Irahsse

  • “Decolonizzare” la scuola e l’università in un mondo post-coloniale. Storici e insegnanti di tutto il mondo ne discutono a Pretoria

    di Daniele Boschi

    L’eredità del colonialismo e l’appello alla “decolonizzazione” dei curricoli universitari e scolastici

    L’eredità lasciata dal colonialismo nelle società post-coloniali è stata al centro di riflessioni e dibattiti molto vivaci, che hanno coinvolto anche gli storici e l’insegnamento della storia. Tanto nei paesi del “global North” quanto in quelli del “global South”, si sono sviluppate critiche riguardo alla passività e all’immobilismo (a volte veri e a volte solo presunti) delle istituzioni educative di fronte alle sfide poste dagli effetti del passato coloniale sulle società di oggi. Molte voci hanno evidenziato l’esigenza di “decolonizzare” i curricoli scolastici e universitari, per porre fine al predominio delle tradizioni epistemologiche e delle narrazioni tipiche del mondo occidentale, impropriamente elevate al rango di conoscenze universali.

    Cecil Rhodes, Primo Ministro della Colonia del Capo dal 1890 al 1896 e figura simbolo del colonialismo britannico1. Cecil Rhodes, Primo Ministro della Colonia del Capo dal 1890 al 1896 e figura simbolo del colonialismo britannico

    Studiosi e attivisti hanno denunciato il fatto che, sebbene in molti paesi vi siano politiche e progetti che mirano a innovare le pratiche didattiche, queste ultime rimangono spesso ancorate a schemi e a pregiudizi eurocentrici, che risalgono in ultima analisi all’età del colonialismo e sono radicati in culture istituzionali che si sono rivelate assai resistenti al cambiamento. Secondo il loro punto di vista, queste pratiche educative contribuiscono a perpetuare strutture di potere basate sulla discriminazione etnica e culturale, sia all’interno che all’esterno delle aule scolastiche e universitarie. Occorrerebbe invece dare maggiore spazio alla voce dei gruppi subalterni e alle culture locali (e “glocali”), in modo da rappresentare in modo adeguato la diversità e il pluralismo che caratterizzano le nostre società.

    Il seminario di Pretoria

    Per affrontare questi temi, si terrà a Pretoria in Sudafrica un seminario sul tema “Verso la decolonizzazione dell’insegnamento e della ricerca: prospettive ed esperienze nella didattica della storia e delle scienze sociali”. La giornata di studi è stata organizzata dalla “African Association for History Education” (AHE-Afrika) e dalla “International Research Association for History and Social Sciences Education” (IRAHSSE), in collaborazione con l’Università di Pretoria, e si svolgerà il prossimo 25 settembre 2019 (qui potete leggere il Call for Papers).

    Questo seminario si propone di sviluppare l’analisi degli obiettivi, dei discorsi e delle pratiche inerenti alla decolonizzazione dell’insegnamento della storia e delle scienze sociali: esso mira, da un lato, a identificare i protagonisti di questo processo a livello locale, regionale e globale; dall’altro lato, a evidenziare i fattori strutturali che stanno agevolando o ostacolando questa trasformazione. Si propone inoltre di chiarire i legami tra le pratiche educative, del presente e del passato, e le idee riguardanti il potere, l’identità, l’eredità culturale, la memoria, ma anche lo spazio, i confini e le migrazioni, per verificare in che modo tali legami riflettano o mettano in discussione gli orizzonti del colonialismo.

    I movimenti di studenti e giovani per la “decolonizzazione” dell’istruzione: il caso del Sudafrica

    L’interesse e la rilevanza di queste tematiche nascono anche dal fatto che, negli ultimi anni, studenti e attivisti appartenenti a minoranze etniche o a gruppi tradizionalmente subalterni hanno richiesto con forza la “decolonizzazione” del sistema scolastico e universitario.

    Gli studenti dell’Università di Città del Capo in Sudafrica chiedono la rimozione della statua di Cecil Rhodes dal loro campus2. Gli studenti dell’Università di Città del Capo in Sudafrica chiedono la rimozione della statua di Cecil Rhodes dal loro campus

    Proprio in Sudafrica si è sviluppato, tra il 2015 e il 2016, un movimento di studenti che aveva tra i suoi obiettivi l’abbattimento dell’eredità culturale del colonialismo e dell’apartheid. La mobilitazione è cominciata nei mesi di marzo e aprile del 2015, quando alcuni studenti dell’Università di Città del Capo hanno chiesto e ottenuto la rimozione dal loro campus della statua di Cecil Rhodes, assunto come simbolo del colonialismo britannico. Il movimento, che ha assunto anche forme violente, si è poi esteso ad altre università del Sudafrica ed i suoi obiettivi sono stati meglio chiariti: gli studenti neri chiedevano la “decolonizzazione” dell’istruzione e la fine del “razzismo istituzionale” e delle discriminazioni nei confronti di studenti e ricercatori di colore all’interno delle università.

    L’estensione della protesta alla Gran Bretagna

    La protesta, subito identificata dall’hashtag “Rhodes must fall”, si è allargata in seguito alla Gran Bretagna. In particolare, gli studenti di Oxford, emulando i loro colleghi di Città del Capo, hanno chiesto la rimozione della statua di Cecil Rhodes dall’Oriel College. Analoghi obiettivi sono stati portati avanti a Londra con la campagna “Why is my curriculum white?”. Ha scritto in proposito Mariya Hussain, studentessa del King’s College di Londra e giornalista della National Union of Students: «Gli studenti neri e appartenenti alle minoranze etniche si trovano ad essere non rappresentati, la loro storia e le loro culture sono completamente ignorate in ambito accademico, perché per molti anni la letteratura e la storia dei bianchi hanno goduto di un maggiore prestigio, e le università continuano a trasmettere l’idea che certi testi debbano avere uno statuto privilegiato a livello accademico»1.

    La statua di Cecil Rhodes all’Oriel College di Oxford3. La statua di Cecil Rhodes all’Oriel College di Oxford

    La Gran Bretagna ha fatto davvero i conti con il suo passato coloniale?

    Diversamente da quanto era accaduto a Città del Capo, la statua di Cecil Rhodes non è stata rimossa dalla High Street di Oxford, ma – come ha riconosciuto Timothy Garton Ash – «il movimento di protesta degli studenti ha dato vita a un importante dibattito riguardo al modo in cui la Gran Bretagna tratta il suo passato coloniale». Dopo aver ricordato che suo nonno lavorò al servizio dell’amministrazione britannica in India, Garton Ash ha aggiunto queste riflessioni: «Ho passato molto tempo a studiare il modo in cui paesi come la Germania fanno i conti con il loro difficile passato, non importa se fascista o comunista. Solo recentemente ho cominciato a chiedermi se non ci fosse qualcosa di simile da fare, in piccolo, anche all’interno della mia stessa famiglia. Naturalmente, io ero consapevole che gli imperialisti britannici hanno fatto cose cattive. Ma penso sia vero che si può studiare la storia in Gran Bretagna e vivere qui come cittadini politicamente consapevoli, senza essere costretti a confrontarsi con questa eredità. La memoria britannica dell’Impero è, io credo, alquanto confusa – e questo significa che essa è anche autoindulgente. A differenza dei tedeschi, noi non ci tormentiamo molto per ciò che i nostri nonni potrebbero aver fatto. Con stile perfettamente britannico evitiamo semplicemente di parlarne».

    Il contributo di intellettuali e ricercatori a questo dibattito

    Non soltanto Timothy Garton Ash, ma anche altri intellettuali, ricercatori e analisti hanno appoggiato le idee e le rivendicazioni che hanno trovato espressione nelle proteste studentesche.

    Per quanto riguarda in particolare il Sudafrica, Savo Heleta, sopravvissuto alla guerra di Bosnia e ricercatore presso la Nelson Mandela University a Port Elizabeth, ha scritto un lungo e documentato articolo, nel quale ha sostenuto che «dopo la fine del sistema oppressivo e razzista dell’apartheid nel 1994, l’epistemologia e i sistemi conoscitivi nella maggior delle università del Sudafrica non sono cambiati in modo rilevante; essi rimangono radicati nelle visioni del mondo e nelle tradizioni epistemologiche tipiche del colonialismo, dell’apartheid e dell’Occidente. Il curricolo rimane in gran parte eurocentrico e continua a rafforzare il dominio e i privilegi dei bianchi e degli Occidentali».

    In Gran Bretagna, le ricerche di Katy Sian, docente di sociologia all’Università di York, hanno posto in evidenza le sottili e insidiose forme di razzismo che si nascondono dietro il liberalismo e la tolleranza soltanto di facciata che contraddistinguono oggi le università britanniche. La situazione di disagio sperimentata da molti accademici appartenenti a minoranze etniche spinge Sian a sostenere che è necessario «che le università prendano sul serio gli appelli per la decolonizzazione del curricolo come mezzo per smantellare i discorsi e le pratiche che riaffermano la superiorità dei bianchi. Attualmente i programmi delle università britanniche tendono a perpetuare una prospettiva angusta e autoreferenziale che rafforza la logica dell’Orientalismo (ovvero l’inclinazione dell’Occidente a considerare le società dell’Oriente come società esotiche, primitive e inferiori)».

    D’altra parte, Harriet Swain, in un articolo pubblicato recentemente dal “Guardian”, ha riferito che diversi dipartimenti di università inglesi hanno cominciato a modificare i propri curricoli per venire incontro alle istanze di movimenti come #Rhodes must fall. Così sta accadendo per esempio nelle Università di Cambridge e di Birmingham e nella London School of Economics, con il supporto di istituzioni come “Advance Higher Education” (Advance HE) e la School of Oriental and African Studies (SOAS). La Open University ha inserito la decolonizzazione del curricolo tra le dieci principali innovazioni verso le quali tenderà l’insegnamento nei prossimi dieci anni.

    Posizioni e osservazioni critiche

    Ma, in concreto, in che cosa consiste e in che modo dovrebbe essere realizzata la “decolonizzazione” delle università e dei curricoli? Non sono mancate nel mondo accademico, sia nel “global North” che nel “global South”, posizioni e osservazioni critiche riguardo al modo in cui questo processo sta avvenendo o dovrebbe avvenire.

    Cheryl Hudson, docente di storia americana all’Università di Liverpool, ha osservato che la campagna #Rhodesmustfall a Oxford ha portato a una semplificazione e a un appiattimento del significato da attribuire a eventi e a personaggi storici, dei quali andrebbe piuttosto compresa la complessità. La storia non è una “morality play” nella quale si possano schierare da una parte i “buoni” e dall’altra i “cattivi”, e la conoscenza del passato non mira a produrre unguenti terapeutici per combattere i torti e le ingiustizie del mondo presente. Rhodes è stato un campione dell’imperialismo e del razzismo britannico, ma ha anche istituito un fondo grazie al quale migliaia di studenti provenienti da tutto il mondo – tra i quali Ntokozo Qwabe, uno dei leader del movimento #Rhodesmustfall – hanno potuto studiare a Oxford2.

    All’altro capo del mondo, Shadreck Chirikure, docente di archeologia all’Università di Città del Capo, ha ricordato che la battaglia per la decolonizzazione dei curricoli universitari nel “global South” ha una lunga storia alle spalle, dato che alcuni dei migliori intellettuali del continente africano hanno combattuto per decenni per la decolonizzazione della conoscenza, dei curricoli e della mente degli africani. Perché dunque questa decolonizzazione non è avvenuta? Secondo Chirikure ciò è dovuto al fatto che le migliori risorse - database, archivi, riviste, centri di ricerca, fondi, ecc. - per studiare il continente africano si trovano ancora oggi nel “global North” e dunque la maggior parte delle ricerche sul continente africano continuano ad essere impostate in base agli interessi e alle categorie mentali tipiche degli studiosi del “global North”. La decolonizzazione della cultura africana potrà avvenire solo se gli africani riusciranno a produrre conoscenze in modo autonomo, a partire dai reali interessi e problemi del proprio continente.

    A Pretoria storici e studiosi di scienze sociali porteranno il loro contributo

    Anche alla luce di interventi, iniziative e dibattiti come quelli che abbiamo appena illustrato, sarà dunque estremamente interessante ascoltare o esaminare i contributi che verranno forniti dagli storici e dagli studiosi delle scienze sociali che parteciperanno al seminario di Pretoria.

    Segnaliamo anche il fatto che questo seminario sarà il primo di due eventi strettamente collegati: sarà immediatamente seguito infatti da una conferenza organizzata congiuntamente dalla “African Association for History Education” (AHE-Afrika) e dalla “South African Society for History Teaching” (SASHT), che avrà luogo presso la stessa Università di Pretoria il 26 e il 27 settembre 2019 sul tema “L’educazione storica e lo Stato”.

     

    Note

    1. NdR: tutti i brani riportati tra virgolette, a cominciare da questo, sono stati tradotti dall’inglese in italiano dall’autore dell’articolo.

    2. Peraltro le borse di studio elargite sulla base del testamento di Rhodes erano destinate in origine soltanto ai bianchi. Gli studenti di colore hanno avuto accesso a queste borse di studio soltanto a partire dagli anni Sessanta e Settanta del ‘900.

     

    Fonti immagini

    Immagine_1

     

    Immagine_2

     

    Immagine_3

  • La “cultura storica”. Come mettere insieme Public History, memoria storica e storia insegnata

    di Daniele Boschi

    Che cos’è la “cultura storica”

    Se per “cultura” intendiamo l’insieme delle modalità mediante le quali una società interpreta e trasforma la realtà in generale, possiamo allora definire la “cultura storica” come l’insieme delle rappresentazioni e delle pratiche per mezzo delle quali quella società si rapporta al proprio passato. Si tratta quindi di un concetto molto ampio, che comprende non soltanto la storiografia accademica e la storia insegnata a livello scolastico, ma anche, più in generale, le memorie e i racconti del passato tramandati all’interno di una collettività, i musei, le mostre e i luoghi di interesse storico, le pratiche e i rituali commemorativi, l’attività politica nella misura in cui essa si interessa al passato.

    La cultura storica si riferisce quindi a un campo più esteso rispetto a quello della public history, della quale si è molto dibattuto, in Italia e non solo, negli ultimi anni. “Public History Weekly” è una rivista dedicata a questo particolare approccio storiografico, molto interessata anche alla didattica. In Italia si è creata da poco l’associazione dei “public historians”.

    Sebbene la riflessione teorica sul concetto di cultura storica si sia sviluppata a partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso con i lavori di studiosi come Jörn Rüsen, Bernd Schönemann e Maria Grever, è soltanto negli ultimi anni che tale concetto è stato posto al centro di un rilevante e crescente numero di iniziative, pubblicazioni, programmi di ricerca e corsi di studio universitari (qui una bibliografia esauriente).

    Cultura storica e didattica della storia

    Lo studio della cultura storica ha grande importanza anche per la didattica della storia. È evidente infatti che gli studenti del XXI secolo assumono gran parte delle loro rappresentazioni e atteggiamenti riguardanti il passato al di fuori del contesto scolastico, a causa del ruolo sempre più significativo che hanno la rete, i dispositivi elettronici e i mezzi di comunicazione di massa. L’insegnamento della storia non può non tener conto di questa situazione sociale e non può non farsi carico della necessità di fornire alle nuove generazioni gli strumenti per relazionarsi in modo critico con le rappresentazioni del passato provenienti da agenzie e attori sociali esterni alla scuola e al mondo universitario.

    Ma qual è attualmente il rapporto tra l’educazione storica formale e la cultura storica? E quali sono le nuove sfide, sul piano teorico e sul piano pratico, che la storiografia e la didattica della storia devono affrontare? Queste sfide possono essere comprese anche in un contesto transnazionale e globale, oltre che in ambito nazionale?

    Un convegno per rispondere a queste domande

    Per provare a rispondere a queste domande, una cinquantina di ricercatori e studiosi provenienti da vari paesi europei si riuniranno ad Atene nel prossimo mese di giugno in occasione della conferenza internazionale dedicata al tema Historical culture in and out of history education.

    Erodoto e TucidideErodoto e Tucidide <br> (Museo Archeologico Nazionale di Napoli)

    La conferenza è stata organizzata dalla International Research Association for History and Social Sciences Education (IRAHSSE), un’associazione nata nel 2009 con lo scopo di promuovere la riflessione e il confronto su tutti i temi relativi alla didattica della storia e delle scienze sociali.

    Come si legge all’art. 2 del suo statuto, l’Associazione si occupa dell’insegnamento scolastico e degli usi pubblici della storia e delle scienze sociali e intende favorire il dibattito fra i diversi approcci a questi temi. L’IRAHSSE pubblica una propria rivista, il primo numero della quale è consultabile sul sito dell’associazione, dove si trovano anche molte notizie relative alle conferenze internazionali tenute finora e ad altre iniziative e pubblicazioni su temi attinenti all’insegnamento della storia e delle scienze sociali.

    All’organizzazione del convegno ha collaborato la rivista online “Historein”, che si occupa di storia della storiografia, ma anche di public history. Rinviamo anche in questo caso al sito della rivista, dove si possono leggere gli articoli che essa ha pubblicato, dal primo numero edito nel 1999 fino ad oggi .

Questo sito utilizza cookies tecnici e di terze parti per funzionalità quali la condivisione sui social network e/o la visualizzazione di media. Chiudendo questo banner, cliccando in un'area sottostante o accedendo ad un'altra pagina del sito, acconsenti all’uso dei cookie. Se non acconsenti all'utilizzo dei cookie di terze parti, alcune di queste funzionalità potrebbero essere non disponibili.