di Piero S. Colla
1. Il revival della semantica dell’“identità”: tra discorso politico e istituzionalizzazione
Con poche eccezioni, il percorso verso il voto europeo del 6-9 giugno 2024 delinea una tendenza generale, sottesa alle campagne elettorali dei paesi membri. Istanze e proposte organizzate attorno alle minacce che insidierebbero l’identità, etnoculturale o nazionale, dei popoli chiamati al voto, permeano il dibattito pubblico e polarizzano il confronto tra i programmi. Il richiamo delle retoriche dell’appartenenza sembra disarmare il ragionamento, confermando un trend di lungo periodo: la storia politica degli ultimi anni ci conferma che rappresentazioni contrapposte dell’alterità – spauracchio della “sostituzione” etnica, sfide dell’integrazione dei migranti, velleità protezionistiche o autarchiche, dall’alimentazione al costume… – orientano strategie e narrazioni in modo talmente organico ed esclusivo che l’oggetto stesso dell’appuntamento elettorale – il futuro della costruzione europea, delle politiche e delle istituzioni che dovrebbero sostenerla – fatica ad aprirsi un varco.
Dalla Francia alla Svezia: rinasce il culto delle radici?
È bene fare chiarezza sulla dinamica che ha portato il tema dei confini immaginari della comunità civile ad insinuarsi nel vocabolario politico-istituzionale. Dall’indomani della sua elezione, il presidente francese Nicolas Sarkozy annunciava la creazione di un “Ministero dell’Identità nazionale”1, subito denunciato in un testo dello storico Gérard Noiriel2. Più di recente, Emmanuel Macron – presentando il suo progetto di legge rivolto contro il “separatismo” islamico3 – rilanciava il tema convenzionale dell’assimilazione repubblicana, di un’identità civica presentata in forma volontaristica, pedagogica, assegnando compiti precisi al settore educativo4. Nella stessa direzione puntò, nel 2022, una riforma dell’educazione civica (Éducation morale et civique) dal forte accento valoriale.
Con accenti diversi, molti nodi cruciali dell’agenda politica degli ultimi anni sono scanditi dalla medesima percezione esasperata del ruolo aggregante della fedeltà alle radici: il recupero (anche educativo) dell’identità imperiale britannica, culminato nella Brexit, ne è un buon esempio. Radici nazionali, certo, ma non sempre sovrapponibili a uno stato-nazione: in paesi costruiti su un equilibrio precario tra diverse tradizioni, dalla Spagna al Belgio, l’invenzione o la reinvenzione di una cultura, nazionale o sub-nazionale, sono da decenni elementi polarizzanti del confronto politico – con riflessi immediati sulle diatribe scolastiche5. La loro forza magnetica travalica culture politiche e schieramenti: il caso di C. Puidgemont, il leader nazional-conservatore catalano accusato di secessione, attualmente riparato a Waterloo, a cui il socialista P. Sanchez ha offerto l’amnistia dai gravi capi d’imputazione che pesano su lui in cambio del sostegno al proprio governo, sta a testimoniarlo.
La paura di perdersi
La convergenza delle ansie di intellettuali francesi, britannici o est-europei attorno al tema del declino ci segnala un altro dato: la prevalenza di una preoccupazione di tipo reattivo, auto-protettivo, nell’attrazione che il tema dell’identità esercita sulla classe politica. La paura di perdersi, di vedere il collante della propria comunità (una storia, un habitus) trasformato in bersaglio. Una proposta dirompente, avanzata poche settimane orsono dal governo in carica a Stoccolma – introdurre “il razzismo anti-svedese” (degli stranieri, evidentemente) come una nuova fattispecie di crimine6 – è emblematica di questa nuova figura dell’allarme sociale. Un senso del “noi”, ripiegato a riccio, le cui ripercussioni sul messaggio della scuola non si faranno presumibilmente attendere.
2. Identità nazionale, educazione e “canone”
Proprio da questo punto di vista, con riferimento alle politiche del curricolo e dell’insegnamento della storia, un trend si è profilato in Europa con una certa chiarezza a partire dagli anni 2000. Temi e proposte che lo animano hanno spiazzato ampi settori degli specialisti di didattica della storia, obbligati a constatare che miti, simboli, nuclei tematici che si erano abituati a considerare come oggetto di decostruzione critica e presa di distanze si stanno riaccreditando, nel dibattito civile, come alternative positive alla crisi della disciplina: la panacea per un presunto disagio identitario. Mi riferisco, per esempio, alla designazione di antenati nobili, indiscutibili, di una comunità nazionale.
Fig.1: L'histoire de France en BD ("La storia di Francia a fumetti") FonteGli antenati Galli al servizio dell’integrazione?
Dal momento che diventate francesi, sentenziò il 19 settembre 2016 l’ex-presidente Sarkozy, rivolto ai migranti accolti come cittadini, “i vostri antenati sono i Galli”. Tra i leader in carica, Viktor Orbán ha intrapreso lo stesso percorso, imbastendo un ardito percorso di recupero – funzionale alle esigenze geostrategiche del momento – delle radici turche (e ottomane ) degli ungheresi7. La tendenza va però ben al di là di dichiarazioni propagandistiche, estemporanee o meditate che siano. In Francia dove (per citare lo storico Antoine Prost) “l’insegnamento della storia è un affare di Stato”, la paventata crisi del “romanzo” (roman) o del “racconto” (récit) nazionale a scuola è stata – per quanto la cosa possa stupire – al centro del confronto, nelle ultime tre tornate elettorali8. La riabilitazione del “canone” storico, ossia di un’armatura genealogica dei concetti cardinali dell’unità nazionale, è stato un cardine delle riforme curricolari realizzate in Danimarca e in Olanda negli ultimi vent’anni9. Nella regione belga delle Fiandre, la rivendicazione di un “canone” separato è un elemento strategico del programma del governo in carica, come arma contro l’universalismo binazionale del regno belga10.
L’Italia, tra identitarismo e storia mondiale
Anche il saggio di recente pubblicazione di E. Galli della Loggia e di L. Perla11 può essere annoverato in questo ambito, come un documento programmatico, argomentato e per certi versi estremo. È lecito dubitare però, sulla base di quanto detto sopra, che si tratti di una proposta inedita, per quanto il contesto, anche politico, in cui viene rilanciata ne amplifichi l’impatto e le possibili implicazioni normative. Come ha ricordato opportunamente Luigi Cajani commentando il saggio su questo sito, il tema catalizzò l’interesse dei commentatori e la comunità degli storici, in Italia, poco meno di un quarto di secolo fa, quando un canone secolare fu insidiato da ipotesi alternative, formulate nel contesto della riforma dei cicli abbozzata dalla Commissione De Mauro. L’alternativa storia mondiale/storia nazionale, in quanto elemento cardinale di un curricolo verticale, divenne per la prima volta un tema di confronto acceso, al di fuori dalla ristretta cerchia degli specialisti del curricolo.
Le diverse versioni delle Indicazioni nazionali per la scuola dell’obbligo, varate dopo l’abbandono di quella ipotesi radicale di riforma dell’impianto cronologico e tematico del corso, hanno dato vita, in questo senso, a diverse variazioni sul tema del posto della nazione nel curriculum di storia della scuola dell’obbligo: per giungere fino alla versione del 2012 – con cui Insegnare l’Italia dialoga polemicamente a distanza. Indicazioni caratterizzate da una pluralità di posizioni, dove il riferimento all’identità culturale in quanto obiettivo formativo è sfumato, ma non assente. Così, le stesse finalità inserite nella sezione introduttiva relative alla storia insistono tanto sul significato etico e “patrimoniale” (quindi sociale e civico) dello studio della materia, quanto sull’educazione ad una “coscienza storica” formulata in chiave individualistica, come competenza universale. Per quanto riguarda la scansione proposta dei temi di studio e degli obiettivi di apprendimento, l’area culturale di riferimento è certo l’Italia, ma anche l’Europa e l’orizzonte mondiale – mentre fissare l’esatta gerarchia, o l’articolazione tra questi piani rientra, verosimilmente, tra i compiti dell’insegnante.
È lecito parlare di una costante esitazione del legislatore, tra un governo e l’altro, nel confrontarsi con la dimensione “nazionale” della missione educativa dell’insegnante di storia12, che spiega, in qualche misura, il riacutizzarsi della diatriba in un contesto, come quello attuale, di incertezza culturale e di conflitti tra memorie.
3. La nazione e il curricolo: restaurare o innovare?
Se le controversie (ravvivate recentissimamente dagli interventi del ministro Valditara13) possono essere considerate come l’eco di un conflitto soggiacente e mai sedato, rispetto al quale il contesto italiano non fa eccezione, la pubblicazione di un libro che si schiera risolutamente su uno dei fronti – come Insegnare l’Italia – costituisce una provocazione stimolante: l’occasione per affiancare al giudizio su un intervento dai toni provocatori qualche interrogativo di portata più generale. Come si strutturano i campi ideologici attorno al posto dell’“italianità” nell’insegnamento della storia – e soprattutto: quale posta in gioco vi si collega, sul piano delle politiche scolastiche e del curricolo? Vorrei tentare di rispondere alla domanda sulla scorta della lettura in parallelo del libro in questione e dell’analisi critica svolta da Cajani, ma anche della maniera in cui lo stesso dibattito si configura, contemporaneamente, in altri territori d’Europa.
Galli della Loggia: l’identità fonda la nazione, non la esalta
In apertura della prima sezione del saggio, curata da Galli della Loggia, troviamo una dichiarazione d’intenti di tipo rifondativo. L’autore si sforza di liberare il campo dalle riserve ideologiche che la rivendicazione di un’educazione consapevole all’identità italiana potrebbe suscitare, confutando il luogo comune secondo cui coltivare, attraverso la scuola, un senso di appartenenza esclusivo, radicato nella tradizione e nel patrimonio culturale, sarebbe sinonimo di una posizione politica intransigente, escludente, velatamente razzista. Il progetto che Galli Della Loggia mette al centro della sua proposta non è, in effetti, la pura celebrazione dei fasti della patria, o di un nucleo di valori fondativi elevati su un piede di superiorità, sulla falsariga della narrazione etnocentrica che paesi come Francia, Gran Bretagna o Stati Uniti conobbero in vari momenti della loro storia. Non si tratta semplicemente di resuscitare un catechismo civico-patriottico con venature fideiste, per quanto le allusioni degli autori al culto delle reliquie o all’apprendimento dell’Inno di Mameli a memoria tendano in questa direzione. L’aspetto più originale sta nel declinare un obiettivo politico – ripristinare in un pubblico disincantato, distratto ed etnicamente plurale, il senso della solidarietà sociale e della partecipazione democratica (finalità intorno alla quale tutti convergono) attraverso il rafforzamento dello status della cultura storica relativa alla nazione, nel curricolo dei primi anni d’insegnamento.
La proposta va compresa, e si pone dichiaratamente, come l’antitesi di una tendenza per nulla confinata all’Italia: la generalizzazione di un prototipo di educazione alla cittadinanza intesa (sul modello del Quadro di riferimento delle competenze per una cultura della democrazia, del Consiglio d’Europa14) come l’acquisizione guidata di competenze e disposizioni psicosociali, in riferimento a valori, diritti e doveri formulati in termini universali. Principi immanenti, de-storicizzati. Ai quali gli autori contrappongono una riqualificazione civica, nazionale, del corpus di tutte le discipline.
Una pedagogia carismatica e gerarchica che parli al cuore e all’intelletto
Portare l’educazione storica – come Galli della Loggia propone – “al centro del processo didattico” sarebbe al tempo stesso la risposta alla crisi del legame sociale, in una società frammentata, e a una sfida didattica: accompagnare i più giovani verso la comprensione di un mondo sociale forgiato dalla storia, e incomprensibile al di fuori di essa. Come un filo rosso, scorre attraverso il saggio l’elogio del dettaglio percepito “qui e ora”, rispetto all’astrazione e all’universalità dei concetti: familiarizzare l’alunno con un genius loci saturo di significati, da esplorare sotto l’autorità del maestro. Questa pedagogia di tipo carismatico (e gerarchico) farebbe leva tanto sul registro della cognizione quanto su quelli del carisma e dell’emotività: tra le virtù dell’educazione storica, Galli Della Loggia annovera infatti da una parte lo stimolo ad un atteggiamento relativistico (“scoprire che le idee e i costumi …mutano…”), dall’altra la possibilità di promuovere, attraverso l’esempio e l’identificazione, una dinamica sociale contrapposta, centripeta. La formazione di una comunità culturale coesa.
Un approccio genetico all’identità collettiva racchiude, secondo l’autore, la chiave di due virtù: la consapevolezza individuale (aderire a un “punto di vista”, e non più a slogan ripetuti a macchinetta) e la tutela delle specificità di ogni cultura, ogni alterità. Il concetto è familiare alla tradizione dell’antropologia culturale, e richiama alla mente l’apologia di Claude Levi-Strauss in favore di “una certa chiusura culturale” – nel nome, appunto, della preservazione di una diversità minacciata – pronunciata davanti all’UNESCO nel 197115.
4. Identità storica, coscienza storica e curriculo
Coerentemente con quanto abbiamo detto sopra in riferimento alla storia, gli autori del volume (in particolare attraverso il ragionamento svolto nei due capitoli a cura di Loredana Perla) sembrano attribuire sostanziali virtù pedagogiche a uno spostamento di baricentro, che ricentri il curricolo, fin dai primi anni di scuola, attorno alle tracce e ai brandelli familiari che ne veicola l’esperienza del mondo: la lingua, un paesaggio rappresentato in forma poetica (“i campi”…) e la memoria storica in cui siamo immersi, attraverso il dibattito pubblico, per esempio. Anche quando dividono le coscienze, il 25 aprile o il Giorno del Ricordo sono emblemi del legame tra comunità civile e storia come “eredità”. Dig where you stand – il motto dei pionieri dell’archeologia industriale nordica, negli anni ’70 – potrebbe prestarsi a questo progetto. Al centro del nuovo schema si trova pertanto l’esperienza privata dell’italianità e dei suoi simboli, e il valore del mondo classico, rappresentato attraverso idealtipi e personalità carismatiche, in parte interpretato in retrospettiva (“che cosa ci hanno lasciato i Romani”).
Le paure del presente ispirano il ritorno alla narrazione risorgimentale
A prima vista, la proposta sembrerà familiare alla generazione dei 40/60enni, ed è su questo elemento che potrà contare, presumibilmente, il consenso che raccoglierà. Ma a guardar bene, l’inversione della progressione cronologica propugnato da Galli della Loggia per i programmi della scuola primaria – che porterebbe a introdurre lo studio degli eroi del Risorgimento nel secondo anno delle primarie – rappresenta, più che un ritorno al passato, un ritorno a modelli pre-novecenteschi, dei primi decenni dall’Unità. Un ritorno innestato su un clima sociale opposto a quelle che aveva accompagnato, e favorito, la genesi di quel canone: non l’ottimismo evoluzionista di fine Ottocento, che portava a coniugare fiducia nel progresso, nazionalismo e imperialismo, ma l’horror vacui della società globalizzata, senza padri, votata alla frammentazione e al declino.
Il salto verso una prospettiva di storia mondiale, prospettato dalla Commissione De Mauro nel 2001, resta evidentemente alieno rispetto a questa prospettiva.
5. Storia identitaria e storia critica: ipotesi alternative o idealtipi?
Prima di osservarne le conseguenze sul piano didattico, mi sembra urgente discutere la pertinenza dell’obiettivo stabilito dagli autori sul piano politico-ideologico. Ciò aiuterebbe non tanto a decostruire la loro posizione, ma a collocare noi stessi, ed eventuali contro-proposte, rispetto a una diatriba che sembra cristallizzarsi attorno a due petizioni di principio.
Impostando la sua recensione sull’opposizione generale tra fautori di una storia “identitaria” e di una storia critico-scientifica, Luigi Cajani assegna evidentemente Insegnare l’Italia, alla prima categoria, ricordando (a giusto titolo) che si tratta a grandi linee di una tendenza dominante nel mondo, e sottolineando che le Indicazioni per la scuola dell’obbligo, in vigore in Italia, hanno, nelle vicissitudini delle diverse riforme, seguito un’altra strada. Davanti a un conflitto che – come è facile prevedere – conoscerà altri momenti accesi, mi sembra utile che la critica non si concentri, in modo esclusivo, sull’(in)opportunità di collocare acriticamente l’“identità italiana” come finalità del processo educativo: un partito preso facile da decostruire, rispetto alle esigenze di un mondo multipolare, dalle frontiere divenute porose.
Occorre approfondire le ragioni delle posizioni identitarie
Sarebbe invece utile che lo sforzo critico si spingesse a sondare anche la tesi opposta, che cioè la costruzione dell’identità di gruppo, e quindi anche nazionale, non rappresenti in nessun caso un obiettivo strutturante, e che l’architettura del curriculum possa prescindere dall’urgenza con cui i temi dell’integrazione culturale, della memoria politica, della tutela del patrimonio – che declinano in vario modo la relazione tra costruzione dell’io e storia - vengono agitati sulla scena sociale.
Dove si annidano i pericoli di un uso identitario della storia? Ogni riferimento a una filiazione culturale, nella didattica, è pericoloso per natura? La distorsione identitaria riguarda la scelta degli oggetti d’insegnamento, la loro disposizione nel curricolo, o la finalità che viene loro assegnata?
La polemica (che la didattica della storia ha promosso, nei vari contesti in cui forze nazionalpopuliste hanno promosso, di volta in volta, il ritorno a un “racconto” rassicurante – e gli esempi, dalla Polonia alla Gran Bretagna, non difettano) è spesso articolata in termini politici piuttosto unidimensionali: insistere sul radicamento che la storia deve coltivare sarebbe di per sé sinonimo di autoritarismo, negazione della diversità, e della libera indagine. Il romanzo nazionale votato dalla destra francese non è altro (sulla scorta delle opere di Suzanne Citron) che un “mito nazionale” da sconfessare16. Gli esempi sui quali gli autori di Insegnare l’Italia fanno leva per suffragare la loro proposta – il libro Cuore, o Pinocchio, in quanto iniziazioni efficaci e pertinenti all’introiezione del senso della Patria – non possono che accreditare questo sospetto.
Le identità collettive hanno un fondamento storico?
A complicare il quadro, la critica dell’uso tradizionale della storia a sostegno dei processi di nation building ha fatto leva nel tempo su un certo numero di assiomi, non sempre rigorosi e coerenti. Una delle tesi consiste nel negare qualsiasi materialità all’esistenza di identità collettive radicate nel passato e nella cultura comune, quindi alla materia stessa del contendere. All’inizio degli anni 2000 (per fare soltanto un esempio, rilevante sul piano dei principi più che delle pratiche), la diatriba si generalizzò all’intero continente, attraverso il dibattito sull’inserimento o meno di un riferimento alle sue “radici ebraico-cristiane” nel progetto di Costituzione europea. Come è noto, il dibattito si saldò con l’omissione di quel riferimento “identitario”, a cui seguì – fatto ben più importante – la bocciatura dell’intero progetto costituzionale. Alcuni osservatori, come lo storico israeliano Elie Barnavi, consigliere scientifico del Museo di storia dell’Europa di Bruxelles (inaugurato nel 2017), ritennero che la richiesta – portata soprattutto dal Partito popolare europeo – di legare la costruzione europea ad un’“eredità”, fosse giustificata, sul piano intellettuale e strategico.
Il conflitto attorno al fondamento storico-culturale delle identità nazionali – e per riflesso di una possibile narrazione continua della sua genesi (anche se i due concetti non sono sovrapponibili: proporre, sulle tracce dei Lieux de mémoire di Pierre Nora, una storia critica dell’identità francese non significa aderirvi in toto, in modo mistico) – è antico, e inficiato a mio avviso da un certo nominalismo. A Parigi, a Roma come a Stoccolma, questo conflitto vede contrapposti chi dichiara che la comunità nazionale è sempre stata il prodotto di ibridazioni e contatti, e che un comune denominatore non esiste – e chi per reazione vanta il significato e la persistenza di simboli passati. Con una curiosa inversione, è proprio l’editoria scolastica e la letteratura edificante (che di quella memoria comune è stata il pilastro) a rappresentare, adesso, il principale oggetto di investimento emotivo. Non la storia di Francia, ma il Petit Lavisse o il Malet Isaac, manuali adottati per decenni e considerati da Nora luoghi di memoria per antonomasia. Non l’irredentismo come progetto, ma il libro Cuore. In un contesto in cui un ex-candidato alle elezioni presidenziali francesi, Eric Zemmour, si dedica alla scrittura di 600 pagine di un’Histoire de France nostalgica (puntualmente demistificata da una schiera di rappresentanti della storiografia scientifica ), contrapponendosi alla riscrittura in chiave cosmopolita e anti-identitaria della storia francese da parte di Patrick Boucheron18, l’impressione è di un muro contro muro, in cui l’agitatore politico ruba il mestiere allo storico, e viceversa.
La lunga storia dell’insegnamento identitario
A partire da questa rappresentazione binaria e intellettualmente ambigua, da cui gli stessi autori di Insegnare l’Italia non sembrano astrarsi, pochi sono disposti ad ammettere che l’insegnamento scolastico della storia è sempre stato solidamente ancorato su un presupposto “identitario”, ma anche ambivalente, articolato, in dialogo con la storia scientifica, e non sempre trascrivibile in termini politico-strumentali.
Nell’Italia fascista, il mito scolastico di Roma “apparteneva” a Mussolini (ma anche all’antifascista Momigliano) …o si esercitava su entrambi? Se mi si lascia passare un riferimento personale, la scuola della mia infanzia (fine degli anni ’70), aveva intrapreso – sul piano delle prassi – un approccio desacralizzatore rispetto all’identità nazionale, che permetteva di organizzare davanti a tutta la scuola un film come Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai raccontato (Florestano Vancini, 1971). Ma la stessa scuola articolava miti romani, ricordo delle libertà comunali, e retorica corale della Resistenza, fatto a cui devo, sul fronte della cultura storica, una relativa familiarità con le vicende della Liberazione e, sul piano della cultura politica, qualche riflesso che mi differenzia dai miei coetanei estoni, o ungheresi. Mentre l’uso scolastico delle identità nazionale si andava appannando, prosperavano (in quell’Italia solcata dagli anni di piombo) identità politiche non meno intransigenti e violente, mescolate a quelle locali, celtiche, di cui si intravedeva il rifiorire. Tanto da trasmettere a me bolognese un messaggio letteralmente identico a quello che Sarkozy avrebbe voluto impartire (a prescindere dalle origini di ciascuno) agli scolari di oggi: “i tuoi antenati, furono i Galli”.
L’identità si nasconde anche nelle storie “alternative”
Dove si fissano allora i paletti? E che cosa si può tentare di diverso? Il primo passo consiste forse nel domandarsi a quali condizioni si sfugge all’uso identitario della storia, quando l’alternativa è difficile persino da “pensare”. Con scrupolo filologico, L. Cajani ha ricordato l’impegno versato dell’UNESCO, dal dopoguerra, in favore di un approccio (auto)critico dell’educazione storico come contrappunto dell’uso identitario della storia. È facile notare che anche nel paradigma multiprospettico – elaborato e teorizzato in un’epoca assai più recente, in seno del Consiglio d’Europa, prima come teoria, poi come comune denominatore di una volontà politica sottoscritta dai governi – operano, spesso in modo esplicito, sottintesi identitari.
La rivincita delle “identità minoritarie”, anche da parte delle istituzioni transnazionali, è stato uno dei frutti più palesi della rottura dei canoni centralisti. E nelle riforme che si sono succedute a partire dagli anni ’70 e ’80 – in Alto Adige/Süd Tirol come nelle province autonome spagnole, in Scozia come in Francia – la critica delle narrazioni nazionaliste si è innestata sull’esaltazione di modelli identitari alternativi e rivendicati (addirittura, nel caso del Süd Tirol, sul concetto di Heimat) che rivendicavano, in alternativa a un’identità formale, civile – delle appartenenze “calde”, sentimentali, conculcate19.
Nel rivendicare un’identità indigena – dal Canada alla Scandinavia – le ideologie sprezzantemente etichettate come woke nel dibattito pubblico sono, a loro volte, intrise di implicazioni identitarie: una visione della storia intesa a rifondare appartenenze conculcate, e pensate come “naturali”. Di converso, la stessa idea di valorizzare un’identità particolare porta a enfatizzare l’esistenza di un’identità “maggioritaria”, sia pure come fattore d’identificazione negativa: se il passato della minoranza la definisce e la qualifica, anche la maggioranza si ritrova ancorata ad una rappresentazione narrativa, stilizzata. La rivincita dell’ethnos (l’identità come natura) sull’ethos – l’identità come patto civile, sul quale il discorso della scuola conosce può esprimersi in modo più articolato.
Fig.2 : "Sametinget", il parlamento della minoranza "Sami" in Norvegia (immagina libera da diritti Fonte )Combattere l’identità in nome dell’identità?
In Svezia ad esempio, dopo il loro riconoscimento ufficiale, nel 2000, come “minoranze nazionali”, gruppi come i Rom, i Sami o gli ebrei sono stati integrati nel curricolo ufficiale (da un governo progressista) non solo come fonti di conoscenza, ma nell’intento preciso di guidare i membri verso un’identificazione positiva con la “loro” identità. Al carattere fortemente etico e integrativo dell’uso della disciplina, proprio alla Svezia, viene così ad aggiungersi, in complemento, l’idea di un’identità parziale, come fonte di autostima. Il risultato, come mostrano gli studi in proposito, apre quesiti angosciosi, di difficile soluzione, per il corpo insegnante: che significa, per l’insegnante di storia, promuovere la fierezza “etnica” di alunni diversi, dentro la stessa classe? Insegnare un’anti-storia, contrapposta a quella mainstream? Una storia della quale l’insegnante di storia, peraltro, non conosce nulla?20
L’identità nazionale è insomma contestata più spesso in nome dell’identità che contro di essa: il culto delle radici caratterizza, in modo a volte ossessivo, gli avversari del canone tradizionale – che lo accusano di razzismo e di esclusivismo. E il dialogo tra pedagogia e scrittura dei curricula continua ad offrire il destro a una retorica che tiene assieme individualismo, critica e identità. Al di là delle quérelle nazionali, le istituzioni europee e transnazionali sono impegnate da vent’anni nella promozione di un’ideologia delle competenze multiculturali, e di una “memoria comune” europea, che insiste su capisaldi dello stesso tipo: rivendicazione di valori comuni, valorizzazione di determinati snodi, e persino la scelta di miti dell’origine e di eroi21.
Fig.3: Annuncio della commemorazione in memoria del prof. Samuel Paty nelle scuole francesiLa Francia: immigrazioni e identità nazionale
La ricerca di tessere, con gli strumenti della storia, un’identità europea transnazionale, la riabilitazione delle memorie regionali e autonomistiche, e il riaffiorare di nostalgie nazionaliste seguono da decenni un percorso parallelo; ma scandiscono entrambe il dibattito sulle possibilità del “vivere assieme”, in comunità sempre più minacciate da tensioni centrifughe. Secondo i contesti, alla scuola viene richiesto ora di incapsulare queste tensioni con una parola suadente, ma a-storica (rafforzando l’educazione ai valori democratici, l’ABC del vivere in società) oppure di non sottrarsi al confronto sulla storicità dell’incontro tra memoria e esercizio della cittadinanza, portandovi una voce razionale, e abilitando l’alunno a posizionarsi in modo autonomo. La Francia sembra aver percorso la prima strada: le riforme messe in cantiere, in riferimento all’insegnamento della storia, dal socialista Hollande e da Macron (entrambi accusati dalla destra di svendere l’identità nazionale) confermano che il quadro di riferimento è dato ampiamente per scontato, e resta risolutamente nazionale, ma non necessariamente “nazionalista”. I programmi della scuola dell’obbligo francesi appaiono più espressamente etnocentrici dello stesso progetto che Galli della Loggia abbozza, in modo un po’ sommario, per la scuola primaria. È sufficiente, per verificarlo, osservare la suddivisione in temi proposta per le classi CM1 e CM2 (età: 9-10 anni), e introdotta nel 2015:
Storia - Classe di CM1
• TEMA 1: …e prima della Francia?
• TEMA 2: L’epoca dei re
• TEMA 3: L’epoca della Rivoluzione e dell’impero
Storia - Classe di CM2
• TEMA 1: L’epoca della République
• TEMA 2: L'età industriale – in Francia
• TEMA 3: La Francia, dalle guerre mondiali all’Unione europea.
Il quadro di riferimento si espande, ma solo in parte, a livello di scuola secondaria. Al liceo, una forte caratterizzazione tematica e problematizzante dello studio della storia non impedisce che i temi proposti per i primi due anni del corso siano, in misura di 3 su 8, incentrati sulla modernità in Francia.
Quando quella del professore di storia è una situazione a rischio
Non è forse un caso se dalla critica delle narrazioni auto-centrate, narcisistiche, la Francia, paese che per primo, grazie Emile Durkheim, arrivò a concettualizzare la funzione centrale della scuola come fabbrica della coesione sociale trascenda subito nella ricerca elaborata di nuove forme di comunità. La spinta dei movimenti migratori ha servito indubbiamente da sprone. Quando il curricolo e i programmi d’esame, per esempio, hanno introdotto il tema della colonizzazione e della decolonizzazione, è anche per sottolineare (con una legge varata sotto la presidenza Chirac) il “ruolo positivo” delle conquiste francesi, o per problematizzare (come nei programmi del 2019, in vigore per l’ultima classe del liceo) le ferite ancora aperte: “la guerra d’Algeria e le sue memorie”22. Il confronto con una narrazione comune, con un’identificazione che si biforca, è dunque sempre al centro.
Fig. 4: Samuel Paty (1973-2020) FonteIl ruolo strutturante del passato e della sua elaborazione ha insomma il suo posto tanto nel vecchio approccio come nel nuovo: come dato, e come progetto. E soprattutto come oggetto di preoccupazione, in un paese dove essere professore di storia è un mestiere a rischio. Essersi fatti carico del proprio ruolo di mediatore dei valori di tolleranza del 1789, è valso a due colleghi – negli ultimi quattro anni – una condanna a morte, ad opera di gruppi che concepiscono l’“identità” (religiosa e non solo) come un’entità non negoziabile, su cui la scuola non deve avere la minima presa23. Anche per questo la ricerca di una via d’uscita, anche tra gli storici di professione, è percepita come una necessità vitale.
La comprensione critica è una chiave per un approccio comune alla storia
Generalmente, sono proprio gli specialisti dell’alterità in seno ai curricula e ai canoni d’insegnamento – tra i quali lo scrivente si annovera – a porsi il problema della fabbricazione sociale di una narrazione comune, attraverso la narrazione storica. Il racconto di “ciò che ci è comune” è il titolo di un’inchiesta, realizzata nel 2016 sotto la guida della sociologa Françoise Lantheaume, mettendo a confronto la Francia con la Svizzera, la Germania e il Canada24. La scelta di questo tema dialoga polemicamente con la lettura declinista dello stato della scuola. Già nel 2002 un libro controverso, I Territori perduti della Repubblica25 aveva tracciato un quadro allarmante dell’incapacità della scuola di frenare l’esplosione di razzismo, confermando l’impressione che in molte aree peri-urbane, dominate dall’influenza delle reti islamiste, la trasmissione dell’ABC civico repubblicano fosse messa a repentaglio. In un’antologia di testimonianze di operatori della scuola, raccolte all’indomani degli attentati del 2015, gli risponde Benoît Falaize con un titolo che fa il verso al precedente: I territori vivi della Repubblica26. Nell’introduzione, il libro contiene un’osservazione incoraggiante: un insegnamento fattuale, incentrato sulla comprensione critica, può anche essere la chiave dell’incontro tra le memorie. La ricetta per un’identità ricomposta.
Nessuno avrà da ridire se “comprendere” e “conoscere” possono anche significare, per effetto indotto, la possibilità di “ri-conoscere”.
Per quanto le diagnosi sembrino divergere radicalmente, dunque, un interrogativo attorno alla costruzione del senso comune per mezzo della storia sottende la controversia, sui due fronti. Sul piano empirico, due punti fermi emergono dall’analisi delle risposte degli alunni: da un lato, al di là della pretesa disgregazione della scuola repubblicana, i punti di riferimento storici (date, personaggi, episodi fondatori…) tendono a perpetuarsi a prescindere dalla prudenza con cui la scuola vi si avvicina, dall’altro, la ricerca identitaria, mediata dalla storia, resta diffusa tanto a sinistra quanto a destra dello spettro politico. Il primo dato ci conferma anche che una prospettiva narrativa e genetica è ancora una modalità prevalente a partire da cui la storia viene assimilata; il secondo, che le società atomizzate che ci circondano non scoraggiano, ma esasperano la ricerca di “radici” storiche.
6. Una quérelle non solo “scolastica”: identità e memorie nella storia pubblica
Cercherò, per concludere, di riassumere le domande che questa ricostruzione solleva. Invitando il lettore a sospendere – in omaggio a una buona prassi scientifica – il giudizio di valore (“l’identità – come l’intendiamo – è buona o cattiva”?), per chiedersi invece: fino a che punto riconoscersi in un’identità (storica) è un “bisogno” per il singolo? Quanto lo è per la collettività?
Mi pare indispensabile rilevare a questo proposito un altro aspetto a complemento della cronologia dei curricula tracciata da Cajani: dopo i correttivi apportati alla riforma Moratti, gli obiettivi identitari del curriculum non sono stati tanto accantonati, quanto trasferiti in misura crescente verso altri oggetti d’identificazione, extracurricolari. Il dato non è solo italiano: l’esplosione delle diverse forme di sensibilizzazione alla memoria di traumi collettivi, drammi o genocidi ha conosciuto un boom, nel quale l’intenzione di inculcare durevolmente un senso di identificazione – ma anche emozioni, sensazioni comuni – si esprime senza filtri. Il passato è portatore (secondo le Linee guida nazionali “per una didattica della Shoah a scuola”, del 2019) di una “lezione”; la sua conoscenza non deve (cito dallo stesso documento) “restare fine a se stessa”.
Un punto di vista edificante, echeggiato anche nell’ampia produzione di raccomandazioni, europee o italiane, relative alla “cittadinanza attiva”, multiculturale e post-nazionale, ove lo studio della storia è la premessa di una presa di coscienza etica, di un senso di “responsabilità”27.
Senza pronunciarmi sulla fondatezza di simili approcci, devo constatare che il modello integratore, la ricerca di forgiare il cittadino di domani, non si è mai inclinato a una prospettiva avalutativa, neutrale: l’ingegneria dell’identità si è spostata verso altri nuclei narrativi, investendoli di attese. La novità è piuttosto la difficoltà generale che la costruzione di una narrazione post-nazionale incontra, a fronte delle intransigenze della memoria sociale. È sintomatico che – mentre le porte della scuola si aprivano, attraverso l’inflazione di giornate “della memoria di…” – alle pratiche commemorative, si è rivelato sempre più arduo, nello spazio sociale, fare riferimento agli elementi fondatori della comunità. Riconoscersi in una storia, in un’anamnesi, reale e non affabulata.
Dal 25 aprile, all’Unità d’Italia, al 1° maggio, le rare occasioni in cui al corpo politico è data l’occasione (nel deserto delle culture politiche d’antan) di riconoscere la propria legittimità, stanno diventando occasione di contrapposizioni rituali, non di rado violente, in cui la storia viene negata, manipolata o agitata come una clava. Anche Insegnare l’Italia – nel proporre un uso etico e edificante, per non dire “presentista” dell’epopea di Roma, della civiltà comunale o del Risorgimento – cade in questa trappola.
Restano allora due domande: a) quale funzione può esercitare l’insegnamento della storia nella gestione di queste tensioni? b) è utile negare il problema, come se la storia che insegniamo o che riassumiamo nei curricula o nei libri di testo non avesse nessun rapporto con le memorie che operano di fronte a noi, e dentro di noi?
Contrapporre categoricamente l’identità collettiva ad una storia più vera o “pura”, non è – a mio avviso – una risposta adeguata alla sfida lanciata da Insegnare l’Italia. Si tratta di ricordare – con Maurice Halbwachs28 – che le comunità, tutte, sono fatte di ricordi condivisi. La parola della scuola dovrebbe essere attenta, scientifica, emancipatrice – ma anche consapevole del suo impatto, e delle sue responsabilità.
Note
1 Il nome esatto del ministero, istituito nel 2007 e soppresso tre anni più tardi, era Ministère de l'Immigration, de l'Intégration, de l'Identité nationale et du Développement solidaire.
2 G. Noiriel, À quoi sert “ l'identité nationale ”?, Marseille, Agone, 2007.
3 Loi n°2021-1109 confortant le respect des principes de la République (“loi-séparatisme”), del 2021.
4 Tra le innovazioni della legge si nota la riduzione drastica delle deroghe che autorizzano l’istruzione familiare (homeschooling).
5 Un contributo recente su questo tema, pubblicato in Francia, è Histoires nationales et narrations minoritaires: vers de nouveaux paradigmes scolaires ? : XXe-XXIe siècles (a c. di P. S. Colla, B. Girault e S. Ledoux), Lilles, Septentrion, 2024.
6 Svenskfientlighet. Dichiarazioni rese, tra aprile e maggio 2024, dalla ministra delle Pari opportunità, Paulina Brandberg, liberale.
7 https://balkaninsight.com/2021/11/08/the-two-faces-of-orbans-hungary-christian-and-neo-ottoman/
8 Persino un presidente come Macron, che aveva fatto dell’integrazione europea un tema caratterizzante del suo primo mandato, ha compiuto incursioni in questo campo, invocando il ritorno alla “cronologia” nella didattica della storia.
9 M. Grever, S. Stuurman (a c. di), Beyond the Canon: History for the Twenty-First Century, Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2007.
10 Su questo, vedi il contributo di K. Van Nieuwenhuyse, L’enseignement de l’histoire dans un Etat-nation en déclin. Le cas belge depuis le XIXe siecle in Histoires nationales et narrations minoritaires, cit. Cfr. anche il volume curato da E. Tartakowski, School Historical Knowledge in Europe. Transnational circulations and debates, Arcidosso, Effigi 2023, che comprende altri casi recenti di “rinazionalizzazione” dell’insegnamento della storia, come il caso della Polonia.
11 Insegnare l’Italia – Una proposta per la scuola dell’obbligo, Brescia, Scholé 2023.
12 “La dimensione nazionale si presta in modo privilegiato ad educare alla memoria” ribadisce ancora il documento Indicazioni nazionali e nuovi scenari (CSN per le Indicazioni nazionali, 2018).
13 Su questo tema, cfr. l’intervento di A. Brusa.
14 https://www.coe.int/en/web/reference-framework-of-competences-for-democratic-culture/
15 “Razza e Cultura” in C. Levi-Strauss, Razza e storia. Razza e cultura, Torino, Einaudi, 2002 [1971].
16 S. Citron, Le mythe national, Paris, Editions ouvrières, 1987.
17 A. Aglan e al., Zemmour contre l'histoire, Collection “ Tracts ”, 34, Parigi, Gallimard, 2022.
18 Histoire mondiale de la France, Parigi, Éditions du Seuil, 2017.
19 Andrea Di Michele, The Teaching of History in Schools in South Tyrol, from 1945 to the Present Day: From Promoting Identity to Building a Common History, in Piero S. Colla, Andrea Di Michele (a c. di) History Education at the Edge of the Nation. Political Autonomy, Educational Reforms, and Memory-shaping in European Periphery. Cham, Palgrave, 2023.
20 Cfr. C. Svonni e L. Spjut, Swedish School Curricula and Sámi Self-Identification: The Syllabus from 1960s to 2011 in Colla, Di Michele, History Education at the Edge, cit.
21 Dalla proclamazione del 23 agosto come Giornata europea della memoria, alla Risoluzione del 19.9.2019 sull’“Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, all’inaugurazione della Casa della Storia d’Europa, il calendario politico dell’istituzione democraticamente più “legittima” dell’UE testimonia di questa ricerca. Cfr. A. Sierp, Le politiche della memoria dell’Unione europea in “ Qualestoria ”, 2, 2021.
22 L. Wirth, L’histoire du fait colonial dans l’enseignement secondaire. “ Hommes & Migrations ” 1, 2012.
23 Il 16 ottobre 2020 Samuel Paty, professore di storia e geografia in una scuola media della periferia di Parigi, fu decapitato con un’ascia per avere mostrato immagini giudicate blasfeme durante un corso di educazione civica. La denuncia di genitore di un’alunna fu all’origine dei fatti. Un altro attacco terroristico, con un morto e tre feriti, si verificò il 13 ottobre 2023, ad Arras, nel nord della Francia: i testimoni hanno riferito che l’aggressore si era lanciato all’assalto dei docenti gridando : “sei un professore di storia ? Sei un professore di storia” ?
24 F. Lantheaume e J. Létourneau (a c. di), Le récit du commun: l’histoire nationale racontée par les élèves, Lyon, Presses universitaires de Lyon, 2016.
25 Emmanuel Brenner (a c. di), Les Territoires perdus de la République. Antisémitisme, racisme et sexisme en milieu scolaire, Paris, Mille et une nuits, 2002.
26 B. Falaize, Territoires vivants de la République, Paris, La Découverte, 2018.
27 Indicazioni nazionali e nuovi scenari, cit.
28 La memoria collettiva, Milano, Unicopli, 2007 [1950].