Pace

  • Io non condivido

    Autore: Antonio Brusa

    Immagini di guerra, social e didattica della storia

     

    Indice
    •    Introduzione
    •    Testimonianze da una guerra passata, ancora moderna
    •    La globalizzazione del fronte interno
    •    Il ruolo dell’insegnante di storia


    Introduzione
    In tempi angosciosi, nei quali i social network sono invasi da immagini di guerra, vorrei discutere sull’impulso di indignazione e di compassione che mi spinge a condividerle sulla mia bacheca. Ci vorrei ragionare, però, non come cittadino, utente di Fb. Qui ognuno fa la sua scelta. Il tasto “mi piace” serve apposta per sottometterla all’approvazione degli altri. E penso che funzioni, tutto sommato. Ci vorrei discutere come storico e insegnante di storia. C’entra il mio mestiere in questo giro di immagini, mi chiedo; mi aiuta a vedere la questione da un punto di vista particolare, e da questa angolazione mi permette di suggerire qualche riflessione, forse utile per chi fa il mio lavoro?

    La prima considerazione è quasi automatica. Le immagini di guerra fanno parte della guerra. Da sempre. Da quelle graffite nelle grotte neolitiche, a quelle dei raffinati decoratori della ceramica greca, ai bassorilievi romani, ai monaci che adornavano i loro manoscritti con teste mozzate, combattimenti e città sotto assedio: non proseguo una lista che molti saprebbero completare meglio di me. Ritorno, invece, sulla frase di sopra, perché non è a effetto. Le immagini di guerra FANNO parte della guerra, e lo hanno fatto da SEMPRE. L’eroe che uccide, è il campione che ci libera dai malvagi. Noi lo vediamo in azione e ci esaltiamo nella sua ammirazione. E se quella scena la vedono gli altri, i nemici, che stiano ben attenti, rappresentati come sono nella loro prostrazione umiliante. Tutta un’altra storia, invece, se sono loro a uccidere. In questo caso diventano barbari e feroci, e noi le vittime innocenti che suscitano compassione. Sono tanto cattivi, che uno non può non condividere il fatto che bisogna proprio ammazzarli.

    E dagli, con la tua storia antica e medievale, mi direte. Oggi siamo in un’altra epoca, quella della documentazione della realtà. Quelle antiche sono immagini costruite. Nascono con un messaggio “politico” dentro. Sono fatte per eccitare gli animi, incutere paura, giustificare il massacro. Queste no. Ecco il morto, ecco il reporter, tu vedi quello che accade sul campo di battaglia. Tu HAI diritto a vedere quello che succede. Nei tempi andati, era il “potere” che decideva quello che potevi vedere. Oggi è diverso, perché i media sono gli strumenti della democrazia visiva. E i social sono ancora più democratici, perché mettono nelle tue mani questi mezzi. Che ti sei messo in testa, vuoi discutere la democrazia della rete? Vuoi mettere in dubbio il lavoro meritorio di tanti reporter, che, a rischio della vita, documentano i fatti più atroci dei nostri tempi?

    No. Non ne voglio parlare. Non mi avventuro nella diatriba intricatissima, se questa sia o meno la democrazia cognitiva che tutti aspettiamo. Io voglio solo ragionare sul gesto personale della condivisione.


    Testimonianze da una guerra passata, ancora moderna

     

     

     

    Alcuni anni fa, in una piccola e bella mostra sulla Prima Guerra mondiale, organizzata nelle Marche da Costantino Di Sante,  quando ancora non si erano accesi i riflettori del centenario, vidi questa foto di Cesare Battisti, scattata dai suoi carnefici subito dopo la sua esecuzione. La didascalia non ricorda l’eroicità di Cesare Battisti, il “martire purissimo”, come veniva celebrato nei discorsi ufficiali, nella stampa e perfino nei manuali, ma denuncia l’oltraggio del cadavere. Il massimo della barbarie. Quella era una guerra giusta – veniva a dire così la foto - mossa da genti civili contro gli imperi barbari che schiavizzavano dei popoli europei.

    Quell’immagine ebbe una grandissima diffusione. Me ne colpì la versione trovata da Di Sante, perché era stata riprodotta su una cartolina postale. Dunque, venne utilizzata in quello stesso circuito comunicativo, attraverso il quale ormai passavano le rappresentazioni delle bellezze locali (non solo paesaggistiche); si tenevano in vita i rapporti affettivi e ci si diceva spesso delle futilità. Le cartoline postali erano molto meno impegnative di una lettera, e perciò più rapide da scrivere. Oggi sono pressoché scomparse, ma fino a poche decine di anni fa costituivano una fetta importante della comunicazione sociale. Tessevano una sorta di rete meccanica, che funzionava con i treni e le biciclette dei postini. Un social network a pedali.

    In questo modo gli italiani reimpiegarono una fotografia austriaca, scattata per onorare la memoria di un’uccisione, che al di là delle Alpi venne considerata sacrosanta. Battisti, eroe per l’Italia, era un traditore per l’Impero e - a giudicare dalla letteratura successiva e dalle vicende commemorative in quel di Trento - la questione non si chiuse affatto con la pace di Versailles. Non so quanto quella foto circolasse in Austria. La notizia dei fatti, sì. Ne ho trovato una traccia stupefacente nella mostra Am meine Völker, che si visita alla Biblioteca Nazionale di Vienna. Questa esposizione si apre con l’appello alla guerra di Francesco Giuseppe a austriaci, ungheresi, italiani e alle numerose altre genti dell’Impero, “i miei popoli”, e si chiude malinconicamente con il proclamacon il quale Carlo I, il suo successore, annunciò l’autonomia di quegli stessi popoli, un mese prima della capitolazione del novembre 1918.

    Vi ho appreso che, al principio della guerra, qualcuno ebbe l’idea di creare un centro di documentazione al quale i cittadini potessero inviare le loro testimonianze, scritte, visive o materiali del conflitto. Subito il successo fu tale che i depositi non bastavano. Poi, con il declinare degli eventi, l’entusiasmo scomparve e quei centri vennero dimenticati. Furono riscoperti ai nostri giorni dagli storici, che solitamente mostrano grande soddisfazione quando – di un fatto epocale – trovano le testimonianze della gente comune, come questa raffigurazione del supplizio di Battisti.

     

     

     

    Si tratta di un compito. Il disegno di uno scolaro di Graz. Molto probabilmente non conosce la nostra foto. Ce lo dicono il paesaggio, l’atteggiamento dei presenti e la forca, disegnata come fanno sempre i bambini. Ha sentito un racconto. Cesare Battisti marcia, vestito da “cacciatore delle Alpi”, come il ragazzo avrà visto in tante sfilate, questa volta verso il patibolo, dove un prete lo attende con un ufficiale che legge la condanna. Non ho nessun elemento per immaginare i sentimenti e i pensieri profondi di quel ragazzo. Ma ne ho qualcuno per ipotizzare un contesto di quel disegno. Siamo in una scuola. L’insegnante avrà parlato della cattura di Battisti, del processo e dell’esecuzione. Ha pensato che fosse suo dovere di educatore e, probabilmente, gliene giunsero esortazioni pedagogiche autorevoli. Poi ha dato le consegne, e l’allievo si è ingegnato per eseguirle. Forse il compito è stato svolto in classe; oppure a casa, dove lo avranno visto i genitori, ai quali il ragazzo potrà aver riferito il giudizio (“visto!”, se leggo bene) dell’insegnante.

    Quante volte abbiamo visto i disegni dei bambini in tempo di guerra? Quelli strazianti dei piccoli prigionieri di Terezin e quelli delle vittime degli innumerevoli altri conflitti dell’ultimo secolo? Ci commuovono. Li sentiamo come nostri, quei ragazzini. Ma questo ragazzo e quella rivoltante pedagogia di guerra ci turbano. Ci fanno percepire, a un secolo di distanza, l’enorme differenza che intercorre fra una società che vive in guerra, e una, come la nostra, che non la sperimenta da quasi settant’anni. Quello scolaro è lontano da noi, esattamente come quel fidanzato che, pensando di fare una cosa carina, inviò alla sua ragazza la cartolina postale con un boia e un cadavere.

    Quelle immagini, infatti, sono – per uno storico – le fonti (alcune delle tante) che testimoniano della costruzione del fronte interno. Sono strumenti attraverso i quali la gente dietro le trincee venne compattata e schierata contro un nemico, che quelle stesse figurine contribuivano a creare. Il nostro ipotetico fidanzato italiano e lo scolaro austriaco combattevano, per quanto in abiti civili. Senza imbracciare il fucile, ma usando mezzi della vita pacifica e quotidiana, come la posta e la scuola. Perché questi, in guerra, vengono trasformati in armi.


    La globalizzazione del fronte interno

    Sento l’obiezione. Ancora fatti d’altri tempi? Quel fronte interno (della Prima, come della Seconda Guerra mondiale) era strettamente legato al nazionalismo e alle sue aberrazioni. Roba vecchia, che non conta più come allora. Per lo meno, ha una presa assai minore nell’Europa occidentale, laica, civile, imbelle, secolarizzata, disincantata.

     È vero. Le cose sono cambiate, ma in modo sorprendente. Considerate una fotografia celebre, quella del bambino di Varsavia. Fu scattata da un gerarca che si voleva far bello alla corte di Hitler; diventò una denuncia del massacro ebraico. Decontestualizzata, si trasformò in simbolo generico di violenza contro i bambini; fino ad essere capovolta, ai nostri giorni e proprio nel gioco ideologico generato dai conflitti vicino-orientali, e costretta a diventare il simbolo dell’oppressione israeliana nei confronti dei palestinesi. Una vicenda complessa e lunga, raccontata da Frédéric Rousseau , che ha portato quella foto, testimonianza di un’azione di sterminio, a diventare un’icona, ormai scollegata dalla sua origine, comprensibile in ogni parte del mondo, adattabile ad ogni situazione violenta. Un’icona globale. (Ilenia Rossini e Anna Vera Sulam Calimani ne fanno delle recensioni esaurienti (http://www.unive.it/media/allegato/dep/n10-2009/Schede/Recensione_Sullam.pdf; http://www.officinadellastoria.info/magazine

    /index.php?option=com_content&view=article&id=352:recensione-f-rousseau-il-bambino-di-varsavia-storia-di-una-fotografia&catid=68:fotografia-e-storia )

      Un disegnatore danese, Per Marquard Otzen, accosta il disegno del bambino palestinese alla celebre immagine del bambino di Varsavia

     

    E’ vero, dunque. Quel meccanismo, che abbiamo visto attivarsi al tempo di Battisti, è cambiato, perché è diventato pervasivo e potente. Ciascuno di noi se ne rende conto, sfogliando un album di icone globali che vanno dall’insegna di Auschwitz, ai carri merci, ai mucchi di cadaveri, alle fosse comuni, fino ai Che Guevara indossati dai ragazzi di estrema destra.
    E’ cambiato anche un altro aspetto di queste immagini: la loro efficacia nella creazione di un fronte interno. Anche in questo caso, si tratta di una potenza che non ha fatto che crescere, man mano che avanzavano i processi di globalizzazione. Ci basta rammentare – per tutte - la napalm girl, la bambina vietnamita che fugge impaurita dai bombardamenti americani. Entrambe contribuirono potentemente alla creazione di un fronte antiamericano le cui dimensioni coincisero con il pianeta, e con il quale gli Usa, prima potenza militare del mondo, dovettero scendere a patti.

    Ecco:  potenti, duttili e globali, queste sono le nuove armi iconiche a disposizione dei signori delle guerre odierne. Il social è uno dei campi preferiti di questa battaglia. Tu clicchi “condividi” e vieni arruolato. Il signore vanterà un fronte interno smisurato, incomparabilmente più vasto dei bacini ai quali si rivolsero le nazioni del secolo scorso.

    Immagino che la sera, quando si tirano le somme, i capi contino le bombe lanciate sulla testa del nemico, i razzi scagliati, i nemici ammazzati (militari o no, vanno tutti nel mucchio) e le immagini condivise. Trecento razzi, dice uno; duecentomila condivisioni, dice l’altro. Il capo (o il team delle teste pensanti) approva, decide la strategia per il giorno dopo. Vaglia le immagini che hanno avuto più successo: la mamma straziata, la bambina che cerca i libri fra le macerie, il mucchio di cadaveri. Soggetti che una guerra produce con generosità. Non importa come siano state realizzate: se da un reporter coraggioso o da una persona qualunque con lo smartphone, o da un fotografo embedded. Si tratta di individuare quelle che funzionano di più, che hanno iscritto più gente al proprio fronte interno globalizzato. Non importa il motivo per il quale, domani, uno le condividerà: per informare, testimoniare, vendicarsi, indignarsi, chiedere la pace e la fine del massacro. Domani, ognuno combatterà con le sue armi. Uno con il lanciarazzi e l’Ak47, il Raphael o l’Iron Dome. L’altro col tasto “condividi”.

    Ecco perché esito a condividere. Ecco perché non condivido, per quanto il mio primo impulso sia quello di comunicare agli amici la mia rabbia e la mia pietà per gli uccisi, pensando che quella foto dia forza e verità al mio sentimento. Non lo faccio per lo sdegno piccato di chi sospetta di essere strumentalizzato. Perché “non mi va di essere arruolato a mia insaputa”. Ma, perché – come mi ha insegnato il disegno della ragazzino di Graz – io vivo in un altro mondo, che in questo momento è fortunatamente in pace. Posso scegliere il mio ruolo. Entrare nel conflitto, a sostegno dell’uno o dell’altro, o dire basta. Cessate le armi. Ma con quale credibilità chiederò il passo indietro di entrambi, se faccio parte di uno dei fronti? Come posso chiedere la pace, se entro in guerra?

    Perché non contribuire a creare un altro fronte interno, a sostegno di quelli – palestinesi e israeliani – che chiedono la pace, l’hanno chiesta in passato, e oggi sono stati messi in minoranza,  vittime di nemici e di connazionali? Perché non incoraggiarli con la consapevolezza di avere alle spalle un fronte interno grande e potente?

    Non è necessario essere pacifisti, per valutare questa opzione. Non so che cosa farei se gli italiani fossero coinvolti direttamente in un conflitto. Non sono dentro una guerra, quindi non posso giudicare chi si trova nell’inferno e ne segue la logica. Né giudico chi, animato da intenzioni generose, si schiera sul web. Credo, però, che un buon compito per chi si trova momentaneamente in pace, per chi da settant’anni non sperimenta la guerra sulla propria pelle (privilegio unico nella storia), sia quello di aiutare gli altri ad abbassare le armi. E questo non si fa applaudendo i guerrieri, né brandendo le vittime.


    Il ruolo dell’insegnante di storia

    Condividere o no è una scelta personale. Ne ho esposto i miei motivi. Penso che gli autori di moltissime condivisioni ne avranno di altrettanto validi e che se ne possa discutere. In fondo, è il lusso che ci concede lo stato di pace. Quello che so, per certo, è che – essendo una scelta personale – questa non può essere oggetto di valutazione, e quindi di una qualche direttività didattica. Libera per me, libera anche per gli studenti.

    Allora, che cosa insegnare di questa vicenda?
    La storia della circolazione sociale delle immagini, che ho ricordato senza alcuna pretesa di completezza (per questa occorre studiare i lavori di chi se ne è occupato professionalmente, come Giovanni De Luna  o Peppino Ortoleva),  pur nella sua brevità, è sufficiente per alcune risposte. Provo a suggerirne cinque.

    Costruire la profondità temporale dell’evento. La storia fornisce una prospettiva temporale a ciò che sembra un tipico prodotto del presente. C’è un passato, nell’uso bellico delle immagini, che mi permette di riflettere sul fatto che io sono in grado di vedere qualcosa di un evento bellico che si svolge a distanza. Questa vicinanza al fronte di chi sta nel retroterra non è “naturale”. E’ costruita, ha i suoi scopi, le sue regole, i suoi problemi, a volte i suoi controllori. Questo sistema complesso, attivato nelle società fin da tempi lontanissimi, si è modificato nel tempo. Oggi ne viviamo una fase molto particolare e molto efficace. Per mettere in grado il soggetto di valutare questa specificità, occorre che egli sia in grado di ricostruire questa prospettiva. Di conseguenza è importante, proprio per prepararlo a gestire il flusso di immagini belliche odierne, insegnargli a leggere quelle del passato.

    - Comprendere il meccanismo della diffusione sociale delle conoscenze. La storia ci mostra come funziona questo meccanismo intricato, che lega il fronte al retroterra. Quali sono gli interessi, gli attori, gli strumenti della comunicazione, gli effetti. Ti avvisa che accedere a questo sistema è entrare nel gioco, diventarne un soggetto attivo – anche se non lo si vuole. Lo era in passato. Oggi, con i sistemi di computo delle visualizzazioni, e con la possibilità di contribuire alla circolazione delle informazioni, lo è ancora di più.

    - Saper gestire criticamente le fonti. La disciplina storica è il più antico deposito di tecnologia dell’informazione che l’umanità abbia costruito. Lo facciamo da 2500 anni, da quando Erodoto cominciò a raccogliere notizie e a interrogarsi quale fosse verosimile, quale vera e quale invece una fandonia. La storiografia ha elaborato un sistema di critica delle notizie, che ci permette di costruire un’immagine ponderata della realtà, a dispetto della loro fallacia, voluta o inconsapevole (Elena Musci ha mostrato come si possano utilizzare in classe anche le “foto false” del fascismo).  Nessuno di noi “vede” le atrocità della guerra. Noi vediamo documenti visivi di queste atrocità. L’effetto di realismo di queste immagini, accentuato dal movimento e dal suono, ha lo straordinario potere di ingannare il suo fruitore. Il suo disinganno è la premessa insostituibile per un uso corretto delle immagini. Oggi, fornire gli allievi degli strumenti elementari per valutare le notizie, diventa un compito che qualifica l’utilità civile dell’insegnamento della storia.

    - Avere un approccio critico ai media. C’è un’educazione ai media alla quale la storia può fornire un contributo specifico.  Per valutare criticamente un’immagine, occorre sapere chi l’ha scattata, per quale scopo, attraverso quali agenti è stata messa in circolo, qual è l’uso che se ne sta facendo. Senza queste notizie, l’immagine non riuscirà mai a funzionare come documento che aiuta il fruitore a capire quello che succede. E, mentre diminuisce il suo potenziale informativo, aumenta parallelamente il rischio che si presti a essere ingrediente di un discorso politico, ideologico, o di altro genere. Potremmo dire, allora, che un soggetto è educato ai media non solo quando sceglie per sé le immagini dotate di questi requisiti; ma anche quando se ne fa tramite attraverso la rete.

    - Conoscere la storia sociale della guerra e della pace. La storia può (deve) insegnare la differenza che esiste fra una società in guerra e una in pace. Non, come si fa solitamente, le cause, lo svolgimento, i protagonisti e l’esito di una guerra. Deve far capire quanto distanti siano le due società. Quanto diversamente funzionino le rispettive logiche; come si pensi diversamente, la scala diversa dei sentimenti, e gli ordini morali ribaltati.


    C’è infine, una forma di condivisione della quale non parlano mai i guru del web, ma che interessa la scuola da vicino: quella che inzeppa tesine, ppt e ogni genere di elaborato-compito multimediale. Mi capita spesso di vederne, in giro per le scuole. Solitamente i docenti me li mostrano con gli occhi lucenti di soddisfazione. Ne ricordo uno per l’imbarazzo che mi procurò. Era un 25 aprile. Il prof aveva curato, con i suoi allievi, un ppt sulla Liberazione, intitolato Democrazia contro Dittatura. Un montaggio ammirevole, veloce. La musica hard, sparata a mille, commentava una collezione di poveri impiccati, torturati, bruciati vivi, come se ne trovano a bizzeffe nella rete. Immagini scattate dagli stessi boia o con gli smartphone da chi si assiepava a vedere lo spettacolo. Di grande presa emotiva. Osservavo i ragazzi, catturati dai ritmi musicali e iconici. Per quello che riesco a capire era tecnicamente inappuntabile. Per quello che so, era una grave opera di diseducazione.

  • Un'Europa da Nobel?

    A Madrid dal 15 al 18 ottobre 2012 si è svolto il I CONGRESO INTERNACIONAL DE EDUCACIÓN PATRIMONIAL dal titolo "Mirando a Europa: estado de la cuestión y perspectivas de futuro". Di seguito riportiamo la relazione, adattata, tenuta dal Prof. A. Brusa. Un'occasione di riflessione sul significato di parole come patrimonio europeo, identità, radici.

    Un premio che ci obbliga a ripensare l'insegnamento della storia, il patrimonio europeo e l'educazione alla cittadinanza.

    (di Antonio Brusa)

    1. La pace, un patrimonio critico

    Il premio Nobel per la Pace, recentemente assegnato all'Unione Europea è un nuovo punto di partenza, per riesaminare alcune questioni chiave, dell'insegnamento della storia e forse anche della convivenza civile in Europa. Senza entrare nel merito delle polemiche e degli elogi, concentriamoci sulle motivazioni di questo premio, perché richiamano prepotentemente alcune parole cardine per chi insegna storia: storia –appunto-patrimonio, Europa e formazione. Questo premio, ci obbliga a riprenderle in considerazione e a interrogarci sul loro significato e sul loro valore, in questo scorcio iniziale del XXI secolo.

    Fra le motivazioni del premio, la principale coinvolge direttamente la riflessione storica, perché mette a confronto gli ultimi sessant'anni di pace, vissuti dall'Europa, con la sua storia millenaria, fatta di sangue e di guerre. Questa opposizione fa risaltare, quasi come un miracolo, la trasformazione di un continente, da teatro di ogni genere di conflitto a luogo di convivenza pacifica. E' un contrasto chiarissimo e inequivocabile; così come è eccezionale il periodo di pace che ha caratterizzato sia le nazioni europee nei loro rapporti vicendevoli, sia la vita della maggior parte dei loro abitanti. Sessanta anni sono un tempo molto lungo per la biografia degli Stati e degli individui. Indubbiamente, un fatto di questa portata merita di entrare in quel sontuoso repositorio di meraviglie che è il "patrimonio europeo". Non sembra lecito nutrire dubbi in proposito. Quale che sia il futuro che verrà riservato all'umanità, l'Europa potrà essere ricordata come il luogo che ha saputo regalare al mondo un simbolo di convivenza civile fra genti diverse; un esempio di superamento delle inimicizie passate; un modello di risoluzione pacifica delle controversie e dei dissidi. Questo è un dato positivo. E' un valore – potremmo dire - da tenere presente anche nei tempi difficili che l'Europa sta vivendo.

    Ma, proprio nel momento in cui l'Europa si accinge a "patrimonializzare la pace", agli studiosi e agli insegnanti spetta il compito di evitare un grave equivoco. Uno dei primi che ci mise in guardia, con passione e rigore, fu Gérard Namer, parlandone a proposito di un tema strettamente connesso con quello storico-patrimoniale: il tema dell'identità europea e della sua tradizione. Si discuteva delle radici europee (Era il decennio finale dello scorso secolo, quando si pose la questione di una Costituzione europea). Si dibatteva se queste dovessero essere giudeo-cristiane, laiche e se, ancora, si dovessero obliare per sempre quelle del movimento operaio, socialista, e di sinistra, seppellite dalla disfatta del mondo comunista. Qualcuno ricorderà le polemiche furiose nel parlamento europeo e fuori; ricorderà anche i ripetuti interventi della Chiesa cattolica. Lo studioso francese osservava che ciascun pretendente era in errore, perché rileggeva la propria tradizione purificandola dagli eccessi, e ne presentava solo gli aspetti che, a suo modo di vedere, erano positivi. Concludeva, dunque, che se queste correnti culturali desideravano contribuire alla definizione delle radici europee, dovevano concorrere con l'intero loro patrimonio, intessuto di intolleranze, inquisizioni, terrori e massacri.

    Forti di questa avvertenza, non possiamo non ritenere che proprio nel momento nel quale la pace diventa elemento connotativo del patrimonio europeo, occorre ricordare che all'interno di questo si custodisce anche la memoria delle guerre più sanguinose che la storia dell'umanità abbia conosciuto, i genocidi esemplari, le dittature più feroci e, marchio indelebile della modernità globalizzata, l'arrogante tentativo dell'Europa di impadronirsi del mondo e di considerare se stessa superiore, per civiltà, religione, arte e cultura alle altre regioni del pianeta. In una parola: di ritenere che il proprio patrimonio fosse superiore a quello del resto dell'umanità.

    Nella nostra presunzione – dice Namer -, noi Europei pretendiamo di determinare la nostra identità, decidendone autonomamente i contenuti patrimoniali. Essa, in realtà, è attribuita dagli altri. Questo accade nella vita di ogni giorno, nei gruppi di pari, nei quali "gli altri" definiscono ciascuno di "noi"; e accade anche nei rapporti fra i gruppi politici o fra gli stati. Per qua nto i singoli si forzino di autorappresentarsi, alla fine sono sempre gli "altri" che decidono che, a loro giudizio, noi siamo bravi, ladri, lavoratori, buoni combattenti, sciovinisti e così via. Dunque, sono gli altri che in questo momento "definiscono" l'Europa e ne disegnano i contorni identitari. Il Nobel della pace, perciò, al contrario di quanto si è portati a pensare, ci impone di guardare al di fuori di noi; a smettere di osservare il proprio ombelico culturale, per cercarvi le radici e i perché di questo premio. Invita noi europei a mettere in primo piano i rapporti che intratteniamo con il resto del mondo. Sollecita interrogativi che toccano le fondamenta epistemologiche della ricerca e dell'insegnamento: è possibile definire i tratti e la composizione del patrimonio europeo ascoltando solo le voci di chi abita questa parte del mondo? La ricerca sul patrimonio europeo non imporrebbe, invece, l'ascolto di altre genti, di altre culture, di altri punti di vista? E, per chiudere questa premessa problematica: ci obbliga a considerare la questione interculturale come "interna" alla definizione di noi stessi; non come un'aggiunta benevola e volontaria, ma logicamente non necessaria, della "nostra storia" e della "nostra identità".

    2. Parole intrecciate con la politica

    Sono parole normali e quotidiane, quelle che adoperiamo solitamente, quando affrontiamo questi argomenti: patrimonio, Europa, formazione. In larghissima misura sono anche istituzionalizzate, codificate in leggi, vive nelle abitudini professionali e nelle attività scolastiche o nelle imprese turistiche e museali. La loro diffusione e la loro pervasività sociale sollecitano diverse indagini, volte soprattutto alla risoluzione dei problemi e al miglioramento delle offerte formative e culturali. Presi da questa ricerca, siamo spesso restii a fermarci e a riflettere sul loro significato. Le diamo per scontate, esattamente come faceva Marc Bloch, al principio della sua immortale Apologia della storia. E, d'altra parte, tutti abbiamo sperimentato la loro inafferrabilità ogni volta che abbiamo cercato di circoscriverle con una definizione o con un modello rigoroso, dal momento che sfuggono e sempre si dissolvono e disperdono in mille problemi.

    Inoltre, per quanto non appartengano all'angosciante sfera economica, esse sono centrali nella vita politica e sociale delle nostre società, e questo aspetto fa sì che esse si trovino anche al crocevia di quel complesso di fatti e di vicende che da qualche decennio cataloghiamo sotto il nome generico di "uso pubblico della storia". In nome del patrimonio si prendono e si motivano decisioni politiche all'interno delle nazioni europee, specialmente nel campo della formazione; o, per quanto riguarda i rapporti con l'estero, nelle procedure e nelle discussioni che accompagnano l'accettazione di nuovi membri. Si ricorderà, ad esempio, il dibattito sull'ammissione della Turchia, e dell'obiezione, che venne avanzata dalla Francia, che la "Turchia era estranea al patrimonio europeo". E' utile chiedersi, allora, quanta parte di questo uso pubblico trovi alimento proprio nella zona di indistinzione e di incertezza che circonda queste parole. Giuseppe Sergi ci avverte di questo rischio con una frase efficace: "per quanto riguarda la storia, meno si sa e più si inventa".

    Ridurre i margini di questo pericolo è probabilmente un buon compito, per lo studioso e per l'insegnante.

    Le vicende di queste parole, d'altra parte, sono ben conosciute. La "Storia", quella con la S maiuscola, quella che si studia nelle scuole e che ritroviamo nello schema generativo di programmi e di manuali, è di origine piuttosto recente. In buona parte nasce dall'incontro/scontro fra le due grandi nazioni continentali del principio dell'Ottocento, la Francia e la Germania. La prima adotta come sua legittima progenitrice Roma (repubblicana al tempo della Rivoluzione francese e imperiale con Napoleone). La seconda sceglie e impone come genitrice primigenia, la Grecia. In questo modo, Grecia e Roma istituiscono le basi della civilizzazione europea e questa, fondendosi con l'energia dei nuovi popoli barbari, si suddivide e origina le nazioni; le quali, a loro volta, si trasformano – nel lungo conflitto dell'età moderna – negli Stati attuali. Antichità, Medioevo, Età moderna non sono le periodizzazioni notarili di una cronologia. I momenti obbligatori e rituali di un manuale. Sono i passaggi emotivamente pregnanti di una biografia.

    Solitamente, questa viene chiamata "la genealogia di una nazione". E' un'imprecisione. Si tratta, a ben guardare, della prima "storia europea". Essa, infatti, da una parte predispone la trama sulla quale ogni Stato ottocentesco disegna il percorso che lo ha portato all'indipendenza e alla sovranità. Dall'altra fornisce lo sfondo, sul quale si svolgono le singole avventure nazionali e individua quelli che potremmo chiamare "i protagonisti efficaci" della vicenda storica. Sono gli interlocutori con i quali la propria nazione deve interagire – pacificamente e no; e agli occhi dei quali essa deve mostrare il suo valore. Infine, a considerare questo schema narrativo con maggiore attenzione, si tratta ancora di una storia mondiale. Infatti, il continente europeo vi è definito come l'unico luogo della terra che ha dato origine e vita a "una storia". L'Asia Orientale – secondo questa ricostruzione - è immobilizzata nei suoi regimi dispotici; l'America e l'Oceania, continenti tribali, sono solo terre di conquista e l'Africa (questa fu la celebre definizione di Hegel) è il buco nero della storia. Al termine, questa storia individua "l'altro" per antonomasia, l'interlocutore estremo, una sorta di "sparring partner tradizionale", nel cui confronto si definiscono e si precisano i contorni dell'identità europea: l'Islam, prima nelle vesti dei conquistatori musulmani del mediterraneo meridionale, poi in quelle aggressive dell'impero turco.

    Si dirà: vecchie storie. Questo era il programma ottocentesco. Grave errore. Si prenda il programma per le superiori, emanato dal ministro Gelmini. Se ne riconosceranno i tratti ottocenteschi, anche ad una lettura superficiale. E, per quanto riguarda la scuola di base, si rilegga il programma emanato dalla Moratti (fortunatamente messo da parte nel 2007 e successivamente nel 2012): si noterà come siano ancora vivi e operanti i temi dell'ottocento: la civiltà greco-romana, vivificata dal cristianesimo, il medioevo feudale, le nazioni e l'eterno nemico, unica entità straniera autorizzata a frequentare questo programma, l'Islam.

    La migliore riflessione storico-didattica del secondo dopoguerra si è incaricata di smentire questa ricostruzione e di proporre alternative. E, dal punto di vista scientifico, la crescita e la diffusione della pratica storiografica nel mondo, ha relegato questa ricostruzione nell'hangar dei relitti del passato. Perciò, non occorre, qui, impegnarsi ulteriormente nella sua confutazione. E' necessario, invece, soffermarsi sulla sua efficacia. Questo schema, infatti, ha "lavorato" nel corso del tempo. Ha contribuito a costruire programmi e abitudini di insegnanti. Ha creato un'agenda di problemi e di rilevanze che resiste alla sua disfatta epistemologica. Storiograficamente inutilizzabile, esso è tuttavia ancora socialmente attivo.

    Lo schema funziona anche nella creazione di un immaginario geografico. Osserviamone l'azione per quanto riguarda la configurazione del sub-continente europeo. Questo schema storiografico vi ha disegnato degli spazi e ne ha stabilito le gerarchie. Alcune regioni sono privilegiate: qui si svolgono gli eventi e i processi fondamentali. L'Antichità vive nel Mediterraneo; il Medioevo opera in quella fascia ristretta, che va dalle Fiandre all'Italia del Nord (dove si incoronavano gli imperatori e dove sorsero le grandi e ricche città commerciali); l'età moderna predilige spesso i vasti spazi dell'Europa centrale. A turno, diverse regioni assumono il ruolo di protagoniste, poi rientrano dietro le quinte: Spagna, Italia, Francia, Germania, Olanda, Inghilterra, Svezia. Di volta in volta cambiano le periferie e i comprimari: ora sono i barbari, che premono ai confini dell'impero; ora sono le nuove genti – balcaniche e centro orientali – che lottano per assurgere al rango di nazione. Ogni stato, a sua volta, rielabora questo schema, assegnando rilevanze narrative ai momenti nei quali svolge ruoli di protagonista, scegliendo episodi simbolici, eleggendo il proprio pantheon di eroi.

    Il Cinquecento italiano è interamente preso dalla vicenda artistica del Rinascimento. Se prendiamo un manuale tedesco, avremo modo di osservare la somma trilogia italiana (Leonardo, Raffaello e Michelangelo: peraltro ricordati nelle scuole di tutta Europa); ma il "colore" del secolo è decisamente religioso, con Martin Lutero e la formazione delle chiese riformate; mentre in Spagna, tutta l'attenzione è concentrata sulla formazione dell'impero "dove non tramonta il sole". Proviamo a passare al Seicento: quello italiano è ben poca cosa, a parte Masaniello e Galileo. Ma se sfogliate un manuale spagnolo o olandese, troverete un'altra atmosfera, ben più trionfale. Da noi, Federico II è ormai un eroe del medioevo. Geniale, aperto alla cultura e all'arte, creatore di un'amministrazione centralizzata. In Germania, invece, è l'imperatore che ha perso. E tutto lo spazio se lo prende suo padre, Enrico VI, ricordato per aver esteso al massimo le terre imperiali (nei manuali italiani è appena ricordato, e non sempre con benevolenza). Se poi vi volete divertire con l'impero romano, scoprirete personaggi per noi italiani del tutto ignoti, ma quasi venerati nel resto di Europa: Viriato, il capo della guerriglia iberica (conteso peraltro da spagnoli e portoghesi), temuto dai romani che seppero liberarsene solo con il tradimento; Vercingetorige in Francia, vittima del suo acerrimo nemico Giulio Cesare (ma la loro fama oggi deve molto di più a Asterix, che allo studio della storia), Arminio in Germania, che distrusse le tre legioni di Varo, Giulio Civile in Olanda, un batavo che, dopo aver militato nelle legioni imperiali (come Arminio del resto), tornato nelle sue terre, guidò la resistenza antiromana; e infine, idolatrata in Inghilterra, Boadicea (o Boadicca), la regina che con il volto dipinto di blu si mise alla testa delle tribù britanniche, per contrastare l'invasore.

    E' una storia erratica, dunque, la cui logica profonda non può essere descritta se non facendo ricorso a qualche chiave mitologica: il "Passaggio da Oriente a Occidente", di memoria biblica e medievale; o la "migrazione verso il nord", pseudo spiegazione ottocentesca, avvalorata peraltro da tesi storiografiche, quali quella – infelice e fortunatamente ormai abbandonata – di Henri Pirenne, che sostenne come, con l'avvento degli arabi, l'unità mediterranea si perse, e la sua civiltà traslocò al Nord. Una storia che – proprio a causa del suo vagabondare – è la causa principale dei difficili problemi, ai quali siamo costretti a fare fronte, quando cerchiamo di definire gli spazi europei, e conseguentemente, i contorni del patrimonio europeo.

    Infatti, l'individuazione di un determinato spazio nazionale ha portato alla proiezione nel passato dei confini conquistati nella modernità, e, conseguentemente, ha condotto alla individuazione di una storia e di un patrimonio nazionali. In pratica: gli Stati si appropriavano della geografia, tracciando delle linee di demarcazione sul pianeta, e, contestualmente, si appropriavano di una quota di passato, dichiarandola la "propria storia". Potremmo dire che il patrimonio nazionale non è altro che il bottino di questa duplice appropriazione. Dovremmo concludere che il "patrimonio europeo" è, sua volta, la somma di questi bottini?

    Più che di una visione del mondo, si tratta di "una politica culturale", che ha portato alla creazione di un racconto del passato, al disegno di una geografia del presente e alla definizione del patrimonio storico-culturale del nuovo soggetto, lo Stato nazionale. Parte integrante di questa politica è la formazione del cittadino. Fu un progetto politico poderoso, che ha richiesto investimenti e cure assidue, da parte degli Stati europei. Ha generato una successione secolare di interventi capillari, nel territorio e nella società, che hanno costruito strutture profonde nei modi di pensare dei nostri contemporanei.

    Il tema impellente per l'Europa di oggi, è quello di decidere se, nel prospettare l'educazione del nuovo cittadino europeo, debba ripercorrere la strada ottocentesca, sia pure nelle forme attenuate e corrette politicamente, consigliate dalle nuove etichette globalizzate; oppure, se avventurarsi in quegli spazi della individuazione di una "cittadinanza senza nazionalismi", alla quale avviare le giovani generazioni. Sono spazi vagheggiati e descritti da molti e da molto tempo. Qui ci limitiamo soltanto a richiamarli, per soggiungere subito che, tuttavia, sono spazi assai poco praticati dalle istituzioni.

    L'impellenza di questo cambiamento trova molte ragioni, tutte ineludibili. Al primo posto, da studiosi, dobbiamo porre quelle scientifiche. Questa ricostruzione del passato è talmente priva di credibilità, da non meritare più le lunghe discussioni critiche, che un tempo aprivano i testi di metodologia e di storiografia. L'eurocentrismo, anche storiografico, è diventato una parola così screditata, che molti, e con qualche ragione, si preoccupano degli eccessi contrari di zelo decostruttivo e di esterofilia.

    Al secondo posto, da studiosi di didattica e di processi formativi, metteremo le finalità dello studio storico. Formare un'identità (nazionale, collettiva, europea) era l'obiettivo centrale del passato. Quale sarà l'obiettivo del lavoro formativo odierno? sarà sufficiente trasformare un aggettivo, da "nazionale" a "europeo"? oppure la critica deve essere ancora più radicale e ci deve spingere a rinunciare alle pretese identitarie, a liberare le potenzialità conoscitive delle scienze storico-sociali, per metterle a disposizione dei cittadini, quali strumenti necessari per orientarsi in una società e in un mondo sempre più complessi? Nemmeno questo è un punto nuovo. Sono diversi decenni, infatti, che la didattica critica propone, e molte volte con successo, di accompagnare - se non di sostituire - le liste di obiettivi identitari con degli obiettivi cognitivi. Potremmo dire, per quanto riguarda gli Stati dell'Europa occidentale, che - fin dagli anni '60 - i loro programmi di storia e geografia nazionali hanno subito un'autentica mutazione. Semmai, dobbiamo notare con una certa preoccupazione l'uso ambiguo del concetto di patrimonio, introdotto nei programmi relativamente di recente, che a volte si presta ad una ripresa sottotraccia degli obiettivi di appartenenza identitaria (un esempio lampante di questo tentativo politico è il programma di storia emanato dal Ministro Moratti).

    Ma vi è una terza ragione, che ci dovrebbe spingere a cambiare strada. Una ragione, oserei dire, drammatica. Ce ne parlano molti studiosi degli sviluppi della storiografia e dei temi della memoria nel mondo attuale. Fra questi Tessa Morris-Suzuki. Analizzando programmi, storiografie e progetti culturali di vari paesi del mondo, la studiosa ci prospetta una visione inquietante: quella della globalizzazione del nazionalismo. E' come se l'umanità intera si fosse appropriata della visione del mondo eurocentrica. Ciascuna nazione se ne è impadronita e, esattamente come è accaduto alle diverse nazioni dell'Ottocento europeo, l'ha adattata a sé. Ognuna, dunque, si racconta attraverso una storia autocentrata; proietta nel passato i suoi confini geografici (attuali o ai quali ritiene di aver diritto); ritaglia nell'universo culturale il proprio spazio patrimoniale; forma i suoi cittadini. E, in moltissimi casi, affronta la scena della contemporaneità con il deciso proposito di riprendersi le glorie del passato, se non di rivalersi delle umiliazioni della colonizzazione europea.

    Un identico processo avviene al livello micro – delle comunità e delle regioni – per le quali la studiosa parla di "effetti perversi del matrimonio fra pedagogia e storia locale".

    Posta dinanzi a questa esplosione del nazionalismo, a questa "ossessione per le identità nazionali, per la storia e la memoria difese come visioni naturali", l'Europa che, come abbiamo accennato, nel secondo dopoguerra aveva inaugurato strade nuove per la formazione storica, sembra intimidita. I programmi di storia degli ultimi due decenni, infatti, risentono di questa ripresa identitaria internazionale. E, quasi per uno straordinario contrappasso, questa parte del mondo che aveva orgogliosamente proclamato la sua superiorità culturale, ora sembra incapace di sostenere le sue scelte. Si dice, e si scrive spesso, che sono "scelte deboli" nei confronti di nazionalismi giovani e forti. Si elaborano nuove argomentazioni a sostegno di un identitarismo di marca occidentale. E non sempre, come ha sostenuto Keith Crowford per l'Inghilterra, sono battaglie condotte dalle destre nazionali. Nella vincente mondializzazione, si afferma con vigore, tutti – anche noi europei – abbiamo bisogno di una storia che ci definisca come cittadini nazionali. Tutti ci dobbiamo difendere. E, perciò, abbiamo bisogno di quella storia che Giuliano Procacci e Mario Carretero hanno chiamato, con singolare sintonia, "produttrice di carte di identità".

    Eppure, se noi europei accettiamo il Nobel per la pace (o - a seconda dei punti di vista - se lo vogliamo meritare), la scelta dovrebbe essere quella di ammainare la bandiera identitaria. Disarmare la storia, per restituirla al suo ruolo conoscitivo. E, conseguentemente, abbattere i recinti, con i quali l'Ottocento aveva preteso di ingabbiare i patrimoni, facendo a pezzi un territorio continuo, libero e indomabile, quale quello della cultura umana.

    3. Parole pericolose e i loro antidoti

    Queste argomentazioni non sono affatto nuove, nel mondo degli studiosi e degli insegnanti. Esse hanno avuto tempo per maturare reazioni e tentativi di risposta. Alla reazione di rigetto abbiamo già accennato: "Io sono una prof reazionaria e sono fiera di esserlo" scrive Véronique Bouzou, insegnante francese autrice di un pamphlet, significativamente intitolato a Pandora, nel quale proclama che lei continuerà a insegnare Clodoveo e Carlo Martello, per quanto la sua classe sia piena di immigrati maghrebini. Nascono club e associazioni dedicati alla eradicazione dei "complessi dell'Occidente", a curare il suo "masochismo" e a ridare l'orgoglio a un continente che un tempo dominava il mondo. Si coniano nuovi termini, come "l'alienismo" e si analizza "l'esterofilia", presente, come rivela una ricerca italiana di qualche anno fa, nella maggior parte dei manuali di storia per le elementari.

    Il tentativo di risposta, forse più diffuso, è quello della correttezza politica, più o meno marcata. Consiste nell'attenuazione, se non nell'eliminazione, degli episodi violenti del passato; nell'esaltazione, al contrario, dei momenti di pace e di scambio; nella messa in evidenza di tutti i meticciati possibili; nella messa in rilievo delle qualità altrui alla quale fa riscontro l'autoflagellazione. Strategie discorsive che non riescono a scalfire la trama concettuale che abbiamo descritto sopra; e non toccano nemmeno l'impianto formativo identitario.

    Vi è un'idea che accomuna i tentativi di risposta e le reazioni di rigetto: la storia serve per formare un'identità. Diversa da quella del passato, meno aggressiva e più disposta alla pace e al compromesso. Ma pur sempre un'identità. Mi sembra che questi tentativi, nella loro grande diversità, e proprio nella loro onestà e nel loro impegno sincero e appassionato, siano la prova più convincente della nostra difficoltà di agire in profondità.

    E' possibile spiegarne i motivi? Azzardo qualche ipotesi.

    La prima è che il poderoso lavoro di "autocivilizzazione", realizzatosi in Europa, ha prodotto un lessico che si presenta con le vesti della neutralità, ma che in realtà predispone ad un discorso identitario. Fanno parte di questo vocabolario di "parole pericolose", termini quali "radici, origini, identità, popolo, cultura, tradizione, memoria e memoria collettiva, eredità e, finalmente, patrimonio". Su questi, a partire dalla critica – indimenticabile quanto trascurata – del termine "origini", da parte di Marc Bloch, molti storici e studiosi di scienze sociali si sono espressi. Nella maggior parte dei casi si tratta di metafore, usate a lungo dagli studiosi, che – nel loro trasferimento nel linguaggio comune subiscono un processo di essenzializzazione. E' questa, forse la categoria cardine, sulla quale occorrerebbe lavorare. Messa a punto dalle scienze cognitive (Susan Gelman, sociologa della conoscenza); dall'antropologia (Jean-Loup Amselle) e finalmente dalla storia (Walter Paul), questa categoria ci insegna che una volta che questi concetti si essenzializzano, diventano concreti e reali. Una cultura, dunque, diventa una sorta di enorme sfera, all'interno della quale noi viviamo; le radici prendono consistenza effettiva: sono là, occorre difenderle dai parassiti, annaffiarle. Chi è così stupido da tagliare le proprie radici? E il patrimonio, infine, diventa il lascito concreto, l'eredità tramandataci dai nostri avi. Un tesoro da difendere, dunque. Gli esempi possono continuare, e sono tutti noti. Ma tutti concorrono ad avvertirci che le trappole del linguaggio possono scattare in ogni momento e in ogni luogo: anche nel laboratorio asettico del ricercatore; anche dalla cattedra di un insegnante impegnato anima e corpo nei progetti interculturali.

    La seconda è nella ondata culturalistica e della post-modernità, che ha caratterizzato molta parte della cultura mondiale degli ultimi decenni. Secondo questa visione, non esistono più narrazioni complessive. Abbiamo solo narrazioni locali e, dal momento che viviamo in nazioni democratiche, ognuno ha diritto alla propria narrazione e, conseguentemente, al proprio patrimonio. Sono state ben studiate alcune reazioni a questa impostazione: soprattutto l'autentica battaglia per il curricolo, scatenatasi negli Stati Uniti, a partire dal 1995. Qui mi permetto di ricordare la vicenda italiana. Nel 2006, durante il secondo governo Prodi (centrosinistra) venne convocato l'Osservatorio Interculturale, una struttura ministeriale della quale facevano parte rappresentanti delle diverse comunità etniche, presenti in Italia, studiosi di pedagogia e di didattiche disciplinari. Argomento di quelle riunioni erano proprio le materie di studio, e le loro trasformazioni in presenza di classi multietniche. Forse è utile riproporre qui le conclusioni di quella Commissione. La Repubblica, vi si disse, ha il dovere di dotare i propri cittadini degli strumenti culturali più efficaci: e compito della ricerca è quello di individuarli. Ora, se la storia è uno strumento per leggere e capire il mondo, questa va data a tutti, senza distinzione di cultura, di religione e di provenienza. In linea con quelle conclusioni furono i nuovi programmi di storia per la scuola di base (sia quelli del 2007, sia quelli del 2012) nei quali si individua una trama narrativa (ominazione, neolitizzazione, industrializzazione, globalizzazione) caratteristica della vicenda umana nel suo complesso e, come tale, contenuto di studio obbligatorio per tutti i cittadini italiani. Questa trama, rigorosa ma essenziale, lascia d'altra parte, molto tempo libero ai docenti per adattare il loro programma alle concrete situazioni di classe.

    A questa vicenda è collegabile il terzo ostacolo al rinnovamento. E' la paura che, distruggendo un ordine precedente e lungamente ricercato, ci si inoltri in un territorio didattico futile, privo di certezze e di luoghi forti della memoria. Una paura, occorre riconoscerlo, che trova solide motivazioni in un avventurismo didattico che spesso caratterizza i tentativi di innovazione. A mio modo di vedere, questa paura si vince sul terreno dei contenuti di studio, e non della metodologia (come continuano a sostenere molti pedagogisti). Ad esempio: per restare al caso europeo. Che cosa vuol dire, concretamente, rifiutare la trama eurocentrica, alla quale abbiamo fatto riferimento sopra? Certamente non basta anteporre al programma un proemio di competenze di cittadinanza europea, aperta e tollerante. Occorre "alzare lo sguardo" e raccontare qualcosa di diverso. Proviamo a osservare il mondo mediterraneo insieme con le terre circostanti. Il cosiddetto barbaricum (sia le regioni europee centrali e settentrionali, sia le regioni dell'africa settentrionale) acquisterà consistenza e cesserà di essere il territorio di provenienza di invasori inopportuni. Esso è, come mostra bene tutta la ricerca della cosiddetta "Scuola di Vienna", un territorio di civilizzazione in forte interazione con i centri che campeggiano nella storia alla quale siamo abituati. Proviamo a innalzare il nostro sguardo, sopra quella esigua striscia di terra, che continuiamo a chiamare "Europa medievale". Vedremo l'immenso mondo degli slavi, il grande assente dalla nostra narrazione (una vera ironia, per genti che costituiscono la maggioranza della popolazione europea); vedremo il maestoso impero cazaro, che in tema di patrimonio, potrebbe costituire l'esempio europeo di una multiforme e tollerante compagine; vedremo gli assenti della penisola balcanica, e in particolare, l'impero bizantino e quello turco. Vedremo come il Mediterraneo, con le sue genti e le sue religioni, non scompare affatto dall'orizzonte medievale.

    Queste assenze macroscopiche ci avvertono di quanto il nostro sguardo sul passato europeo sia incompleto. Forse non siamo ancora in grado di definire "un patrimonio europeo". Ma sicuramente la condizione per non raggiungere questo obiettivo, o di raggiungerlo in un modo sbagliato, è quella dell'ignoranza.

    Il quarto ostacolo è interamente nel dominio della formazione patrimoniale e ci obbliga a riprendere il tema dell'identità. Per quali motivi, si dice, è importante occuparsi della protezione e della salvaguardia del patrimonio? Le risposte sono note: sentirsene proprietari, sapere che nel patrimonio sono conservate e custodite le nostre radici; che il patrimonio è il luogo della nostra identità; che il senso di appartenenza ad una comunità non può che provenire dalla condivisione di un patrimonio. Indubbiamente sono argomenti forti, il cui abbandono può generare un senso di disorientamento, in chi sostiene sinceramente la causa della salvaguardia del patrimonio. L'abbandono di questi argomenti pone un complesso di problemi, intrecciati fra di loro. In primo luogo, la ricerca di nuove strategie discorsive, capaci di aggregare i cittadini intorno a questi temi.

    In secondo luogo, la ricerca di motivazioni reali e solide: e queste si trovano interamente nella storia. Questa, infatti, non è solo decostruzione di miti e di tradizioni inventate; ma è anche svelamento di processi reali e profondi. La storia ci spiega come la scoperta del passato, fatta collettivamente nell'Ottocento, abbia allargato l'orizzonte di vita degli uomini. Questi hanno progressivamente imparato che il loro spazio è costituito da un universo, con una dimensione spaziale e temporale pressoché infinita. Hanno imparato che il loro spazio culturale era, anch'esso, infinitamente più vasto di quello riservato loro dalla piccola comunità nella quale erano vissuti fino ad allora. Certamente: posti di fronte a queste nuove frontiere, gli Stati hanno provveduto con i loro recinti di sicurezza. Oggi, nel XXI secolo, ci possiamo chiedere se ne abbiamo ancora bisogno. Ci possiamo chiedere se non abbiamo finalmente il diritto di percorrerli liberamente. E se questo non faccia parte dei nostri diritti di cittadinanza.

    Ora, se la fruizione di questo patrimonio appartiene agli umani, è ovvio sostenere che il patrimonio non può che essere di tutti. Sempre, e non soltanto quando viene dichiarato tale da una Commissione internazionali, un bene patrimoniale è "patrimonio dell'umanità". Questa prospettiva (o se volete, questa scoperta) ci carica di una responsabilità immensa. Noi non siamo i "proprietari" di un dato elemento patrimoniale. Tant'è vero che non lo possiamo distruggere a nostro piacimento. Ne siamo i custodi, per noi stessi, per gli altri e per le generazioni future. Ne siamo responsabili di fronte all'istanza etica più alta che riusciamo a immaginare. L'umanità.

    Chi distrugge il patrimonio è un barbaro (nell'accezione negativa del termine), perché non accetta o non conosce, o non sa praticare il territorio di vita della società moderna, caratterizzato, come abbiamo visto, dalle sue infinite dimensioni spazio/temporali/culturali. Alla formazione di una nuova società civile deve continuare a provvedere (come in passato) l'istituzione scolastica. E a questo serve, finalmente, l'apprendimento della storia. Il patrimonio europeo, dunque, non è il luogo dove inalberare il vessillo dell'europeaneità, distinto e diverso da quello islamico, induista o confuciano. Questo patrimonio, al contrario, ci spinge a varcare le frontiere e a insegnare agli uomini e le donne la pratica degli spazi senza confini. A pensare che la pace, se resta proprietà di una parte della terra, non ne diventa il patrimonio.

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