di Fabio Fiore
La venerazione dei maestri Nel campo dell’istruzione, la tradizione è di «considerare come pericolosa e sovversiva ogni forma di creatività individuale» e di privilegiare «la venerazione dei maestri, dei “grandi padri”: quelli del passato che si incontrano sui libri o quelli del presente che devono essere letti e commentati, con ossequio e nel contesto della più pura e deferente obbedienza». Per quanto non ne parli se non incidentalmente e per brevi affondo come quello appena citato, il libro di Marco Marzano e Nadia Urbinati* (La società orizzontale. Liberi senza padri, Feltrinelli 2017) ha qualcosa di importante da dire sulla scuola: conferma come tale istituzione abbia in effetti un problema di autorità, anche se di segno opposto a quello che comunemente si crede. Ma prima mi corre l’obbligo di riassumerlo per sommi capi al lettore.
Il modello di Telemaco Tutta la prima parte del libro è tesa a sfatare «un falso mito», ciò che Marzano e Urbinati chiamano “il modello di Telemaco”: l’idea «apocalittica», oggi in voga, che nella società odierna sia in corso una crisi di autorità strettamente legata al progressivo venir meno – alla “evaporazione” – del padre. La perdita di valori e di guide paterne «sarebbe il segno della deriva verso un relativismo radicale e tendenzialmente totalitario», che avrebbe trasformato la nostra società in «una massa di individui incapaci di responsabilità morale e politica, refrattari a qualsiasi legame di solidarietà» Di qui, la necessità simbolica e istituzionale del padre, ovvero, secondo i nostri autori, «il pianto per l’autorità perduta», «il desiderio di restaurarla, di ritrovarla in qualche modo».
Un senso comune difficile da scalfire In realtà, ai loro occhi, il “Telemaco” è qualcosa di più o di diverso da un semplice modello teorico. Ha generato un nuovo tipo di letteratura – «la più popolare del nostro tempo» – con alle spalle «una industria fiorente». Una “grande narrazione” che, facendo leva su sentimenti potenti e diffusi – dalla nostalgia per la propria passata gioventù a quel bisogno di «certezza e stabilità che sembra andare insieme con la dimensione verticale del potere» –, è riuscita a «toccare la sensibilità profonda della società» sino a saturarne l’immaginario: insomma, parrebbe essersi ormai cristallizzata in un “senso comune” difficile da scalfire.
Eccesso di democrazia? Le conseguenze sul discorso pubblico più rilevanti della «retorica della perdita del padre» sarebbero in sostanza due. Da un lato, in primo piano, lo svuotamento implicito della democrazia: la sua riduzione a sindrome, la tendenza a identificarla con «una costellazione di sintomi». Dentro la «logica neopatriarcale» del “Telemaco”, ci dicono Marzano e Urbinati, ogni sorta di “perturbazione” – la crisi dei partiti, la sfiducia verso le istituzioni, l’ascesa dei nuovi populismi, una precarietà opprimente, il malessere diffuso, una classe dirigente incapace di crearsi degli eredi e persino le dimissioni di un pontefice – non sarebbe che il prodotto di «un eccesso di democrazia», del progressivo venir meno di argini e paratie di tipo “verticale”, come se, per funzionare, «la democrazia avesse bisogno di un principio di ordine autoritario e di un capo».
L’ossessione generazionale Dall’altro, più sullo sfondo, «l’ossessione generazionale»: la tendenza ad alimentare l’impressione diffusa di una frattura insanabile tra le generazioni e un’immagine indifferenziata e squalificante dei giovani, dipinti alternativamente come «choosy», «bamboccioni», «nichilisti», «inetti», «imbelli» e «incapaci di ribellione», in base al principio secondo cui «non può esserci Edipo senza Laio» – salvo poi ricordare loro di «sottomettersi all’autorità del padre oggi, a quella di un manager o di un dirigente domani»; forse persino con la convinzione inconscia che il mondo finirà con noi adulti, come se, «morti i padri», non restassero che «orfani eternamente bambini».
Dio, patria, famiglia: tutti in orizzontale I tre capitoli centrali del libro analizzano le sfere della religione, della politica e della famiglia per cercare «sotto la crosta del discorso sulla morte del padre» alcuni aspetti della società orizzontale» e per «capire se sono davvero così negativi», «incapaci di formare individui responsabili». È proprio qui, sulla vecchia triade – Dio, patria e famiglia – che si giocherebbe «la partita con il vecchio mondo dei nostalgici del perduto potere pastorale, con il revival del paternalismo più o meno affettuoso».
Per dimostrare che la diagnosi infausta dei “paternalisti” non ha basi empiriche, Marzano e Urbinati producono un’ampia documentazione scientifica che non posso certo restituire qui. Qui mi limito a riassumerne i risultati: le persone vanno poco in chiesa ma non viene meno la religiosità che tende piuttosto ad assumere tratti squisitamente protestanti; «non vi sono più partiti identitari» ma non vengono meno le idealità politiche e si generano forme inedite di partecipazione; il patriarcalismo si è estinto ma «le famiglie non sono sconquassate e sopravvivono benissimo» e comunque meglio dell’immagine desolante comunicata senza posa dai media. Insomma, «la morte del padre non è la morte della società». Lungi dal rappresentare una disfunzione, «la decadenza della società verticale fa parte del funzionamento stesso delle nostre istituzioni».
I rischi della società orizzontale Se non è l’assenza di padri, il rischio dei nostri giorni sarebbe un altro, e a questo rischio è dedicata l’ultima parte del libro: il trasformarsi dell’individualismo in atomismo. Molto in breve: il fatto che le persone si isolino ripiegandosi su stesse, risultando sempre più sconosciute, indifferenti o ostili le une alle altre; che il presente si separi da un passato vieppiù percepito come oscuro e estraneo; soprattutto, che «la società orizzontale finisca per divorare se stessa», «annientare quei principi democratici che l’hanno sin dal suo sorgere contraddistinta», e soccombere «a forze ostili all’individuo», «scaturite dal suo stesso ventre». Di qui, un primo punto fermo: con la sua invadenza culturale, il discorso paterno impedisce i fare i conti con i rischi reali della condizione odierna, distraendoci dal compito più importante: «estendere, rafforzare e istituzionalizzare la società orizzontale anche fuori dai terreni in cui si è finora affermata».
Paternalismi scolastici Tra questi vi è la scuola, «un’istituzione cambiata moltissimo in questi decenni, in direzione di una maggiore orizzontalità e di rapporti più paritari». In realtà, dalla mia postazione di insegnante, di prof. che si sente sempre un poco stretto e a disagio di fronte all’alternativa secca – il professore sarà “severo o accomodante”?, “buono o cattivo”? – sono propenso a credere che la scuola resti impigliata tra due differenti forme di paternalismo, facce diverse di un medesimo “appello al padre”, che il libro di Marzano e Urbinati mette benissimo a fuoco.
La variante “severa” La variante “severa” è quella neopatriarcale, che gli autori ravvisano ad esempio nella tendenza a rafforzare il potere dei presidi, sintomo della percezione diffusa che i problemi della scuola nascano dall’orizzontalità e che possano essere risolti solo con «concentrazioni monarchiche di autorità», con «un capofamiglia, un pastore che guidi il gregge». Cose come, in ordine sparso: la venerazione dei maestri, l’obbedienza deferente quale viatico indispensabile della carriera universitaria, il sacro valore della selezione e del merito, il sorprendente credito di cui gode Mastrocola, il Documento dei Seicento, l’attacco mediatico – a dire il vero un po’ sguaiato – a don Milani e a Tullio De Mauro, alle loro presunte “derive sessantottine”, possono ben rientrare in questa categoria.
La variante “affettuosa” La variante “affettuosa” è quella neopaternalistica, che papa Bergoglio incarna alla perfezione: «un’autorità del servizio», per cui «il padre che soccorre prende il posto di quello che comanda e guida»; che «si camuffa da buonismo paterno», «che si fa comprensiva e sentimentale solo per non perdere il podio del guardiano, per non andarsene mai», che mira implicitamente a farci restare «per tutta la vita dei figli bisognosi», in una condizione di mai raggiunta autonomia, di eterna minorità. Oltre a “buonisti” di ogni tipo – da non confondersi con i “lassisti” che qui non rilevano – metterei in questa categoria cose come i Bisogni Educativi Speciali, i Disturbi Specifici dell’Apprendimento, insomma tutta la variegata famiglia di studenti ‘borderline’ che la scuola tende oggi a “includere distinguendo” in ossequio a quella “cultura della terapia” che non si stanca mai di sottolineare «le nostre debolezze e vulnerabilità e quindi il nostro bisogno di riferirci a qualche autorità esterna per tenerle sotto controllo».
Oltre la logica pastorale Di qui, un secondo punto fermo: il problema di autorità di fronte a cui si trova oggi la scuola non sta nella sua assenza, ma nella sua persistenza spettrale in una società irreversibilmente orizzontale. La controprova è forse nell’idea di scuola che sembra emergere alla fine del libro: una palestra «in cui diventare consapevoli delle proprie forze, ricettivi al diverso e … mai disposti a sentirsi fatalmente destinati a un futuro che non dipende comunque da noi stessi»; in cui ciascun ragazzo possa «essere messo di fronte alla vita direttamente», «educato mentre agisce», «imparare dagli altri e misurare nelle relazioni vicinanze e distanze», «riconoscere il valore della propria autonomia senza perdere di vista i limiti e le condizioni sociali delle proprie azioni»; una scuola “pragmatica”, che «non si vergogna a mostrarsi strumentale e utilitaria», che «funziona in termini di progetti ipotetici e possibili». È un’idea che faccio mia, ma la cui realizzazione presuppone per l’appunto il definitivo superamento di quella logica pastorale dentro cui la scuola si muove (e in cui oggi si attarda) da secoli.
Problemi aperti Il primo è concettuale. Gli autori ammettono che neppure la società orizzontale può fare a meno di una qualche autorità per funzionare come società. Semplicemente, sposta questa autorità dalla figura paterna alle «istituzioni e alle regole», ai ruoli. Ora tale soluzione “di scuola” qualche perplessità la desta. Da un lato, nella nostra tradizione, l’autorità sembra essere una proprietà della persona, dell’auctor più che della funzione. Dall’altro, nell’ “epoca dell’autenticità”, in cui il Sé e la sua espressione giocano un ruolo centrale, aspetto su cui Marzano e Urbinati insistono molto, a essere caduti in crisi sembrano essere precisamente i ruoli, tendenzialmente assorbiti dalla “qualità carismatica” delle persone (e su ciò gioca appunto il discorso paterno): così, a un insegnante non basta più entrare in classe per avere un ruolo, ma se lo deve conquistare ogni giorno sul campo. In modo analogo, oggi persino il figlio può costituire “un’autorità per il genitore” anche se è questi a portare il peso e la responsabilità del ruolo. Insomma, che cos’è l’autorità? In cosa si distingue dal potere? (come recita l’adagio, “più di un consiglio, meno di un ordine”). Mi sembra che nel libro la categoria resti per lo più implicita e opaca, irrisolta. Mi chiedo se la difficoltà non stia nella sua matrice teologico-politica (R. Esposito) e dunque intrinsecamente paterna.
Il secondo si riferisce a un’omissione. Va da sé, e gli autori lo riconoscono in un passo isolato, che una società orizzontale avrà dei problemi di tenuta se si formano al suo interno «squilibri di risorse (economiche, politiche, culturali) troppo grandi tra gli individui e i gruppi», «sacche di privilegio o posizioni di rendita famigliare o di classe». Ciò scritto, il resto del libro dimentica completamente la questione, quasi che di fronte alla brutale verticalità delle diseguaglianze economiche (Piketty), il paradigma della società orizzontale ammettesse implicitamente di non avere (per ora?) argomenti da opporre.
Del resto, ciò che ho presentato qui non è che un pamphlet: il punto di partenza di una possibile ricerca e non il resoconto di un’indagine già svolta. Il suo obbiettivo principale era mostrare come la società orizzontale, questa «grande pianura in cui è difficile vedere svettare qualche picco», dove «l’orizzonte si perde a vista d’occhio e i riferimenti che contano sono solo quelli vicini a noi», sia «la condizione umana da cui partire»; che rifiutarla come fa il discorso paterno è assurdo – «come sarebbe possibile se questo è il modo d’essere della nostra condizione moderna?» –; e che sia al contrario necessario «comprenderla con mente sgombra dal rimpianto per ciò che essa ha cambiato irrimediabilmente». Mi sembra che il libro abbia pienamente raggiunto il suo obiettivo.
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* Marco Marzano è docente di Sociologia all’Università di Bergamo, Nadia Urbinati di Teoria politica presso la Columbia University.