Santacana Mestre

  • Fare storia con gli oggetti. Il libro, finalmente.

    di Antonio Brusa

    photo 2022 02 24 18 12 35  Gli oggetti sono un concentrato di storia. Ci parlano della cultura, delle tecniche, delle aspirazioni, dei modi di vita di un popolo e, perfino, delle loro vicissitudini, delle guerre, delle feste, delle carestie. Ma gli oggetti sono muti. Dobbiamo interrogarli, perché ci parlino di storia. Joan Santacana e Nayra Llonch ci insegnano a interrogarli. Lo fanno in un libro semplice e profondo al tempo stesso, nel quale si trovano i principi storiografici e didattici che ci permettono di trasformare gli oggetti in fonti da utilizzare in classe, e si trova anche una bella carrellata di oggetti, dalla preistoria ad oggi, ben spiegati e pronti all’uso.
    “Proviamo a immaginare di proporre come oggetto un rotolo di carta igienica. Quali conoscenze ne possiamo ricavare? Qual era l’igiene intima in Occidente, prima che esistesse questa invenzione? E uno stuzzicadenti che cosa ci può dire? Gli antichi Romani li usavano?”

    Siamo circondati da oggetti. Un archivio storico potenzialmente infinito. Ma, poiché non sappiamo interrogarli, questi oggetti restano muti. Sono le cose di tutti i giorni, quelle che (avrebbe detto il buon Sartre) ci danno la nausea del quotidiano. La didattica degli oggetti ha lo straordinario potere di farci capire (e far capire ai nostri allievi) il loro valore. Anche quello delle piccole cose. Dentro, c’è tutta la storia. Questo è il messaggio che Joan e Nayra vogliono comunicarci. “Gli oggetti sono frutto di invenzioni, prestiti culturali o scoperte. Oggi sono parte della nostra cultura. Quando li analizziamo, ci fanno capire che noi oggi beneficiamo del lavoro di individui di ogni parte del mondo e di ogni tempo. Siamo il risultato di una storia millenaria e multietnica. E gli oggetti ne sono la testimonianza”.

    Fare storia con gli oggetti. Metodi e percorsi didattici per bambini e adolescenti è il primo libro della collana “Insegnare storia”, diretta da me e Walter Panciera, per Carocci editore. Seguiranno altri volumetti, tutti dal costo contenuto, e tutti col medesimo intento di fornire al lettore le idee teoriche necessarie per gestire una bella antologia di materiali pronti all’uso (con sito di accompagnamento con materiali aggiuntivi). I prossimi volumetti riguarderanno la didattica ludica e quella con le tecnologie, l’insegnamento della storia locale, dell’Antico vicino oriente (ecc. ecc.).

  • Fare storia con gli oggetti. Storia, Public History e Didattica dell'oggetto

    photo 2022 03 31 15 11 11 Circa un mese fa, su Historia Ludens, abbiamo recensito il nuovo volume di Joan Santacana Mestre, Fare storia con gli oggetti. Metodi e percorsi didattici per bambini e adolescenti e martedì 5 aprile 2022, alle ore 15.40, lo presenteremo per il seminario permanente di Touching History e per il corso di Didattica della Storia del Dipartimento di Ricerca e Innovazione Umanistica (DIRIUM) dell'Università di Bari.

    Sarà possibile seguire l'incontro, in presenza, presso l'Auditorium del complesso di Santa Teresa dei Maschi nella Città Vecchia, a Bari, o tramite Microsoft Teams utilizzando il codice 2hjqhs1.

     

  • Il castello di Calafell. La verità dello storico e quella del conta-storie

    di Antonio Brusa

    Questa è l’avventura straordinaria di un archeologo che fa uno scavo e ne scrive la storia, ma subito dopo viene un altro tipo (scrittore, giornalista, uomo di cultura, fate voi), che non ha mai messo mano a quello scavo, epperò ha capito come sono andate le cose e come vadano raccontate. E le mette in rete.

    Insomma, da buon cacciatore di bufale, ho colto il momento in cui ne viene inventata una, e ve la commento.

    Joan Santacana MestreJoan Santacana Mestre

    L’archeologo è Joan Santacana Mestre. Lavora all’Università di Barcellona. Lo conosco perché è uno dei più grandi studiosi di didattica della storia che ho avuto la fortuna di incontrare. Aggirarsi con lui, in uno dei suoi scavi, è uno dei piaceri impareggiabili che a volte mi toccano. Joan ti spiega come gli è venuto in testa l’idea di scavare in quel posto, le difficoltà incontrate e come le ha superate. Ti svela la macchina esplicativa che ha messo a disposizione dei cittadini, perché questi, afferma, hanno il diritto di entrare nello scavo e di assaporare il gusto di capirlo.

    Al principio, il castello di Calafell, una cittadina fra Barcellona e Tarragona, lui non lo voleva scavare. L’archeologia medievale era allora agli esordi, e lui era tutto preso dall’idea di riportare alla luce la cittadella che gli Iberi, una popolazione pre-romana, avevano costruito sulla costa. Ma il sindaco del tempo gli pose l’aut aut. Se vuoi il permesso di scavare i tuoi Iberi, datti da fare anche col castello. E così (per la mia grande soddisfazione di medievista), al principio degli anni ’80 ha cominciato a lavorare sulla rocca che domina il borgo, dove, fra le rovine di un castello e una piccola chiesa, non c’era altro che un cimitero abbandonato.

    Ma gli è piaciuto. E non lo nasconde, mentre mi indica i buchi di fondazione della prima costruzione altomedievale, tutta di legno, com’era di molte residenze post-carolingie. Infatti, Carlo Magno di qui dovette passare, per combattere l’emirato di Cordova, le cui terre cominciavano appena più a sud. Forse Calafell fu un avamposto musulmano, conquistato dai cristiani, come suggerirebbe il nome (Cal’af, castello), per quanto non ci siano troppe testimonianze ad avvalorare questa suggestione. Per allora, dunque, fra IX e X secolo, c’era questo castelluccio ligneo, attorniato dalle capanne dei contadini e, all’altro capo della rocca, la chiesa, minuscola ma con una cripta, oggi dedicata alla Vergine de la Cueva.

    Qui, la storia dei contadini che si ribellarono

    Il castello di CalafellIl castello di Calafell

    La pace della piccola comunità contadina viene violata nel XIII secolo da un signore che allarga la sua residenza e la trasforma in una imponente costruzione di pietra, con le feritoie per le balestre e gli annessi, fra cui una cisterna per l’acqua, i locali per la cavalleria e l’immancabile prigione. E fa fuori i contadini. Distrutte le loro abitazioni, quei poveracci si trasferiscono ai piedi della rocca, dove fondano l’abitato agricolo. La chiesa, anche quella, si ingrandisce. Una doppia navata, pitture, un campanile a vela. Un fossato divide l’area signorile da quella sacra.

    I contadini non ci stanno. Si riorganizzano. Premono contro il signore. A metà XV secolo, li vediamo che si costituiscono in una comunità che può vantare, nel 1493, il sostegno di Ferdinando il Cattolico (sì, proprio lui, il marito di Isabella, che – fra un assedio di Granada e una scoperta dell’America – trova il tempo per dare una mano a questi campesinos, giusto per impartire una lezione al signore).

    Così, entriamo nel XVI secolo. La comunità sembra prosperare e il signore pure. La chiesa si abbellisce e si dota di uno strumento prestigioso: il Communidor. Si tratta di una sorta di basso campanile quadrangolare, con quattro grandi finestre, ma senza campane. Dentro c’era una tavola con una croce. Lo avevano raccomandato al Concilio di Trento per purificare l’aria – sacra magia – infestata dai miasmi delle streghe. Ce ne dovevano essere molte, a Calafell.

    Scoppia la guerra dei Trent’anni, che in Catalogna ha uno dei fronti più violenti. Francesi, signori catalani, contadini e tercios castigliani, tutti se le danno di santa ragione. Calafell ne viene stritolata e distrutta. Si salvano alcune decine di contadini, che trovano rifugio nella provvidenziale cisterna signorile (lo sappiamo da un resoconto coevo): una via di fuga abituale, visto che probabilmente vi si nascondevano durante gli assalti dei pirati, come testimonierebbe una nave saracena, graffita sulle pareti.

    Il Communidor di CalafellIl Communidor di Calafell

    Sulla rocca restano la chiesa e le rovine del castello, fra le quali i contadini cominciano a seppellire i loro morti. Novemila ne troverà Santacana, compresi gli appestati gettati in una fossa comune e ricoperti di calce viva. Quella terra che il signore tolse loro, i contadini se la sono ripresa da morti, alla fine. La rocca diventa il cimitero del paese, fino alla guerra civile, quando i repubblicani impongono di costruire un nuovo cimitero, fuori la città, nel 1937.

    Lo scavo termina nel 1986. Ma Joan non cessa di curarne la didattica. Cartelloni, scritte, libri, libretti divulgativi. Roba che Giménez (lo chiameremo così, per brevità, il conta-storie) ha visto certamente venticinque anni dopo, nel 2011, quando visitò lo scavo. Santacana – deve aver pensato allora – non ha capito un tubo. La storia andò in un altro modo.

    La storia alternativa di Calafell

    A popolare la cittadella, ecco la versione di Giménez, erano stati gli Iberi (altro che contadini altomedievali!). Nell’VIII secolo a.C. allora? no. Troppo poco. Aggiungiamo uno zero. Ottomila anni fa. Un’antica civiltà superiore, che Giménez ci riporta alla luce, illustrando lo scavo da par suo. Ecco la strada che quegli antichi percorrevano. Si vedono i solchi delle ruote, sottolinea (purtroppo per lui, la strada è di età tardomedievale e i solchi sono causati da ruote cerchiate di ferro).

    La strada con i solchi che sale verso il castelloLa strada con i solchi che sale verso il castello

    Sulla parete si vedono delle tombe? Macché: sono delle “scale nobiliari”, per andare su in cima fra le imponenti “costruzioni di quei popoli misteriosi” (in realtà muretti a secco ottocenteschi). Ecco un “silos di grano” (è la base per una pressa da vino). Una fessura naturale nella parete rocciosa diventa una “porta trionfale”, mentre un foro prodotto dalla pioggia è il “tunnel”, doveroso di una città antica che si rispetti (purtroppo le autorità comunali hanno provveduto a sigillarlo, si lamenta). L’abside (un bell’esempio di romanico lombardo) è la “torre dell’omaggio”, accanto alla quale c’è la “torre di guardia” o – chissà perché – la “peineta” (l’alto pettine che le donne spagnole indossavano tradizionalmente), e questa sarebbe il communidor delle streghe. Le feritoie per balestre (e in età moderna per colubrine) ora sono diventate dei “simboli per l’acqua piovana”. La spianata, frutto della ripulitura del terreno da parte degli archeologi, è l’“antica piazza d’armi”, con i relativi “accessi nobiliari”.

    In un altro sito, vengono riprese le invenzioni su queste strade antiche, alcune delle quali sarebbero state costruite dagli abitanti di Atlantide, in fuga dopo il disastro. Su questo argomento, qui c’è l’intervento di Santacana.

    Senza enigmi, che storia è?

    Questa fortezza, sintetizza Giménez nel suo video, è un enigma della storia, un mistero che testimonia il sincretismo e la mescolanza delle culture della regione.

    Guardo il video con Santacana, che scuote la testa di fronte a queste assurdità, mentre ascoltiamo la musica paramedievale di sottofondo. Ci sorprende la sicurezza con la quale vengono dette e lo sfoggio degli stilemi dello storico (“probabilmente”, “approssimativamente”, “sappiamo che”, ecc). Perché non gli rispondi? gli dico. E da dove cominciare? fa lui: è evidente che non sa nulla.

    Non ne sono convinto: nel video si notano i pannelli, con le didascalie chiarissime che vi erano poste. Giménez, che si fa fotografare sullo scavo, le avrà viste. È che ha deciso che non funzionano. La civiltà misteriosa di ottomila anni fa: questo ci vuole. E, difatti, un utente (Joice5500) gli viene appresso: «non è che intendi una civiltà extraterrestre, luiz?» chiede ansioso in un commento di qualche anno fa.

    I conta-storie del XXI secolo

    Giménez è un professionista. Scrive di Maria Maddalena, moglie di Gesù e madre dei suoi figli, del santo Graal, di templari e di misteri – andini come barcellonesi – di catari, di Atlantide e della sua perduta tecnologia. Pubblica video, che, per quanto non appaiano di grandissimo successo, gli permettono di discutere con utenti di tutto il mondo, e di colpire la fantasia di qualche lettore, come testimonia un visitatore del castello, che su Tripadvisor ne riporta fedelmente alcune “scoperte”.

    Giménez non è inquadrabile in quella “ribellione degli ignoranti”, della quale parla Tom Nichols (La conoscenza e i suoi nemici, Luiss 2018). Vive, al contrario, del fenomeno della “pluralizzazione della verità”, spiegata da Daniel T. Rogers, secondo il quale anche la “verità” è diventata un oggetto di scambio, commerciale o politico. È questo il suo mestiere, come deduciamo dalla quantità di conferenze, interviste, programmi radio e televisione e libri dei quali lui stesso ci informa. Lavora nel vasto campo della “Historia ignorada”, scrive, «cercando quei fatti sconosciuti che la Storia ufficiale non suole ricordare».

    Fa parte, quindi, di quella agguerrita schiera di intellettuali che vive combattendo la “storia ufficiale”. È una pattuglia composita, all’interno della quale troviamo negazionisti, complottisti, inventori di tradizioni e scopritori di ogni genere di storie alternative, dalla scoperta dell’America, all’unificazione dell’Italia e ai veri costruttori delle Piramidi, che la consorteria degli accademici tenta – a loro dire – di occultare con ogni mezzo. È un fenomeno ben noto agli storici. Santacana, per esempio, fra le raccomandazioni per riconoscere un sito non affidabile, inserisce proprio questa: «se trovate frasi come “nessuno l’ha detto mai”, “finalmente la verità viene fuori”, passate oltre». Eppure, sono proprio queste le “verità” che tirano. Gli oltre 900 mila follower del blog di José Luis Giménez non sono tantissimi, per questo genere di siti, ma sono sufficienti per permettergli di sbarcare il lunario. Sono il suo pane. Confezionare verità che hanno mercato. In un ipotetico faccia a faccia con l’archeologo, il nostro non avrebbe alcuna difficoltà a opporgli questa sua capacità.

    Come discutere?

    Probabilmente non porta a grandi risultati discutere di documentazione e di interpretazione delle fonti, di credibilità delle cronologie. Facciamo mestieri differenti, lo storico e il conta-storie. Il problema curioso, semmai, è che questi non l’ha ancora capito. Perché prendersela con la “storiografia ufficiale”, dal momento che ha scopi così lontani dai suoi? Dal canto nostro, ciò che potremmo imputare a questi onesti scrittori, è la pochezza della fantasia. Templari, catari, santo Graal, Maria Maddalena. È il campionario sfruttatissimo e stantio di Dan Brown, questo, non il regno dell’invenzione.

    La strega Pepa BarretinesLa strega Pepa Barretines

    Per chi sa lavorare di immaginazione, Calafell è un paese di Bengodi. C’è tutto: le guerre contro gli infedeli, le razzie dei pirati saraceni, il signore cattivo, i contadini ribelli, la peste, i feroci massacri. Né mancano quei personaggi, come Carlo Magno o Ferdinando il Cattolico che, nelle fiction ben congegnate, rivestono il ruolo delle celebrità che si svelano alla fine, fra gridolini di sorpresa. E c’è, per ultimo, la strega Pepa Barretinas, della quale in paese si raccontano leggende e si porta in giro la maschera, ma che una buona base storica ce l’ha. Tra storia e invenzione si intrecciano accordi lussuosi e divertenti, a saperci lavorare.

    Sono i Giménez di questo mondo che li deprimono.

  • Una lezione di didattica della storia, con sorpresa finale

    di Antonio Brusa

    Parlo con Jaume Casanyes, il giovane assessore alla cultura di Cunit, un paesino di poco più di diecimila abitanti sulla Costa Dorata, in Catalogna. Jaume ha studiato Storia a Barcellona, si è specializzato in Geografia a Bologna, dove, fra l’altro, ha imparato didattica della storia da Ivo Mattozzi. Un’amministrazione piena di debiti, mi dice. Ma non per questo rinuncia ai suoi progetti culturali. Fra questi, una magnifica Biblioteca per ragazzi, e, al piano inferiore di questa, la scuola di recupero per studenti a rischio, nel cui giardino ha promosso la costruzione di un piccolo parco archeologico.

    Oggi fanno lezione di didattica a una giovane archeologa. Sarà una delle operatrici che lavoreranno in questo parco. C’è la direttrice della biblioteca, Joan Santacana Mestre, l’archeologo, degli operatori culturali e Felix, uno straordinario fabbricante di repliche di oggetti preistorici. Mi aggrego al gruppo e osservo.

    La tenda neolitica

    Ecco il primo atelier. Costruire una tenda neolitica. Da un contenitore (a prova di vandalismo) si tirano fuori i pali, le corde e le pelli. Due cerchi di pietra, pavimentati di ciottoli, sono già pronti nel prato. Provano a montare la tenda. Ogni fase è un problema da risolvere. Non ci avevo mai pensato (e nemmeno voi, immagino): come si fa a legare la cima di pali, alti quattro metri, in un mondo in cui non ci sono scale? E, una volta risolto questo problema, e montata l’armatura di legno, come si fa a ricoprirla di pelli, in modo che non cadano e stiano ben ferme? Ogni passo rivedi le tue idee sulle attività del neolitico: quanta riflessione, e conseguentemente, quanta cultura richiesero, uno alla fine è obbligato ad ammettere.

    Ci vogliono ottanta pelli, per ricoprire una capanna, piccola come questa. Un gregge, praticamente. Non era un bene a disposizione di tutti: ecco un altro argomento che converrà discutere con i ragazzi.

    Approntata la tenda, Joan Santacana Mestre mostra le stoviglie. Ne spiega brevemente la composizione (sono repliche di ceramica cardiale), poi pone il problema: come si usano? In breve, si capisce perché hanno il fondo rotondo (non ci sono tavole imbandite nel neolitico), come mangiavano i cibi liquidi non avendo a disposizione cucchiai (quei pochi servivano per mescolare i brodi), come si usavano le olle e le ciotole. Spiega come questi oggetti permettano di parlare delle società nomadiche pastorali e di capire la differenza fra queste e quelle cacciatrici.

    Si calcolano i tempi. Per montare la tenda ci vuole un’oretta. La lezione prende una mezz’ora, e un’altra mezz’ora se ne va per provare altri strumenti, come falcetti, zappe e asce. Poi, si calcola il tempo di smontaggio. Orologio alla mano, tutto dura tre ore.

    Scavare una tomba

    Andiamo verso gli altri contenitori, che ricoprono due tombe, una maschile e una femminile. E ce n’è un terzo a sorpresa. Si insegna a usare il primo. Facendo scorrere la protezione antivandalismo, appare una tomba, ricoperta di lastre di pietra. Si scava con la cazzuola e le mani. Ecco un cranio. Santacana insegna l’essenziale: come si capisce il sesso e l’età, per esempio. La cosa si fa interessante, e lo dimostra il fatto che il capannello si è arricchito di ragazzi, che passavano di lì e si sono incuriositi. Fanno anche loro domande, insieme alla nostra “archeologa-che-impara-la-didattica”.

    Si passa infine al contenitore a sorpresa. È una fossa con sassi e legna bruciata. Che cosa mai potrà essere? Una tomba a incinerazione? Un resto di un incendio? Ogni ipotesi viene discussa, fino ad arrivare a quella più accreditata: si tratta di un forno da cottura, come se ne trovano oggi in Indonesia. Si mette il cibo, lo si ricopre di foglie, e su queste si accende il fuoco.

    Si calcolano i tempi (un’ora per tomba) e si ripassano le sequenze operative, si discutono le possibili reazioni dei ragazzi.

    Un imprevisto poco neolitico

    L’assessore non ci ha mollato per un istante. Stiamo lavorando sodo dalla mattina. Non potremo fare i due altri esperimenti, sulla stele e sul forno. Non c’è più tempo, purtroppo. Ora, però, se, a questo punto, vi siete convinti che vi sto descrivendo una scena di armonia didattica, in una cittadina dove un bravo assessore alla cultura fa il suo dovere, leggete il rigo seguente, e cambierete idea.

    Un signore, che portava il cane a spasso lì vicino, lo lascia nel prato e si precipita verso di noi. Grida: “Robo, eso es un robo!” “E’ un furto, questo è un furto!” Aggiunge, sempre ad alta voce, che lui paga le tasse e non sopporta che vengano usate per queste sciocchezze. Urla che ci sono dei disoccupati a Cunit, che avrebbero bisogno di quei soldi, così malamente investiti nel parco. Conclude con l’invito a vergognarci. Gira le spalle e se ne va a passo svelto.

    Rimaniamo tutti di sasso. C’è chi dice che è un pazzo. Io osservo che, in ogni caso, ha pronunciato frasi che sentiamo quotidianamente, almeno in Italia. Con la cultura non si mangia, disse un ministro, un giorno. In forme educate, era più o meno lo stesso concetto. Vero, fa l’assessore. C’è un dieci per cento, qui, che sarebbe d’accordo con quel signore.

    Abbiamo parlato tutta la mattina della cultura dei neolitici, e ora viene il nostro turno. Qual è la cultura dei nostri tempi e delle nostre società? Ecco un bel problema da lasciare ai posteri (nel caso non riuscissimo a risolverlo).

    Nel suo sito fb, l’assessore riporta quello che gli disse un suo amico, quando cominciò la sua attività politica: “prima di cambiare il mondo, vedi di cambiare il tuo paese”.

    Auguri, Jaume (e anche a tutti noi).

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    Foto 1. Il parco archeologico. In primo piano il forno. Sullo sfondo i contenitori antivandalismo di due repliche di tombe neolitiche, sulla sinistra il lungo contenitore dei pali per la tenda.

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    Foto 2. L’archeologa impara a legare i pali. Si vede il pavimento della tenda, ricoperto di ciottoli

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    Foto 3. Si montano le pelli di capra

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    Foto 4. La lezione col vasellame neolitico

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    Foto 5. La replica della tomba maschile

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