di Antonio Brusa
“Non rubiamo il passato ai ragazzi”
Se le proteste per reintrodurre la prova di storia (la vecchia tipologia C della prima prova) avessero un qualche riscontro, politico o anche solo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, sarebbe una bella vittoria per una disciplina che sta patendo un processo di marginalizzazione disastroso, ormai di livello mondiale.
È, dunque, una buona battaglia quella lanciata da “Repubblica”, forte dell’appello della senatrice Liliana Segre, al quale hanno aderito storici, scrittori, artisti, giornalisti e tanti cittadini. I molti giovani che hanno risposto al questionario sulla reintroduzione della prova, e i moltissimi che hanno aggiunto considerazioni sull’utilità dello studio della storia, col loro numero incoraggiano tutti quelli che amano questa disciplina e ne ritengono indispensabile il portato formativo.
Come si ricorderà, il dibattito è stato avviato dall’allarme lanciato dal Coordinamento della Giunta centrale per gli studi storici e delle Società degli storici (Cusgr, Sis, Sisem, Sisi, Sismed, Sissco), a seguito delle modifiche della prova di esame di stato (Circolare MIUR n. 3050 del 4 ottobre 2018). Su «Historia Ludens» abbiamo dato ampiamente conto dei numerosi interventi.
Storia sotto attacco. Gran Bretagna
A quella mobilitazione il ministro Marco Bussetti ha riposto con dei fatti. Aveva promesso che la storia non sarebbe scomparsa, e ha mantenuto la parola. La storia è stata presente direttamente in una delle tracce proposte, quella sul brano di Claudio Pavone, e, indirettamente, sia nella traccia su Pascoli (Patria), sia in quella sui diritti civili e soprattutto su La Storia di Elsa Morante. Dunque: la storia come disciplina importante e, per questo, trasversale, come il ministro non ha mai smesso di dichiarare. In aggiunta, Bussetti ha sottolineato che, con questo sistema, la storia è uscita dal dimenticatoio studentesco, registrando un numero di scelte superiore al passato, dal momento che gli studenti “non si sono polarizzati su una prova”. Pensando allo 0,6%, registrato dal tema sulle Foibe, assegnato al tempo della Gelmini, gli si dovrebbe dar ragione, per quanto l’instant poll di Skuola.net ci faccia temere che, comunque, la traccia di “storia-storia” sia l’ultima delle sette in lizza.
Un dibattito acceso e una certa varietà di opinioni
Questi “fatti” del ministro non hanno accontentato Andrea Giardina e con lui molti altri, storici e no, che li hanno considerati insufficienti a ridare alla storia quel ruolo centrale nell’impianto formativo, del quale la prova di storia era, per così dire, il sigillo.
Tuttavia, occorre notare che il fronte delle opinioni è molto diversificato. Uno specchio di questa varietà è dato dalla rapida indagine presso i dirigenti scolastici, svolta da “AdnKronos”, nella quale, accanto a chi attribuisce la scelta del ministro al deprecabile e ulteriore allontanamento della scuola dalla visione gentiliana (!), vi è chi, come Tina Gesmundo, preside di uno dei più attivi licei di Bari, afferma che "l'eliminazione della traccia di storia fa parte di un grande disegno che va a picconare i fondamentali della nostra cultura umanistica ", al contrario di Chiara Alpestre, preside dello storico “D’Azeglio” di Torino, per la quale si tratta di "una falsa polemica”, dal momento che, se “è vero che il tema storico non viene più esplicitato” e che la Storia viene “diluita all'interno di altre tipologie”, non si può negare che “l'attenzione per tutte le dimensioni di competenza dell'allievo sia rimasta".
La contesa potrebbe continuare: sarà vero che la trovata del ministro è “ideologica” come accusa Giardina? e che, più che eliminare una traccia poco accorsata, si sarebbe dovuto intervenire per renderla più appetibile? Si potrebbe aggiungere, per rinfocolare la polemica, che il ministro è stato abbastanza astuto, scegliendo tracce ampie, che potevano essere svolte anche conoscendo poca storia ma sapendone ben parlare, e che ha, altrettanto saggiamente, evitato il nodo degli ultimi settant’anni, quel buco nero della conoscenza storica nelle nostre scuole, messo in luce agli esami di questi ultimi due decenni (su questo vedi ancora «Historia Ludens»). Si potrebbe, anche, rinfacciare al ministro una perdita di dignità della storia, ridotta a disputare una prova di esame alle altre discipline, come lamenta il documento della SISLav, la società degli storici del lavoro.
Quale che sia il giudizio che diamo di questo dibattito, e quali che ne siano gli esiti ultimi, tutti dovremmo riflettere sul fatto che i problemi che questo dibattito ha fatto emergere resteranno, e sono talmente gravi che dovrebbero accomunare i contendenti in uno sforzo comune. Sarebbe l’ennesima beffa, ammonisce Marco Campione, se, spentisi i fuochi della polemica, la storia tornasse nel dimenticatoio pubblico, in attesa della diatriba successiva, sull’educazione civica, o il bullismo o una qualsiasi altra disfunzione. (L’articolo, pubblicato da «Italia Oggi» può essere letto qui, in una versione leggermente diversa).
È il caso, quindi, di tornare sulle questioni messe in luce dal dibattito, di analizzarle nella loro complessità e nei soggetti coinvolti. Occorre che tutti capiscano che ruolo vi hanno giocato, e, ciascuno per la propria parte, prendano le decisioni opportune, nella speranza che “la sveglia non sia suonata troppo tardi”, come teme Jacopo Frey, ripercorrendo la vicenda di una degradazione della disciplina, che negli ultimi venti anni è apparsa inarrestabile.
La diminuzione delle ore di storia
Che la ministra Gelmini abbia operato un “pesante taglio delle ore di insegnamento” è notizia ormai da Wikipedia. Nascoste nelle pieghe di una delle tante leggi per la semplificazione e il risparmio (burocraticamente: Legge 133/2008) vi erano le norme per la semplificazione scolastica, con le quali la ministra, “con il pretesto di creare uno zoccolo duro di apprendimenti”, sfalciava gli orari, con un particolare riguardo per la storia. A 10 anni di distanza, Mariangela Caprara a buon diritto segnala quella, come la data d’inizio del naufragio.
Storia sotto attacco. Stati Uniti
Tuttavia, a sfogliare le agenzie del tempo, ci sorprende la flebilità delle proteste (confrontate, per dirne una, a quelle attuali). Una scuola più “leggera” fa risparmiare e questo – a molti della maggioranza come dell’opposizione – non dovette apparire un danno irreparabile; e una scuola “più semplificata” forse non dispiacque a tanti storici, per i quali le complicazioni didattiche sono volentieri il sintomo di un qualche sconfinamento pedagogico. Si levarono lamenti per la sparizione della geografia; parecchi gridarono alla cancellazione della storia dell’arte (un’accusa alla Gelmini che si rivelò non del tutto fondata.). Ma gli allarmi reali, quelli che avrebbero dovuto risuonare al cospetto della frana della storia, tacquero. Né ebbero una minima eco le denunce lanciate da «Mundus», la rivista di didattica della storia che l’editore Palumbo ha pubblicato per qualche anno (n. 5-6, 2007, Editoriale).
Passati sotto silenzio allora, è indispensabile ricordare quei tagli oggi, per apprezzarne correttamente la gravità. Può aiutare questo prospetto orario, calcolato sui due cicli dei programmi attuali (con l’avvertenza che il conto è necessariamente approssimato, dal momento che è molto difficile valutare l’incidenza dell’autonomia negli orari effettivi adottati dai singoli istituti).
| | Prima della Gelmini | Dopo la Gelmini |
Primaria | L’insegnante dell’area geo-storico-sociale disponeva di 9 ore settimanali. La pratica di fare “molta storia” era abbastanza diffusa | Dalle 3 alle 7 ore settimanali Nell’ultimo biennio, quindi, da 268 ore in su. | 2 ore/1 ora Nell’ultimo biennio fra le 132 e le 66 ore |
Secondaria di primo grado | L’insegnante disponeva di 2 ore di storia e altrettante di geografia. In terza aggiungeva 30 ore di educazione civica. Gelmini abolisce queste ultime e introduce geo-storia con 3 ore settimanali | 68 ore annuali. 234, totali nel triennio, comprese quelle di educazione civica. | 51 ore annuali 153 ore nel triennio |
Secondaria di secondo grado | Ad eccezione liceo classico, che propone 3 ore settimanali, tutti gli altri istituti hanno la storia a due ore, che diventano 4 con geografia. Geostoria riduce di un quarto queste ore. | 340 ore nel quinquennio | 265 ore |
Tutto il curricolo di storia | L’autonomia fa sì che i totali varino da istituto a istituto | 840 (e oltre) (da aumentare, a seconda delle scelte degli insegnanti della primaria) | 550 (spesso anche meno) (calcolando un programma di 132 ore nella primaria) Perdita approssimativa nell’intero curricolo: almeno 289 ore |
Quanto incide l’autonomia sulle ore di storia?
Molto, dovremmo dire, per quanto sia estremamente complicato acquisire dati certi per tutto il territorio nazionale. Una frequentazione piuttosto assidua delle scuole mi ha fatto conoscere una vasta tipologia di comportamenti. Vi sono primarie nelle quali, giocando con orari e spostamenti di personale, si è riusciti a mantenere un assetto comparabile a quello dell’ “età d’oro” della Falcucci; altre, invece, nelle quali le tre ore delle scienze geo-storico-sociali sono state divise equamente fra Storia, Geografia e Cittadinanza e Costituzione. Lo stesso ventaglio trovo nelle secondarie di primo grado: qui, accanto al decadimento delle discipline geo-storico-sociali a materie da un’ora la settimana, sappiamo di calendari alternanti (una settimana alla storia, l’altra alla geografia); mentre non mancano istituti virtuosi, dove, recuperando “l’ora di approfondimento”, si ripristina il monte ore pre-Gelmini.
A questa varietà di comportamenti corrisponde un'organizzazione lavorativa altrettanto diversificata: mi è capitato di conoscere insegnanti, prossimi apparentemente al suicidio, la cui cattedra era composta da 9 ore di lavoro in un corso, e da altrettante da spendere in nove classi diverse. Immagino che una ricognizione capillare ci riserverebbe altre sorprese.
Il disastro delle professionali. Un caso di studio della marginalizzazione della storia
Nel loro documento di protesta, gli storici citano, a riprova della volontà politica di marginalizzazione della storia, la questione del biennio delle professionali, dove la storia è diventata materia da un’ora la settimana. A mio modo di vedere, si tratta un perfetto caso di studio nel quale analizzare la complessità del problema e le diverse responsabilità dei soggetti coinvolti.
Storia sotto attacco. Italia <br> (Targa esposta nei negozi Feltrinelli)
Cominciamo dal Miur. Nell’aprile del 2017 la ministra Valeria Fedeli varò il decreto di riordino degli istituti professionali. Nei quadri orari (riportati nell’Allegato 3) leggiamo che all’ “asse storico-sociale” del biennio sono assegnate 264 ore, esattamente quante vengono assegnate all’italiano e all’asse scientifico. L’asse storico-sociale è, di fatto, uno dei tre pilastri della formazione di base. Questa, nel suo complesso, gode di 1188 ore, un gruzzolo orario ben superiore a quello destinato al comparto professionalizzante (di 914 ore). L’accusa che la politica culturale del Miur è antiumanista e, in particolare, tesa alla svalorizzazione della storia non coglie nel segno: almeno fino a questo momento, e per quanto riguarda le professionali.
Come si arriva al dimezzamento della storia
Tradizionalmente, di quel monte ore ne venivano assegnate due alla storia e due a economia e diritto. Quindi la storia nelle professionali aveva 66 ore annue, quante nelle altre secondarie superiori (con l’eccezione del Classico, ovviamente). Mancava la geografia, che, finalmente nel 2018/19, ha cominciato a vedere i frutti delle sue lunghe battaglie per entrare nei curricoli. Lo annuncia trionfalmente Paola Pepe, dalle colonne della rivista online dell’Aiig (Associazione degli insegnanti di geografia), avvisando gli iscritti che la loro disciplina potrà avvalersi di un’ora, se non due, la settimana («l’insegnamento di geografia non deve necessariamente essere di un’ora settimanale, potrebbe essere anche di due ore o più»). Il punto è: dove si prendono queste ore? Come Pepe ricorda in quello stesso articolo, l’introduzione della geografia è una tipica riforma “senza oneri aggiuntivi”. Il monte ore resta quello. Per farsi spazio, la nuova deve cannibalizzare (mi si passi il termine) le discipline che c’erano prima.
Se queste 264 ore vengono ripartite al modo di Salomone, generano quattro materie da un’ora la settimana. Come sanno bene gli insegnanti, e in particolare quelli delle professionali, per gli allievi diventano quattro materie di importanza trascurabile; ai professori prospettano un lavoro per nulla entusiasmante. Che programma di studi si può realizzare con sole 33 ore l’anno?
264 ore. La politica italiana (precedente al governo in carica) ha fatto un investimento culturale notevole negli istituti professionali. Un investimento che stiamo sprecando, dobbiamo concludere con tristezza.
Un disastro non necessario
Ma è ineluttabile questo modello di ripartizione oraria? Niente affatto. Certo, bisogna farsi largo fra i rovi del buropedagoghese ministeriale per capire come. Ma, con un po’ di pazienza, si scopre che nelle intenzioni del legislatore le quattro discipline sono da vedere quanto più possibile legate fra di loro. Sono “aggregate”, si dice più volte (artt. 2 e 5), mentre si sottolinea che vanno privilegiati i progetti e i momenti interdisciplinari (art. 5, commi b, c).
Non compare in nessuna parte del testo la norma che il monte ore vada suddiviso in parti uguali. La parola che ricorre spesso è “flessibilità”. Se ne danno anche dei parametri: ogni disciplina può “perdere fino al 20%” del tempo assegnato (che è poi una stranezza, visto che questo tempo non è mai definito); si dice, ancora, che si può modificare fino al 40% dell’orario. Vi è, ancora, una riserva di 264 ore da destinare a progetti individualizzanti, che nessuno vieta che vengano utilizzate a supporto di questo o quell’apprendimento. Per non parlare, infine, di quella marea di progetti (PON e altri) che, invece di disperdere l’attenzione degli allievi in mille rivoli, potrebbe essere finalizzata a una meritoria integrazione disciplinare.
Si potrebbe fare qualcosa nelle scuole?
I mezzi, almeno per limitare dei danni, ci sarebbero. Vista la gravità della situazione, ci attenderemmo che venissero attivati (nelle scuole e nel Miur, che potrebbe riservare a questo tema qualcuna delle sue incessanti direttive). Si può lavorare con le compresenze, col personale di potenziamento; si potrebbero discutere scelte anche dolorose, per salvare una disciplina e non perderle tutte e quattro. E, poi, perché non creare, come prescrive la norma, momenti integrati di lavoro storico-geografico o di storia e diritto, e perché non provare a mettere economia con storia o con geografia?
Storia sotto attacco. Australia
Indubbiamente questa ri-organizzazione del lavoro crea problemi: orari magari non facili per i docenti, e non solo di quelli dell’asse storico-sociale; spostamenti di personale; fastidiose revisioni di abitudini; questioni sindacali; una progettazione didattica laboriosa; richieste di aggiornamento specifiche; un’azione pressante negli organi collegiali per sensibilizzare colleghi e dirigenti. Il tutto aggravato – probabilmente - da una certa inconsapevolezza delle opportunità che l’autonomia offre. È una miriade di ostacoli, della struttura e delle persone, per superare i quali occorrerebbe che la comunità scolastica condividesse un po’ di quella passione per la storia e per la sua utilità civile, che gli intervenuti al dibattito dichiarano sui media. Forse questa vicenda ci sta raccontando che questa condivisione non è molto diffusa, nelle nostre scuole.
Disastri prossimi venturi
Un tempo la geografia economica regnava nelle scuole tecniche e professionali. Fatta fuori da sciagurate riforme passate, è giusto che i colleghi di geografia le provino tutte per cercare di reintrodurla. Ma, come abbiamo visto, la combinazione fra la non volontà di spendere (“senza oneri aggiuntivi”) e l’incapacità delle scuole di rimodulare gli insegnamenti, porta a risultati spiacevoli per tutti, geografi compresi.
Storia sotto attacco. Nuova Zelanda
Non saranno gli ultimi. Forti del successo nei bienni e dell’endorsement di Bussetti, i colleghi di geografia si dicono sicuri di entrare nei trienni delle professionali, dove non ci sono gli assi, ma c’è solo storia; chiedono con insistenza che il voto di “geostoria” sia disgiunto in tutti i bienni: il che potrebbe voler dire suddividere le tre ore attuali e riassegnarle in parti uguali, magari con insegnanti diversi.
Dietro l’angolo c’è l’Educazione civica. Vantando un sorprendente sostegno trasversale, che va dall’Anci alla Lega (la proposta di legge è dei deputati brianzoli Capitanio e Centemero), accenderà di sicuro una nuova discussione mediatica sulla scuola, il cyberbullismo, i consumi giovanili di droghe e, come annunciò Salvini, sui professori che non vengono più rispettati. Nella proposta di legge, i dati che ci devono preoccupare ci sono tutti. La materia sarà di 33 ore, insegnata dai professori di storia e geografia nella scuola di base e da quelli di diritto e economia nella scuola superiore, con voto separato e prova d’esame, e, dulcis in fundo, con la clausola di “invarianza finanziaria”: senza oneri aggiuntivi e con il personale attualmente in servizio (art.4).
Aspettiamo l’esito delle proteste per l’introduzione di Storia dell’Arte, e siamo curiosi di capire come e con quante ore verrà introdotta la Storia regionale, promessa per il momento da Bussetti al solo Zaia, governatore della Regione Veneto.
Non discuto, qui, le intenzioni dei proponenti. Sottolineo il fatto che, se la scuola non riuscirà a sfruttare le opportunità dell’autonomia, il palazzo di via Trastevere continuerà a essere la borsa degli stakeholder della didattica, e le discipline universitarie continueranno a pensare che, trasformandosi in lobbies, risolveranno i loro problemi didattici, è certo che il peggio deve ancora venire.
Quando, e di quanto, si scenderà ovunque sotto l’ora di storia settimanale?
Poche ore, molta didattica
“Più diminuiscono le ore, più la didattica della storia è necessaria”. Con queste parole Alessandro Cavalli sintetizza i lavori dell’ultima assemblea (2017) degli studiosi di didattica della storia tedeschi. Infatti, se in Italia si piange, in Germania non si ride: qui la storia è già, in diverse situazioni, materia da un’ora la settimana. Non c’è spazio per errori e perdite di tempo, quando l’orario è così ridotto all’osso. Tutto deve essere ben studiato: la formazione dei prof, la scelta degli argomenti, le modalità di studio, il rapporto fra sapere esperto e materia di insegnamento. Questo compito impegna ben 320 specialisti, tanti risultano dai dati della loro associazione. La loro competenza è considerata necessaria per la conduzione della macchina della formazione storica nazionale.
È indispensabile, poi, anche per i dibattiti che scoppiano periodicamente a proposito della storia. Infatti, queste discussioni pubbliche, prive come sono di riferimenti solidi, poggiati su corpose ricerche universitarie, diventano facilmente l’arena dove si scontrano opinioni, anche autorevoli, ma con scarsi fondamenti professionali. Inoltre, se guardiamo la cosa dal punto di vista della politica, è di vitale importanza che i decisori usufruiscano di quadri costruiti su dati di ricerca, che non siano solo il frutto di predilezioni e di esperienze personali.
Così pensano in Germania: la situazione italiana è sotto i nostri occhi.
320 a 0. Questo potrebbe essere l’esito del confronto fra Italia e Germania, dal momento gli storici italiani che si occupano di didattica si contano sulle dita di una mano, mentre non ci sono (in servizio) studiosi specializzati in questa disciplina. Luigi Cajani ci spiega in che modo, e perché, la storiografia italiana sia giunta a questi risultati, in una relazione presentata al convegno sulle prospettive della didattica della storia in Italia, organizzato da Walter Panciera, il coordinatore della sezione didattica della Sisem (Le vicende della didattica della storia in Italia, in E. Valseriati (a cura di), Prospettive per la didattica della storia in Italia e in Europa, Palermo, 2019, pp. 121-130).
Storia sotto attacco. Giappone
La conclusione che ricaviamo è inesorabile. La comunità degli storici non è in grado di intervenire in questo dibattito se non con delle opinioni. Qualificate per quanto si voglia, ma sempre opinioni.
Per giunta, la mancanza di una seria ricerca storico-didattica non consente ai colleghi storici di collaborare professionalmente alla soluzione di quei problemi che la discussione sull’esame ha messo in evidenza, e che sono stati ripresi in una vasta gamma di interventi, da Gianni Oliva, storico e preside, fino a «Wired» rivista di innovazione digitale, ma preoccupata, in questa occasione, delle sorti della conoscenza storica: come riconfigurare il programma di studi, in modo da permettere al docente di affrontare gli ultimi settant’anni? Quali sono le letture storiche di questo periodo didatticamente più efficaci? In che modo far sì che la disciplina storica diventi un po’ più attraente? Quali sono gli approcci più sicuri per affrontare l’integrazione fra storia le altre discipline sociali e geografiche? In che modo includere nella trattazione storica quegli elementi che consentono di svolgere anche temi di educazione alla cittadinanza?
Di fronte a queste richieste, l’accademia italiana non è in grado di offrire una solida ricerca didattica. L’insegnante deve continuare a sbrigarsela da solo. Le case editrici hanno mano libera per produrre proposte di dubbia consistenza (è palmare nel caso della geostoria). E, nella prospettiva della revisione dei programmi (anche questa una minaccia dietro l’angolo), il Miur non avrà nessun progetto, discusso e validato dagli storici, con il quale confrontarsi.
La “Questione didattica”
In realtà, negli ultimi due anni le Società degli Storici sembravano essersi rese conto della gravità della situazione e avevano cominciato a mettere a fuoco il fatto che esiste una “questione didattica” italiana. Avevano organizzato un buon numero di convegni, messo in cantiere qualche master di didattica della storia (che mi auguro vengano effettivamente attivati), ma – soprattutto – lanciato al Miur l’idea di un centro nazionale per lo studio della didattica storica.
Il nuovo governo non appare molto interessato a questa prospettiva e le stesse associazioni degli storici sembrano aver abbandonato questa idea, forse attratte dalle scintillanti promesse didattiche della Public History. Questa prospettiva, suggerita da Andrea Giardina a ridosso delle dichiarazioni ministeriali, è stata successivamente ripresa da David Bidussa.
La Public History, si sostiene, vanta modalità di comunicazione efficaci e attraenti: film, documentari, fiction seriali, tridimensionalità, spettacolarizzazione, gamification, reenactement. È ciò che serve per modificare la percezione di una disciplina noiosa e per disincagliarla dalle secche della sua marginalizzazione.
Ma è una semplificazione inaccettabile quella «che porta a identificare la Public History come la soluzione alla marginalizzazione della storia» (Agostino Bistarelli). Non si tiene presente, argomentando in questo modo, che la Public History, come qualsiasi altra branca della storiografia dalla quale si vogliano prendere materiali da portare in classe, deve diventare essa stessa un oggetto della didattica storica (lo ricorda Luigi Cajani sulle pagine di Public History Weekly), se vogliamo che venga trattata con maestria professionale. È questa, che mette in grado il docente di fornire, «attraverso un lavoro pluriennale, competenze storiche che permettano di destreggiarsi tra le narrazioni del passato che l’odierna società globale ci propone». Così si esprime Salvo Adorno, coordinatore della sezione didattica della Sissco.
La Public History non sostituisce la didattica, ma ne acuisce, se mai ce ne fosse bisogno, il problema della mancanza
La tempesta perfetta
È tipico dei dibattiti sulla scuola l’individuazione della politica come l’unico nemico da battere. A questa regola non ha fatto eccezione la querelle sulla prova di storia. La pur rapida analisi, che qui ho proposto, spero abbia messo in evidenza come molti siano i padri delle disfunzioni lamentate.
C’è l’Università che, incapace di produrre una proposta culturale che costringa il Miur a confrontarsi, si sfrangia in lobbies, ciascuna delle quali attiva sue strategie di vittoria; c’è la comunità degli storici, che non ha mai preso in considerazione l’indispensabilità di una solida didattica disciplinare; c’è la scuola che, incapace di usare al meglio gli strumenti dell’autonomia, ottiene spesso il risultato di peggiorare direttive, già nate male di suo. C’è il Miur, che interpreta la sua azione di governo della formazione dei cittadini unicamente come mediazione dei diversi interessi (didattici e no). Ci sono i media, che rinunciano all’analisi per ridursi a eco delle rimostranze. C’è un pubblico, infine, propenso a premiare chi, fra tutti questi, si lamenta più credibilmente.
Gli ingredienti di una tempesta perfetta ci sono tutti. Non se ne esce, temo, se ciascuno dei suoi protagonisti non comincia a rendersi conto delle sue responsabilità, e della parte di problema che gli tocca affrontare.
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