cittadinanza e costituzione

  • "Memorie di pietra memorie di carta" V Festival Internazionale della Public History

    di Antonio Brusa

    29 scuole HL locandina

    Martedì, 29 novembre

    Seduti nel vostro salotto bevendo un caffè, oppure nelle comode poltrone offerte dall'Università di Bari, vi potrete gustare una giornata intera dedidata alla didattica della storia e dell'educazione civica. La mattina sarà il momento della didattica concreta e possibile: fare storia con gli oggetti, o ingegnarsi con gli strumenti digitali (quelli semplici, ohiohi) e divertirsi imparando con i giochi, come vuole il motto di Historia Ludens.

    Nel pomeriggio, invece, ci sarà una panoramica di giochi utili per insegnare insieme Storia ed Educazione civica, non solo di Historia Ludens, ma anche di altri compagni di viaggio che abbiamo incontrato in questi anni. Date uno sguardo alla locandina, segnate in agenda e iscrivetevi se potete.

     

    MARTEDI 29 novembre GENERALE

  • Cittadinanza e Costituzione. Cronistoria di una “non materia”

    Autore: Antonio Brusa

     

    Introduzione

    Per una volta tanto, la scuola c’era arrivata prima, in questo mondo di Alice, dove sbocciano le “non-qualche cosa”, non-statuti o non-partiti che siano, con l’invenzione della non-materia. Cittadinanza e Costituzione. Insegnanti e dirigenti sono indaffarati, da qualche anno, per combinarne orari, incastrare unità didattiche, spalmare qua e là competenze di Cittadinanza, progettare curricoli. Certamente, insegnare Educazione Civile (come mi piace chiamare questa disciplina insieme a Alessandro Cavalli) è difficile, oltre che doveroso e anche entusiasmante (quando riesce). Ma farlo nel nostro paese è molto complicato. Dobbiamo renderci conto che di questa difficoltà c’è un perché tutto nostro. Deriva dalle cause e dal modo con il quale questo insegnamento è stato introdotto in Italia. Spero che la cronistoria che leggerete lo possa mostrare con chiarezza.

     

    Indice

    1. 1 agosto 2008. L’Annunciazione
    2. Botta e risposta
    3. Il progetto politico
    4. Il ritorno al passato, ricetta per il futuro
    5. L’uso pubblico della didattica
    6. Giorgio Gaber, nuovo pedagogista gelminiano
    7. Il tempo delle lodi
    8. Il parto, o quasi
    9. Le Linee Guida di una materia che non c’era
    10. Le feste prima del parto
    11. La condanna
    12. La pietra tombale
    13. Il parto revocato
    14. L’eredità


    1. 1 agosto 2008. L’Annunciazione

    “Novità vecchie e nuove per la scuola”, scriveva il giorno dopo il Consiglio dei Ministri del I agosto 2008  il “Corriere della sera”, elencando, fra le novità più importanti, introdotte nel disegno di legge proposto dal Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, gli esami di ammissione a settembre, la bocciatura con il 7 in condotta, Cittadinanza e Costituzione, oltre a sconti per i trasporti pubblici, biglietti del cinema ridotti e ingressi gratuiti alle aree archeologiche per gli studenti delle superiori. C’era anche il grembiulino, a proposito del quale il Ministro informava che “vi è la disponibilità di alcune case di moda a cimentarsi con la divisa scolastica”, mentre Berlusconi stesso indicava il senso politico dell’iniziativa: “si tratta di una risposta ai recenti episodi di bullismo”.


    2.  Botta e risposta

    Le scuole erano chiuse. Gli insegnanti e gli allievi in vacanza. Forse anche i giornalisti e gli storici, avrà pensato il Ministro, quando lesse, dopo appena venti giorni, la vigorosa requisitoria contro la scuola che Ernesto Galli della Loggia pubblicò, sempre sul “Corriere”. Lo storico se la prendeva con Tremonti, che tagliava a più non posso i fondi per la scuola, e giustificava la naturalezza con la quale questi tagli venivano fatti con il motivo che l’utilità della scuola non era più percepita dalla gente. La scuola, argomentava, è una “macchina gigantesca ma senz’anima, che non sa perché esiste, né a che cosa serva, e proprio per questo si dibatte da decenni in una crisi senza fine”.

    Il Ministro rispose a stretto giro.

    Quella dello storico, scrisse, era un’analisi “giusta, ma ingenerosa”. Giusta, perché individuava il morbo della scuola italiana. E’ vero, ammetteva il Ministro, che la scuola non serviva, ma questo dipendeva dal fatto che era ammalata di pedagogia di sinistra e infettata dai virus egualitari del ’68. Ma era una condanna ingenerosa, continuava, perché non rendeva merito all’azione del governo, che stava approntando proprio le medicine adatte a questa malattia. Eccole:

    “Voto di condotta, divisa scolastica, insegnamento dell' educazione civica, ritorno al maestro unico, rilancio degli istituti tecnici e della formazione professionale. Autorevolezza, autorità, gerarchia, insegnamento, studio, fatica, merito. Sono queste le parole chiave della scuola che vogliamo ricostruire, smantellando quella costruzione ideologica fatta di vuoto pedagogismo che dal 1968 ha infettato come un virus la scuola italiana”.

    3. Il progetto politico

    Quell’articolo è un documento di chiarezza esemplare. In esso, Gelmini sottoscrive in pieno i tagli di Tremonti, spiegando che sono proprio questi che permettono di snellire l’immensa macchina burocratica, utile solo a pagare gli stipendi dei prof. Poi si fa un vanto del fatto che un terzo dei risparmi sarebbe stato reinvestito “in qualità” (quindi due terzi erano tagli puliti). Infine descrive il suo ideale pedagogico: tornare ad una scuola educatrice della nazione, in cui si legge Manzoni, dove si introduce la quarta “I” (vi ricordate le altre tre? “Impresa, Inglese, Informatica”?). La quarta “I” sarebbe stata italiano. Non diceva, però, che i tagli previsti avrebbero colpito soprattutto la cattedra di italiano, geografia e storia: due ore in meno, nella Media; né lasciava sospettare che il rilancio dei tecnici e dei professionali sarebbe stato alquanto aleatorio. (A distanza di qualche anno, il dubbio che quei tagli abbiano prodotto l’effetto promesso ci viene, dal momento che l’attuale Ministro Carrozza, si propone di cambiare la riforma Gelmini, proprio perché eccessivamente ingolfata di burocrazia).

     

    4. Il ritorno al passato, ricetta per il futuro

    L’educazione civica fu dunque annunciata in questa atmosfera di “ritorno al passato”. Gelmini ne parlò con Paola Mastrocola, in un intervista pubblicata dalla “Stampa”, quasi un mese dopo. “Una ragazza al ministero”, esordiva la scrittrice, descrivendo gli occhiali della ministra, la sua figura flessuosa e giovanile, così contrastante con quella dei suoi predecessori, quasi tutti sussiegosi e barbuti, ritratti nella stanza del ministero. Poi la Mastrocola comincia a picchiare duro, sul ritorno al passato, alle certezze di una volta, ai compiti in classe e i programmi prescrittivi. Al punto che la ministra è costretta a schermirsi:

    "Ma sa, mi stanno già accusando di voler tornare al passato... Non aggiungiamo altra carne al fuoco. Anche se, quello che io propongo non è un ritorno al passato secondo me, è che ci sono valori senza tempo, sempre attuali, come l’impegno, la fatica, lo studio..."

    Entrambe, però, erano accomunate nell’individuare nel ’68 il momento di svolta, il peccato originale della degenerazione scolastica. Era quindi un passato specifico, quello che le due immaginavano come modello per il futuro. La scuola degli anni ‘50/’60. Quella che don Milani combatté e che Rodari cercò di rivitalizzare con la sua colta ironia (non a caso due bersagli della polemica di Mastrocola). Che una scrittrice sogni di recuperare il passato, fa parte del gioco. Un po’ meno, forse, che lo faccia un ministro, uno che per mestiere dovrebbe guidare un’istituzione. Si guida guardando avanti, mi pare. Altrimenti si va come quegli indovini di Dante dal corpo stravolto e la testa girata all’indietro. Infatti, Gelmini sostiene che del passato le interessano i valori, quelli eterni. Tanto è vero, che fra i suoi recuperi propone quello più eterno di tutti, se si può dire questo della Bibbia.

    “La lettura della Bibbia nelle nostre scuole è un’iniziativa a cui sono favorevole come ministro, come credente e come cittadina italiana”

     

    Il ministro Gelmini legge la Bibbia

     

    5. L’uso pubblico della didattica

    “Verosimilmente nulla di concreto seguirà a queste dichiarazioni, come accade con il 95 % delle dichiarazioni-bomba da parte di esponenti del PdL e della Lega”. Questo era il commento dell’anonimo articolista del “Giornale di Lettere e Filosofia”, la rivista online della Sapienza, dalla quale ho tratto la notizia della proposta di leggere la Bibbia in classe. Quella proposta era stata fatta in occasione del lancio di un’edizione economica del testo sacro da parte della Sei. Come tante altre, aveva un valore “performativo”. Valeva per l’occasione. Serviva ad essere presenti sui media. Uso pubblico della didattica, diremo allora, estendendo a questo ambito un termine che gli storici hanno introdotto da tempo, per indicare quell’abitudine, sempre più diffusa, di utilizzare i fatti del passato per affermare qualche idea politica del presente.

     

    6. Giorgio Gaber, nuovo pedagogista gelminiano

    L’annuncio dell’educazione civica faceva dunque parte di un’azione mediatica, inseguita per occupare le prime pagine dei giornali, con idee facili e suggestive (la divisa scolastica e il voto in condotta, appunto, ma anche l’educazione stradale come antidoto alle “stragi del sabato sera”, la lotta al bullismo e tante altre cose di buon senso), che hanno una forte presa sia nel pubblico più vasto, sia in un’ampia cerchia di commentatori pubblici. In questa attività mediatica occorre prontezza di spirito e capacità di cogliere le occasioni. Un esempio è la vicenda che portò Giorgio Gaber ad essere promosso a pedagogista civico. Nacque dalla battuta di un comico, Enzo Iacchetti.

    "Milano, 3 marzo 2009 - Tutto è nato da una battuta di Enzo Iacchetti ("Gaber andrebbe studiato nelle scuole") che non è sfuggita al ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini. Giro di telefonate, collaborazioni avviate ed ecco il signor G. pronto a varcare i cancelli degli Istituti italiani secondari superiori e paritari.
    Il ministro, che pure ha assicurato “ampia autonomia” per gli Istituti che accoglieranno il progetto, ha precisato di vedere bene l’introduzione all’opera di Gaber nelle ore di educazione alla Cittadinanza e Costituzione."

    A Daniele Bellasio del “Foglio” la proposta non piacque. Avrebbe significato, secondo lui, “scolasticizzare” il simpatico ribelle. Ma a “Libero”, che rilanciò la notizia, evidentemente sì . Invece a “Red” e a molti di sinistra questa annessione non andava giù, come scrisse Claudio Caprara (30 marzo 2009).  E’ utile, oggi, capire chi aveva ragione? Certamente sì (e personalmente sono contento che si parli di Gaber e se ne studino i testi). Ma a questa cronistoria interessa notare che, in quel momento, l’idea di Gaber contribuì a ciò che voleva Gelmini: fare dibattito.

     

     

    7. Il tempo delle lodi

    L’adesione della destra (e di molta stampa indipendente) fu vasta. Aveva anticipato tutti, ancora prima dei fatali annunci, Giorgio Israel, studioso di matematica e coordinatore della Commissione ministeriale per la riforma della scuola di Specializzazione all’Insegnamento. “Avanti così”, recitava un suo intervento del 2 agosto 2008, nel quale annunciava che la nuova educazione civica italiana sarebbe stata molto diversa da quella proposta dal governo spagnolo, di sinistra, che tanto stava inquietando la Chiesa. Aveva scritto Israel:

    “viene seccamente evitato il rischio di pensare l’educazione civica come una “educazione alla cittadinanza” di stile zapaterista, ispirata all’idea di affidare allo stato la formazione etica e morale del cittadino – un’idea che contiene una miscela di laicismo (una religione di stato che somministra i principi morali prendendo il posto della religione) e di pedagogismo (l’educazione alla cittadinanza impartita da “specialisti” della convivenza civile)” .

     8. Il parto, o quasi

    Ma torniamo all’agenda politica. Una settimana dopo l’articolo sui quarant’anni da smantellare, il governo emanò effettivamente una legge sull’educazione civica, con una rapidità inusuale per la scuola italiana, abituata a gestazioni legislative lente e faticose. In realtà, si trattava di una legge stranamente complicata, nella quale il governo non istituiva la nuova disciplina, ma si obbligava a farlo per l’anno successivo, con un’altra legge, che avrebbe reso obbligatoria una materia dal nome di “Cittadinanza e Costituzione”, con 33 ore di insegnamento annuali (un’ora la settimana) e il voto distinto. Una legge sulle intenzioni, dunque, più che sui fatti. Questi erano praticamente tre:  sollecitare la sensibilizzazione del personale docente; invitare a sperimentare la nuova disciplina; e un ennesimo concorso a premi, per la scuola che avesse proposto il miglior progetto su “Cittadinanza e Costituzione”. Se avete voglia di leggervi quei documenti, li trovate sul sito di edscuola.

     

    9. Le Linee Guida di una materia che non c’era

    Nel marzo del 2009 (la legge promessa non era ancora nata), venivano pubblicate leLinee guida, un corposo documento per spiegare ai docenti la futura disciplina, firmato dal Ministro ma scritto dal pedagogista Luciano Corradini, che fin dal 1995 aveva coordinato una Commissione ministeriale apposita, che sopravvisse a governi e maggioranze di ogni genere, fino appunto a trovare in Gelmini il ministro che ne avrebbe coronato il lavoro. Maurizio Gusso, che fece parte di questo gruppo, ne ha raccolto la documentazione.

    Nelle Linee guida si ripercorre la storia dell’educazione civica in Italia (introdotta nel 1959 dall’allora ministro Aldo Moro); se ne argomentano le ragioni della sua scarsa presa nelle scuole e si propone la traccia di un curricolo verticale in tre fasi: laboratori e situazioni di vita, nelle elementari; studio della Costituzione, nelle medie; progetti e esperienze di “cittadinanza attiva”, nelle superiori. Corradini aveva già pubblicato le sue riflessioni in uno scritto collettivo: Educazione alla convivenza civile. Educare, istruire, formare nella scuola italiana, Armando, Roma 2003.

     

    10. Le feste prima del parto

    Lo stesso Ministro presentava queste Linee in una solenne conferenza stampa, nella quale, dopo aver elogiato Corradini, informava della preparazione di un kit multimediale, necessario per attirare gli studenti, e precisava che il concorso avrebbe distribuito premi per un milione di euro. Come si vede nel video,  il ministro è accompagnata dall’allora procuratore distrettuale antimafia e da una giovane rappresentante di un comitato provinciale per l’insegnamento dell’educazione civica.

    Vennero annunciate diverse azioni mediatiche di supporto, fra le quali una lunga serie di trasmissioni (ben 130 puntate), in orario di grande ascolto su Canale 5, nelle quali l’ex ministro socialista Claudio Martelli avrebbe spiegato agli italiani la Costituzione.  Commentò il Ministro: “La Costituzione non appartiene al passato, ma deve regolare la vita quotidiana di ciascuno di noi. Mi complimento con i fautori di questa iniziativa che porterà i cittadini a conoscenza di quella che Ciampi ha definito la Bibbia laica”.

     

    L’ex ministro Martelli con Fedele Confalonieri

     

    11. La condanna

    Sfortunatamente per il Ministro, leLinee Guida vennero lette da Ernesto Galli della Loggia, nel novembre successivo, e non piacquero. A farne le spese fu Luciano Corradini (“il Ministro non poteva conoscere il contenuto del documento”, disse lo storico per giustificare Gelmini). Corradini, dunque, che pure vantava una lunga militanza cattolica, tradizionalmente ostile al mondo comunista, sottosegretario del governo Dini (1995), che come ricordiamo era di quelli “tecnici”, veniva incolpato di pedagogismo progressista, e ritenuto promotore di una delittuosa pedagogia di stato. Il titolo di questo articolo, apparso sul “Corriere della Sera” (8 novembre 2009), è di quelli che stroncano:Così la democrazia diventa catechismo.

    “Si compie così un nuovo, decisivo, passo avanti lungo quella china micidiale che sta portando la scuola italiana al disastro: cioè la sua trasformazione dal luogo di apprendimento che era un tempo a una sorta di insignificante agenzia alla socializzazione”.

    Devo notare, però, che - oltre la polemica antipedagogica e il continuo richiamo a una scuola che non c’è più - questo intervento conteneva una notazione di indiscutibile buon senso didattico. Se, infatti, si fosse reso esecutivo il progetto di una disciplina di 33 ore l’anno, si sarebbero avute 429 ore di Educazione alla Costituzione, lungo tutto il curricolo dalle elementari alle superiori. Un tempo esagerato anche per un corso universitario di Diritto Costituzionale.

     

     

    12. La pietra tombale

    Inutilmente Corradini obiettò che nel suo documento non si faceva altro che riprendere le indicazioni di Lisbona. Fu zittito da Giorgio Israel, che, ricredendosi del suo precedente entusiasmo, riconosceva nel documento ministeriale il pericoloso marchio zapaterista, e lo attribuiva al fatto che

    “in trent’anni si è consolidato un blocco di potere difficile da scalfire e il riaffacciarsi della figura del "pedagogista di Stato", che si sperava definitivamente scomparsa, non è un buon segno”.

    Questo articolo, apparso sull’ “L’Occidentale”, veniva ripreso da “Il Giornale”, a testimoniare del mutamento del giudizio politico su tutta la vicenda (10 novembre 2009).

    Contemporaneamente, a far calare una pietra tombale sulla materia, provvide Gaetano Quagliariello, storico e esponente di rilievo della destra. Argomentò che una materia intitolata alla Costituzione era del tutto inutile, dal momento che il Parlamento si apprestava a modificare la Carta Costituzionale, essendo questa un “documento empirico e approssimativo”.  E proclamò che “non serve portare in classe la Costituzione, per fare dei buoni cittadini” (“L’Occidentale”, 9 novembre 2009).

     

    13. Il parto revocato

    Prontamente il Ministro fece marcia indietro. Dichiarò che, nella scuola di base, Cittadinanza e Costituzione non sarebbe stata una materia distinta, non avrebbe avuto un orario e un voto separati e si sarebbe insegnata all’interno della storia; mentre nella scuola superiore sarebbe stata introdotta come materia separata, ma solo a titolo sperimentale. Una “non-materia”, appunto. Lo si legge ancora in un lancio di agenzia del 24 novembre, insieme con qualche commento di stupore, di fronte al ministro che smentiva se stessa e la sua politica, tanto faticosamente costruita e cercata per oltre un anno. Le scuole, evidentemente, avevano “capito male”, perché già da un anno, fin dal primo annuncio, si erano mosse e legioni di insegnanti erano state impegnate nella progettazione di curricoli della nuova disciplina.

     

    14. L’eredità

    Senza nessun clamore venne quindi approvata la legge attualmente in vigore, quella con la quale oggi tutti devono fare i conti quotidianamente. In questa il Ministro cercò di conciliare la nuova situazione (Cittadinanza e Costituzione non tirava più) con l’impegno di introdurla, senza dimenticare che, in ossequio ai tagli che avrebbero modernizzato la scuola così efficacemente, il tutto non doveva costare un euro.

    Quel battage pubblicitario fu dunque inutile? Secondo me qualche risultato lo ottenne. Per esempio, ha oscurato la drastica contrazione degli orari, soprattutto nel settore delle discipline storico-sociali. Una riduzione stabilita dal ministro Letizia Moratti, che tolse – fra l’altro - le trenta ore di educazione civica, assegnate da Aldo Moro in terza media, e resa operativa appunto da Gelmini. Per ironia della sorte, proprio nelle Linee guida Luciano Corradini aveva definito “gracile” l’assegnazione oraria stabilita da Moro. Ora, che quelle risorse non esistono più e il comparto delle discipline geo-storico-sociali si è potentemente ridotto, nelle scuole dove si mette in pratica una delle soluzioni orarie proposte dalla ministra, Storia, Geografia e Cittadinanza e Costituzione usufruiscono di appena un’ora la settimana. Praticamente scompaiono. Si potrebbe concludere questa cronistoria, osservando che Mariastella Gelmini, in luogo di introdurre una nuova disciplina, ha contribuito a indebolirne ben tre.

  • Del pasticcio dell’Educazione civica e dei suoi legami ambigui con la storia

    di Antonio Brusa

    A. L’educazione civica

    Una materia senza identità

    Che sia un pasticcio se ne sono accorti quei dipartimenti di storia che già si sono dati da fare per organizzare l’insegnamento dell’educazione civica, la cui introduzione - dal settembre successivo all’entrata in vigore della legge - è stata votata dalla Camera il 2 maggio di questo anno 2019. Che sia “un pasticcio” lo ha dichiarato in Parlamento uno dei tre astenuti, l’on. Gabriele Toccafondi (Gruppo Misto), ex sottosegretario al Miur nel governo Gentiloni. Una dichiarazione fatta in buona compagnia, nonostante la legge sia stata approvata – tra la soddisfazione generale - con una maggioranza che in altri tempi si sarebbe definita bulgara. Infatti, scorrendo il resoconto stenografico delle dichiarazioni di voto si constata che, sia pure con accenti diversi e pur votando a favore, quasi tutti i gruppi parlamentari ribadiscono le obiezioni di Toccafondi: la nuova materia non ha un insegnante dedicato, sarà difficile conciliare i contenuti disparati che prevede, mentre la quadratura del cerchio viene demandata alla bravura di un coordinatore che dovrebbe tirare le fila di lezioni e interventi didattici che potrebbero anche essere distribuiti fra tutte le discipline (e ricavarne un voto unico in pagella). Infine, dulcis in fundo, non vengono stanziati fondi sufficienti per formare queste nuove figure, o ricompensare adeguatamente un lavoro di coordinamento che - al dire dell’on Patrizia Prestipino (Pd), che da professoressa di lettere lo conosce bene - è massacrante.

    Certamente, si dovranno attendere le circolari applicative, per capire come se ne viene fuori. Ma alcune manifestazioni di malcontento, immediatamente apparse in rete, ci lasciano intuire che la soluzione di questo pasticcio sarà alquanto complicata, dal momento che dovrà tenere conto non solo di risvolti didattici, amministrativi e – come vedremo – teorici e culturali, ma anche di una non trascurabile questione di organico.

    L’educazione civica senza volto. Immagine scelta dall’Apidge per criticare la proposta di LeggeFig. 1. L’educazione civica senza volto. Immagine scelta dall’Apidge per criticare la proposta di Legge

    Le “gravi perplessità”, espresse a stretto giro di posta dal coordinamento degli insegnanti dell’area A046 (gli insegnanti di area giuridica), infatti, rivelano che a premere per la nuova disciplina c’è una legione di 18 mila insegnanti di diritto, che, stanchi di essere assegnati all’organico di potenziamento o al sostegno, aspirano a una propria cattedra, non solo nelle superiori, ma anche nella scuola di base. Lo auspica, nella sua dichiarazione di voto per conto del M5S, l’on. Elisabetta Maria Barbuto - lei stessa insegnante di materie giuridiche in una secondaria superiore di Pisticci e membro del coordinamento nazionale della sua disciplina – forse cercando di placare le rimostranze dei colleghi delusi. “Non è l’educazione civica che volevamo”, “è una farsa”, “siamo arrabbiatissimi” – infatti - aveva protestato senza mezzi termini, l’Apidge (Associazione dei docenti di economia e diritto) alla vigilia della discussione parlamentare «Un miscuglio della specie peggiore», ha rincarato la dose, dopo l’approvazione della legge.

    Un’educazione civica alla Mary Poppins

    Ascoltando l’on. Virginia Villani (M5S) che presenta in aula la proposta di legge Luciano Corradini confessa la sua commozione. L’onorevole – che è una dirigente scolastica - lo chiama “maestro” e ne cita ripetutamente il pensiero. Con qualche ragione, dal momento che Corradini ha lavorato ostinatamente, per oltre vent’anni, con ministri di ogni partito (da Lombardi, a Galloni, a Dini, a Fioroni, a Gelmini) per raggiungere l’obiettivo di introdurre questa materia. Ci era quasi riuscito con Mariastella Gelmini, ma la cosa finì nel nulla e lui, che pure era stato osannato dalla ministra, fu rapidamente messo da parte (qui c’è la cronistoria analitica di quella vicenda). L’occasione della rivincita, dunque, è giunta?

    Certo, scrive Corradini, meglio di niente. Ma aggiunge subito che non c’è nulla da celebrare, a meno di non attendersi dei miracoli da quel docente coordinatore che, “come Mary Poppins, dovrà volare da una disciplina all’altra”, nella disperata impresa di armonizzare “tutto quel ben di dio contenuto nei dodici articoli della legge”. Una buona legge sull’educazione civica – aveva proclamato Virginia Villani, facendo proprie le raccomandazioni che Corradini stesso aveva ricordato pochi giorni prima del dibattito - deve rispettare due regole: non deve essere troppo povera di cultura educativa e non si deve caricare di ogni genere di problema. Ebbene, ribatte il pedagogista, sono appunto queste le regole che la nuova legge infrange.

    Un’educazione a costo zero

    Da settembre una riforma che costa zero. Torna l’educazione civica come materia sui banchi di scuola”. In questa dichiarazione trionfale, fatta dall’on. Matteo Salvini (Lega-Salvini premier) a Firenze, un mese prima della discussione parlamentare, il vicepresidente del Consiglio trasforma in motivo di vanto proprio quell’assenza di finanziamenti, causa non secondaria del pasticcio che stiamo analizzando. Che dovesse essere una riforma a costo zero era deciso fin dal principio di questa vicenda, dal momento che la proposta originale della Lega, del giugno del 2018, si chiudeva con la medesima clausola di salvaguardia finanziaria che sigilla la legge attuale.

    Questo particolare avrebbe meritato di essere portato a conoscenza di tutti e discusso con maggiore insistenza. L’on. Anna Ascani(pd), intervistata da Radio Radicale, lo annovera tra i “piccoli difetti della legge”. Ma nella dichiarazione di voto era stata più tranchant: “Dobbiamo essere onesti perché va detta la verità ai cittadini: questa proposta di legge non introduce un'ora in più di educazione civica al di fuori dell'orario che c'era e chi oggi dice il contrario dice semplicemente una bugia, dà un pessimo esempio e non fa educazione civica”.

    Il ministro Bussetti correda i suoi post su fb con disegni inviati al Miur dai bambiniFig. 2. Il ministro Bussetti correda i suoi post su fb con disegni inviati al Miur dai bambini

    Per quanto abbia scandagliato la rete, non ho trovato una gran voglia di spiegare questo aspetto della questione. Nei suoi numerosi post, Matteo Salvini – che del ritorno dell’educazione civica ha fatto un motivo ricorrente della sua comunicazione - si appella al buon senso, al rispetto che bisogna portare ai docenti, al grembiule da ripristinare, fino ai ceffoni che i genitori dovrebbero dare ai propri figli. Nel video, messo in rete dall’aereo che lo porta in Ungheria “a costruire la nuova Europa”, annuncia di aver reintrodotto l’educazione civica come materia obbligatoria, col pollice levato esclama “promessa mantenuta”, e chiude lì la questione.

    Eppure, agli staff che ormai presiedono alla comunicazione di chi governa, non dovrebbero essere sfuggiti i numerosi commenti che sottolineano la faccenda dell’organico e, conseguentemente, i risvolti finanziari e contrattuali della legge. Fra le risposte al post nel quale il ministro Bussetti annuncia il voto positivo alla Camera, leggo quest’accusa - “Avete appioppato una disciplina, perché di questo si tratta, a tutti i docenti” - lanciata da una professoressa siciliana, seguita da altri colleghi che lamentano – apparentemente inascoltati - la vaga trasversalità della nuova disciplina, chiedono a quali materie verranno tolte le ore, fanno osservare che, più che un mancato investimento, si tratta di un autentico taglio di risorse.

    Unanimità nella diversità

    Una seconda causa del pasticcio è interamente politica. In tutte le presentazioni della legge si sottolinea come questa sia il frutto della convergenza di 16 proposte diverse e di una legge di iniziativa popolare, corroborata da una petizione dell’Anci che ha raccolto 100 mila firme (per la precisione, le proposte 682-734-916-988-1166-1182-1425-1464-1465-1480-1485-1499-1536-1555-1576-1696-1709-A). Un successo politico, dal momento che questa unanimità è del tutto inusuale nel nostro Parlamento, ma che ha un suo costo. L’accordo ha fatto gonfiare la legge originaria, portandola da 4 a 12 articoli. “Ogni forza politica ha voluto metterci del suo”, rivela Anna Ansani nell’intervista citata sopra. Gli effetti di questa coralità si apprezzano negli artt. 3 e 5.

    Il quadro degli obiettivi dell’Agenda 2030Fig. 3. Il quadro degli obiettivi dell’Agenda 2030

    Lo studio della Costituzione italiana, già richiamato con forza nel primo articolo della legge, è anche in cima agli obiettivi dell’articolo 3. È senza dubbio l’elemento condiviso da tutte le forze politiche. Queste, poi, si sono date da fare per imbandire di ogni “ben di dio”, continuando a citare Corradini, una tavola dove le eccellenze agroalimentari stanno accanto all’inno e alla bandiera nazionali, accompagnate da un plotone di educazioni (ambientale, allo sviluppo sostenibile, alla legalità, al patrimonio, all’identità, ai beni comuni, stradale, della salute e al volontariato) e dai ben diciassette obiettivi dell’Agenda 2030. A tutti questi occorrerà aggiungere l’educazione all’antimafia, richiesta nel corso del dibattito e subito accettata dal governo, mentre non possiamo che registrare il disappunto dell’on. Laura Boldrini (LeU) che non ha visto accogliere la proposta di introdurre l’educazione sentimentale.

    Nell’articolo 5 si sviluppa una delle competenze citate nel 3, quella digitale. Vi leggiamo la capacità di valutare l’affidabilità delle fonti, comunicare con gli altri con tutta la varietà delle risorse digitali, di informarsi attraverso la rete e utilizzarla per dibattere pubblicamente, ovviamente conoscendo le norme comportamentali dovute, di proteggere la propria identità digitale e di salvaguardarsi dai rischi che si corrono navigando in rete o usando troppo il computer.

    Se quattrocento ore vi sembran poche

    Trentatré ore l’anno, dalla primaria alle superiori, sono oltre 400 ore. Un’enormità, se le confrontiamo, ad esempio, con un corso universitario di Diritto Costituzionale: questa fu l’obiezione letale con la quale Ernesto Galli della Loggia stoppò il progetto Gelmini. Eppure – spalmate lungo tutto il curricolo e distribuite a spaglio fra il corpo docente - è illusorio pensare che bastino per realizzare un piano formativo adeguato alle richieste di questa legge. O, per converso, che ci sia una figura professionale capace di sobbarcarsi un simile impegno, o anche solo di fornire continuità alla miriade di interventi nella quale questa disciplina si sfrangerebbe: tanto che appare realmente audace l’autoproposizione dei docenti di diritto che, in una petizione online a Matteo Salvini, affermano che “con la loro esperienza e la loro preparazione hanno, senza dover essere formati, (sottolineatura mia) le competenze necessarie per poter insegnare questa materia”.

    Quattrocento ore, inoltre, diventano pochissime, se erogate, come si dice negli interventi alla Camera, “un’ora la settimana”. È una questione che qui, su HL, abbiamo già visto a proposito della storia e della geografia anch’esse, ormai in molti istituti, materie da un’ora, e come tali destinate alla sottovalutazione degli allievi (come sanno bene gli insegnanti).

    Chi lavorerà alle direttive applicative dovrà sudare per ricavare da questo lungo elenco di desiderata parlamentari un progetto “concreto e di buon senso”, come promesso dall’on. Massimiliano Capitanio (Lega-Salvini premier), promotore della proposta originaria. Per il momento, questa legge non fa altro che prelevare quattrocento ore da discipline, dove avevano un impiego comunque ragionato, per accatastarle disordinatamente in un contenitore chiamato “educazione civica”, tutto sommato di scarso rilievo nelle gerarchie di importanza degli allievi.

    Una parola baule

    Un po’ come nelle “parole baule” che lo Stregatto spiegava ad Alice, in questa educazione civica ci sono cose discordanti, che ogni relatore riconduce a un suo punto di vista. Secondo alcuni, la nuova materia sarà l’occasione per aprirsi al mondo, vivere civilmente con tutti, fare volontariato, includere i bisognosi e battersi per l’integrazione; secondo altri, invece, diventerà il santuario delle regole, dei doveri, dell’ordine e della legalità, del rispetto dei docenti. Fabrizio Foschi, che ha curato a lungo la sezione didattica di Comunione e Liberazione, sostiene che in questo testo si riconoscono due anime: di quelli che vorrebbero una cittadinanza progressiva, e di quelli che, al contrario, la vorrebbero protettiva. Lungi, però, dall’essere equidistante, il dettato legislativo pende per la versione “protettiva”. Lo prova, continua Foschi, il dato politico fondamentale dell’abrogazione di Cittadinanza e Costituzione (art. 2), la versione chiaramente “progressiva” contenuta nella Legge 107/2015.

    Forse con più evidenza lo prova il dibattito alla Camera, vista l’assenza degli accenni, sintomatici dei sostenitori della “cittadinanza progressiva”, alle cittadinanze mondiale e europea; visti i frequenti richiami ad alcune questioni tratte di peso dalle pagine di cronaca nera e alle quali – nelle attese che si scorgono dietro le dichiarazioni di principio - questa legge dovrebbe concretamente provvedere. Lo si nota particolarmente nel caso della educazione digitale. I propositi di introdurla sono lodevoli, in un’ “epoca della democrazia cognitiva, in cui si è cittadini pienamente soltanto se si conosce come le informazioni vengono formate e come le si può utilizzare” (Ascani). Ma, nei più, la paura prende il sopravvento: cyberbullismo, il sexting e il revenge porno, lo stalking e ogni genere di cyber crime sono citati come i mali sociali da contrastare (Gelmini). Internet è ottima cosa, ma al tempo stesso “fonte di molteplici insidie da cui stare alla larga”, avverte Elisabetta Barbuto. “Di fronte a questi fatti gravi – ammonisce l’on. Paola Frassinetti (FdI) - tutti diciamo “ah se avessero avuto un’ora in più di educazione a scuola questo non sarebbe accaduto”. “Se l’avessimo fatto prima – incalza Massimiliano Capitanio - forse non ci sarebbero stati suicidi da cyberbullismo”.

    In realtà, i governi precedenti si erano già fatti carico a più riprese di queste preoccupazioni e, al contrario di questo, con investimenti cospicui: basti pensare al Piano Scuola Digitale, finanziato con ben 185 milioni di euro, o al progetto Generazioni connesse o a quello significativamente intitolato “Basta bufale” ), promosso a suo tempo dalla ministra Valeria Fedeli e da Laura Boldrini, allora presidente della Camera. Ma ciò che importa non è sfruttare le risorse che lo stesso Miur ha accumulato, o valutarne gli effetti in modo da evitare la reiterazione di decreti inefficaci, quanto piuttosto intestarsi un messaggio di rassicurazione da inviare agli elettori.

    D’altra parte, a questa preoccupazione securitaria non è insensibile nemmeno l’opposizione: la stessa Laura Boldrini quando rimprovera i colleghi di non aver accolto l’educazione sentimentale, argomenta che questa sarebbe stata un ottimo strumento “per riuscire a contrastare il fenomeno della violenza sulle donne”.

    Dove tutti sono d’accordo

    Come abbiamo già notato, la promozione dello studio della Costituzione è un elemento che accomuna i gruppi parlamentari. Vi sono altre convergenze. La prima è il fatto che ci si attende, da questa materia, il raggiungimento di una coesione sociale, della quale evidentemente si lamenta la mancanza nella società italiana. La nuova educazione civica deve inculcare negli allievi il senso di appartenenza alla comunità. Lo dichiara l’on. Antonio Tasso (Gruppo misto), il primo a intervenire. Lo seguono Paola Frassinetti, che unisce “senso civico e appartenenza” ed Elisabetta Barbuto, la quale vorrebbe che, studiando questa materia, gli allievi italiani si sentissero parte integrante della società.

    Dei diversi temi di questa legge, questo sembra riscuotere un largo consenso fuori dall’aula. Fra i tanti, Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci, pur auspicando un radicale intervento migliorativo del Senato (va sottolineato che i sindaci chiedevano un’ora in più da aggiungere al curricolo), apprezza il senso dell’appartenenza che questa legge sollecita. Giorgio Chiosso, pedagogista e storico dell’educazione, elogia il fatto che l’educazione civica possa spingere gli allievi a “sentirsi comunità”. Carlo Troilo, giornalista, intervenendo già alle prime avvisaglie della legge, ne sostiene la necessità, motivandola col fatto che non è importante solo conoscere i valori della Repubblica, ma è necessario metterli in pratica per poter vivere insieme.

    Questo insistere sulla funzione sociale e pragmatica della legge ci invita a guardare sotto una nuova luce il secondo punto di convergenza: l’esaltazione unanime del portato formativo della Costituzione. Certo, ci sono gli aspetti cognitivi. Diversi sottolineano il fatto che bisogna conoscere, per poter mettere in pratica. Ma sembrano fare scuola le parole di Mariastella Gelmini: “non vogliamo che gli allievi studino a memoria la Costituzione, ma che la pratichino, giorno per giorno, nella vita quotidiana”. La Costituzione, dunque, il testo che definisce l’impianto e le regole della Repubblica, viene reinterpretata come un breviario morale, che deve istillare negli allievi dei comportamenti virtuosi (un “catechismo”, scrisse a suo tempo Galli della Loggia).

    Nulla di nuovo e di particolarmente insolito, per questa disciplina che, fin dai tempi della sua prima proposta, di Aldo Moro, nel 1958, era vista come un’attività di formazione al confine fra “la scuola e la vita”. Per questo motivo non poteva essere oggetto di sole lezioni (si legge in quel testo) ma doveva essere anche vissuta nell’organizzazione scolastica. L’educazione civica, quindi, era una disciplina composita, da insegnarsi a vari livelli: quello diffuso, presente in tutte le discipline; quello pratico, della concreta vita dell’istituzione scolastica; quello specifico, infine, dato dalla storia. Su questa natura ancipite dell’educazione civica si sono esercitati molti studiosi (da Alessandro Cavalli a Bruno Losito fino allo stesso Corradini, per citare solo gli italiani), e molti e diversi sono i “bilanciamenti” fra i vari livelli, che osserviamo nelle tante leggi, italiane e estere (Ho affrontato questo tema insieme con Fabio Fiore in Educazione civica e storia, in Lorenzo Luatti, Educare alla cittadinanza attiva. Luoghi, metodi, discipline, Carocci, Roma, 2009, pp. 198-209).

    Lo strano e l’insolito di questa legge è la semplificazione brutale dei livelli, quasi a decretare la fine di questa tradizionale polivalenza, a tutto vantaggio della sola funzione pratico-sociale-morale. Non può non sorprendere il fatto che nessun relatore faccia qualche accenno a come una data materia - scientifica o umanistica - potrebbe concorrere a questa formazione, né che indicazioni di questo genere siano riportate nelle Linee guida (il confronto con la profusione di suggerimenti del testo di Moro sarebbe illuminante, a questo proposito). E, all’interno di questo contesto, ha un significato preciso il fatto che la storia non venga mai citata nel suo tradizionale rapporto privilegiato con l’educazione civica (con una sola eccezione, che vedremo a momenti).

    L’educazione civica come “antidisciplina”

    Il fatto nuovo è che questa materia sembra per i deputati italiani una sorta di “antidisciplina”. La sequenza delle citazioni non può che impressionare. Esordisce Antonio Tasso, mettendo in opposizione lo studio delle tabelline e dei verbi (che si fa, secondo lui) con quello della Costituzione (che non si fa); seguono Gabriele Toccafondi, per il quale la scuola non è un insieme di discussioni e la “vita non si impara sui libri”. Gli fa eco un “basta al nozionismo” di Elisabetta Barbuto, mentre Paola Frassinetti sottolinea che “educazione non significa mero apprendimento”. Anna Ascanio accenna a una periodizzazione della storia della scuola, nella quale, a un primo periodo dedicato all’apprendimento, che – secondo lei – si è ormai concluso con successo, ne dovrebbe seguire un altro nel quale troverebbe spazio la nuova materia, e si interroga: “la scuola serve per trasmettere nozioni o qualcos’altro”?

    Sembra di respirare, ascoltando questi interventi, un’aria familiare e antica. È come se nell’aula parlamentare si allestisse un reenactement dei dibattiti ai tempi della fondazione del sistema scolastico italiano, quando i difensori dell’educazione lottavano a spada tratta contro i sostenitori dell’istruzione. Solo che, oggi, questi ultimi si sono dileguati, mentre l’aula parlamentare, apparentemente all’unisono, si ritrova nella perorazione finale di Elisabetta Barbuto, per la quale la nuova legge deve condurre a “una società vera, a misura d'uomo e dei suoi autentici valori, i valori insegnati a scuola, i valori che vogliamo lasciare ai nostri figli”.

     

    B. Educazione civica e storia

    Un esemplare cattivo uso della storia (e di Tucidide)

    Paola Frassinetti prova a teorizzare: “È un concetto – dice - quello dell'educazione, che pare essere diventato un po' desueto, forse perché depauperizzato dal suo valore sostanziale, invece tutto si fonda sull'educazione. Educazione è diverso da formazione, è diverso da competenze, si rifà alla vecchia paidéia”. Poi, sull’onda del richiamo al mondo classico, chiude il suo intervento augurandosi che venga scolpita nella mente dei ragazzi questa frase: “Sapere cosa fare, saperlo spiegare agli altri, amare la propria patria, essere incorruttibili”, che attribuisce a Tucidide, ma che lo storico greco non si sognò mai di scrivere. Infatti, si tratta di un assemblaggio di espressioni scollegate, tratte dalla Guerra del Peloponneso (II, 60) e adattate alla bell’e meglio. È un pastiche che circola in rete e che, per ironia della sorte, è ricavato da un discorso di Pericle che significa proprio il contrario di quello che vorrebbe la deputata.

    Ce lo spiega Luciano Canfora, informandoci che, in quel discorso, Pericle non esaltava le virtù del cittadino ateniese, ma le proprie. Era un momento brutto per lui. Lo volevano far fuori e lui si difese magnificando la propria intelligenza politica (capire in anticipo le cose e spiegarle agli altri) e una incorruttibilità, alla quale ormai in pochi credevano ad Atene, visto che era già andato a processo per appropriazione indebita.

    Pericle parla agli AteniesiFig. 4. Pericle parla agli Ateniesi

    Un piccolo infortunio per chi sta promuovendo l’educazione civica come antidoto alle bufale in rete. Ma un cattivo uso della storia, se guardiamo questo riferimento al mondo classico dal punto di vista sostanziale. Franco de Anna utilizza anche lui Tucidide, ma ne ricava una conclusione che fa a pezzi l’impianto ideologico di questa legge (Educazione alla cittadinanza e raccolta differenziata). Secondo lo storico greco - scrive riferendosi questa volta al primo discorso di Pericle agli Ateniesi (II, 41) - è la città che “nel suo insieme è una impresa educativa”. Era, naturalmente, la città dei tempi antichi. Se quelle dei giorni nostri non ci riescono più, sarebbe logico concludere che la scuola difficilmente potrà sostituirle, soprattutto se presumerà di realizzare questa impresa con un’ora la settimana e senza soldi.

    In realtà, ora continuiamo ad ascoltare Canfora, non fu la città, in quanto comunità, a farsi formatrice. Il vero educatore fu lui, Pericle, tiranno e maestro efficace, che indusse i cittadini ateniesi ad assumere quei comportamenti e quei valori, senza i quali la democrazia non avrebbe potuto reggersi. Ci riuscì attraverso una politica, culturale e sociale, intelligente e dispendiosissima, e aprendo ai concittadini un futuro dal fascino irresistibile. Dall’accostamento storico, sollecitato dall’on. Frassinetti, dovremmo trarre una conclusione che alla deputata non farebbe piacere: e che, cioè, attraverso questa legge, il mondo politico odierno scarica sulla scuola un’incombenza alla quale non riesce più ad attendere.

    Un buon antidoto contro l’uso improprio della storia ateniese, frequente nelle scuole quando si affrontano temi di educazione civica e, come stiamo vedendo, anche nel Parlamento italiano, potrebbe essere questo articolo dell’on. Gavino Manca (Pd).

    Moro, l’educazione civica e la storia

    Nelle Linee guida, come in molti interventi, il richiamo ad Aldo Moro sembra voler nobilitare le origini di questa legge. Il grande statista, infatti, non solo richiamò l’importanza dell’educazione civica all’Assemblea costituente, ma fu il primo a introdurre questa disciplina nell’ordinamento scolastico della Repubblica, quando divenne ministro della Pubblica Istruzione.

    Purtroppo per la buona volontà dei relatori, questa filiazione non è credibile. Il testo di Moro non condivide quasi nulla con quello di Bussetti. La diversità riguarda, da una parte, il concetto di educazione civica, e, dall’altra, il suo rapporto con la storia.

    Se si supera la barriera del linguaggio enfatico della pedagogia del tempo, infatti, e ci si inoltra nella lettura delle due paginette di Aldo Moro, si scopre una proposta che oggi definiremmo curricolare, perché spiega che cosa insegnare nella scuola elementare, cosa nel settore intermedio (allora diviso fra media e avviamento: ma, si sottolinea, l’educazione civica non poteva che essere uguale per tutti); cosa infine studiare nel tratto finale: “una storia comparativa del potere, nelle sue forme istituzionali e nel servizio”. Vi si parla di diverse discipline, come diritto e economia, ma – si precisa - è con la storia che l’educazione civica “ha dialogo più naturale, e perciò più diretto, essendo a questa concentrica”.

    Questo “dialogo” diventa più chiaro cinque anni dopo, nel 1963, quando vengono emanati i programmi della nuova scuola media. Ecco il testo di quella legge: “I profondi nessi esistenti fra storia ed educazione civica postulano che i due insegnamenti, affidati al medesimo docente, vengano condotti e sviluppati in un quadro di intima correlazione anche se è compito di tutti gli insegnanti far risaltare gli aspetti educativi, relativi al dettato costituzionale, in tutti i momenti utili del loro lavoro. I collegamenti con l’educazione civica sono suggeriti fin dalla prima media ma solo nella classe terza sarà possibile – sia per l’età e l’esperienza raggiunta dagli allievi, sia per la più intima connessione con il programma di storia – uno studio più organico di nozioni costituzionali e una maggiore precisazione di forme e caratteri delle nostre istituzioni civili” (“Gazzetta Ufficiale”, supplemento al n. 124, 11 maggio 1963, ora in G. Di Pietro, Da strumento ideologico a disciplina formativa. I programmi di storia nell’Italia contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 1991, pp. 406-7).

    In questa raccomandazione vediamo che la funzione educativa generale è demandata all’insieme delle discipline. Tutti i professori sono chiamati a rammentare ai propri allievi quel rapporto fra la “vita” e i principi della Costituzione, auspicato da Moro. Ma il compito essenziale viene affidato al docente di terza media. Per sostanziare questo mandato, gli vengono consegnate quelle due ore mensili, che nel testo di Moro andavano a costituire il monte ore di Educazione Civica. Nell’anno finale della nuova scuola dell’obbligo, dunque, il docente aveva 98 ore a disposizione (68 di storia e 30 di Ed.Civ.) per realizzare il suo piano di lavoro annuale, come allora si chiamava il progetto formativo. E tali restarono, fino a che la ministra Gelmini, col pretesto di introdurre la nuova materia “Cittadinanza e Costituzione”, non eliminò quelle trenta ore in più.

    Si comprende meglio questa focalizzazione sulla storia contemporanea, se pensiamo che proprio al principio degli anni ‘60, con la riforma del ministro Giacinto Bosco, cade l’embargo sulla parte finale del programma (dalla Prima Guerra mondiale in poi), stabilito nel dopoguerra (Per queste notizie mi servo del bel libro di Monica Galfré, Tutti a scuola!, Carocci 2017). Il disegno pedagogico è inequivocabile: se vogliamo educare i nuovi cittadini, questi devono conoscere il mondo nel quale vivono. Quelle riforme precisavano che la “concentricità” della quale parlava la legge di Aldo Moro si ritrovava in particolar modo nella storia dell’oggi, e indicava che non si poteva essere cittadini italiani senza conoscere la storia del fascismo, della seconda guerra mondiale e delle vicende della ricostruzione post-bellica (allora, eventi naturalmente vicinissimi), fino alla storia “dei giorni nostri”. Stabiliva, conseguentemente, che la Costituzione stessa doveva essere compresa nel contesto storico nella quale era stata elaborata e nel quale la nazione aveva cominciato a viverla.

    Il rapporto tra educazione civica e storia è il misuratore più efficace del baratro che separa il testo di Moro da quello di Bussetti. Lì, la relazione era quasi esclusiva e, addirittura, centrale nel nuovo ordinamento. “L’unione fra storia e educazione civica era considerata l’anima della nuova scuola media” (Galfré, p. 206). Qui, la storia è confusa nell’insieme delle discipline, e tutte insieme annegano nel mare delle educazioni. Da quel rapporto stretto con il sapere disciplinare emergeva un profilo “cognitivo” di cittadino, che diventa tale quando conosce il mondo nel quale vive. Al contrario, dalla legge attuale è perfino difficile estrarre un profilo del cittadino, tali e tanti, e così contraddittori, sono i contenuti e le finalità che si assegnano a una materia, che per giunta si qualifica per le sue istanze anti-cognitive.

    Quella direttiva era onesta con gli insegnanti: introduceva una nuova disciplina e ne aggiungeva le ore relative, per non parlare dell’incredibile investimento di denaro che accompagnò quella stagione di riforme. Questa sottrae ore e risorse, e, di conseguenza, ne scarica la realizzazione sulle spalle dei docenti e sugli artifici organizzativi delle scuole.

    L’educazione civica e la storia, fra identità e conoscenza.

    In effetti, il programma di storia della nuova scuola media stava provando a rompere la lunga tradizione che – fin dall’Ottocento – aveva stretto insieme educazione civica, identità nazionale, genealogia della nazione e storia. Era un programma che faceva intravvedere un nuovo statuto disciplinare, nel quale non ha spazio l’idea di passato come origine della nazione, strumento per la difesa della patria e dell’identità culturale (concetti significativamente assenti in quel testo). Attraverso la storia, vien detto proprio nell’esordio, gli allievi “impareranno a conoscere gli aspetti caratteristici della vita dei vari popoli”. Il passato non viene chiamato in causa come fondamento della collettività, ma è strumento per “meglio intendere i problemi dei tempi nei quali gli allievi vivono”. Questa frase, tratta dal decreto che, quasi in contemporanea, sostituiva i vecchi programmi dei tecnici, è accompagnata dalla raccomandazione agli insegnanti di “governare con attenta economia lo svolgimento del programma”, in modo da arrivare alla trattazione “dei giorni nostri”, e superare “l’inconveniente, largamente diffuso, di tralasciare tutti o quasi i decenni trascorsi del nostro secolo” (D.P.R. 1222/1961, in Di Pietro, p. 403). Una raccomandazione – dobbiamo ammetterlo - che conserva ancora oggi tutta la sua validità.

    “Identità” o “conoscenza”. Questa alternativa rappresenta icasticamente l’opposizione fra il modo di concepire le due discipline (e il loro rapporto) nella tradizione otto-novecentesca – da una parte - e nell’Italia della grande trasformazione da nazione agricola a potenza industriale, dall’altra. Nella prima accezione - identitaria - le due discipline sono lo strumento che direttamente costruisce la collettività nazionale; nella seconda – cognitiva - vanno a irrobustire la dotazione critica necessaria ai cittadini che vogliono consapevolmente partecipare alla vita democratica della nazione. Fu, dunque, una rivoluzione non di poco conto, quella che i legislatori del tempo proposero: e non a caso, dietro quella riforma e i suoi programmi agiva un formidabile think tank di studiosi di varia estrazione culturale e di ogni partito. Si trattò di “qualcosa di molto simile a un miracolo”, come scrisse Silvio Lanaro nella sua Storia dell’età repubblicana (Galfrè 187 e ss.).

    Nei settant’anni seguenti, queste due maniere di intendere la formazione storica e civile si sono variamente intrecciate e scontrate. Questa contrapposizione si è fatta, man mano, sempre più esplicita e accesa. Basti pensare alle riforme di questo inizio secolo, che hanno visto i governi di Centro-destra emanare programmi identitari (in particolare i programmi della scuola di base della ministra Moratti, del 2003); mentre i due programmi del Centro-sinistra (2008 e 2012) sono chiaramente cognitivi. Ma non si tratta di una contrapposizione solo politica, dal momento che si interseca con l’altra, fra tradizione e innovazione scolastica, inaugurata appunto dai programmi del 1963. Lo dimostra il caso del programma che la Commissione De Mauro elaborò nel 2001, dichiaratamente cognitivo, nel quale l’educazione civica era compresa nell’asse geo-storico-sociale, contro il quale si “pronunciò” (così si espresse Rosario Villari) il Manifesto dei trentatré storici, molti dei quali esponenti di spicco della sinistra, scritto in nome di una visione identitaria della storia insegnata (per questa vicenda il testo di riferimento è: Luigi Cajani, I recenti programmi di storia per la scuola italiana).

    Questa premessa è necessaria per valutare l’intervento dell’on. Vittorio Sgarbi (Gruppo misto), l’unico che abbia ricordato il rapporto privilegiato fra storia e educazione civica. “Non esiste educazione civica senza conoscenza della storia” aveva esordito, richiamando, fra applausi forse riparatori, il Manifesto Il passato è un bene comune, in difesa dello studio della storia, di Andrea Giardina, Liliana Segre e Andrea Camilleri. La storia a cui pensa Sgarbi, tuttavia, appare diversa da quella evocata dal testo di Moro. Lo si intuisce dal fatto che il deputato cita le parole del ministro Bussetti, che, in visita alla mostra su Leonardo, aveva dichiarato: “noi siamo quello che siamo stati”; e poi rinforza questo concetto, richiamandosi a un’Italia profonda, che esisterebbe “prima” della formazione dello stato italiano.

    E così, l’unica volta che la storia viene citata in Parlamento, è per legare la cittadinanza alla genealogia dell’Italia. Il pendolo oscilla verso l’identitarismo, e una storia che insegna l’appartenenza alla nazione è in buona sintonia con questa educazione civica, che ne vorrebbe plasmare a scuola i cittadini modello.

    L’Italia, l’Europa e le mani sulla cittadinanza

    Sarebbe profondamente sbagliato pensare a questi fatti come al frutto esclusivo delle controversie interne al nostro paese. Se allarghiamo lo sguardo all’Europa, ci accorgiamo che essi hanno a che vedere con processi di trasformazione che hanno scosso i sistemi formativi dell’intero continente. Tre di questi mi paiono fondamentali per il nostro discorso. Li rammento brevemente.

    Il primo è il passaggio da “educazione civica” a “educazione alla cittadinanza”. E’ perfettamente leggibile nel confronto fra il testo di Moro e questo. Quello era centrato sulla politica, vista come il piano privilegiato, lungo il quale l’individuo si rapporta alla collettività. Questo stesso piano, nel testo di Bussetti, si sfarina in tante dimensioni: sociali, economiche, culturali, mediatiche, alimentari, psicologiche, ambientali. Nel rapporto Eurydice sull’Educazione alla cittadinanza (2017), ciò viene spiegato col motivo che la relazione fra l’individuo e il mondo ha cominciato a mutare in profondità nella seconda parte del Novecento e ha fatto esplodere la complessità del concetto di cittadinanza. È questo stravolgimento – e non un mero desiderio di novità pedagogica - che impone ai governi di rivedere le modalità e i contenuti della formazione del cittadino.

    Il secondo processo trae origine dall’avvento del nuovo, grande soggetto politico degli ultimi decenni, l’Europa. Un soggetto politico sovranazionale che, fra accelerazioni e pause, si è velocemente costruito in pochi decenni, e che ha bisogno di creare “i suoi cittadini”. Il Consiglio d’Europa, infatti, ha cominciato a muoversi da subito nel campo della formazione, con convegni, raccomandazioni ai governi e con iniziative di ricerca e sensibilizzazione. La strada era, più o meno, quella già percorsa dagli stati otto-novecenteschi, ma con una novità decisiva. Il bagno di sangue della seconda guerra mondiale e lo sterminio nazista sono i “traumi terribili” (scrive Alois Ecker) che hanno obbligato a rimodulare il profilo tradizionale del cittadino, difensore della patria e della identità. Il nuovo profilo è disegnato nel trattato di Lisbona del 2009. Esso promuove un individuo aperto, empatico, capace di comunicare con gli altri e che, perciò, aggiunge alla padronanza della propria lingua quella delle lingue straniere; adopera in modo saggio i mezzi di comunicazione; ha spirito di iniziativa; sa come partecipare alla vita pubblica ed è ferrato in matematica e scienze. Questo testo è la risposta politica che l’Europa dà alla “complessità del concetto di cittadinanza”: e come tale andrebbe letto, in luogo di cercarvi una sequenza velleitaria di competenze. (Per queste notizie mi servo della ricerca internazionale coordinata da Alois Ecker, docente di didattica della storia all’Università di Graz: Civic and History Teachers’ Education in Europe, Consiglio d’Europa, Brusselles 2013, del quale si legge in rete questo primo rapporto).

    Il terzo processo viene dall’Europa orientale. Dopo la caduta del muro, quei paesi hanno immediatamente riformato i sistemi scolastici e, in particolare, gli insegnamenti di storia e di educazione civica. Ma: in luogo di ispirarsi agli assetti che, in contemporanea, l’Europa occidentale si stava dando, hanno preso a modello programmi e finalità dell’insegnamento storico-civile dalla tradizione ottocentesca. Quindi, nessun trauma di guerra, nell’Europa ex comunista. Anzi, vista dalla Russia come il glorioso momento della fondazione nazionale, e dagli ex-stati satelliti come il martirio che ne santifica l’indipendenza, quella carneficina diventa il terreno su cui edificare un profilo di cittadinanza identitario e difensivo. E, in molti casi, come accade in Ucraina, fortemente caratterizzato da aspetti di aggressività (per l’insegnamento della storia in Ucraina si possono leggere i miei due articoli apparsi su “Historia Magistra”, nn. 23 e 24, 2017). Questo “vento dell’est” soffia potentemente verso occidente, e (insieme con altri fenomeni endogeni, fra i quali la reazione identitaria all’immigrazione) contribuisce a riportare in vita un nazionalismo muscolare, che sta investendo la cultura storica diffusa e, con questa, i modelli di cittadinanza degli stati occidentali.

    L’educazione alla cittadinanza e l’attacco alla storia

    Così la storia, che faticosamente cercava di liberarsi dalle pastoie della cittadinanza tradizionale, e si proponeva sempre più come “strumento per orientarsi, analizzare società complesse e gli sviluppi politici odierni” (Ecker, p. 38), viene oggi investita da più fronti. Dalla parte della “nuova cittadinanza” proviene una valanga di “educazioni” che la sommerge, tende a ridurne il peso e spinge i governi a riconfigurare il lavoro formativo in direzione di “competenze” concretamente apprezzabili dalla società e dalle famiglie. Dal versante europeo, l’UE ne ripropone la funzione antica di costruzione di appartenenze, e però, al tempo stesso, ne conferma il ridimensionamento (non è affatto un caso che la storia non sia fra le discipline citate esplicitamente nel dettato lisbonense). Dal fronte orientale, il “vento dell’est” aggiunge a questi obiettivi identitari toni di esclusività nazionalistica.

    Questi fenomeni sono l’espressione di cambiamenti profondi che andrebbero esplicitati, studiati e discussi, se si vuol aggiornare la questione della formazione dei cittadini. Al momento, essi evidenziano tristemente la fatuità dei richiami al buon senso, al grembiulino, al bullismo e agli schiaffoni paterni, con i quali il Parlamento italiano vorrebbe far loro fronte. Se una disciplina, come l’educazione alla cittadinanza, si sfrangia in cento progetti, occorrerebbe una proposta in grado di costruire una sintassi e di trasformare in un discorso razionale l’accavallarsi delle “emergenze”. Altrimenti, diventa inutile perfino discuterne del senso e della possibile efficacia. E, conseguenza non trascurabile, si finirà per accollare alla scuola il compito titanico di immaginare in che modo questa sommatoria di raccomandazioni potrebbe invogliare centinaia di migliaia di ragazzi a farsi membri attivi di una comunità.

    In coda, ecco un’osservazione, solo apparentemente marginale, ma che storici e insegnanti di storia farebbero bene ad annotare: la nostra disciplina è scomparsa dall’orizzonte della formazione del cittadino, senza che qualche deputato abbia sentito il bisogno di motivare questa scelta, e che qualcuno si sia opposto. Eppure, si tratta di una novità così radicale, nei curricola scolastici repubblicani, che ci aspetteremmo di leggere resoconti di schermaglie altrettanto vivaci di quelle sul cyberbullismo. Il silenzio unanime che ha accompagnato il commiato dell’educazione civica dalla storia ci lascia col sospetto che il Parlamento italiano non si sia reso conto della natura del processo al quale ha posto mano.

    Ma anche l’assenza di reazioni da parte degli storici è motivo di riflessione. Da qualche anno, infatti, le Associazioni di categoria sembrano aver preso consapevolezza della questione didattica. Con il Manifesto hanno raccolto un incoraggiante numero di adesioni, fra studiosi e cittadini comuni. Perché, dunque, questo silenzio? Temo ciò che dipenda dal fatto che non si è percepito il legame fra la vicenda dell’educazione civica e quell’ “attacco alla storia” che si tenta di contrastare. Forse non è chiaro che in entrambi i casi è in gioco il medesimo “contratto formativo”, a suo tempo stilato fra Stati e “produttori di storia”. Credo che da questa inconsapevolezza derivino sia la mancanza di prese di posizione sulla questione dell’educazione civica, sia una certa confusione nell’individuare le alternative verso le quali muoversi. Ne leggiamo qualche traccia nel Manifesto e negli interventi che questo ha sollecitato.

    Cosa vogliamo, noi storici, quando chiediamo un recupero di considerazione? Rimettere in vigore quel contratto antico, per quanto ripulito dalle coloriture violente del passato? Per ottenere il riconoscimento, politico e sociale, dobbiamo tornare a parlare di identità nazionali o culturali (“smarrire noi stessi e la nostra nazione”, leggo nel Manifesto). O, ancora, dobbiamo di nuovo farci promotori di identità politiche, conseguenza inevitabile di quel ruolo di custode delle “memorie che non possono essere dimenticate”, che molti assegnano alla storia? (Intorno a questo concetto ruota l’intervista a Camilleri, pubblicata da “Repubblica” a corredo del Manifesto).

    Oppure, al contrario, la storia è lo strumento per scardinare gli “spazi fittizi” che imprigionano il cittadino, in modo che la sua coscienza si apra agli “spazi sconfinati” della conoscenza del mondo (sono ancora parole del Manifesto)? È quel sapere “critico, non uniforme, non omogeneo, che rifiuta il conformismo” – è questo il suo orgoglioso incipit – che molti di noi vorremmo caratteristica fondante della cittadinanza democratica, ma che non appare certo una priorità impellente di molti governi?

    Perché se, come credo, è la seconda alternativa quella da praticare, allora non è più tempo di manifesti e di convegni. Occorrono ricerca specializzata, argomenti, dati e nuova formazione universitaria dei docenti, per convincere decisori sempre più riottosi della utilità della conoscenza storica nel profilo moderno di un cittadino.

    La battaglia nella scuola

    Dum Romae consulitur, è il caso di ripetere, la Sagunto scolastica viene man mano espugnata. Le tre richieste che chiudono il Manifesto sintetizzano un disastro che si è già compiuto - la diminuzione delle ore di storia e il disinvestimento nella ricerca storica – del quale l’abolizione della terza prova nell’Esame di stato è un simbolo potente, come ha voluto sottolineare Andrea Giardina nella sua ultima lezione alla Normale di Pisa. Attendiamo ulteriori diminuzioni, dovute alla reintegrazione di geografia, che avverrà con grande probabilità a danno della storia (come già sanno i colleghi delle professionali), mentre, lo abbiamo ricordato all’inizio, le circolari applicative ci diranno di quanto la nuova educazione civica inciderà sui curricoli delle diverse materie, e, quindi, della storia.

    Nel frattempo, la perdita di fiducia delle istituzioni nelle potenzialità formative della storia si manifesta nella sua scomparsa dall’aggiornamento delle reti d’ambito (denunciata in una lettera alla ministra Fedeli da me, allora direttore di “Novecento.org” e da Giuseppe Bagni, segretario del Cidi nazionale); nel fatto che un qualsiasi progetto di formazione storica – che si voglia far approvare dal Miur, come dall’UE, come da un assessorato alla cultura o alla scuola locali - debba essere contrabbandato sotto le voci di una qualsivoglia educazione (alla Cittadinanza, al Patrimonio o allo Sviluppo sostenibile); nel fatto, già notato, che la storia non venga quasi mai citata nelle liste di competenze desiderabili, che il Consiglio di Europa non cessa di inviare ai vari governi.

    Apparentemente, la scuola si sta lasciando scorrere addosso questi processi senza fiatare e, forse, senza nemmeno conoscerli. Tuttavia, in molti istituti, se si vanno a guardare i progetti e le attività, e si leggono le programmazioni, si nota un fermento che lascia intuire spazi di disaccordo, o di disagio. Ma prima di formulare la domanda fatidica “che fare?”, concediamoci un brevissimo excursus transfrontaliero, nel Canton Ticino.

    Che cosa possiamo imparare dal Canton Ticino

    La vicenda della nuova legge sull’educazione civica in Canton Ticino, infatti, ha delle analogie inaspettate con il caso italiano, che, insieme con qualche importante differenza, ci aiuta a problematizzare la nostra situazione. Ecco i fatti.

    Il Canton Ticino aveva una legge sull’educazione civica fin dagli anni ’90, alquanto simile a quella italiana prima della riforma Gelmini. L’educazione civica, vi si diceva, è compito di tutti, ma in special modo degli storici, la cui materia era appunto denominata “storia e educazione civica” (un rapido resoconto della situazione ticinese si trova qui). A differenza dell’Italia, il governo cantonale, però, aveva promosso un libro di testo specifico, scritto da studiosi di didattica della storia, che – in otto capitoli – “trasforma in materia insegnabile” la questione dei diritti e dei doveri, proponendo un percorso rigoroso che va dalla famiglia, allo stato, al mondo (Conoscere la civica, diventare cittadino).

    Questo assetto non piacque a Alberto Siccardi: imprenditore valtellinese emigrato a Mendrisiotto, dove aveva impiantato con successo una fabbrica di protesi e da dove svolgeva anche un’intensa attività politica. “Prima gli svizzeri”, è uno dei suoi slogan preferiti. Sua è stata l’idea di modificare la legge degli anni ’90, separando l’educazione civica dalla storia, e facendone un insegnamento di due ore mensili da sottrarre in parte a storia. separando l’educazione civica dalla storia, e facendone un insegnamento di due ore mensili da sottrarre in parte a storia.

    La sua proposta incontra la ferma opposizione dell’Atis, l’associazione che riunisce gli insegnanti di storia ticinesi con l’appoggio dell’Associazione degli storici svizzeri, l’adesione dei comitati dei genitori, delle associazioni dei dirigenti scolastici e il sostegno dei partiti di sinistra.

    Gli insegnanti argomentano che questa riforma riduce un monte ore già risicato; obiettano che è quasi impossibile creare un sistema di valutazione per una materia di mezz’ora la settimana. Sostengono che l’educazione civica deve essere collegata alla storia, perché solo in questo modo “i diritti e i doveri” vengono contestualizzati, se ne fornisce una conoscenza critica e si evita che si riducano a nozioni astratte; protestano che, in fin dei conti, loro già fanno tutto quello che vorrebbe la nuova legge. Gli storici aggiungono la preoccupazione che “una modifica di tale portata sia il risultato non di un riesame generale dei piani di studio promosso dall’autorità competente con il concorso degli esperti dettato da ragioni scientifiche, didattiche e pedagogiche, ma di un’iniziativa popolare legislativa generica, politicamente profilata.” (qui la rassegna completa degli interventi).

    Di parere contrario, ovviamente, i partiti che appoggiano Siccardi - la Lega ticinese e il partito populista svizzero (Udc) - che ribattono accusando gli insegnanti di trascurare questa materia e minacciano commissioni esterne di controllo. Un argomento vincente, per Siccardi, è che, in fondo, si tratta di una riforma a costo zero. Non si leggono tanti altri ragionamenti nella rassegna degli interventi a sostegno della legge. Il loro pezzo forte è l’appello agli elettori, che si concretizza con una petizione popolare e con un referendum. Nella consultazione popolare non c’è partita. Il documento degli insegnanti di storia ottiene 983 voti; i sostenitori della legge vincono con un sonoro 63%, il 24 settembre 2017.

    La scuola accetta il verdetto e si mette in moto. Si rifanno i piani di studio, scorporando dal programma di storia le parti di educazione civica, si organizzano nuovi orari, ma nelle classi si fa molta attenzione a riannodare queste parti alla storia, com’è necessario per la loro comprensione (lo si apprende da un puntuale servizio radio sull’applicazione della legge). In pratica, la nuova legge sembra non aver fatto altro che complicare ciò che gli insegnanti già facevano. D’altra parte, non occorreva essere raffinati pedagogisti per prevedere che, con mezz’ora la settimana, staccata da tutto il resto, non si va molto lontano.

    Facili le analogie con l’Italia: dalla riforma a costo zero, alla medesima origine dei proponenti (la Lombardia settentrionale, dalla quale provengono sia Siccardi che Capitanio). A entrambi non importa molto il succo della proposta (in Italia tutto andava bene, mentre i promotori svizzeri non ne hanno proprio parlato), perché si confida in un sottotesto della legge (identità, appartenenza, sicurezza) a prova di bomba con l’elettorato attuale. In entrambi i casi, quindi, ma lo denunciano solo gli storici svizzeri, la proposta non scaturisce da ricerche storico-pedagogico-didattiche, quanto da una scelta politica. Comune, ancora, è il fatto che il proposito di cambiare il mondo - con 30 o 60 minuti a settimana, non cambia molto - si traduce in un rompicapo, che docenti e dirigenti devono sbrogliare.

    Non meno istruttive, per noi, sono le differenze. Non ci occuperemo qui di quelle politiche (è evidente che in Canton Ticino i partiti di sinistra sono stati capaci di leggere l’intento politico dei promotori della legge, e si sono comportarti di conseguenza). Qui ci interessano le considerazioni professionali: in Ticino c’è un soggetto che rappresenta gli insegnanti di storia; c’è un’associazione di storici attenta ai fatti della scuola e in grado di intervenire con precisione; c’è un gruppo strutturato di ricercatori di didattica della storia, che si occupa della formazione e del lavoro dei docenti. Di conseguenza - in Ticino, a differenza che in Italia - gli insegnanti sono stati resi consapevoli della posta in gioco, hanno potuto far sentire la loro voce nella battaglia, e, pur avendo perso, ora hanno dei supporti (corsi, proposte di lavoro, materiali) che non li lasciano soli di fronte al rebus didattico da sciogliere.

    Torniamo in Italia. Che fare?

    Conosco la situazione ticinese per essere stato coinvolto in alcuni seminari di formazione, nei quali i docenti hanno affrontato i temi di questa legge. Dal primo, nel 2017, sui rapporti fra Educazione alla cittadinanza e storia, al secondo sul populismo, mentre nel terzo, che si svolgerà nel 2020, si parlerà della questione giovanile. Le strade proposte per affrontare la questione sono fondamentalmente due (di questa vicenda parlerà ampiamente Daniele Bollini – che fa parte dello staff dei ricercatori didattici - in un suo articolo di prossima pubblicazione in Italia):

    – cercare nell’ambito del curricolo dei momenti storici che possono adeguatamente contestualizzare qualche aspetto dell’educazione civile (il primo seminario)
    – puntare sulla storia “molto” contemporanea (il secondo e il terzo seminario).

    Sono strade note anche in Italia.

    Per la prima su HL si trova già un abbozzo di curricolo, che dall’antichità fino ai giorni nostri, individua dei momenti “caldi”: si va dalla fondazione stessa della città, fino a Roma e al suo particolare concetto di cittadinanza; si centra l’attenzione sul Trattato di Westfalia, e cioè sulla nascita del concetto moderno di cittadinanza; se ne ricordano le variazioni ottocentesche (con l’aggregazione a questo concetto dei temi dell’identità nazionale) e, finalmente, si presentano i problemi relativi al concetto di cittadinanza attuale, legato alla rivoluzione del Welfare.

    Logo del Laboratorio del Tempo PresenteFig. 5. Logo del Laboratorio del Tempo Presente, rete di scuole per la revisione del curricolo di storia e lo studio del mondo attuale.

    Ma in rete c’è anche il bel lavoro di Carla Marcellini, che, partendo dalle urgenze dell’esame di stato, individua alcuni temi forti (come il concetto di Stato o la Costituzione) che, peraltro, sono già trattati da molti insegnanti e che, con altri argomenti, suggerisce l’idea di una “valigetta di strumenti storici” per la formazione del cittadino. Sempre su HL, infine, Marco Cecalupo ha proposto diversi lavori, che cercano di integrare storia, educazione civile e geografia e che, in forma più strutturata, presenta in La strada delle competenze (Loescher 2016).

    Per la seconda, l’analisi del presente, si è costituita una rete di scopo “Il Laboratorio del tempo presente”, che mira a raccogliere suggerimenti e strumenti didattici, utili per analizzare i temi caldi e i periodi più vicini a noi. Qui su HL si troveranno altri articoli su questo tema. Scorrendo gli indici di “Novecento.org”, si leggono decine e decine di laboratori e di proposte didattiche, raccolti in sei anni di lavoro della rivista. Entrambe le strade sono consentite dalla legislazione attuale: la legge sull’Educazione alla cittadinanza attualmente in vigore (quella appunto che la nuova legge abolisce); le Indicazioni ministeriali relative ai programmi della scuola di base; il nuovo assetto degli esami, previsti dalla recentissima direttiva n. 205; per non parlare del concorso su Cittadinanza e Costituzione, con prove articolate lungo il curricolo verticale.

    In conclusione, si continua a lavorare …

    Ci si muove ancora oggi, è appena il caso di farlo notare, nel solco tracciato da Aldo Moro: c’è una formatività generale, attribuita alla scuola nel suo complesso (e che andrebbe presa in carico particolarmente nel “curricolo informale”), mentre nella storia si vanno a cercare i momenti topici del rapporto fra potere e società. Le criticità, che abbiamo riscontrato nel corso di questi settant’anni, forse non dipendono soltanto dall’assenza di una materia indipendente con un voto separato (come sostengono i promotori della legge). Probabilmente, incidono di più fatti noti e denunciati, come la diminuzione delle ore di storia/geografia, o l’incapacità generale dei docenti italiani di programmare l’apprendimento quinquennale, in modo da riservare ai tempi attuali un tempo congruo (tema, questo, venuto alla ribalta in occasione della polemica sulla prova di storia). E, causa, infine, più generale, la difficoltà con la quale la comunità scolastica riesce a socializzare “buone pratiche”, come quelle che migliaia di docenti hanno realizzato dagli anni ’60 ad oggi, anche nel campo del rapporto fra educazione civica e storia. Problemi che restano, quale che sia la legge che verrà approvata.

    In questa, come in altre occasioni, chi decide di percorrere queste strade, lo fa da solo o con altri volontari come lui: è questa la grande differenza fra Italia e altri stati (come forse qualcuno avrà sospettato, quello del Ticino è solo un esempio).

    Ecco ciò che potremmo fare noi, come storici e insegnanti di storia. Spero che altri (dai geografi ai docenti di diritto e economia ecc.) facciano le loro proposte e – dal basso – si riesca a creare una sorta di progetto un po’ più credibile di quello che troviamo nella Legge Capitanio. Mentre scrivo, la legge è in votazione al Senato. Già leggo su internet le pressioni di questo o quel gruppo, per aggiungere qualcosa di suo gradimento. Temo che il – “fritto misto” – (termine usato dallo stesso Capitanio, sia pure per difendersi) ne verrà ulteriormente arricchito.

    Occorrerebbe, invece, che qualche senatore riuscisse a dare una scossa ai suoi colleghi: perché, quei profondi rivolgimenti che abbiamo appena ricordato sono così seri, da imporre una legge seria sull’Educazione alla Cittadinanza. Ma di questa discussione daremo conto in un altro contributo.

  • Il concetto di cittadinanza dal Fascismo a oggi.  Le edizioni dell'Enciclopedia Treccani come fonte storica*

    di Antonio Prampolini

    I diversi concetti di cittadinanza

    Le enciclopedie pubblicate dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana dal 1929 ai giorni nostri hanno dedicato alla cittadinanza voci autoriali particolarmente significative. Voci che affrontano l’argomento nei suoi molteplici aspetti e problematiche, e che rappresentano gli orientamenti prevalenti o più rappresentativi della cultura accademica di un determinato momento storico.

    Nel Portale della Treccani, dove sono migrate dalla carta al web le enciclopedie dell’Istituto, è possibile accedere alle voci cittadinanza dell’Enciclopedia Italiana, dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali e dell’Enciclopedia del Novecento, pubblicate durante un lungo arco temporale che va dal 1931 al 2004.

    1. La cittadinanza al tempo del fascismo: lo ius sanguinis

    L’Enciclopedia Italiana di scienze lettere e arti (promossa nel 1925 dal filosofo Giovanni Gentile e realizzata grazie al mecenatismo dell’industriale tessile bresciano Giovanni Treccani) pubblica nel 1931 (Vol. 10: Chib-Compe) la prima voce sull’argomento cittadinanza. La voce ha come autori due giuristi (Francesco Degni, studioso di diritto civile, ed Enrico Bèsta, storico del diritto italiano) e uno storico dell’antichità (Mario Attilio Lèvi).

    La voce è divisa in due parti: una relativa alla cittadinanza nella legislazione dell’Italia post-unitaria (dal codice civile del 1865 alla legge 108 del 31 gennaio 1926, dove il regime fascista prevedeva il caso di perdita della cittadinanza per indegnità), e l’altra, alla cittadinanza nel mondo antico, nel Medioevo e nell’età moderna.

    Dopo avere definito la cittadinanza come «l'appartenenza di una persona allo Stato» (una definizione che pone al centro lo Stato e non il cittadino con i suoi diritti), la voce illustra il principio dello ius sanguinis, alla base della legislazione italiana in materia, secondo il quale la cittadinanza viene trasmessa ai figli per derivazione paterna a prescindere dal luogo di nascita. Questo principio era già contenuto nel codice civile del 1865 (1° titolo, articoli 4-15) ed era stato confermato e disciplinato dalla legge 555 del 13 giugno 1912, che aveva introdotto una riforma complessiva e organica dell’istituto giuridico della cittadinanza.

    taliani emigrati in America: lo sbarco nel porto di New York all'inizio del '900Italiani emigrati in America: lo sbarco nel porto di New York all'inizio del '900

    Lo Stato italiano, all’indomani dell’unificazione, eredita dal Codice Albertino del 1837 (il codice civile del Regno di Sardegna) il principio della patrilinearità, svincolandolo però dal confessionalismo sabaudo, che legava la capacità giuridica dei singoli all’appartenenza alla religione cattolica. Inoltre, riafferma, con il Codice civile del 1865, la disuguaglianza di genere (già presente nel Codice napoleonico del 1804) che attribuiva alle donne sposate la cittadinanza del marito. Un’attribuzione in forza di legge che rientrava in una più ampia subalternità femminile, espressione di un modello antropologico che confinava la donna nell’ambito “naturale” della famiglia, escludendola dalla sfera pubblica.

    L’adozione nella legislazione italiana dello ius sanguinis era servita a procurare ai cittadini del nuovo stato unitario un senso di appartenenza “nazionale”, capace di superare le varie frammentazioni territoriali e di guadagnare il consenso e l’inclusione delle élites locali.1

    2. Cittadinanza ed emigrazione. Lo ius loci

    La voce enciclopedica ricorda come le mutate condizioni politiche e sociali dell'Italia all’inizio del Novecento, e, in particolare, l'imponente fenomeno dell'emigrazione transoceanica, avevano reso inadeguate le disposizioni relative alla cittadinanza previste dal Codice civile del 1865 e avevano imposto di affrontare la materia alla luce delle nuove problematiche con l’obiettivo principale di evitare la perdita della cittadinanza del paese d’origine da parte degli italiani che si trasferivano o nascevano in paesi dove la cittadinanza era disciplinata da altre norme fondate sul principio dello ius soli o ius loci.2

    L’emigrazione viene allora vista non più solo quale fenomeno sociale espressione di un profondo disagio economico, di una diffusa povertà, ma anche come uno strumento utile ad una politica nazionale espansionistica, soprattutto verso i paesi dell’America meridionale. E in questo quadro va collocata la legge 555 del 13 giugno 1912, nata in età giolittiana.

    3. La revoca della cittadinanza e le cittadinanze disuguali

    Il regime fascista eredita la legislazione precedente in materia di cittadinanza e, con la legge 108 del 31 gennaio 1926, introduce nel nostro ordinamento giuridico la perdita della cittadinanza per indegnità. Una disposizione di legge, non contemplata dalla precedente normativa, finalizzata a colpire gli oppositori del regime che si erano rifugiati all’estero e che, stando alla lettera della legge, «commettono o hanno concorso a commettere un fatto diretto a turbare l'ordine pubblico nel regno, o da cui possa derivare danno agli interessi italiani o diminuzione del buon nome o del prestigio dell'Italia, anche se il fatto non costituisca reato».3

    Alla sanzione della perdita della cittadinanza potevano seguire: la decadenza dal diritto a conseguire o a godere pensioni, trattamenti di fine rapporto, e il sequestro con la confisca dei beni nei casi più gravi.

    Nessun accenno nella voce enciclopedica alla questione dell’attribuzione della cittadinanza italiana ai nativi delle colonie. Non viene, ad esempio, citata la legge n. 1013 del 26 giugno 1927 che modificava le norme introdotte nel 1919, che consentivano ai nativi libici di richiedere e acquisire la cittadinanza italiana. Con la legge 1013, il regime fascista cancellava l’eguaglianza giuridica tra i cittadini italiani delle colonie della Tripolitania e della Cirenaica e i cittadini metropolitani, sostituendola con un’uguaglianza subalterna dei cittadini coloniali tra di loro.4

    La parte della voce enciclopedica relativa alla storia della cittadinanza, curata da Mario Attilio Lèvi, si concentra sulle polis dell’antica Grecia e sulla Roma repubblicana e imperiale. La Rivoluzione francese e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 vengono citate solo di sfuggita, in modo del tutto inadeguato rispetto al loro contributo fondamentale all’evoluzione del concetto di cittadinanza e all’esercizio dei diritti connessi. Contributo che, ovviamente, non poteva essere sottolineato nel clima culturale e politico dominante a quel tempo. È noto che il fascismo rifiutava la tradizione liberal-democratica e si opponeva all’affermazione dei diritti individuali dei cittadini.

    4. Cittadinanza e razzismo

    La Prima Appendice dell’Enciclopedia Italiana, pubblicata nel 1938, contiene un aggiornamento della voce cittadinanza alla luce delle modifiche/integrazioni introdotte dal regime fascista nella legislazione in materia.

    L’aggiornamento, che porta la firma di Francesco Degni elenca, da un lato, le norme in materia di revoca della cittadinanza italiana per indegnità derivante da “condotta politica”, con le relative sanzioni economiche, dall’altro, le leggi che, all’opposto, in un’ottica nazionalistica, sono state emanate dal regime fascista sia per favorire la concessione della cittadinanza italiana e il suo riacquisto, sia per limitare i casi in cui era prevista la sua perdita (salvo quello della “indegnità” per ragioni politiche). La cittadinanza viene perciò utilizzata dal regime fascista come strumento al servizio di una politica di espansionismo nazionalistico e di repressione e di esclusione nei confronti degli antifascisti.

    L’aggiornamento della voce cittadinanza essendo stato scritto prima dell’emanazione delle leggi razziali non contiene, ovviamente, alcun riferimento alle loro conseguenze sul diritto di cittadinanza. La revoca delle concessioni agli ebrei stranieri della cittadinanza italiana successive al 1° gennaio 1919 viene prevista nel novembre del 1938 dal decreto legge intitolato Provvedimenti per la difesa della razza italiana (articolo 23 del Regio Decreto Legge n. 1728 del 17 novembre 1938).5

    Francesco Degni commenterà in un suo trattato di diritto civile (pubblicato nel 1939, un anno dopo l’emanazione delle leggi razziali) la nuova formulazione dell’articolo 1 del Libro Primo, Delle persone e della famiglia, del Codice civile (che prevedeva, rimandando a leggi speciali, limitazioni alla capacità giuridica delle persone sulla base della loro appartenenza a determinate razze) con queste parole:

    «[...] il problema della razza si è imposto all’attenzione dello Stato fascista come uno dei caposaldi della sua organizzazione e dei suoi fini, per garantire e difendere la purità della stirpe, per assicurare il prestigio, l’indipendenza, la forza. […] La politica razziale, secondo le direttive del Gran Consiglio del Fascismo, non poteva più consentire che l’appartenenza ad una piuttosto che a un’altra razza non fosse elemento giuridico rilevante nella determinazione della sfera della capacità giuridica dei soggetti. L’uguaglianza di trattamento tra ariani e non ariani non poteva essere più consentita in un’organizzazione sociale nella quale è dominante il principio della difesa della razza pura».6

    5. La cittadinanza post-bellica e il Welfare State

    Dopo l’aggiornamento del 1938 sulla voce del 1931 dell’Enciclopedia italiana, occorre attendere fino al 1991 per trovare una nuova voce dedicata alla cittadinanza nelle enciclopedie della Treccani. L’Enciclopedia delle Scienze Sociali pubblica in quell’anno un saggio dedicato al tema che ha come autore il sociologo americano John Bendix. E non è un caso che la voce sia stata affidata ad un sociologo. Se fino alla Seconda guerra mondiale, la cittadinanza era stata studiata quasi esclusivamente in una prospettiva storico-filosofico-giuridica, nei decenni successivi sarà la sociologia ad occuparsene in modo sistematico.

    La principale opera di riferimento nello studio contemporaneo del concetto di cittadinanza è Citizenship and Social Class (Cittadinanza e Classe sociale) del sociologo inglese Thomas Humphrey Marshall (nato nel 1893 e morto nel 1981) pubblicata nel 1950, dove l’autore rielabora la nozione moderna di cittadinanza alla luce della storia politica e sociale dell'Inghilterra, dalla rivoluzione industriale del XVIII secolo alla nascita del Welfare State negli anni quaranta del Novecento.7

    Il contributo di Marshall si inserisce in un momento storico segnato dal trauma della Seconda guerra mondiale e dal progetto di protezione sociale del governo britannico noto come Piano Beveridge dal nome del suo ideatore, l’economista Lord William Henry Beveridge, che nel 1942 aveva redatto un rapporto sulla "sicurezza sociale e i servizi relativi".8

    Marshall, che definisce la cittadinanza come «lo status che viene conferito a coloro che sono membri a pieno diritto di una comunità», propone una suddivisione dei diritti dei cittadini in tre categorie: civili, politici e sociali. Per il sociologo inglese la storia rivela un lento processo in cui la cittadinanza fa propri progressivamente tali diritti: nel corso del secolo XVIII, quelli civili (i diritti necessari alla libertà individuale: i diritti di parola, di pensiero, di proprietà, di giustizia), nel corso del XIX secolo, quelli politici (il diritto dei cittadini a partecipare alla vita politica nelle sue varie forme e nei diversi ruoli: di eleggere i propri rappresentanti e di essere eletti o nominati a ricoprire incarichi pubblici) e infine nel XX secolo, quelli sociali (i diritti all’istruzione scolastica, all’assistenza sanitaria, alla previdenza pubblica, al lavoro) ovvero, con le parole dello stesso Marshall: «tutta la gamma di diritti che va da un minimo di benessere e di sicurezza economici fino al diritto a partecipare pienamente al retaggio sociale e a vivere la vita di persona civile, secondo i canoni vigenti nella società».

    6. Cittadinanza e disuguaglianza sociale

    Il riconoscimento di queste tre categorie di diritti è legato alla parallela evoluzione dello Stato moderno; ad ogni tipologia di diritti, infatti, corrispondono istituzioni/enti pubblici finalizzati al loro esercizio, tutela e salvaguardia. Per Marshall, solo l’eguale partecipazione dei cittadini a tali diritti (e in particolare a quelli sociali) è in grado di creare identità e appartenenza alla comunità. Come egli afferma: «la disuguaglianza del sistema delle classi sociali [nel mondo occidentale ad economia capitalistica] può essere accettabile solo nella misura in cui viene riconosciuta l'uguaglianza della cittadinanza [ovvero dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini]».

    La voce dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali scritta dal sociologo americano John Bendix riflette nell’analisi della cittadinanza moderna e dei suoi problemi la centralità del pensiero/dell’approccio marshalliano.

    Nella ricostruzione della storia della cittadinanza, la Rivoluzione francese e i filosofi dell’illuminismo, ignorati nella voce della Enciclopedia Italiana del 1931, ritrovano qui tutta la loro importanza e rilievo storico. È con la Rivoluzione francese che nasce la cittadinanza moderna ridefinita sulla base di concetti come quelli di libertà, diritti, eguaglianza, nazione e stato. Nessun riferimento, invece, alla legislazione italiana, che nella voce del 1931 costituiva il capitolo principale; la voce scritta da John Bendix non si occupa degli aspetti normativi, ma è focalizzata sul concetto moderno di cittadinanza e sulla sua dimensione sociologica.

    Gli obiettivi della cittadinanza globaleGli obiettivi della cittadinanza globale

    7. La cittadinanza democratico-sociale

    La VI Appendice dell’Enciclopedia Italiana, pubblicata nell’anno 2000, contiene una nuova voce sulla cittadinanza. Autore della voce è Danilo Zolo.

    Zolo è stato (è morto nel 2018) un giurista e filosofo italiano, con una vasta esperienza internazionale e un forte impegno umanitario. Allievo di Norberto Bobbio, ha insegnato per molti anni filosofia del diritto all’Università di Firenze e ha pubblicato numerose opere sulla democrazia, sui diritti umani, sulla guerra e sulla pace, sui problemi della globalizzazione. Nel 2001 ha fondato il Centro per la filosofia del diritto Internazionale e delle politiche globali Jura Gentium. Il Centro pubblica un’omonima rivista oltre ad una collana di monografie, ed è presente in Rete con un proprio sito web che permette di accedere ad una ricca documentazione sui numerosi temi affrontati nel corso degli anni dalla sua fondazione a oggi.9

    La voce enciclopedica si concentra sulla cittadinanza intesa nel suo significato teorico-politico (quale «complesso di diritti garantiti a chi è membro a pieno titolo di un gruppo sociale organizzato»), distinguendo tre concezioni interne alla tradizione occidentale: la concezione classica risalente alla cultura politica greco-romana; la concezione moderna, prima assolutistica e poi liberale, collegata alla nascita e allo sviluppo degli stati nazionali in Europa; e, infine, la concezione democratico-sociale, che si afferma parallelamente alla formazione e crescita, fra Ottocento e Novecento, dei partiti democratici e socialisti, del movimento sindacale, all’estensione del suffragio elettorale e infine alla realizzazione del Welfare State, prima nei paesi anglosassoni e poi nell’Europa continentale.

    Analizzando, in particolare, la concezione democratico-sociale della cittadinanza, che ha in Thomas Marshall il maggior teorico, Zolo prende in esame le critiche a tale concezione. Tra i critici dell’idea marshalliana di cittadinanza, e in particolare del suo “ottimismo evolutivo”, Zolo cita il sociologo e politologo inglese Anthony Giddens e il sociologo australiano Jack Barbalet.10

    Giddens aveva rimproverato a Marshall di presentare «l’affermazione dei diritti di cittadinanza come un processo graduale, favorito dallo sviluppo delle istituzioni di mercato e dalla protezione dello Stato e non invece come un esito del conflitto sociale e politico».

    Per Barbalet, l’impostazione marshalliana «impedisce di cogliere le tensioni interne ai diritti di cittadinanza, in particolare quella fra i diritti civili (come la libertà di stampa, di associazione, il diritto di proprietà) il cui esercizio produce potere a favore dei titolari, e i diritti sociali che sono dei semplici diritti di consumo, e che pertanto non attribuisco alcun potere ai loro fruitori». Oltre a ciò, i diritti sociali, per il loro costo molto elevato, che incide pesantemente sulla fiscalità pubblica, «presentano un carattere aleatorio nettamente superiore rispetto alle prestazioni procedurali poste a presidio dei diritti civili e dei diritti politici».

    Zolo, in conclusione, sottolinea come l’impostazione marshalliana e il suo ottimismo evolutivo socialdemocratico, oggi, non siano più adeguati a interpretare le dinamiche e le problematiche contemporanee della cittadinanza, alla luce della rivendicazione di nuovi diritti (dalla parità di genere alla libertà sessuale, dall’integrità biologica e psichica alla tutela dell’ambiente), dei processi di globalizzazione, delle crisi degli Stati sovrani (con la contemporanea esplosione di particolarismi etnici e territoriali) e, in particolare, dei recenti fenomeni migratori di massa dalle aree del pianeta più povere, senza prospettive di sviluppo e ad alto tasso di crescita demografica, a quelle più ricche e socialmente evolute.

    A parere di Zolo, oggi, le “democrazie del benessere” occidentali sono entrate in una fase di “regressione politica” per cui: «la cittadinanza torna ad essere un dato formale con una connessione sempre più incerta con i diritti dei cittadini, con la loro dignità e autonomia, con il loro sentimento di solidarietà e di appartenenza a una comunità politica. La cittadinanza tende a divenire una pura ascrizione anagrafica che sopravvive come strumento di discriminazione dei non cittadini».11

    8. Cittadinanza e identità

    Nel 2004, l’Enciclopedia del Novecento (III Supplemento) pubblica, a firma dello storico del diritto Pietro Costa, un’ampia voce sulla cittadinanza.

    Costa è autore di numerose pubblicazioni sull’argomento e, in particolare, di una Storia della cittadinanza in Europa (dal Medioevo all’età contemporanea).12

    Per Costa il termine cittadinanza, al di là degli impieghi puramente retorici, «serve a colmare una sorta di vuoto lessicale e concettuale» permettendo di tematizzare e di mettere a fuoco «il rapporto fra un individuo e l’ordine politico-giuridico nel quale egli si inserisce».

    Nel primo capitolo, dedicato alla nuova accezione del termine cittadinanza, Costa, dopo aver sottolineato che nel passato, l’espressione cittadinanza era stata utilizzata per indicare l’appartenenza di un soggetto all’uno o all’altro Stato nazionale (per cui i problemi teorici ad essa legati si riducevano alla perdita o all’acquisto della qualità di “cittadino” di un determinato Stato), riconosce che: «un impulso determinante a dilatare il senso del termine cittadinanza [focalizzando l’attenzione sui diritti] è venuto dal saggio Citizenship and social class di Thomas Marshall», e osserva che: «il successo recente della nozione di cittadinanza, che pure si ricongiunge idealmente alle pagine del sociologo inglese, trae alimento da un clima politico-culturale sensibilmente diverso, caratterizzato, per un verso, dal declino o almeno dalla crisi dello “Stato sociale” e, per un altro verso, dal collasso (non solo politico ma anche teorico) del marxismo».

    Questo nuovo contesto impone, per Costa, una “rielaborazione e ridefinizione” della nozione di cittadinanza, i cui nodi tematici sono tre: i diritti, i soggetti, l'appartenenza (l’identità).

    La rappresentazione e l’attribuzione dei diritti, il loro nesso con la cittadinanza, a parere di Costa, costituiscono una chiave di lettura indispensabile per intendere il rapporto fra l’individuo e la comunità politica. Così pure la caratterizzazione politico-giuridica dei soggetti. «Parlare di cittadinanza significa concentrare l'attenzione sul soggetto [...] È l'attribuzione di alcune qualità [osserva Costa] a una determinata classe di soggetti che rende possibile il riconoscimento di quei soggetti come membri di una certa comunità politica e, viceversa, è la drammatizzazione delle differenze, la costruzione di classi di soggetti essenzialmente diverse che sorregge i dispositivi di disconoscimento e di esclusione».

    Nell’appartenenza-partecipazione a una comunità politica (nell’identificazione con essa) i soggetti vedono definito il loro status, l’insieme delle prerogative e degli oneri che caratterizzano la loro condizione politico-sociale. L’appartenenza (l’identità), come i soggetti e i diritti, è perciò un’essenziale articolazione del concetto di cittadinanza. «Fare storia della cittadinanza [per Pietro Costa] significa guardare al costituirsi dell'ordine sociale dal basso verso l'alto, facendo leva non sul potere statuale, sugli apparati, sui sistemi normativi, sulle strutture sociali, ma sul soggetto e sulle strategie di riconoscimento della sua identità».13

     

    * L’articolo è parte di una relazione presentata dall'autore al corso di formazione per insegnanti. L’Europa nel mondo contemporaneo e i dilemmi del presente. Per una didattica dell’UE e della cittadinanza europea, seconda edizione a.a. 2019-20, Università degli Studi di Bari Aldo Moro, 15-17 novembre 2019.

     

    Note

    1. Per un approfondimento sulla legislazione italiana in materia di cittadinanza: Tommaso Aucello, La cittadinanza italiana e la sua evoluzione, in «Rivista di Diritto e Storia Costituzionale del Risorgimento», n. 1/2017; Vito Francesco Gironda, Ius sanguinis o Ius Soli? Riflessioni sulla storia politica della cittadinanza in Italia.

    2. Sul rapporto tra emigrazione e cittadinanza in Italia: Ferruccio Pastore, La comunità sbilanciata. Diritto alla cittadinanza e politiche migratorie nell’Italia post-unitaria; Guido Tintori 2006.

    3. Articolo unico della legge n. 108/1926.

    4. Sull’argomento si veda: Florence Renucci, La strumentalizzazione del concetto di cittadinanza in Libia negli anni Trenta, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2005, n°33-34, pp. 319-342.

    5. Sulle leggi razziali in Italia, in una prospettiva didattica.

    6. Cfr. Francesco Degni, Le persone fisiche e i diritti della personalità, Torino, 1939, p. 45.

    7. Per un approfondimento: Sandro Mezzadra, Diritti di cittadinanza e Welfare State. Citizenship and Social Class di T.H. Marshall cinquantanni dopo, Introduzione a Cittadinanza e classe sociale di T.H. Marshall, Laterza, Roma-Bari, 2002; Unico Rossi, La cittadinanza oggi. Elementi di discussione dopo Thomas H. Marshall, (2000); Pippo Russo, Cittadinanza.

    8. Sull’argomento: Ugo Ascoli, David Benassi, Enzo Mingione, Alle origini del welfare state, Franco Angeli, Milano, 2010; Lucio Villari, Quel piano Beveridge che pare scritto oggi, in «Repubblica», 28 gennaio 2013

    9. Informazioni bio-bibliografiche sull’autore.

    10. Informazioni bio-bibliografiche sui due sociologi: Giddens, Barbalet

    11. Danilo Zolo, Da cittadini a sudditi. La cittadinanza politica vanificata, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2007, p. 5.

    12. Bibliografia completa delle opere di Pietro Costa.

    13. Pietro Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, Vol. 1 (Dalla civiltà comunale al Settecento), Laterza, Roma-Bari, 1999, p. VIII.

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