terrorismo

  • Guerre vecchie e guerre nuove. I concetti per capire le nuove guerre

    Autore: Antonio Brusa

     

    Appunti da Yves Michaud

     

    Indice

    Introduzione
    Le domande sulle nuove guerre
    I concetti tradizionali della guerra
    Un prontuario di nuovi concetti
    Uno scenario nuovo
    Uno scenario in movimento

    Introduzione
    Nell’ottica di un Laboratorio del tempo presente, avere un prontuario di concetti sulla guerra è essenziale. Lo ricavo da Yves Michaud, che  insegna filosofia presso l’Università di Rouen.  Negli anni ’80 pubblicò un libretto sulla violenza per la collana “Que sais-je?”, quell’eccezionale canale di cultura di massa che in Italia non si è mai riusciti a riprodurre, nonostante i molti tentativi di imitazione. L’ultima edizione è aggiornata al 2012. In questo testo seguo abbastanza fedelmente il brano di Michaud. Poche volte lo riassumo o lo integro. L’ho suddiviso e titolato in modo che sia un testo consultabile a scuola. Come sempre, invito il lettore volenteroso, o che volesse citarlo a leggere la fonte: Yves Michaud, La violence, Puf, Paris 2012, pp. 55-67. Dello stesso autore segnalo: Changement dans la violence. Essai sur la bienveillance universelle et la peur, Odile Jacob, Paris 2002. Inoltre, sulle vecchie e nuove guerre si veda la rapida messa a punto di Nicola Labanca, sullaTreccani online(Atlante-Geopolitico).  (HL)

      Carta mondiale dei conflitti

    Le domande sulle  nuove guerre

    Conflitti interni o esterni?
    In molte occasioni è difficile distinguerli. In Africa, per esempio, quando si scontrano etnie di confine, si mettono in moto subito attori internazionali e i paesi confinanti, col risultato immediato dell’internazionalizzazione del conflitto. Una mondializzazione che spesso è moltiplicata dallo stesso intervento internazionale per ristabilire la pace

    Quali sono i nuovi campi di battaglia?
    Questi spesso non sono più delimitati e identificabili. Si possono trovare nel cuore delle popolazioni civili, lontano dai luoghi dove risiedono i contendenti, nelle zone turistiche o in mezzo alle città. I contendenti, spesso, non sono degli stati, ma aspirano a divenirlo: palestinesi, minoranze dell’ex-Unione sovietica, movimenti autonomisti o indipendentisti, musulmani di Bosnia, macedoni, albanesi del Kosovo, curdi della Turchia o dell’Iran, tamil di Ceylon ecc. Altri, invece, non aspirano nemmeno a diventare stati: fra questi i movimenti terroristi, come al-Qaida o i movimenti altermondialisti.

    In quali regioni scoppiano questi conflitti?
    Sia che esplodano, sia che covino sotto la cenere, spesso questi conflitti nascono dalla decomposizione di antiche unità politiche, come l’Urss o la Jugoslavia. Altri nascono in zone conflittuali “congelate” dall’equilibrio della guerra fredda e suscettibili di nuove riorganizzazioni: gli Emirati arabi e il Quwait, il corno d’Africa, le coste del Mediterraneo, la Cina e Taiwan, la maggior parte dei confini territoriali della Cina.  Altri ancora risalgono ad antichi conflitti di civilizzazione.

    Perché si mondializzano?
    Tutti questi conflitti sono abbondantemente mediatizzati. Mettono in gioco le organizzazioni internazionali e le Ong che si occupano di assistenza umanitaria. I flussi migratori, infine, contribuiscono a internazionalizzare i conflitti, trasferendoli dalle regioni di partenza dei migranti a quelle di arrivo: un esempio è la ripresa dell’antisemitismo in Francia, dovuta in buona parte all’esportazione del conflitto israelo-palestinese.


    I concetti tradizionali della guerra

    Il sistema della guerra
    Nel corso dei millenni, le società umane hanno elaborato un complesso sistema per regolare la violenza fra gruppi, o per cercare di regolarla. Le basi di questo sistema sono:

    -    La dichiarazione di guerra o la guerra-sorpresa
    -    La pace solenne
    -    La distruzione totale dell’avversario
    -    Le leggi del combattimento
    -    I modi di soccorso dei feriti e il recupero dei caduti

    La razionalità della guerra
    Nel XIX secolo, questo sistema giunge ad una regolamentazione rigorosa, che viene sistematizzata daKarl von Clausewitz. Questa si riassume nella celebre affermazione: “la guerra è la continuazione della diplomazia con altri mezzi”. Questa affermazione suppone che i soggetti che fanno la guerra siano “razionali”. Come la diplomazia cerca di ottenere dei vantaggi o di minimizzare degli svantaggi, allo stesso modo la guerra cerca di ottenere vantaggi (un guadagno territoriale, economico, commerciale) o di limitare le perdite.

    E’ il sistema di regole o “il modo di considerare la guerra” al quale siamo abituati. Questo sistema presuppone che gli attori siano degli stati sovrani, con eserciti a comando centralizzato, in forte relazione col mondo politico e a forte inerzia: quando la macchina bellica si mette in moto, è difficile arrestarla. In questo mondo di regole si sono svolti i conflitti europei, e le guerre per la divisione del mondo fra stati europei e imperi americano e sovietico.

    Lo stato sovrano
    “Stato sovrano” vuol dire che ogni stato giudica la legittimità della violenza al proprio interno. Ma quando si tratta di uno scontro fra stati, non esiste un’autorità superiore, che possa imporre regole e il loro rispetto. Ci si deve accontentare del diritto internazionale: una “stabilizzazione relativa e sempre temporanea di regole fra stati”, fermo restando che ogni stato resta giudice della legittimità del proprio intervento. Lo stesso diritto, perciò, può diventare occasione di guerra, quando, ad esempio, si dichiara di far rispettare una frontiera violata, o un trattato precedentemente violato.

    Internazionalizzazione della guerra
    Il dispositivo giuridico, poi, deve fare i conti con l’enorme capacità di uccisione, raggiunta dalla macchina bellica negli ultimi due secoli. Questa ha condotto gli stati e le società a ragionare sulle alleanze, sulla cooperazione internazionale, a fare attenzione all’equilibrio fra le forze e ha portato, ancora, allo sviluppo di una coscienza umanitaria internazionale e al bisogno di pace, indispensabile per l’economia e per l’industria.
    Ai nostri giorni, i vecchi concetti di von Clausewitz non bastano più per capire il dispiegamento della violenza internazionale contemporanea. Occorrono nuovi concetti.

     

    Un prontuario di nuovi concetti

    Genocidio
    Lo potremmo intendere come una forma di guerra diretta contro uno o più gruppi umani, piuttosto che contro qualche stato, con l’intenzione di sterminarli. Conosciamo molti esempi di genocidio: da quello degli harare in sud africa, perpetrato dai tedeschi al principio del novecento, a quello degli armeni, condotto dai turchi (ben coadiuvati dai curdi) durante la prima guerra mondiale; nella seconda guerra conosciamo quello contro gli ebrei e i rom e, nel secondo dopoguerra sono ancora nella nostra memoria il genocidio del Rwanda, contro i tutzi, quello compiuto dai khmer rossi in Cambogia e quelli balcanici. A questi esempi potremmo aggiungerne molti altri.

    Al genocidio in quanto tale va assimilata la “pulizia etnica”, che consiste nell’impiego della violenza e del terrore al fine di eliminare la presenza di alcune minoranze, in un determinato territorio, uccidendole o costringendole alla fuga.

    I genocidi non sono una particolarità del XX secolo (e del nostro). La specificità, invece, consiste nella sistematicità della persecuzione. Il fatto che sia spesso uno stato ad essere l’autore del genocidio forse è legato alla difficoltà di conservare l’unità territoriale o al tentativo di superare una forte crisi. Gli iniziatori di un genocidio utilizzano il loro obiettivo come un capro espiatorio dei problemi nazionali.

    Iperterrorismo
    Fino alla seconda metà del XIX secolo, il terrorismo faceva parte di una politica mirante all’acquisizione del potere o a esercitare una pressione sul potere politico, attraverso assassini di personalità politiche o ad attentati mirati. Il cambiamento fondamentale è avvenuto quando il terrorismo è diventato internazionale e si è trasformato in “guerra durante la pace”. I fattori che hanno favorito questo cambiamento sono: la facilità dei trasporti, la copertura mediatica mondiale, la vulnerabilità degli obiettivi possibili (gruppi di turisti, ambasciate, rappresentanze commerciali, mezzi di trasporto ecc.), le armi potenti, facili da nascondere, spostare o montare, ma anche le armi facili da inventare, come dimostra l’attentato delle Torri gemelle, compiuto con due aerei di linea, trasformati in missili.

    La nozione di iperterrorismo fa riferimento al carattere mondiale dell’azione, sulla sua natura spettacolare, e sugli effetti militari e politici che questa raggiunge. E’ una nuova forma di guerra, a causa di una logistica nuova, della natura degli obiettivi e dei protagonisti. Un piccolo gruppo di terroristi può condurre una “guerra liquida”, imprevedibile, ottenere successi notevoli e obbligare l’avversario a adottare misure di precauzione, dalle conseguenze psicologiche, economiche e politiche numerose e costose.

    L’iperterrorismo rientra nel quadro razionale di von Clausewitz, se guardiamo i suoi effetti: in realtà si tratta di imporre la propria volontà a un soggetto nemico, a costringerlo, per esempio a modificare la sua politica. Lo si è visto con gli attentati di Atocha, in Spagna (2004), che influirono sui risultati elettorali al punto da far vincere gli avversari del governo in carica.

    Se guardiamo la natura dei soggetti, invece, l’iperterrorismo non rientra più nel canone di von Clausewitz, perché in genere non è condotto da stati (con alcune eccezioni degli anni ’90 dello scorso secolo, quando fu diretto da Libia, Siria e Iran). L’iperterrorismo è condotto piuttosto da una sorta di nebulosa, da una sorta di multinazionale (politica o religiosa) in guerra contro gli stati.

    L’efficacia di questa azione è notevole, dal momento che è una guerra condotta durante la pace, in un territorio retto da regole di pace, approfittando dei benefici dello stato di diritto.

    Guerra asimmetrica
    La guerra è asimmetrica quando è condotta da due protagonisti che rispettano regole diverse, usano armi diverse e hanno campi diversi di battaglia. Un esempio è la guerra che al-Qaida conduce contro gli Usa, a partire dall’attentato delle Torri Gemelle: il campo di battaglia è mobile e vario e la componente della comunicazione è essenziale. Anche la risposta americana rientra nel campo delle guerre asimmetriche: si svolge con un controllo della rete di comunicazione, uso di forze speciali e di materiali innovativi.

    Ci sono molti motivi per ritenere che una delle cause della guerra asimmetrica si trova nella superiorità assoluta raggiunta dagli Stati, sia nel campo della guerra convenzionale che in quello nucleare. Questa superiorità, spinge gli avversari a cercare altri terreni e altre forme di scontro. Si tratta di abbandonare quei terreni, nei quali la superiorità avversaria è insuperabile, e crearne altri, nei quali il nemico si trovi in difficoltà.

    Guerra preventiva
    Dopo gli attentati dell’11 settembre, diventa una forma di guerra sempre più invocata. Con un termine inglese è detta anche preemption war. Gli stati la invocano per difendersi da altri stati, definiti “canaglia” (in inglese rogue nations). Il pericolo rappresentato dalle armi nucleari della Corea del Nord o dell’Iran, o dalle armi biologiche, che si ipotizzava possedesse Saddam Hussein, dittatore irakeno, il sostegno che la Siria ha fornito all’iperterrorismo, hanno giustificato – agli occhi degli stati occidentali – il ricorso ad azioni preventive. Lo scopo dichiarato era quello di impedire che la capacità distruttrice di questi gruppi raggiungesse una soglia irreversibile, tale da minacciare gli stati più forti e da costringerli ad una logica di mutua dissuasione.

    L’idea della guerra preventiva si basa su questo schema: da una parte ci sono gli stati “imprevedibili”, dotati di armi potenzialmente di distruzione di massa (nucleari, biologiche, chimiche); dall’altra gli stati “razionali”, dotati di capacità di dissuasione. Questo schema impone che la guerra preventiva non possa essere dichiarata da un solo stato, dal momento che apparirebbe come un intervento imperialista, o un terrorismo di stato; essa necessita, dunque, l’intervento di una coalizione.

    Guerra umanitaria
    Oppure, eufemisticamente, “ingerenza umanitaria”. Si ha quando si interviene in un territorio per evitare dei disastri come la carestia, il genocidio, la pulizia etnica, le guerre civili lunghissime, le violazioni sistematiche dei Diritti dell’Umanità.

    La casistica di questa guerra è varia. Ci sono gli interventi per proteggere l’azione di organizzazioni non militari, come in Sierra Leone, Liberia, Rwanda; per separare i contendenti, come in Bosnia o in Costa d’Avorio; per reprimere una delle parti, considerata fomentatrice della guerra, come quando si è intervenuti contro la Serbia nella crisi del Kosovo, contro l’Irak, nella prima guerra del Golfo, contro la famiglia del colonnello Ghaddafi, in Libia.

    Anche in questo caso, è indispensabile che l’intervento sia approvato dalla comunità internazionale, altrimenti verrebbe interpretato come un’ingerenza imperiale o neocolonialista.

    Occorre, è appena il caso di dirlo, riconoscere che, al di là dei buoni sentimenti, la nozione di guerra umanitaria è ambigua. Sa una parte, gli agenti non governativi, come certe Ong, possono lucrare vantaggi dalla situazione di guerra, attirare simpatie o raccogliere finanziamenti. Dall’altra, l’intervento umanitario rischia di estendere e prolungare il conflitto, dal momento che immette sul campo di battaglia risorse che alimentano gli stessi contendenti (attraverso l’imposizione di tasse, o attraverso la loro rivendita). In questo modo, accade che chi vuole placare la crisi contribuisce a renderla cronica.

    Infine, i campi di rifugiati, sotto l’ombrello delle organizzazioni umanitarie, possono destabilizzare l’economia di una regione, introducendo una seconda economia artificiale.

    Guerra giusta
    Era una nozione di età medievale, quando ci si interrogava sulle cause che potevano giustificare un’azione violenta (ma non bisogna dimenticare che questo strumento giuridico era molto usato dai romani). In pratica, si invoca un principio di ordine superiore, in base al quale si giustifica l’intervento militare.
    E’ indubbio che questo appello al giudizio di dio, o a qualche altro valore trascendentale, apre la porta alla variante della guerra giusta, che è costituita dalla “guerra santa”, combattuta contro coloro che hanno una credenza religiosa (o politica) diversa.

    Società civile internazionale
    Alcuni autori, come Michael Ignatieff  o  Mary Kaldor, autrice di un testo fondamentale sulle nuove guerre, sostengono la tesi della nascita di una comunità di cittadini del mondo, che si sforzerebbero di pesare sulla gestione delle relazioni internazionali, sia quando ci sono dei conflitti, sia quando si tratta di sostenere cause umanitarie, sanitarie o ambientali. Ricavano questa idea dal fatto che esiste una comunità internazionale, che si sta sviluppando un diritto penale internazionale, che si moltiplicano le istituzioni internazionali che si battono per la cooperazione e per la pace, che ci sono organizzazioni non governative che vanno in soccorso di popolazioni in difficoltà.

    Fanno parte dei “cittadini del mondo”, coloro che si occupano professionalmente dei problemi umanitari, gli uomini dalla “grande coscienza”, le associazioni che rappresentano – dal canto loro – soggetti collettivi (Greenpeace, WWF, Attac, i gruppi altermondialisti ecc.). Questi soggetti agiscono per influire sulle decisioni degli organismi internazionali e sull’azione politica dei diversi stati.

    E’ importante notare che – contrariamente a quanto si pensa in Italia e in Francia – nozione di “società civile” non si oppone a quella di “mondo politico”. Nella sua idea originaria, nata dal pensiero di Locke e di Kant, la società civile implica, per contropartita (almeno come orizzonte finale) la costituzione di uno Stato mondiale cosmopolita. Quindi, al posto di opporsi al mondo politico, la società civile lo prefigura.

     

    Uno scenario nuovo

    Nessuna di queste nozioni è totalmente nuova. La novità consiste nel fatto che esse sono necessarie, tutte insieme, per comprendere lo scenario attuale. Uno scenario totalmente nuovo.

    Le guerriglie, un tempo nazionali o confinate in determinati territori, sono diventate internazionali. Si può dire che esiste un terrorismo globalizzato, che trova le sue radici nella diffusione degli armamenti nucleari, e nel quale gli stessi genocidi si sono banalizzati.

    Il mondo non è più governato da una o due superpotenze. E’ multipolare. Localmente ci sono superpotenze in grado di esercitare una forte influenza sulla porzione di mondo circostante (India, Cina, Nigeria, Sud Africa, Australia ecc).

    Aumentano gli stati che non sono in grado di gestire con efficacia i conflitti interni (come la Russia), gli stati nei quali si diffondono movimenti autonomistici o indipendentisti (Italia, Spagna).

    Si diffonde l’aspirazione alla “sovranità nazionale”, ma, al tempo stesso, questa si svuota progressivamente, a causa di trattati internazionali, o a causa dell’impossibilità di una sola nazione di gestire un conflitto, dal momento che questo si internazionalizza rapidamente.

     

    Uno scenario in movimento

    Certamente, la proliferazione delle organizzazioni internazionali, per quanto esse non riescano ad essere sempre efficaci come si vorrebbe, testimonia quanto sia diffusa la volontà di non ripetere l’incubo della seconda guerra mondiale.

    Questo desiderio nasce in uno scenario che vede lo sviluppo di due tendenze opposte: da una parte, la frammentazione del mondo, che sempre di più sembra costituito da stati sovrani, in una situazione potenziale di guerra; dall’altra l’incremento della solidarietà internazionale e dell’interdipendenza.

    A questa seconda tendenza fanno riferimento due nuovi processi. Il primo è la diffusione dell’idea dei “diritti umani”, accettati da moltissimi (anche se l’accettazione è spesso solo di facciata); dall’altra, la lenta costituzione di un diritto internazionale, di un sistema di pene che valga per tutti, esercitato da comunità internazionali. Indubbiamente non si tratta della comunità cosmopolita vagheggiata da Kant. E’ un codice di leggi in progress, fatto di aggiustamenti, di decisioni parziali, spesso stipulate fra singoli soggetti. Tuttavia progredisce, e lascia sperare che si stia costruendo un nuovo ordine internazionale.

  • Il fondamentalismo e l’Islam in Europa. Definizione e diffusione del fenomeno, con qualche riflessione didattica.

    Una ricerca sul fondamentalismo europeo

    Ruud Koopmans, ricercatore nel Dipartimento “Migration, Integration, Transnationalization” del Social Science Center di Berlino"  il più grande centro di ricerca sociale europeo non legato a una specifica università (presieduto fino a poco tempo fa dall’eminente storico tedesco Jürgen Kocka), è autore di una ricerca sul fondamentalismo islamico, presentata al XX convegno degli “Europeanists”, tenutosi ad Amsterdam nel 2013. Si tratta di uno studio di qualche anno fa, beninteso, svoltosi nei paesi nordeuropei. Ne riporto ampi stralci, con qualche mia osservazione, perché può essere utile per discutere, anche fra di noi in Italia, di questo fenomeno sulla base di dati e non solo di opinioni. Al termine, propongo alcune mie riflessioni didattiche. L’originaleè Fundamentalism and out-group hostility. Muslim immigrants and Christian natives in Western Europe .

     

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    Fig. 1 Nonostante le convinzioni diffuse, il fondamentalismo non è affatto un movimento esclusivamente musulmano, come illustra magnificamente questa vignetta di David Klein 

     


    La definizione dei dizionari

    Originariamente, è un termine che si riferisce a movimenti religiosi protestanti americani del principio del XX secolo. Secondo i dizionari inglesi (Merriam-Webster e Oxford) è un movimento, o una forma di religione, specialmente musulmana o cristiana, che spinge per una interpretazione letterale dei testi sacri. Tuttavia, si tratta di un termine che solo di recente è entrato nell’uso comune, come testimonia la mia edizione Zanichelli, del 1987, che, semplicemente, non ne fa cenno.
    Oggi, però, si può consultare con frutto la voce della Treccani, particolarmente analitica. Essa parte con la descrizione del fondamentalismo cristiano, informandoci che costituì la base religiosa dell’apartheid sudafricano, passa a parlare di quello ebraico, spiegandone i rapporti mutevoli col sionismo (al principio i fondamentalisti erano in forte opposizione al ritorno in Israele; cambiarono decisamente atteggiamento nel secondo dopoguerra). Poi fa la lunga storia del fondamentalismo islamico, collegato alla reazione araba contro l’ascesa occidentale della fine del XVIII secolo, al movimento salafita della seconda metà del XIX secolo, e, infine, ai fatti più recenti e noti.

     

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    Fig. 2 La “nube di parole” di Fundamentalism, nella rielaborazione artistica di Radiantskies 

     

    La definizione scientifica

    Secondo Altemayer e Hunsberger, Fondamentalismo è “credere che esiste un’insieme di insegnamenti religiosi che contengono chiaramente le verità fondamentali, primarie, intrinseche, essenziali, sull’umanità e la divinità; che a queste verità essenziali si oppongono forze del male che devono essere vigorosamente combattute; che devono essere seguite oggigiorno in accordo con le pratiche fondamentali e immodificabili del passato; e che coloro che credono e seguono questi insegnamenti fondamentali hanno uno speciale rapporto con la divinità.” (Religious fundamentalism scale, 1992, p. 92, tradotto qui )
    Il fondamentalismo non va confuso con l’ortodossia. Secondo Bryan Laythe (et al), questa consiste piuttosto in un particolare modo di considerare le credenze religiose, e va specificata religione per religione (Religious Fundamentalismas a Predictor of Prejudice: A Two-Component Model, in “Journal for the Scientific Studies of Religion”, 2002 ).
    Infine, ma conviene ricordarlo soprattutto ai nostri giorni, Koopmans sottolinea che il fondamentalismo non va assolutamente connesso con la legittimazione della violenza, per difendere o diffondere la propria credenza religiosa. Ne consegue che dobbiamo tenere per ferma la distinzione tra fondamentalismo, terrorismo e jihadismo. Infatti, gli studi sui profili dei terroristi, di cui oggi disponiamo, mostrano giovani in origine poco religiosi, che passano attraverso le fasi della radicalizzazione (rifiuto della cultura occidentale) e della conversione, prima di approdare alla decisione della lotta armata (il jihadismo) e del terrorismo suicida: così Francesco Cascini, un magistrato impegnato nel contrasto al terrorismo, disegna il percorso di formazione dei terroristi musulmani (Il fenomeno del proselitismo in carcere con riferimento ai detenuti stranieri di culto islamico,  pp. 24 ss)

     

    Le ricerche sul fondamentalismo


    Koopmans ci spiega che, fino agli anni ’90 del secolo scorso, gli studiosi si sono occupati principalmente del fondamentalismo cristiano. Hanno messo in evidenza come questo fenomeno sia una sorta di risposta alla secolarizzazione e alla modernizzazione, spesso associata con la marginalizzazione socioeconomica dei soggetti. Questo fenomeno, hanno spiegato ancora questi studi, è in forte connessione con l’autoritarismo dei gruppi di destra, e il rifiuto dei “diversi”, come gli omosessuali e i membri di altre religioni.
    In paragone, il fondamentalismo islamico, aggiunge Koopmans, è stato poco studiato. Ci si è concentrati sulla violenza e le organizzazioni musulmane fondamentaliste. Ma non si è affrontato in generale il rapporto fra gli individui, specialmente gli immigrati e questo aspetto religioso. Inoltre, mancano studi empirici che confrontino il fenomeno musulmano con le altre religioni.

     

    La ricerca in Europa


    La ricerca della quale parliamo si è svolta presso immigrati turchi e marocchini in Germania, Francia, Olanda, Belgio, Austria e Svezia, di prima e seconda generazione. I risultati sono stati comparati con le credenze professate dai “nativi cristiani” e anche confrontati con i dati relativi a coloro che vivono in Marocco e in Turchia. Il metodo seguito è stato quello delle interviste telefoniche. Gli intervistati sono stati 9000. Le domande miravano a stabilire il grado di adesione ad alcune convinzioni, considerate rivelatrici di un atteggiamento fondamentalista. Ecco una prima serie di item:


    - Il credente (musulmano o cristiano) vuole tornare alle radici della propria religione
    - Ritiene che esista una sola interpretazione del proprio libro sacro
    - Sostiene che le leggi contenute nel libro sacro siano superiori a quelle in vigore nello stato in cui vive
    Il confronto tra cristiani e musulmani mostra una forte incidenza di tali convinzioni presso questi ultimi. Ad esempio: oltre il 70% dei musulmani è convinto che esista una sola interpretazione della propria fede e oltre il 60% ritiene che le leggi religiose debbano prevalere su quelle civili (presso i cristiani le percentuali sono contenute tra il 20 e il 10%).

     

    L’ostilità fra gruppi

    Un secondo indizio di fondamentalismo è quello dell’ostilità nei confronti dei diversi. Ecco le affermazioni chiave:


    - Non voglio avere un amico omosessuale
    - Non si può avere fiducia negli ebrei
    - I musulmani (o i cristiani) vogliono distruggere la mia religione (cristiana o musulmana)


    Anche in questo caso, le risposte non lasciano dubbi. Oltre il 60% dei musulmani è intollerante verso gli omosessuali, il 45 % pensa che non ci si può fidare degli ebrei e che i cristiani nutrano la ferma determinazione di distruggere l’Islam. Fra i cristiani le percentuali sono del 13% (omosessuali), del 9% (ebrei) e del 23 % (musulmani).

     

    Possibili spiegazioni


    Gli alti livelli di fondamentalismo e di ostilità verso gli altri gruppi, riscontrati presso i credenti islamici in occidente, sono oggetto di diverse spiegazioni. Koopmans le elenca e le valuta così:


    - Marginalizzazione e esclusione sociale? No. L’educazione e il lavoro spiegano qualche variazione tra cristiani e musulmani, ma non la grande differenza riscontrata nella ricerca.

    - Alienazione e stress da acculturazione? No. I livelli di fondamentalismo sono molto simili a quelli riscontrati nelle terre di origine degli immigrati

    - Minori diritti religiosi dei musulmani in Europa occidentale? No. Non vi è una chiara correlazione tra le politiche di inclusione e il fondamentalismo.

    - Caratteristiche insite della religione islamica? No. Molti musulmani sunniti o alauiti hanno idee simili alla religione cristiana e non nutrono ostilità verso altri gruppi. E’ vero, però, che questi non sono considerati dai loro correligionari come “buoni musulmani”.

     

    La discussione


    Come tutte le ricerche, anche questa ha sollevato un dibattito e delle obiezioni. Si è criticato, ad esempio, il metodo delle interviste telefoniche, il concetto di “nativi cristiani”, il fatto che il campione sia limitato agli immigrati marocchini e turchi, laddove il mondo musulmano è molto più vasto e variegato. Si sono citate, infine, altre ricerche (in Spagna e in Germania) dalle quali risulta che i musulmani sono meno “occidentalofobi”, di quanto non appaia dallo studio di Ruud Koopmans .
    Più dettagliate, le critiche di Martjins  riguardano – fra l’altro - il campione selezionato e lo stesso questionario utilizzato. Ma non mettono in dubbio un elemento: quello della vastità del fenomeno presso il mondo musulmano e la sua ostilità diffusa verso “diversi” e “occidentali”. Martjins, però, è un antropologo. Il suo punto di vista si discosta da quello dello “studioso della teologia”, come definisce Koopmans. Egli parte – dice – esattamente da dove il collega termina, per interrogarsi sul modo con il quale le persone mettono in pratica le loro credenze, come le vivono e come le interpretano nella vita quotidiana. Sono persone, dice ancora, che vivono in un ambiente (il nord Europa) che ha conosciuto perfettamente il razzismo e l’odio verso gli altri e che può testimoniare quanto – nonostante gli sforzi di oltre mezzo secolo di “pedagogia pubblica” – sia difficile liberarsene.
    A corroborare questo argomento, si ricorda – sempre nella discussione in rete delle tesi di Koopmans - la grande diffusione, negli Usa, di alcune convinzioni, tipiche del fondamentalismo. Per esempio, la fede nell’interpretazione letterale del testo sacro ha, presso gli americani cristiani, una dimensione pari a quella musulmana americana, e comparabile a quella rilevata in Europa da Koopmans nell’ambiente musulmano.
    Bisogna infine tenere presente, questa è la conclusione di Koopmans, che i musulmani sono una minoranza in Europa, mentre, se considerata nei numeri assoluti, la diffusione di atteggiamenti fondamentalisti presso i nativi europei è impressionante. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, chiude il ricercatore citando una massima apprezzata da entrambe le religioni.

     

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    Fig. 3 Il grafico del Manos (un istituto che studia gli orientamenti dei musulmani in America, collegato con la Stanford University) mostra come la convinzione sulla letteralità della parola divina (uno degli indizi del fondamentalismo) sia abbastanza equamente ripartita fra cristiani e musulmani americani.

     

    Revisione di un’agenda interculturale datata?


    Il quadro mi sembra avere due elementi certi: il fondamentalismo, fenomeno già non marginale nel mondo occidentale, oggi si manifesta in modo imponente nelle minoranze musulmane. All’interno dell’universo fondamentalista operano soggetti politici e culturali - a volte ben strutturati, a volte informali - che, come sperimentiamo quotidianamente, inondano la rete di messaggi, di conoscenze sul passato e sulla contemporaneità, e lavorano attivamente sia nel campo sociale che in quello politico.
    Questi elementi dovrebbero essere sufficienti per ridiscutere una pedagogia interculturale che, elaborata (almeno per quanto riguarda l’Italia) nelle fasi aurorali del movimento migratorio attuale, era centrata principalmente sul problema dell’accoglienza (un tema, evidentemente, che resta comunque all’ordine del giorno). Il nostro compito, lo sintetizza così Brunetto Salvarani, parlando della scuola di fronte all’Islam, è quello di elaborare una pedagogia “mite, accogliente e narrativa” (L’Islam nella scuola, a cura di I. Siggillino, Franco Angeli 1999, p. 18). Le linee di questa pedagogia erano ben tracciate (e in qualche modo consolidate sulla falsariga della più generale “pedagogia dell’incontro”): analisi dei manuali; ricerca di buone pratiche; valorizzazione della cultura musulmana, e così via.
    La manchevolezza di questo approccio può essere visto in quel “riduttivismo culturalista”, secondo il quale, ciascuno di “noi-altri” è definito da una “cultura”. Di qui segue l’idea che il compito della scuola consista nel salvaguardare “le culture” e favorire la loro pacifica coesistenza. Un errore frutto, in buona sostanza, di quell’abuso del concetto di “cultura”, denunciato – per quanto riguarda il nostro paese - da Marco Aime (Eccessi di cultura, Einaudi 2004 ).
    Questo assunto culturalista è riduttivo, perché non tiene conto del fatto che il “fondamentalismo” propone un approccio al mondo (moderno e passato) che non è un “aspetto di una cultura popolare”, ma, al contrario è un prodotto intellettuale sofisticato, elaborato esplicitamente da soggetti di varia appartenenza etnica o religiosa. Non tiene conto del fatto che il compito della scuola è quello di avvicinare i giovani al sapere disciplinare, formarli attraverso il suo apprendimento e di fornire qualche strumento per contrastare, di conseguenza, le tante pseudoscienze circolanti. Non tiene conto del fatto che, al centro della riflessione didattica dovremmo sempre mettere il sapere che circola a scuola - i contenuti, gli obiettivi e le pratiche del suo insegnamento - e chiederci se questo ci mette in condizione di rielaborare i problemi che affrontiamo in classe.

     

    Antidoti storici

     

    L’esaltazione del ritorno alle origini o della interpretazione letterale del testo, per ricavare un esempio dai temi fondamentalisti, tirano in ballo alcune questioni disciplinari centrali nella storia e nelle discipline umanistiche: il mito delle origini, come denunciato da Marc Bloch; oppure l’intero armamentario che la filologia ha approntato, da un paio di secoli a questa parte, relativo ai temi della tradizione e interpretazione dei testi. La “vittimizzazione” è un nervo scoperto nei rapporti fra stati e comunità odierni, non solo un cavallo di battaglia del fondamentalismo. In passato ha fornito la trama narrativa di tutti i racconti nazionali, che, quindi, possono diventare una palestra formidabile nella quale esercitare le proprie capacità critiche.


    Il racconto fondamentalista islamico non chiama in causa solo approcci e modalità di ragionamento. Esso rende sensibili alcuni fatti del passato - dalla conquista islamica, alle crociate, allo schiavismo, alla colonizzazione e alla decolonizzazione - che quindi vanno ripresi e aggiornati, storiograficamente come didatticamente. Uno degli snodi della ricostruzione fondamentalista della storia consiste nello spettacolare declino del mondo islamico, dopo i fasti dell’età medievale. “Colpa dell’Occidente!”, è il mantra islamista. E’ proprio così? la ricerca storica attuale fornisce risposte ben differenti (per queste rimando aLa Méditerranée. Une histoire à partager, a c. di M. Hassani Idrissi, Bayard 2013).
    Infine, il fondamentalismo, essendo un fenomeno esploso negli ultimi decenni, obbligherebbe il docente che voglia aiutare gli allievi a capirne qualcosa, a considerare attentamente il fenomeno della globalizzazione.

     

    Eurocentrismo e storie autocentrate


    Nella vulgata interculturale, uno dei temi più accorsati è quello della critica all’eurocentrismo. Certamente, i manuali e i programmi occidentali non sono esenti da questo vizio scientifico. Ma un buon ragionamento interculturale non può non tenere conto del fatto che la visione “autocentrata” del passato è ormai comune ad ogni stato, e ne pervade, quindi, i discorsi politici e le ricostruzioni storiche. Questo fa sì che non esista un allievo straniero “storicamente ingenuo”, potenziale vittima, perciò, del nostro eurocentrismo. E’, anche lui, più o meno consapevolmente, un portatore di arabo-indo-sino-slavo-afro-centrismo. Osservato da questa angolazione, il fondamentalismo è una ricostruzione ossessivamente autocentrata del mondo.
    Se questa è la situazione generale, la prassi del “mettere a confronto le culture” mostra tutta la sua inutilità. Non si ottiene un buon risultato sommando o smussando visioni che sono in principio sbagliate. Occorre superarle sia attivando un approccio critico nei confronti del proprio sguardo sul mondo, sia proponendo una visione del passato nella quale tutti i soggetti si possano riconoscere come attori, quale che sia la loro origine familiare. Un passato mondiale, dunque. Il “noi”, oggi, è “presente e percepibile alla scala mondiale”, come dichiararono Nicole Lautier e Henri Moniot, due punti di riferimento della ricerca storico didattica internazionale, chiudendo un seminario sull’ “incontro fra le storie”, tenutosi a Rabat al principio di questo secolo (Penser “nous”, penser “les autres”, in Rencontre de l’Histoire et rencontre de l’autre. L’enseignement de l’histoire comme dialogue interculturel, a cura di M. Hassani Idrissi, in « Horizons universitaires », 2007, p. 416).
    In sostanza: nell’officina storico-umanistica ritroviamo una notevole quantità di “antidoti” al modo fondamentalista di conoscere e di raccontare il mondo. Oggi, potremmo dire, è venuto il momento di farli funzionare.

     

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    Fig. 4 I cattivi rapporti tra fondamentalismo e evoluzionismo

     

    L’evoluzione è una spia


    Tuttavia, non tutto si risolve nel dialogo fra allievi e professori, proprio perché non ci troviamo di fronte a “culture”, ma ad organizzazioni sociali. Lo intuiamo osservando la questione dell’evoluzione. Da noi se ne parla in terza elementare e in prima superiore. Occorrerebbe riprenderla alla fine del percorso formativo, dal momento che è diventata un tema sensibile, al confine tra scienza, filosofia, storia e religioni. I fondamentalisti di ogni colore, infatti, fanno della lotta al darwinismo un tratto distintivo. Il fondamentalismo islamico non è da meno. Lo testimoniano i numerosi libri dello scrittore turco Harun Yahya, le cui costosissime traduzioni italiane sono ben sostenute dalle comunità islamiche nazionali. In uno di questi - L’inganno dell’evoluzione. Il fallimento scientifico del darwinismo e del suo bagaglio ideologico, che nella sua bibliografia “scientifica” si rifà interamente a lavori fondamentalisti cristiani, trovo l’affermazione che gli attentatori delle Twin Towers sono dei darwinisti, perché i veri “ebrei, cristiani e musulmani” non possono essere terroristi (p. 15).
    In realtà, questo tema deve essere già stato affrontato nelle classi italiane, tanto è vero che qualche allievo musulmano chiede aiuto in rete. La rispostadel sito islamico mette in luce un risvolto della questione, che la pedagogia tradizionale non avrebbe mai sospettato, e che ci suggerisce ancora una volta di rivedere l’approccio interculturale sotto una luce “non culturalista”: “Personalmente ti consiglierei di evitare di fare lunghe polemiche con i tuoi insegnanti su questo argomento: studiala come una semplice teoria che i kuffar [gli infedeli] hanno inventato per cercare di darsi una spiegazione dell'esistenza della vita e di tutto ciò che esiste intorno a noi, e quando ti interrogano al riguardo riporta semplicemente quella che è la loro teoria; tra qualche anno non ne sentirai più parlare (a scuola, visto che il programma va' avanti; e magari nemmeno altrove)! :-)”

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