi che le scuole avevano saggiamente messo da parte, e che ora Valditara vorrebbe imporre. I dinosauri (mi dispiace tanto per loro) sono solo un paravento. Dietro c’è l’obiettivo politico serio. Trasformare la storia da disciplina di studio a strumento identitario, come si apprende nel libro che Loredana Perla, presidente della Commissione di studio che dovrà redigere i nuovi programmi, ha scritto insieme a Galli della Loggia, e del quale si può leggere la recensione di Luigi Cajani su HL). Con le parole di Francesco Remotti, potremmo dire che è l’identità, e non i dinosauri, a ossessionare il Ministro. Ma anche su questo punto, i programmi del 2012 dicono qualcosa che è bene leggere ancora, per capire che il vero contraddittorio sarà fra un curricolo identitario di storia, orientato alla costruzione di una collettività di cittadini che si sentono italiani, quale che sia la loro origine, e un curricolo cognitivo/scientifico, nel quale la storia è uno strumento di comprensione della società che va “dato in dotazione” a tutti i cittadini, quale che sia la loro origine, se vogliamo che partecipino responsabilmente alla vita di una società democratica. Sono due obiettivi che nel discorso politico sono accettabili, per quanto rigorosamente opposti: ma non lo sono dal punto di vista scientifico. E questo è bene sottolinearlo. Nel primo modello di curricolo, infatti, la storia è asservita a uno scopo esterno alla disciplina; nel secondo, non può che essere utilizzata nella sua corretta natura di scienza sociale. Come scrisse Roger Cousinet, uno studioso di didattica storica molto noto nelle elementari di un tempo, “tutte le volte che insegnate la storia in nome di qualcosa di diverso, insegnate qualcosa di diverso”. Non la storia. Ma ecco il testo:

    Identità, memoria e cultura storica.

    Nei tempi più recenti, il passato, e, in particolare i temi della memoria, dell’identità e delle radici hanno fortemente caratterizzato il discorso pubblico e dei media sulla storia. Un insegnamento che promuova la padronanza degli strumenti critici permette di evitare che la storia sia usata strumentalmente, in modo improprio.

    Inoltre la formazione di una società multietnica e multiculturale porta con sé la tendenza a trasformare la storia da disciplina di studio a strumento di rappresentanza delle diverse identità, con il rischio di comprometterne il carattere scientifico e, conseguentemente, di diminuire l’efficacia formativa del curricolo.

    È opportuno sottolineare come la ricerca storica e il ragionamento critico sui fatti essenziali relativi alla storia italiana ed europea offrano una base per riflettere in modo articolato ed argomentato sulle diversità dei gruppi umani che hanno popolato il pianeta, a partire dall’unità del genere umano. Ricerca storica e ragionamento critico rafforzano altresì la possibilità di confronto e dialogo intorno alla complessità del passato e del presente fra le diverse componenti di una società multiculturale e multietnica. Per questo motivo, il curricolo sarà articolato intorno ad alcuni snodi periodizzanti della vicenda umana, quali: il processo di ominazione, la rivoluzione neolitica, la rivoluzione industriale e i processi di mondializzazione e di globalizzazione. 

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