violenza

  • Guerre vecchie e guerre nuove. I concetti per capire le nuove guerre

    Autore: Antonio Brusa

     

    Appunti da Yves Michaud

     

    Indice

    Introduzione
    Le domande sulle nuove guerre
    I concetti tradizionali della guerra
    Un prontuario di nuovi concetti
    Uno scenario nuovo
    Uno scenario in movimento

    Introduzione
    Nell’ottica di un Laboratorio del tempo presente, avere un prontuario di concetti sulla guerra è essenziale. Lo ricavo da Yves Michaud, che  insegna filosofia presso l’Università di Rouen.  Negli anni ’80 pubblicò un libretto sulla violenza per la collana “Que sais-je?”, quell’eccezionale canale di cultura di massa che in Italia non si è mai riusciti a riprodurre, nonostante i molti tentativi di imitazione. L’ultima edizione è aggiornata al 2012. In questo testo seguo abbastanza fedelmente il brano di Michaud. Poche volte lo riassumo o lo integro. L’ho suddiviso e titolato in modo che sia un testo consultabile a scuola. Come sempre, invito il lettore volenteroso, o che volesse citarlo a leggere la fonte: Yves Michaud, La violence, Puf, Paris 2012, pp. 55-67. Dello stesso autore segnalo: Changement dans la violence. Essai sur la bienveillance universelle et la peur, Odile Jacob, Paris 2002. Inoltre, sulle vecchie e nuove guerre si veda la rapida messa a punto di Nicola Labanca, sullaTreccani online(Atlante-Geopolitico).  (HL)

      Carta mondiale dei conflitti

    Le domande sulle  nuove guerre

    Conflitti interni o esterni?
    In molte occasioni è difficile distinguerli. In Africa, per esempio, quando si scontrano etnie di confine, si mettono in moto subito attori internazionali e i paesi confinanti, col risultato immediato dell’internazionalizzazione del conflitto. Una mondializzazione che spesso è moltiplicata dallo stesso intervento internazionale per ristabilire la pace

    Quali sono i nuovi campi di battaglia?
    Questi spesso non sono più delimitati e identificabili. Si possono trovare nel cuore delle popolazioni civili, lontano dai luoghi dove risiedono i contendenti, nelle zone turistiche o in mezzo alle città. I contendenti, spesso, non sono degli stati, ma aspirano a divenirlo: palestinesi, minoranze dell’ex-Unione sovietica, movimenti autonomisti o indipendentisti, musulmani di Bosnia, macedoni, albanesi del Kosovo, curdi della Turchia o dell’Iran, tamil di Ceylon ecc. Altri, invece, non aspirano nemmeno a diventare stati: fra questi i movimenti terroristi, come al-Qaida o i movimenti altermondialisti.

    In quali regioni scoppiano questi conflitti?
    Sia che esplodano, sia che covino sotto la cenere, spesso questi conflitti nascono dalla decomposizione di antiche unità politiche, come l’Urss o la Jugoslavia. Altri nascono in zone conflittuali “congelate” dall’equilibrio della guerra fredda e suscettibili di nuove riorganizzazioni: gli Emirati arabi e il Quwait, il corno d’Africa, le coste del Mediterraneo, la Cina e Taiwan, la maggior parte dei confini territoriali della Cina.  Altri ancora risalgono ad antichi conflitti di civilizzazione.

    Perché si mondializzano?
    Tutti questi conflitti sono abbondantemente mediatizzati. Mettono in gioco le organizzazioni internazionali e le Ong che si occupano di assistenza umanitaria. I flussi migratori, infine, contribuiscono a internazionalizzare i conflitti, trasferendoli dalle regioni di partenza dei migranti a quelle di arrivo: un esempio è la ripresa dell’antisemitismo in Francia, dovuta in buona parte all’esportazione del conflitto israelo-palestinese.


    I concetti tradizionali della guerra

    Il sistema della guerra
    Nel corso dei millenni, le società umane hanno elaborato un complesso sistema per regolare la violenza fra gruppi, o per cercare di regolarla. Le basi di questo sistema sono:

    -    La dichiarazione di guerra o la guerra-sorpresa
    -    La pace solenne
    -    La distruzione totale dell’avversario
    -    Le leggi del combattimento
    -    I modi di soccorso dei feriti e il recupero dei caduti

    La razionalità della guerra
    Nel XIX secolo, questo sistema giunge ad una regolamentazione rigorosa, che viene sistematizzata daKarl von Clausewitz. Questa si riassume nella celebre affermazione: “la guerra è la continuazione della diplomazia con altri mezzi”. Questa affermazione suppone che i soggetti che fanno la guerra siano “razionali”. Come la diplomazia cerca di ottenere dei vantaggi o di minimizzare degli svantaggi, allo stesso modo la guerra cerca di ottenere vantaggi (un guadagno territoriale, economico, commerciale) o di limitare le perdite.

    E’ il sistema di regole o “il modo di considerare la guerra” al quale siamo abituati. Questo sistema presuppone che gli attori siano degli stati sovrani, con eserciti a comando centralizzato, in forte relazione col mondo politico e a forte inerzia: quando la macchina bellica si mette in moto, è difficile arrestarla. In questo mondo di regole si sono svolti i conflitti europei, e le guerre per la divisione del mondo fra stati europei e imperi americano e sovietico.

    Lo stato sovrano
    “Stato sovrano” vuol dire che ogni stato giudica la legittimità della violenza al proprio interno. Ma quando si tratta di uno scontro fra stati, non esiste un’autorità superiore, che possa imporre regole e il loro rispetto. Ci si deve accontentare del diritto internazionale: una “stabilizzazione relativa e sempre temporanea di regole fra stati”, fermo restando che ogni stato resta giudice della legittimità del proprio intervento. Lo stesso diritto, perciò, può diventare occasione di guerra, quando, ad esempio, si dichiara di far rispettare una frontiera violata, o un trattato precedentemente violato.

    Internazionalizzazione della guerra
    Il dispositivo giuridico, poi, deve fare i conti con l’enorme capacità di uccisione, raggiunta dalla macchina bellica negli ultimi due secoli. Questa ha condotto gli stati e le società a ragionare sulle alleanze, sulla cooperazione internazionale, a fare attenzione all’equilibrio fra le forze e ha portato, ancora, allo sviluppo di una coscienza umanitaria internazionale e al bisogno di pace, indispensabile per l’economia e per l’industria.
    Ai nostri giorni, i vecchi concetti di von Clausewitz non bastano più per capire il dispiegamento della violenza internazionale contemporanea. Occorrono nuovi concetti.

     

    Un prontuario di nuovi concetti

    Genocidio
    Lo potremmo intendere come una forma di guerra diretta contro uno o più gruppi umani, piuttosto che contro qualche stato, con l’intenzione di sterminarli. Conosciamo molti esempi di genocidio: da quello degli harare in sud africa, perpetrato dai tedeschi al principio del novecento, a quello degli armeni, condotto dai turchi (ben coadiuvati dai curdi) durante la prima guerra mondiale; nella seconda guerra conosciamo quello contro gli ebrei e i rom e, nel secondo dopoguerra sono ancora nella nostra memoria il genocidio del Rwanda, contro i tutzi, quello compiuto dai khmer rossi in Cambogia e quelli balcanici. A questi esempi potremmo aggiungerne molti altri.

    Al genocidio in quanto tale va assimilata la “pulizia etnica”, che consiste nell’impiego della violenza e del terrore al fine di eliminare la presenza di alcune minoranze, in un determinato territorio, uccidendole o costringendole alla fuga.

    I genocidi non sono una particolarità del XX secolo (e del nostro). La specificità, invece, consiste nella sistematicità della persecuzione. Il fatto che sia spesso uno stato ad essere l’autore del genocidio forse è legato alla difficoltà di conservare l’unità territoriale o al tentativo di superare una forte crisi. Gli iniziatori di un genocidio utilizzano il loro obiettivo come un capro espiatorio dei problemi nazionali.

    Iperterrorismo
    Fino alla seconda metà del XIX secolo, il terrorismo faceva parte di una politica mirante all’acquisizione del potere o a esercitare una pressione sul potere politico, attraverso assassini di personalità politiche o ad attentati mirati. Il cambiamento fondamentale è avvenuto quando il terrorismo è diventato internazionale e si è trasformato in “guerra durante la pace”. I fattori che hanno favorito questo cambiamento sono: la facilità dei trasporti, la copertura mediatica mondiale, la vulnerabilità degli obiettivi possibili (gruppi di turisti, ambasciate, rappresentanze commerciali, mezzi di trasporto ecc.), le armi potenti, facili da nascondere, spostare o montare, ma anche le armi facili da inventare, come dimostra l’attentato delle Torri gemelle, compiuto con due aerei di linea, trasformati in missili.

    La nozione di iperterrorismo fa riferimento al carattere mondiale dell’azione, sulla sua natura spettacolare, e sugli effetti militari e politici che questa raggiunge. E’ una nuova forma di guerra, a causa di una logistica nuova, della natura degli obiettivi e dei protagonisti. Un piccolo gruppo di terroristi può condurre una “guerra liquida”, imprevedibile, ottenere successi notevoli e obbligare l’avversario a adottare misure di precauzione, dalle conseguenze psicologiche, economiche e politiche numerose e costose.

    L’iperterrorismo rientra nel quadro razionale di von Clausewitz, se guardiamo i suoi effetti: in realtà si tratta di imporre la propria volontà a un soggetto nemico, a costringerlo, per esempio a modificare la sua politica. Lo si è visto con gli attentati di Atocha, in Spagna (2004), che influirono sui risultati elettorali al punto da far vincere gli avversari del governo in carica.

    Se guardiamo la natura dei soggetti, invece, l’iperterrorismo non rientra più nel canone di von Clausewitz, perché in genere non è condotto da stati (con alcune eccezioni degli anni ’90 dello scorso secolo, quando fu diretto da Libia, Siria e Iran). L’iperterrorismo è condotto piuttosto da una sorta di nebulosa, da una sorta di multinazionale (politica o religiosa) in guerra contro gli stati.

    L’efficacia di questa azione è notevole, dal momento che è una guerra condotta durante la pace, in un territorio retto da regole di pace, approfittando dei benefici dello stato di diritto.

    Guerra asimmetrica
    La guerra è asimmetrica quando è condotta da due protagonisti che rispettano regole diverse, usano armi diverse e hanno campi diversi di battaglia. Un esempio è la guerra che al-Qaida conduce contro gli Usa, a partire dall’attentato delle Torri Gemelle: il campo di battaglia è mobile e vario e la componente della comunicazione è essenziale. Anche la risposta americana rientra nel campo delle guerre asimmetriche: si svolge con un controllo della rete di comunicazione, uso di forze speciali e di materiali innovativi.

    Ci sono molti motivi per ritenere che una delle cause della guerra asimmetrica si trova nella superiorità assoluta raggiunta dagli Stati, sia nel campo della guerra convenzionale che in quello nucleare. Questa superiorità, spinge gli avversari a cercare altri terreni e altre forme di scontro. Si tratta di abbandonare quei terreni, nei quali la superiorità avversaria è insuperabile, e crearne altri, nei quali il nemico si trovi in difficoltà.

    Guerra preventiva
    Dopo gli attentati dell’11 settembre, diventa una forma di guerra sempre più invocata. Con un termine inglese è detta anche preemption war. Gli stati la invocano per difendersi da altri stati, definiti “canaglia” (in inglese rogue nations). Il pericolo rappresentato dalle armi nucleari della Corea del Nord o dell’Iran, o dalle armi biologiche, che si ipotizzava possedesse Saddam Hussein, dittatore irakeno, il sostegno che la Siria ha fornito all’iperterrorismo, hanno giustificato – agli occhi degli stati occidentali – il ricorso ad azioni preventive. Lo scopo dichiarato era quello di impedire che la capacità distruttrice di questi gruppi raggiungesse una soglia irreversibile, tale da minacciare gli stati più forti e da costringerli ad una logica di mutua dissuasione.

    L’idea della guerra preventiva si basa su questo schema: da una parte ci sono gli stati “imprevedibili”, dotati di armi potenzialmente di distruzione di massa (nucleari, biologiche, chimiche); dall’altra gli stati “razionali”, dotati di capacità di dissuasione. Questo schema impone che la guerra preventiva non possa essere dichiarata da un solo stato, dal momento che apparirebbe come un intervento imperialista, o un terrorismo di stato; essa necessita, dunque, l’intervento di una coalizione.

    Guerra umanitaria
    Oppure, eufemisticamente, “ingerenza umanitaria”. Si ha quando si interviene in un territorio per evitare dei disastri come la carestia, il genocidio, la pulizia etnica, le guerre civili lunghissime, le violazioni sistematiche dei Diritti dell’Umanità.

    La casistica di questa guerra è varia. Ci sono gli interventi per proteggere l’azione di organizzazioni non militari, come in Sierra Leone, Liberia, Rwanda; per separare i contendenti, come in Bosnia o in Costa d’Avorio; per reprimere una delle parti, considerata fomentatrice della guerra, come quando si è intervenuti contro la Serbia nella crisi del Kosovo, contro l’Irak, nella prima guerra del Golfo, contro la famiglia del colonnello Ghaddafi, in Libia.

    Anche in questo caso, è indispensabile che l’intervento sia approvato dalla comunità internazionale, altrimenti verrebbe interpretato come un’ingerenza imperiale o neocolonialista.

    Occorre, è appena il caso di dirlo, riconoscere che, al di là dei buoni sentimenti, la nozione di guerra umanitaria è ambigua. Sa una parte, gli agenti non governativi, come certe Ong, possono lucrare vantaggi dalla situazione di guerra, attirare simpatie o raccogliere finanziamenti. Dall’altra, l’intervento umanitario rischia di estendere e prolungare il conflitto, dal momento che immette sul campo di battaglia risorse che alimentano gli stessi contendenti (attraverso l’imposizione di tasse, o attraverso la loro rivendita). In questo modo, accade che chi vuole placare la crisi contribuisce a renderla cronica.

    Infine, i campi di rifugiati, sotto l’ombrello delle organizzazioni umanitarie, possono destabilizzare l’economia di una regione, introducendo una seconda economia artificiale.

    Guerra giusta
    Era una nozione di età medievale, quando ci si interrogava sulle cause che potevano giustificare un’azione violenta (ma non bisogna dimenticare che questo strumento giuridico era molto usato dai romani). In pratica, si invoca un principio di ordine superiore, in base al quale si giustifica l’intervento militare.
    E’ indubbio che questo appello al giudizio di dio, o a qualche altro valore trascendentale, apre la porta alla variante della guerra giusta, che è costituita dalla “guerra santa”, combattuta contro coloro che hanno una credenza religiosa (o politica) diversa.

    Società civile internazionale
    Alcuni autori, come Michael Ignatieff  o  Mary Kaldor, autrice di un testo fondamentale sulle nuove guerre, sostengono la tesi della nascita di una comunità di cittadini del mondo, che si sforzerebbero di pesare sulla gestione delle relazioni internazionali, sia quando ci sono dei conflitti, sia quando si tratta di sostenere cause umanitarie, sanitarie o ambientali. Ricavano questa idea dal fatto che esiste una comunità internazionale, che si sta sviluppando un diritto penale internazionale, che si moltiplicano le istituzioni internazionali che si battono per la cooperazione e per la pace, che ci sono organizzazioni non governative che vanno in soccorso di popolazioni in difficoltà.

    Fanno parte dei “cittadini del mondo”, coloro che si occupano professionalmente dei problemi umanitari, gli uomini dalla “grande coscienza”, le associazioni che rappresentano – dal canto loro – soggetti collettivi (Greenpeace, WWF, Attac, i gruppi altermondialisti ecc.). Questi soggetti agiscono per influire sulle decisioni degli organismi internazionali e sull’azione politica dei diversi stati.

    E’ importante notare che – contrariamente a quanto si pensa in Italia e in Francia – nozione di “società civile” non si oppone a quella di “mondo politico”. Nella sua idea originaria, nata dal pensiero di Locke e di Kant, la società civile implica, per contropartita (almeno come orizzonte finale) la costituzione di uno Stato mondiale cosmopolita. Quindi, al posto di opporsi al mondo politico, la società civile lo prefigura.

     

    Uno scenario nuovo

    Nessuna di queste nozioni è totalmente nuova. La novità consiste nel fatto che esse sono necessarie, tutte insieme, per comprendere lo scenario attuale. Uno scenario totalmente nuovo.

    Le guerriglie, un tempo nazionali o confinate in determinati territori, sono diventate internazionali. Si può dire che esiste un terrorismo globalizzato, che trova le sue radici nella diffusione degli armamenti nucleari, e nel quale gli stessi genocidi si sono banalizzati.

    Il mondo non è più governato da una o due superpotenze. E’ multipolare. Localmente ci sono superpotenze in grado di esercitare una forte influenza sulla porzione di mondo circostante (India, Cina, Nigeria, Sud Africa, Australia ecc).

    Aumentano gli stati che non sono in grado di gestire con efficacia i conflitti interni (come la Russia), gli stati nei quali si diffondono movimenti autonomistici o indipendentisti (Italia, Spagna).

    Si diffonde l’aspirazione alla “sovranità nazionale”, ma, al tempo stesso, questa si svuota progressivamente, a causa di trattati internazionali, o a causa dell’impossibilità di una sola nazione di gestire un conflitto, dal momento che questo si internazionalizza rapidamente.

     

    Uno scenario in movimento

    Certamente, la proliferazione delle organizzazioni internazionali, per quanto esse non riescano ad essere sempre efficaci come si vorrebbe, testimonia quanto sia diffusa la volontà di non ripetere l’incubo della seconda guerra mondiale.

    Questo desiderio nasce in uno scenario che vede lo sviluppo di due tendenze opposte: da una parte, la frammentazione del mondo, che sempre di più sembra costituito da stati sovrani, in una situazione potenziale di guerra; dall’altra l’incremento della solidarietà internazionale e dell’interdipendenza.

    A questa seconda tendenza fanno riferimento due nuovi processi. Il primo è la diffusione dell’idea dei “diritti umani”, accettati da moltissimi (anche se l’accettazione è spesso solo di facciata); dall’altra, la lenta costituzione di un diritto internazionale, di un sistema di pene che valga per tutti, esercitato da comunità internazionali. Indubbiamente non si tratta della comunità cosmopolita vagheggiata da Kant. E’ un codice di leggi in progress, fatto di aggiustamenti, di decisioni parziali, spesso stipulate fra singoli soggetti. Tuttavia progredisce, e lascia sperare che si stia costruendo un nuovo ordine internazionale.

  • La guerra insegnata. Note di didattica per la scuola e per i musei. (Parte prima)

    Autore: Antonio Brusa


    La guerra insegnata. Note di didattica per la scuola e per i musei. (Parte prima)

     

    Indice


    1. Craonne, la città martire
    2. Gallipoli, la spiaggia sacra
    3. Perché studiare la guerra?

     

    1. Craonne. La città martire

     

     Craonne si trova nel Nord Est della Francia, sotto le Ardenne, dove si affrontarono soldati di molte guerre, europee e mondiali. Per una di quelle eccezioni che si imparano solo in loco, si pronuncia Cran (ma dubito tutti i francesi lo sappiano). La città è piccolissima, un insediamento sparso, con una vecchia scuola, adibita a mensa, e un palazzo comunale costruito con i fondi del governo svedese (omaggio alla città martire). La città importante più vicina è Laon. A un medievista brillano gli occhi a sentirne il nome. Qui si elaborò la scrittura detta “Laon A Z”, sulla quale molti studenti di paleografia, me compreso, hanno consumato i loro occhi. Anche Laon si dice “Lan”. Ho perso l’occasione di farmene bello, di questa particolare pronuncia, con Franco Magistrale, che mi insegnò quella scrittura. Mi consolo dedicandogli questo piccolo lavoro.

     

    L’alboreto di Craonne è un luogo dello spirito. Cento anni fa era l’inferno. Craonne, infatti, è una cittadina che si trova al termine dello Chemin de Dames. Il nome delizioso di questa lunga vallata viene dal 1700, quando le signore del tempo vi passeggiavano con le loro carrozze. Durante la Prima Guerra mondiale era pronunciato con terrore dai soldati. Quella valle era la linea di contatto fra le armate tedesche e quelle francesi. Nel piccolo palazzo comunale di Craonne, due plastici, forse un po’ ingenui, illustrano efficacemente la situazione militare: le trincee nemiche scorrevano parallele, a volte a pochi metri di distanza; mentre – in alto – dal costone che sovrasta la vallata, i tedeschi mitragliavano e bombardavano i francesi, che cercavano invano di ripararsi dietro fortificazioni di ogni specie.


    Quel luogo fu un macello umano. Nella prima giornata di assalti morirono quasi cinquantamila francesi. Alla fine della guerra le vittime furono diverse centinaia di migliaia, da entrambe le parti. Fra di loro, anche cinquecento italiani, di un corpo d’armata inviato dal Regno d’Italia a soccorrere l’alleato in difficoltà. Un quadro, anch’esso alquanto ingenuo, esposto nel comune, ci restituisce il senso di una tragedia ottusa. Ritrae una lunga fiumana di soldati, visti di spalle. Procedono stretti l’uno accanto all’altro verso l’orizzonte, dove c'è Craonne in fiamme, e dove moriranno. Craonne è una metonimia di ogni guerra combattuta sui campi e studiata nelle scuole.


    La cittadina di Craonne, ai piedi del costone, fu distrutta dalle artiglierie francesi. Dopo la guerra non venne ricostruita in loco, ma a pochi chilometri di distanza. Al suo posto hanno lasciato crescere gli alberi. Scendi nel parcheggio, dall'auto o dal pullman che scarica i visitatori, e ti dirigi verso il bosco. Ti inoltri per i viottoli. Riconosci facilmente che furono un tempo le strade della città. Ad ogni svolta, un cartello con la foto d’epoca ti avvisa che c’era una piazza, al posto della radura; e più avanti ancora il fornaio e poi la scuola comunale. La vita degli alberi, al posto di quella degli uomini e delle loro cose. Forse è questo il senso di pace, che l'alboreto ti comunica?

    Craonne come è oggi e come era prima della distruzione


    Più in là, verso il costone di roccia, vedo degli operai. Lavorano alle attrezzature turistiche del sito. Strade, scale, giardini curati. Il costone di roccia era stato traforato dai tedeschi, con tunnel e bunker. Uno di questi, la Caverna del Drago, è diventata un museo, al termine del quale si passa in un bar/ritrovo, che si apre sulla valle con una balconata spettacolare. Quello era il punto di vista dei soldati tedeschi, e ora è il mio. Oggi, vedo una distesa di colline morbide, con macchie alberate, fattorie, campi coltivati. Il soldato tedesco scrutava quella distesa ingrigita dal fumo, dai ruderi e dai tronchi bruciati, alla ricerca di nemici da eliminare.

     

    L’ingresso del bunker, chiamato la Caverna del Drago; il belvedere attrezzato del museo omonimo

     

    I cittadini di Craonne trovano nel turismo di guerra una fonte di sostentamento. Non c'è bisogno di una indagine accurata per capirlo. Ho la sensazione, però, che lo facciano con dignità. E' una sensazione, certo. Forse, sono anche influenzato dal fatto che la città non si limita al turismo, ma promuove una ricerca accanita e senza veli sulla guerra e sulla memoria.


    La Francia ha un rapporto particolare con la storia. A differenza del nostro paese, è facile che un dibattito storico accenda gli animi della gente comune anche se si parla di fatti accaduti un secolo fa, come è il caso della Prima Guerra mondiale. Detta in parole povere, la questione che divide gli studiosi è questa: per conservare la memoria di quel passato tragico, dobbiamo accettare tutto, usare ogni mezzo, anche la spettacolarizzazione spinta; oppure questa memoria acquista senso e utilità sociale solo se tiene viva  la tragedia e l'incomprensibilità del conflitto, che lacerarono – insieme -  quei tempi lontani, e quelli che ci separano da loro? Ci dobbiamo battere perché la memoria è un patrimonio da salvaguardare per il solo fatto di riguardare eventi decisivi; oppure dobbiamo lottare – intellettualmente e moralmente - per dare un senso a questa memoria? E che cosa deve dar senso a questa memoria? L'idea che quei fatti sono le nostre radici, il “passato senza del quale non abbiamo futuro”? O può darle senso – e quale? - la puntigliosa ricostruzione della desolazione che quei fatti portarono?


    Perché ricordare? Vale anche per la memoria la domanda che il bambino rivolse a Marc Bloch, “perché studi la storia?” E vale anche in questo campo l'ammonimento di Bloch, che gli storici sbagliano, e di grosso, a considerare scontata questa domanda?

    Il programma del convegno su Storia e Memoria

     

    2. Gallipoli. La spiaggia sacra

     

    Quindi, sono a Craonne, insieme con storici che vengono un po' da tutto il mondo, perché ci accomuna il desiderio di raccontarci qualche risposta a questa domanda. Fu una guerra mondiale: dunque non mi sorprende di ascoltare colleghi francesi, italiani, spagnoli, cechi e turchi, canadesi, americani e neozelandesi. Questi ultimi mi incuriosiscono particolarmente. Perché un neozelandese o un australiano dovrebbero porsi oggi il problema della memoria della Prima Guerra mondiale? Certamente, quelle terre inviarono dei soldati. Facevano parte dello schieramento alleato. Questo lo studiamo. Ma, tutto sommato, saremmo portati a pensare che si trattò di una guerra per loro lontana, che sentirono estranea, e quindi facilmente preda dell'oblio. No, ribatte Fanny Pascual, che insegna nell’Università della Nuova Caledonia, informando noi europei che i memoriali della Prima guerra abbondano ai nostri antipodi. Sono luoghi di memoria venerati, oggetto di turismo e di visite incessanti. Sono luoghi di fondazione della nazione.

     

    Il memoriale di Auckland in Nuova Zelanda e quello di Canberra, in Australia, con i papaveri, i fiori dei soldati, apposti dai visitatori

     

    Normalmente, quando spieghiamo in Italia la Prima guerra, tralasciamo un evento che per noi, per la nostra sensibilità, appare alquanto distante. Al principio del 1915 gli Alleati decisero di aprire un nuovo fronte in Turchia. Organizzarono una flotta e uno sbarco imponenti (la prima operazione del genere, sottolineano gli esperti di storia militare). Ma lo fecero così male che mandarono a morire centinaia di migliaia di giovani: neozelandesi e australiani. Un giudizio, questo, sul comportamento stupido e folle degli ammiragli inglesi che guidarono questa impresa sciagurata, che è condiviso dagli studiosi (lo ritroverete fedelmente su Wikipedia). Motivato, senza dubbio, questo giudizio suona però strano, qui a Craonne, dove uno si chiederebbe perché la condotta dei generali francesi,  per quanto sciagurata, sia da considerarsi militarmente corretta.


    In quel caso, ad accelerare la disfatta alleata, contribuì l'armata turca, guidata è vero da un generale tedesco, ma animata da Mostafà Keimal Ataturk, il fondatore dello stato turco moderno. Fu lui, dicono le cronache, che ebbe l'intuizione di fortificare i costoni di roccia che sovrastano le striminzite spiagge dove sbarcarono i baldi giovani dall'Oceania. E di lì i turchi, come i tedeschi a Craonne, presero a mitragliarli con comodo. Per questo motivo, conclude Loubna Lahmrari, studiosa marocchina, specialista di storia turca presso l’università di Montpellier, quella spiaggia di Gallipoli è considerata un luogo di memoria e di fondazione della nazione.


    Il cinema non poteva mancare all’appuntamento. Nel 1985, Peter Weir girò Gli anni spezzati, con Mel Gibson, nella parte di un giovane australiano che fa il portaordini durante la guerra, non riesce ad evitare il massacro e muore anche lui; la Turchia non è da meno, con ben cinque film, uno dei quali reimpiega Mel Gibson, a carattere più o meno nazionalistico.


    La medesima località è diventata un luogo sacro, per due nazioni agli antipodi. E, per giunta, ci dimostra con chiarezza la diversità del ricordo, della memoria e della storia. Per quello della memoria, essa fu teatro di eroismi e martiri. Lo sguardo della storia, invece, pur mettendo in luce le indicibili sofferenze umane che vi furono patite, ricorda che da una parte vi furono dei giovani mandati allo sbaraglio da uno stupido generale; e che dall'altra, altri giovani, per quasi un anno, si esercitarono al tiro al bersaglio umano. La conoscenza, oggi, di quel fatto – potremmo dire “la coscienza storica di quel fatto” -  a mio modo di vedere, non consiste nel “dovere di ricordarlo”; quanto, piuttosto, nell'obbligo morale e scientifico di esplorare i meccanismi sociali, culturali e politici, che lo trasformarono in un evento fondatore.

     

    3. Perché studiare la guerra?

     

    Dovremmo riflettere sull’utilità di una “educazione alla violenza”: in altri termini sulla utilità di dotare i ragazzi di un’attrezzatura mentale, che li metta in grado di far fronte a questo aspetto della vita e della storia, che abbiamo quasi del tutto eliminato nella concezione borghese della vita familiare, ma che straripa nei media e, spesso, nelle strade. E questo è oggi necessario. Non sembri paradossale -  l’analisi dei manuali non ci lascia alcun dubbio – la guerra è sparita dalla didattica.


    Il paradosso nasce dal fatto che, a causa dell’immagine di “storia-battaglia” che la grande rivista francese del secolo scorso “Les Annales” aveva creato per battere la storia tradizionale, e affermare vittoriosamente la propria idea di storia, tutti siamo convinti che gli insegnanti si dividano in due categorie: quelli che spiegano guerre, sovrani e trattati di pace; e quelli che spiegano “la società”. Le battaglie appartengono alla “storia dall’alto”. Ma in realtà: chi la spiega ancora? Ciò che vediamo, invece, è un canone piuttosto deformato, composto da una congerie di tradizioni storiche e storiografiche che si sono fuse e intrecciate fra di loro, attraverso l’uso da una parte, e con la sapiente regia commerciale delle case editrici dall’altra.


    Le guerre, dal canto loro, è vero che abbondano e ne troviamo a bizzeffe, pagina dopo pagina. Ma fate attenzione: sono citate, non sono descritte. Solo qualche volta -  a proposito di Qadesh, per esempio (la prima battaglia che trovo nei manuali: ma sta rapidamente scomparendo, a causa dei tagli di ore e conseguentemente di pagine); oppure della battaglia navale di Salamina o di quella terrestre di Canne – si trova la descrizione delle manovre degli schieramenti. Ma assai di rado leggeremo la sofferenza, i cadaveri, le ferite, la fatica terribile del combattimento, l’angoscia nella sua attesa, la spossatezza e il vuoto, alla sua fine. Sono guerre senza soldati e senza sangue. Tutto questo sia perché i testi, in genere, diventano più freddi e impersonali; sia perché l’intero apparato emotivo della comunicazione storica viene trasferito nelle immagini: e queste, sempre di più invadono i nostri manuali (e c’è da pensare che l’incipiente vicenda della storia in rete non farà che aumentare questa tendenza). Potremmo dire che la guerra dei manuali è il luogo dove si palesa la vittoria della “civiltà delle buone maniere”, che – secondo Norbert Elias – ha pian piano ripulito le nostre case dalle tracce di violenza e di sporco.


    Le eccezioni sono anch’esse significative. In occasione della prima, ma soprattutto della seconda guerra mondiale, si fa largo la descrizione della “sofferenza della popolazione”. Il martirio del fronte interno: il cibo razionato, il freddo, le donne al lavoro maschile, i bombardamenti. E, soprattutto in occasione della prima guerra, troviamo spesso il tema della “vita delle trincee”. A mio modo di vedere, queste pagine hanno molto a che vedere con l’ideologia della “gente comune”, e quindi, pur ponendosi esplicitamente come “critiche” e come “inviti alla riflessione”, corrono il rischio di ribadire convinzioni comuni e ormai scontate.


    Due eccezioni ancora mi sembrano significative, in questo occultamento della violenza, ma sono così importanti che richiedono un discorso a parte. La prima è quella della violenza “sacra”. Quella appunto che porta all’indipendenza della nazione, o alle lotte per la sua sopravvivenza. Per quanto in declino, essa è ancora presente, con modalità diverse e interessantissime da studiare, da nazione a nazione. La seconda riguarda la Shoàh: il racconto della violenza assoluta. Nei tempi recenti è diventato (e anche di questo occorre discutere) paradigmatico al punto tale che tende a sopraffare quello dominante negli ultimi decenni del secolo scorso, il racconto della Resistenza.


    I morti delle guerre manualistiche non sono mai “cadaveri”. Al massimo numeri. Settantamila romani uccisi a Canne; cinquanta milioni di morti nella seconda guerra mondiale. Indici di grandezza della guerra. Inoltre, più si risale verso il passato, più queste vittime assumono i colori dell’epica. Ecco la battaglia di Maratona. Migliaia di morti nell’esercito persiano e “solo” poche decine di ateniesi. Ecco la conquista della Gallia o della Dacia. Centinaia di migliaia di barbari uccisi e un milione catturati e fatti schiavi. Il ragazzo impara la potenza di Roma.


    Non voglio discutere o criticare il racconto epico della guerra. La rielaborazione dell’evento, nella letteratura come nel gioco, fa parte integrante del nostro modo di gestire questi fatti terribili. Il punto è: e la storia? Si deve limitare a citare questi fatti, alle loro descrizioni fredde e asettiche, e, in pratica, li deve occultare? E, magari, deve lasciare al “tema di attualità”, o all’ora di filosofia o di religione, il compito di tematizzarne e raccontarne l’angoscia? Eppure la storiografia ha elaborato potenti sistemi di indagine su questi eventi. Privarne gli allievi non sembra una scelta molto acuta.


    A molti sembra un progresso, non parlare di guerre. Spiego la vita dal basso, della gente comune, la storia di genere o le mentalità. Oppure, come si dice, “spiego la pace”. Giusto: ma non spiegare le guerre significa circondare questi fatti con un recinto di protezione, che li separa dalla storia e li confina nell’empireo degli oggetti scolastici. Li priva della loro problematicità e, perciò, li de-storicizza.


    Noi cercheremo di indagare su questo fenomeno, servendoci di una fonte e di un luogo particolari: i musei di guerra. Molto diffusi in altre nazioni (in Francia in particolare), in Italia sono presenti per la maggior parte in Italia Settentrionale e, ovviamente, con una concentrazione maggiore nelle regioni investite dalla Prima Guerra mondiale. Non mancano i musei del Risorgimento, che di recente hanno conosciuto un momento di risveglio dopo un lungo torpore: anche loro, si ricordi, sono in gran parte musei di guerra. Ho escluso da questa ricerca i musei della Resistenza: per questi occorreranno un discorso e uno studio particolari.


    Studiare la guerra nei musei serve non solo ai loro operatori. E’ utile anche per gli insegnanti. Come tutti sanno, la collaborazione fra insegnanti e operatori è fondamentale per un buon uso didattico del museo. Ma, oltre a questo, lo studio delle scelte espositive del museo aiuta docenti e storici ad approfondire questo argomento. Ci fornisce conoscenze e idee per spiegarla bene, e fare – della guerra – un oggetto di buona didattica.

     

    Fine prima parte

     

    (Seguirano la Parte seconda, sui musei tradizionali e i “musei-manuale”; la Parte terza sui “musei-laboratorio” e i “musei-provocazione”. Questo contributo è la rielaborazione della relazione che ho tenuto al convegno  di Craonne, e che verrà pubblicata in Francia)

  • Ravished Armenia. Che cosa ci può raccontare una foto falsa.

    Autore: Antonio Brusa

    Il fatto e l’immagine
    Avevo notato questa foto cercando in rete materiali sul genocidio degli armeni. Una didascalia scarna ne esaltava l’atrocità: “Una fila di ragazze cristiane, nude, crocifisse”. A file of naked crucified Christian girls. Oltre alla sua efferatezza, però, alcuni particolari mi avevano dissuaso dall’adoperarla nelle mie lezioni sulle immagini e la guerra. Il fatto che le croci testimoniassero un lavoro di falegnameria (il braccio è a incastro), difficilmente conciliabile con i patiboli affrettati, che vediamo in altre fonti fotografiche di quello sterminio; il fatto che le pose delle ragazze richiamassero quelle “artistiche” dei crocifissi, con la precauzione dei capelli che coprono le nudità; la scenografia stessa della foto, ben centrata con la fuga delle croci in prospettiva, chiara opera di mano professionale.

    Fig. 1Startling image from the above showing the crucifixion of Christian girls by the Turks in 1915


    Infatti, si tratta del fotogramma di un film del 1919, Ravished Armenia, prodotto dal colonnello William N. Selig, “l’uomo che inventò Hollywood”, come lo definisce Andrew A. Erish, che ne ha scritto la biografia. Questo film fu ritirato dopo un paio di anni, anche a causa delle proteste turche e del timore che avrebbe potuto sollecitare sentimenti antibritannici nelle terre dell’impero, che Francia e Inghilterra si erano spartite, come bottino della Prima guerra mondiale.  In realtà, la vita effimera di questo film coincise con quella brevissima della Prima Repubblica armena, annessa all’Urss nel 1920.

    Il film riappare con la nascita dell’attuale Repubblica armena (1988). Pochi anni dopo, infatti, ne vengono riscoperti alcuni spezzoni (1994) dai quali si ricavano due film: Ravished Armenia e Credo. Nel 2009, l’ Armenian Genocide Resource Center, della California del Nord, ne ha pubblicato un restauro, per un totale di quasi 24 minuti. Di recente,  Donna-Lee Frieze ha scritto che “dal momento che il film originale non esiste più, la sua funzione come strumento del ricordo è terminata. I nuovi film funzionano come fantasmi (ghosts)” (Three films, one Genocide. Armenian Genocide through “Ravished Armenia (s)”, in N. Eltringham, P. Maclean, Remembering Genocide, Routledge, N.Y., 2014, pp. 38-53).

    Tecnicamente, perciò, quell’immagine di donne crocifisse è un “documento falso”. Anzi, un fantasma del primo falso, dovremmo dire riprendendo le parole di Frieze. Tuttavia, troverete con difficoltà spiegazioni della sua natura così complicata e ingannevole, nelle versioni che circolano nella rete. Alcuni, come abbiamo visto sopra, si limitano ad una didascalia descrittiva. Altri avvertono che si tratta di un “documentario”, o commentano con un laconico “immagini del genocidio”, quando non ne fanno un uso politico esplicito (“testimonianza della barbarie dell’Islam”).

    Fig. 2 La didascaliarecita: “Armene crocifisse nella regione di Der-es-Zog. Alcune donne sono messe in salvo perché, come si vede nell’immagine, i beduini arabi le hanno tirate giù dalla croce.

     

    Le smentite che circolano sono, come è facile pensare, di parte turca. Commentando questo fotogramma, che mostra un’improbabile azione di salvataggio, il sito della Word Turkish Coalition sottolinea  che  viene presentato come vero da una storica tedesca che lavora in Armenia, Tessa Hoffmann. E  lascia intendere che questa è solo una delle tante falsificazioni antiturche.

    Benedetta Guerzoni, ricercatrice presso l’Istoreco (Istituto Storico della Resistenza di Reggio Emilia), ci mette in guardia sulle fonti della vicenda armena. L’uso politico delle testimonianze e delle immagini relative corre lungo tutto il Novecento. In gioco era il riconoscimento, da parte della comunità internazionale, del massacro prima, e poi, dopo il 1945,  del genocidio. E’ comprensibile, quindi, l’invito alla prudenza, formulato dalla studiosa.  Quelle pienamente affidabili, tuttavia, sono una massa così imponente da non lasciare dubbi sulla ferocia dello sterminio, come dimostra nel suo Cancellare un popolo. Immagini e documenti del genocidio armeno  (Mimesis, Sesto San Giovanni 2013), un libro dal quale traggo gran parte delle mie informazioni.

    Guerzoni, infatti,  affronta il caso delle crocifissioni (pp. 314-331), togliendoci ogni incertezza:  per quanto quelle immagini siano un “documento falso”, i fatti a cui si riferiscono sono veri, e purtroppo assai peggiori. Riporta le parole di Aurora Mardiganian, la ragazza che sopravvisse e raccontò quella vicenda: “I turchi non facevano le croci in questo modo. I turchi facevano piccole croci appuntite, facevano spogliare le ragazze, e dopo averle violentate le impalavano. Gli Americani le mostrano in modo più civilizzato. Non possono mostrare cose così terribili” (Quitrovate il testo originale inglese, ancora più crudo della versione che riferisco).

     

    Il falso e il vero nella rete

    Quindi, ci troviamo di fronte al documento falso di un episodio vero. Che cosa possiamo apprendere da un oggetto così strano e contraddittorio?  La confusione è aumentata dal fatto che, nella rete, queste immagini circolano  insieme con documenti autentici, mescolate a volte in modo indissolubile.

    Ne è un esempio questo video, che si presenta con queste parole: “Nel 1919, fu realizzato un film sul massacro e la deportazione degli armeni, basato sulla testimonianza di Aurora Mardiganian, che ne fu anche interprete”. Inizia con scene di archivio della guerra mondiale, poi prosegue mostrando le sequenze, scandite da secche didascalie, che illustrano le varie fasi – tutte ampiamente testimoniate - del massacro: il disarmo dei soldati armeni, i condannati che si scavano la fossa, le uccisioni, le deportazioni, ecc. Il sottofondo musicale accentua il senso della tragedia. Dopo un po’, il fruitore non riesce più a capire se sta guardando un documentario o una fiction.  Ciò che legge è vero; ciò che vede è falso, o indecidibile.

     

    Aurora Mardiganian e le sue memorie
    Nel 1917, Aurora, fuggita rocambolescamente dall’Armenia, incontra a New York un giovane sceneggiatore, Harvey Gates, che si offre per aiutarla a scrivere le sue memorie. Ha una storia drammatica da rivelare, quella dello sterminio della sua gente, un evento le cui notizie circolavano già in Occidente, sollecitate anche dal fatto che la Turchia era alleata con gli Imperi centrali. Le memorie escono dapprima a puntate nelle riviste di Hearst e poi in volume, l’anno seguente. Un successo di oltre 300 mila copie.

    Il racconto  inizia con la Pasqua del 1915, quando Aurora ha 14 anni. Husain Pasha, potente fratello del Sultano, l’aveva chiesta più volte per arricchire il suo harem, dove custodiva già una dozzina di ragazze cristiane. Il padre, ricco uomo di affari armeno, ha più volte rifiutato, sfidando la sua ira. Ma ora, che sono cominciate le persecuzioni, è rischioso dire di no. Per giunta, Husain offre, in cambio della ragazza, la salvezza della famiglia. Ma il padre rifiuta ugualmente, e per loro comincia l’inferno. La famiglia viene massacrata e lei, Aurora, venduta e costretta a marce estenuanti, durante le quali è testimone delle orribili vicende dello sterminio. Riesce a fuggire. Raggiunge Tiflis, e dopo un giro lunghissimo, l’America.

     
    Figg. 3 e 4 La copertina dell’edizione recente di Ravished Armenia (2014),  pubblicata da Indo-European Publishing, riprende il manifesto pubblicitario del film del 1919

     

    Il film
    La storia di Aurora è avvincente. Del suo potenziale commerciale si accorgono  Harvey Gates e sua moglie,  che riescono a diventare i custodi legali del libro. Se ne avvede rapidamente anche il colonnello Selig, che realizza il film e ne compra i diritti, come sappiamo da Anthony Slide, autore di Ravished Armenia and the Story of Aurora Mardiganian (University Press of Mississipi, 2014, introduzione). Sono due notizie essenziali, per interpretare la natura di questo documento e per valutare la tradizione armena, che, comprensibilmente, mette in rilievo il ruolo delle associazioni armene nella realizzazione del film; il fatto che al soccorso dei perseguitati fu destinata una parte di quei trenta milioni di dollari, che l’intera operazione fruttò: una quantità enorme di denaro, commenta Atom Egoyan, regista armeno-canadese, nella sua prefazione al libro di Slide.

    E, infine, per capire la figura stessa di Aurora, una ragazza che spesso viene designata come la “Giovanna d’Arco” dell’Armenia) e la precorritrice di Anna Frank.

    Fig. 5 Il manifesto dell’American Commettee  mette in rilievo il fatto che i proventi saranno destinati a salvare le vite dei perseguitati.

     Il film viene realizzato con la partecipazione di Aurora, che interpreta se stessa, supportata da un cast di attori professionisti e con un notevole impiego di comparse armene, emigrate in California. Girato nel 1918, esce l’anno successivo. Se ne fanno presentazioni ufficiali, prima negli Usa, poi in Inghilterra.
    Il regista del film, Oscar Apfel, afferma di aver puntato tutto sulla veridicità. Non si è tirato indietro nemmeno di fronte agli episodi più cruenti. E’ vero, dice, qualcuno voleva eliminare delle scene, come quella del vecchio prete a cui strappano le unghie, ma lui si è opposto, perché solo in questo modo, dice, la gente poteva rendersi conto di ciò che era accaduto in Armenia. In Inghilterra, tuttavia, queste scelta viene contestata. Dopo una proiezione preliminare, si impone la censura di alcune scene, perché “sono insultanti” e, per di più, il titolo stesso del film viene cambiato. Ora si chiama Auction of souls (“Anime all’asta”). Il film, si afferma, è basato sul rapporto di Lord Brice, un ex ambasciatore, inviato dall’Inghilterra in  Turchia per verificare le notizie sull’eccidio. Aurora non viene nemmeno citata.

       
    Figg. 6 e 7 I due articoli del N.Y Times si riferiscono alle scelte diverse, compiute da Inghilterra e Usa, per la proiezione del film. In Inghilterra, questo viene censurato a causa di alcune scelte considerate indecenti e insultanti per il pubblico. In America, al contrario, si decide che quelle scene sono necessarie per far comprendere appieno quale fosse la condizione della popolazione armena.

     

    Becoming Aurora

    Il suo nome era Arshaluys, che vuol dire “Luce del mattino”. Impronunciabile per un americano, venne cambiato con “Aurora”, così come il cognome, Mardinian, venne trasformato in Mardiganian. La mandarono a scuola, perché sapeva poche parole di inglese. La intervistavano, e man mano che stendevano il testo, lo sottoponevano all’approvazione di testimoni autorevoli, fra i quali appunto Lord Brice. Il libro nacque in questo modo. Poi, quando le chiesero di interpretare se stessa, nessuno la preparò al trauma di rivivere scene angosciose. In seguito, lei confessò lo spavento provato sulla scena, vedendosi circondata da gente col fez in testa, convinta che fosse stata riconsegnata ai turchi, per essere uccisa. Mentre giravano la sua fuga, cadde, provocandosi delle fratture. La fasciarono e lei dovette continuare a recitare. “Presumibilmente, il pubblico immaginò che quelle fasce coprissero delle ferite inferte dai turchi, piuttosto che dai barbari di Hollywood”. Così Sushan Avagyan, in un saggio dal titolo eloquente: Becoming Aurora.

    Quando il film uscì, le venne chiesto di presenziare alle proiezioni. Cominciò a girare nelle varie città americane, per avvalorare lo spettacolo con le sue parole. Ha commentato di recente Timothy Long:“Non possiamo immaginare ciò che poteva sentire una vittima, che doveva recitare se stessa, dopo aver dettato la propria storia, interpretando la ricostruzione filmica e raccontando e ri-raccontando la propria orribile vicenda in tante e sconosciute città americane”.

    Dopo un anno, Aurora crolla. E’ prossima al suicidio. Ma lo spettacolo deve continuare. Allora, selezionano sette ragazze, simili a lei, che presenzieranno alle proiezioni al suo posto. Aurora è entrata nel celebrity system americano.

    Fig. 8 Nel 2007 Atom Egoyan  mette in scena a Toronto le sette repliche di Aurora. Rovescia l’inganno hollywoodiano. Non esiste più un’ “Aurora originale”, ma i sette simulacri prendono vita, raccontano la propria tragedia e coinvolgono gli spettatori in un processo di revisione critica del passato.

     

    I modelli della fonte letteraria

    Sushan Avagyan, una studiosa armena che lavora presso l’Università dell’Illinois, si interroga sullo strano dialogo che poté avvenire fra una ragazza che conosceva appena l’inglese e uno scrittore che non sapeva una parola di armeno. Un testo non è solo una collezione di fatti. Un racconto, una amazing story, è anche altro. E questo altro, scrive la studiosa, è opera di Harvey Gates, non di Aurora.

    Gates lavora su tre piani. Il primo, è quello della opposizione fra cristiani e musulmani:  “Gates enfatizza la dimensione religiosa delle atrocità turche, commesse ai danni degli armeni”. Trasforma Aurora in una sorta di personificazione dell’Armenia e le fa dire:  I often wonder if the good people of America know what the Armenians are—their character. . . . My people were among the first converts to Christ. They are a noble race and have a literature older than that of any other peoples in the world.

    Il secondo piano è l’adozione dei modelli narrativi propri di quei racconti di schiavi neri fuggitivi, che stavano ottenendo un grande successo presso il pubblico americano. La stessa costruzione di Ravished Armenia ne segue le modalità di “fabbricazione”: si intervistava l’ex-schiavo, si scriveva in pochi mesi il suo racconto in forma autobiografica, si cercava qualche testimonianza autorevole, per avvalorarne la credibilità.

    Il terzo piano è quello della sensibilità puritana americana. Gates “usa molte varianti eufemistiche di stupro, come ravished, outraged, o betrothed”.

    Parla di harem e di vizio, non di sesso. Sa che si deve adeguare ai codici e ai tabù del suo pubblico.

     

    La donna e la costruzione del nemico

    Avagyan continua la sua requisitoria, aggiungendo che, mentre il romanzo cerca di sterilizzare le brutalità della gendarmeria turca, il film ne esalta gli aspetti sessuali, trasformando le donne in oggetto, e confinando, in questo modo, l’orrore in un secondo piano.

    While the text tried to sanitize the brutalities of the Turkish gendarmerie, the film went as far as to deliver a sensational exposé of sexual transgression that objectified women and girls, thus downplaying the gravity of the committed crimes.

    La pubblicità che precede e accompagna le proiezioni è estremamente esplicita:

     “Con altre ragazze nude, la bella Aurora è venduta per ottantacinque centesimi”; “La storia sensazionale della depravazione turca”; “Ragazze impalate con le spade” (Slide, pp. 51 s).

    E’ una campagna pubblicitaria, sintetizza Donna-Lee Frieze,  centrata su quattro parole chiave: rape, redemption, religion, race.

    Conclude Benedetta Guerzoni:

    “La tragica realtà delle violenze subite e testimoniate si confonde con l’utilizzo propagandistico, che ne enfatizza il lato morboso a scopo di delegittimazione del nemico. Come in altri casi, anche questo è una conferma di quanto l’iconografia armena abbia risentito delle condizioni contestuali, prima politiche, poi di guerra: in questo modo si spiega anche la strumentalizzazione della questione armena, che viene “inglobata” nel sistema mediatico vigente, in quanto ad esso funzionale. Il film era quindi coerente con la più ampia rappresentazione delle vittime, e delle donne in particolare, durante il periodo bellico. Richiami simbolici molto precisi e codificati sembrano infatti fare da filo rosso alla rappresentazione della donna vittima, non solo armena, come oggetto sessuale su cui il clima di violenza proietta tutta la propria forza. La donna vittima, soggetto debole, è, come si sa, funzionale alla propaganda, ma la pervasività di questo simbolo fa riflettere anche sul peso della violenza nella società civile dell’epoca” (pp.320 s).

    Fig. 9 La fotografia di Aurora Mardiganian, abbigliata con il costume tradizionale, campeggia nella copertina della prima edizione di Ravished Armenia

     

    Il falso come fonte storica

    Che cosa, dunque, si può imparare da una fonte falsa? Secondo la metodologia del fake, predominante in Internet e visibilmente mutuata più da Law & Order che da Marc Bloch, quando si individuano in una testimonianza delle incrinature e quando, soprattutto, gli autori di una certa fonte appaiono viziati da un qualche sospetto, quella fonte diventa inservibile. Conseguentemente, falsum in uno falsum in toto, al processo si perde clamorosamente. E’ la logica tipica di ogni negazionismo.

    Per gli storici non è così. Il falso è una fonte preziosa, perché lascia intravedere particolari e aspetti che, a volte, le fonti dirette nascondono. Occorre solo saper cercare. Se cerchiamo notizie sull’uccisione di quelle sedici povere ragazze, il falso non ci dice nulla. Anzi ci inganna sulle modalità dell’esecuzione. Ma su questo punto, lo storico mette in campo altre risorse: la fonte orale, nel nostro caso, e incroci e verifiche con altre testimonianze.

    Il falso comincia a parlare quando lo interroghiamo sulla sua fabbricazione: sul perché e sul modo con il quale venne realizzato; quando ci interroghiamo sul suo uso, sull’accoglienza che ebbe presso il pubblico. Nel nostro caso, questo falso ha rivelato l’identikit di gruppi umani cinici, che non hanno arretrato di fronte all’utilizzazione (per politica, per guadagno e anche per una nobile causa) di una tragedia. Ha mostrato, sullo sfondo, una società che, per attaccare un nemico, esibiva gli aspetti peggiori di sé. Benedetta Guerzoni ci conforta in questa lettura,  citando un passo, quasi contemporaneo al film, di H. D. Lasswell (Propaganda Technique in the World War I, N.Y 1927), secondo il quale una giovane donna, stuprata dal nemico, suscita una segreta soddisfazione in una massa di stupratori per delega dall’altra parte del fronte. Questa crocifissione finta, dunque, è fonte non della barbarie dei turchi, quanto piuttosto di quella del mondo novecentesco occidentale. Quelle donne bianche, nude e crocifisse sono la chiara visualizzazione di uno slogan: rape, redemption, religion, race.

    Se, inoltre, riflettiamo sul fatto che queste immagini erano in origine dei prodotti di fiction, che solo in seguito, per slittamenti progressivi, sono state utilizzate come documenti storici, che circolano in quanto documenti nel contesto attuale dell’internet, allora siamo autorizzati a considerarle fonti di una barbarie a noi contemporanea.

    Questo falso ci racconta, infine, la storia di una ragazza di sedici anni, che, scampata ad una tragedia, divenne vittima della violenza e dell’avidità dei suoi salvatori.

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