didattica digitale

  • A lezione di Mediterraneo. Didattica della storia e cittadinanza digitale

    Fabio Fiore

     

     A lezione di Mediterraneo. Didattica della storia e cittadinanza digitale con gli EAS

     

    Una lezione di storia del Mediterraneo che propone un cambiamento dei ruoli in classe e rinnova l'approccio ai contenuti, puntando all'acquisizione di competenze di cittadinanza.

     

     

     

    Le domande

     

     Come possiamo noi docenti di storia gestire oggi una disciplina ormai ipertrofica – «la conoscenza storica nella nostra epoca è enorme, è in ogni luogo e spesso mi sono sentita disorientata», tenere il passo di un sapere in continua espansione e di una ricerca sempre più staccata dalla mediazione scolastica? Come mettere in prospettiva storica un’attualità incalzante e appiattita sul presente, dando «senso a questioni disciplinari importanti e attuali»? A quali condizioni il fare storia a scuola può competere con le narrazioni, le mediazioni, gli usi che di essa fanno i media, raggiungere una generazione per cui la storia è «un inutile elenco di date e eventi» e il cellulare il principale veicolo di informazione storica? L’insegnamento della storia può ancora assolvere a una “funzione civile” o deve rassegnarsi alla definitiva marginalità?

     
    Il libro e la proposta

     

     In Fare storia con gli EAS. A lezione di Mediterraneo nella scuola secondaria di II grado  (Morcelliana - Els, Brescia 2016, pp.192), Enrica Bricchetto – storica di formazione, Media Educator di lungo corso e insegnante di storia – risponde a tali domande con inusuale concretezza e determinazione quasi feroce. Il lettore vi troverà innanzitutto il racconto di una crisi professionale e dei molteplici tentativi di uscirne – «Ho scritto questo libro come se fossi io a leggermi, insegnante impegnata in una riflessione continua sui necessari cambiamenti della didattica e della storia. Oppure come se l’avesse scritto chi crede fino in fondo nel suo lavoro e azzarda senza sosta una risposta ai problemi che incontra … Ho sempre desiderato avere davanti agli occhi una mappa che indirizzasse il mio intervento 1». Vi troverà poi e soprattutto una proposta operativa articolata su due piani: da un lato, di un nuovo dispositivo professionale (“Episodi di Apprendimento Situati”, EAS, appunto), elaborato da Pier Cesare Rivoltella e dal suo Centro di ricerca dell’Università Cattolica di Milano (il CREMIT)2, qui applicato all’insegnamento della storia; dall’altro, di un tentativo – per me, lo dico subito, largamente riuscito – di innestare tale dispositivo sul tronco della didattica della storia, da noi essenzialmente legata al lavoro di Antonio Brusa e di Ivo Mattozzi. Sullo sfondo, l’idea forte che la funzione civile della storia debba oggi declinarsi in termini di educazione alla cittadinanza digitale.

     

     

    Eas: un nuovo dispositivo scolastico

     

     Scopo del libro è presentare «un EAS al microscopio», «completo di tutto», «chiavi in mano», realizzabile dall’insegnante «con pochi adattamenti», costruito a partire dall’articolo del medievista David Abulafia, Tremila anni di mare nostrum3.

     

    fig. 1 L'articolo uscito sulla "Domenica" de "Il Sole 24 ore" il 20 marzo 2016

     

    E, insieme, indicarne il valore paradigmatico e la riproducibilità per qualsivoglia tema altrettanto sensibile sotto il profilo storico, mediatico e dell’attualità politica. Nei primi due capitoli il lettore troverà «una descrizione minuziosa» della struttura dell’EAS, tesa a «giustificarne ogni passaggio» 4. Qui posso limitarmi a sottolineare alcune caratteristiche generali, di fondo.

     

     

    La lezione a posteriori

     

     Innanzitutto, nella lezione tradizionale, l’insegnamento coincide con la lezione stessa: l’insegnante eroga l’informazione e delega la sua appropriazione da parte dello studente al lavoro domestico, ai compiti a casa. Nell’EAS, al contrario, l’acquisizione delle informazioni viene anticipata e, sotto la regia dell’insegnante, affidata agli studenti, in classe e/o a casa; la fase dell’appropriazione si svolge rigorosamente in classe, insieme ai compagni e con il sostegno del docente; soltanto a questo punto, preceduta da un momento condiviso di riflessione (il c.d. “debriefing”), la lezione può chiudere il processo. Insomma, l’insegnante parla dopo, alla fine; prima fa e fa fare. Di qui, la particolare struttura dell’EAS in tre fasi distinte (preparatoria, operatoria, postoperatoria). Come si può vedere, si tratta di una messa in forma del principio della “lezione a posteriori” di Freinet 5.

     

     

    fig. 2 - Il format dell'EAS

     

     Laboratorium vs Auditorium

     

     In secondo luogo, se la scuola tradizionale è una sorta di “Auditorium”, in cui esperti di ogni settore dello scibile, senza soluzione di continuità,  si avvicendano ora dopo ora in una serie di “conferenze stampa”, l’EAS prova a trasformarla in un “Laboratorium” di attività diverse ma interconnesse, che coinvolgono non solo gli studenti ma gli stessi docenti. Ad ogni precisa azione dell’uno corrisponde un’azione altrettanto precisa dell’altro. Ad esempio, nella fase preparatoria di questo specifico EAS sul Mediterraneo, il docente dovrà: prevedere qualcosa che anticipi il lavoro in classe (qui il testo di Abulafia); istruire il lavoro futuro con un breve framework concettuale; sollecitare l’immaginazione con uno stimolo ad hoc (qui, un video-stimolo)6.

    Lo studente dovrà a sua volta: a casa, selezionare le informazioni principali del testo e schematizzarle in un’infografica; fissare le date principali e collocarle in una linea del tempo con un’apposita applicazione digitale; guardare e schedare un documentario collegato a quel testo7; in classe: prendere appunti sul framework, esprimere le prime impressioni, gustarsi il video. Solo a questo punto il docente darà la consegna della fase operatoria, anche questa da realizzare in classe8.

    Non meno dettagliato è l’elenco di attività previste per le fasi successive9,  nel quadro di una tempistica precisa (un EAS deve potersi svolgere nell’arco delle due ore). Anche qui vi è una forte discontinuità tra il fare lezione tradizionale o con gli EAS:  se nel primo caso la programmazione è spesso una routine di “copia e incolla” e viene lasciato grande spazio all’improvvisazione del docente più o meno esperto, nel secondo si esige al contrario una “capacità di governo” molto più analitica, precisa e rigorosa, in tutte le tre fasi del processo. Pertanto, il carico di lavoro viene completamente ridistribuito: in classe lavorano soprattutto gli studenti, il docente lavora soprattutto prima e dopo, in sede di progettazione e di “design”10.

     

    Fig. 3  - La classe al lavoro

     

     

    EAS e alfabeti digitali sono isomorfi

     

     In terzo luogo, anche se l’autrice non si stanca di ripetere che, in caso di «zero tecnologia a scuola», possono bastare «lavagna di ardesia e gessetti», non vi è dubbio che il digitale costituisca il punto di forza del dispositivo. Non solo perché le piattaforme disponibili online consentono uno sviluppo organico di quella volontà di condivisione – di materiali, esperienze, punti di vista – che di per sé lo caratterizza («un EAS come quello sul Mediterraneo non può fare a meno di una comunità classe che abbia relazione in presenza e a distanza»). Non solo perché la rete offre una miriade di applicazioni capaci di potenziare enormemente ogni singola attività di ciascuna fase dell’EAS (e il libro dedica pagine minutissime all’illustrazione di ogni sorta di “app” e ai loro possibili usi).

    Ma anche e soprattutto perché presenta caratteristiche isomorfe con quelle degli alfabeti digitali: è in grado di ospitare linguaggi diversi, sistemi diversi di rappresentazione del sapere (è multimediale); di moltiplicare i punti di accesso al sapere consentendo a ognuno lo stile cognitivo e percettivo che gli è congeniale (è multimodale); di passare da un linguaggio a un altro, da un medium a un altro e dunque di connettere insiemi di competenze diversi, di ricomporli, per così dire, in “un intero” (è transmediale).

    E’ precisamente tale plasticità a fare dell’EAS «un ponte effettivo tra quello che lo studente ha studiato e il suo mondo» che, come il nostro, è incessantemente mediato da dispositivi digitali. Su questo aspetto cruciale del libro tornerò tra poco.

     

    Fig. 4 - La schermata di consegna dell'EAS Mediterraneo in Google Classroom (p. 23)

     

     

    Una valutazione incorporata

     

     Va da sé, infine, che l’EAS richieda una valutazione capace di osservare l’allievo «mentre lavora, e in fasi e in momenti diversi», che sia «incorporata nello svolgimento delle attività», e la definizione di indicatori precisi e testati empiricamente; qualcosa di meno generico e monocorde delle griglie a cui noi docenti siamo soliti ricorrere per giustificare un voto.

     

     

    Didattica della storia e educazione alla cittadinanza

     

    «L’EAS Mediterraneo ha dietro di sé una riflessione non solo metodologica, ma anche di didattica della storia». Il suo debito verso la didattica della storia è duplice. Da un lato, il tipo di approccio al passato, il paradigma storiografico: «la storia meticcia» della Connected History come antidoto all’etnocentrismo; una scelta di fondo, che orienta la selezione dei contenuti e la costruzione del curriculum di storia. Dall’altro, un modello forte di «trasposizione16» del sapere esperto in sapere insegnato che muove dalla prospettiva del destinatario, privilegiando «le questioni socialmente vive» (Heimberg17) e «gli studi di caso» (Brusa18); passa per la “essenzializzazione” della disciplina nei suoi «nuclei fondanti», nei «nodi epistemologici»; e punta a concludersi con la diffusione della capacità «di lettura del mondo», di ragionare storicamente, di collegare passato e presente19.

    Detto in modo sbrigativo, per la didattica della storia il bisogno di fare storia a scuola è cognitivo più che identitario: serve a costruire competenze più che a suggerire appartenenze. Ed è precisamente in ciò che consiste la sua “funzione civile”, specie in un’epoca smemorata e “poststorica” come la nostra.

     

     

    Nativi digitali

     

     Ora, nel suo lavoro, Bricchetto incorpora senza riserve tutto questo ma lo spinge in una direzione che la generazione dei didatti della storia poteva tutt’al più presagire ma non certo prevedere, non nei termini odierni: la digitalizzazione integrale del nostro rapporto con la storia e con la memoria20

    In un passo toccante del libro, ci invita a osservare una classe standard dell'I.I.S. di Torino in cui lavora: adolescenti di provenienze geografiche e culturali diverse, che «a scuola portano con sé mondi» integralmente mediati da dispositivi digitali – «collettore di tutto», «protesi», «base di relazioni», «come se li indossassero, anzi: parte del loro corpo». Esattamente come i loro genitori! La sola differenza è che i figli «non hanno conosciuto altri mondi» .

     

     

    Il bisogno di storia nell'epoca digitale

     

      La tesi di fondo del libro è che in questi mondi non venga meno il bisogno di storia, ma si manifesti semmai in forme inedite, più implicite, elusive: il bisogno di un’ermeneutica della rete, ad esempio – «evitare agli studenti generiche ricerche in rete» da cui attingono un’informazione fatalmente parziale e frammentaria, ma fornire al contrario «luoghi precisi», «archivi simulati», criteri di rilevanza e di contestualizzazione22, strumenti per «guardare alla infosfera, all’ecosistema delle informazioni in cui siamo immersi23»; il bisogno di “recuperarla” ovunque si celi  – «dietro a ciascuna forma di narrazione c’è un’idea di passato e una proposta di interpretazione24» – e di comunicarla in formati diversi – «per interessare, per rendere umana la storia»; il bisogno di nuove forme di trasposizione – «la rete moltiplica i contenuti» ma affinché «si trasformino in conoscenza storica sono necessarie competenze sia di interpretazione e disciplinari,  sia delle caratteristiche delle fonti e del mezzo … un film, una fotografia, una lettera raccontano in modi diversi: è questa azione di interpretazione e di ricerca, durante la quale lo studente si pone domande e cerca risposte, a realizzare la trasposizione25»...

     

     

    Un modello di educazione alla cittadinanza digitale

     

     In buona sostanza, è il «bilinguismo»26, la caratteristica di combinare competenze disciplinari e media educative (nel linguaggio della Media Education, di Media and Information Literacy27), a fare dell’EAS uno strumento non solo «in grado di potenziare la didattica disciplinare28», ma anche di trasformarla in «cultura storica». Pertanto, non ci si lasci ingannare dall’eufemismo del titolo: A lezione di Mediterraneo, non è solo la proposta di un’unità didattica per quanto metodologicamente innovativa, ma di un vero modello di educazione alla cittadinanza digitale, in grado di coniugare il sapere esperto (disciplinare) con il sapere insegnato (didattica della storia) e, unitariamente, con la mediazione dei media (Media Education).

     

      fig. 5 - Che Mediterraneo sia ,canale YouTube di Eugenio Bennato (p.49)

      

    Basta farlo

     

     Un’ultima cosa: qua e là sembra affiorare l’esigenza di rassicurare il docente-collega-lettore: «Chi legge potrebbe anche pensare che costruire un EAS richieda molto tempo, o troppo tempo. Un po’ di tempo lo richiede, in effetti, come di solito preparare le lezioni. Tuttavia i docenti hanno a disposizione molti elementi già pronti – provenienti dalla  propria esperienza culturale – da mettere nel cantiere EAS e, contando sulla collaborazione dei colleghi, possono creare un archivio da riutilizzare. Nessuno deve spaventarsi: la confidenza e la pratica con il metodo rendono il docente di giorno in giorno più veloce ed efficace29».

    E’ il solo punto su cui dissento: il principale obiettivo di un EAS è, al contrario, «destabilizzare, mobilitare, rendere un po’ più incerte le sicurezze che il docente si è formato nel tempo e attraverso ciò creare le condizioni affinché possa tornare sulle sue pratiche dal punto di vista riflessivo e predisporsi al cambiamento30». Il che non toglie nulla a questo libro urticante e prezioso, anzi: dimostra in concreto che fare storia in modo diverso è sì necessario e doveroso, ma soprattutto possibile e praticabile, ad un passo. Basta farlo.

     

     

    Note

      

    p.6

     Il lungo lavoro collettivo di gestazione del dispositivo EAS è raccolto in tre volumi di Pier Cesare Rivoltella: Fare didattica con gli EAS. Episodi di Apprendimento Situati, Brescia, La Scuola, 2013; Didattica inclusiva con gli EAS, Brescia, La Scuola, 2015; Che cos'è un EAS? L'idea, il metodo, la didattica, Brescia, La Scuola, 2016.

     pp.11 e sgg.

     4  Il primo capitolo «esplicita per intero la progettazione dell’EAS, con le sue specificità e finalità educative»; il secondo presenta «le tre  fasi del metodo, con le precise azioni da compiere in classe (compresa una parte dedicata all’uso delle app nella prospettiva di un allargamento del ventaglio delle competenze da costruire)».

     5 Cfr. la postfazione di P.C. Rivoltella, La lezione a posteriori, al libro di Bricchetto, pp.129-134.

     6 Il brano di Eugenio Bennato Che Mediterraneo sia,  canale  YouTube di  Eugenio Bennato.

     7Il mare di mezzo , coprodotto da Aspen Institute e da Rai Storia che contiene una lunga intervista a Abulafia  (la "Domenica"  del 20 marzo ne ha dato notizia, a fianco dell'articolo)clicca qui.

     8 «Individuale, disegnare un “corema” del Mediterraneo; a coppie, risolvere un problema; in gruppo, provare a discutere in modalità brainstorming la seguente affermazione: “La storia del Mediterraneo è una storia di tutti”», p. 18.

     9 pp.18-18.

     10 «La figura del docente si configura sempre di più come quella di un intellettuale che ricerca e progetta le sue lezioni, senza perdere la forza con cui condivide la sua passione né il piacere di parlare ai suoi studenti: il docente come Designer, la didattica come progettazione», p. 76.

     11 Dal punto di vista neuro-scientifico, è la tesi di Pier Cesare Rivoltella che sottoscrivo (Neurodidattica. Insegnare al cervello che apprende, Raffaello Cortina, Milano 2012), «in fondo, siamo tutti dei BES».

    12 p.81

     13 pp. 58 e sgg. Sulle griglie di valutazione, pp. 151-152 e P.C. Rivoltella, Che cos’è un EAS?,  pp.103-106.

     14 «Nelle classi multiculturali di oggi, il primo soggetto di lezione non può che essere l’umanità», così scrive  S. Luzzatto in  Riconnettersi con la storia,  "Domenica" - “Il Sole-24-Ore” , 24 gennaio 2016. Luzzatto  recensisce insieme la traduzione italiana di S. Gruzinski, Abbiamo ancora bisogno di storia? e il volume di Bricchetto.

     15 Si veda il cap.3: Punti di vista e contenuti disciplinari, pp. 61-85.

     16 Sul fondamentale concetto di trasposizione didattica si veda pp.82 e sgg.

     17 La vera sfida «non consiste nell’evitare le questioni sensibili in uno slalom del didatticamente corretto; la vera sfida consiste nell’esplorarle», p. 97.

    18 «L’idea di studio di caso risponde a una criticità forte dell’insegnamento della storia e forse anche a una sua contraddizione. Lo studente deve essere informato, contare su contenuti storici, ma questo è sempre (è sempre stato?) più difficile. Gli studenti, anche quelli di liceo, spesso ricordano quantità di date e dati storici sino all’interrogazione, poi nella loro testa scadono. La via tradizionale si è mostrata perdente. Gli studenti, soprattutto italiani, hanno scarsa cultura storica … i casi di studio portano un approfondimento per cui lo studente ha a che fare con una materia che è in grado di capire e di maneggiare e non da ultimo di ricordare», p. 66.  

     19 Si veda il capitolo 4  Il passato e il presente, pp. 86-101.

     20 Sul rapporto tra media e memoria storica, pp. 94 e sgg.

     21 Arrivano a scuola con «un modus vivendi strutturato», «un immaginario ricco e composito», «relazioni consolidate nella vita e in rete», «abitudini e consumi», frequentano i social, guardano video in streaming, su YouTube; vivono in «ambienti familiari iperconnessi», con «genitori che usano i device nella vita e nel lavoro», come loro attivi nei social (Whatsapp, Facebook, Instagram, Snapchat), p. 69.

     22 Sui criteri per analizzare i siti di storia, 162 e sgg; sulle risorse reperibili in rete, pp.171 e sgg.

     23 pp.104 

     24 p.85.

     25 Ibidem.

     26 P.C. Rivoltella, Che cos'è un EAS?, cit.

     27 p.105.

     28 p.78.

     29 p.7.

     ** In questo sito Enrica Bricchetto aveva anticipato quello che è poi diventato il tema del libro clicca qui.

  • I bambini di Moshe. Un libro e un EAS (Episodio di Apprendimento Situato)*

     

    di Enrica Bricchetto

    I bambini di Moshe è un libro che serve a chi insegna per dare vita al discorso storico quotidiano. Raccontando storie, collocate in uno spazio–tempo ben preciso, con uomini e donne che hanno nomi e cognomi, compiono azioni, reagiscono o subiscono i colpi dell’ambiente in cui sono immersi, il docente riesce a dare più forza alla sua lezione. Compie meglio il processo di trasposizione didattica di quei nuclei fondanti, di quei concetti “base” della disciplina storica, senza i quali gli studenti non acquisiscono quadri interpretativi e non si orientano in quello che succede oggi tra le due sponde del Mediterraneo.

  • Il laboratorio di storia in modalità wiki

    Autori: Silvia Furlanetto, Laura Paviotti

     

    Silvia e Laura sono allieve del Tfa friulano/triestino – classe A050 -, curato da Andrea Zannini, uno dei pochi docenti di storia italiani che si occupa, non saltuariamente, di didattica della storia e che, con Walter Panciera, ha scritto un manuale di didattica della storia, edito da Mondadori nel 2009. Dal loro lavoro, HL ha ricavato tre contributi: questo, di impianto, nel quale si spiega in che modo si può usare la tecnologia wiki per insegnare storia. Seguiranno due esempi, uno sul muro di Berlino, l’altro sull’emigrazione italiana (HL).

     

    Indice

     

    • Che cos’è il wiki
    • Wikispace.com, un programma per insegnare
    • Vantaggi per gli studenti
    • Ruolo del docente
    • Competenze di laboratorio
    • Per chi vuole provare
    • Bibliografia

     

     

    Che cos’è il wiki
    Se è vero che l’obiettivo della logica laboratoriale applicata alla storia è quello di rendere gli allievi attivi co-costruttori di conoscenza, favorendo le dinamiche di gruppo per giungere a un obiettivo condiviso, la modalità wiki è una risorsa dalle grandi potenzialità.
    Tutti conosciamo Wikipedia: ma qual è la sua “filosofia”? I wiki nascono grazie a Ward Cunningham, programmatore statunitense, che, nel 1995, fu il primo a crearne uno. La parola “wiki wiki” significa in hawaiano “velocemente” e si riferisce a un servizio di autobus del quale è possibile usufruire all’aeroporto di Honolulu. Il termine wiki indica quindi un software collaborativo utilizzato per costituire rapidamente un sito web nel quale sia possibile scambiare, condividere e ottimizzare la conoscenza e le informazioni relative a un determinato argomento (Bedini, Balò 2008).

     

    Wikispace.com, un programma per insegnare
    Il software che vorremmo qui proporre, wikispaces.com, è specifico per una utilizzazione didattica. Infatti, se da un lato mantiene intatta la possibilità per gli iscritti di editare ogni pagina, dall’altro lascia all’amministratore del wiki (l’insegnante) la scelta delle modalità di protezione di alcune pagine (ad esempio permettendone la modifica solo ad opera del gruppo coinvolto in quel progetto) e impedisce visualizzazioni e contributi da utenti esterni non iscritti.
    La struttura di un wiki prevede due diverse interfacce: quella di lettura e quella di scrittura. L’interfaccia di lettura è ovviamente quella che compare di default, ovvero quella che configura il wiki come un normale sito Internet. Per editare la pagina occorre invece cliccare su edit o modifica, accedendo così all’interfaccia di scrittura, nella quale si trova anche la toolbar, ossia la barra degli strumenti che servono per redigere il testo (grassetto, corsivo, aggiungi immagine, ecc.) e formattarlo. Il wiki fornisce due funzionalità utili in prospettiva didattica: l’apertura di un project con suddivisione degli iscritti in gruppi e l’assessment, che rileva per ogni iscritto il grado di interazione (pubblicazione di pagine, contributi scritti, lettura). Il tutto, cosa del resto non trascurabile, permette un uso intuitivo e una facile gestione.

     

    Wiki e apprendimento cooperativo
    I wiki, come i blog, rappresentano la nuova frontiera dell’e-learning e crearne uno può essere una strategia efficace per preparare il gruppo classe ad una corretta interazione in vista di attività di cooperative learning. Con il tempo e con la pratica gli studenti acquistano fiducia nelle proprie capacità di lavorare insieme. Com’è stato ben messo in rilievo (Cohen 2010, 59 e ss.), la fase di preparazione è indispensabile perché il lavoro di gruppo non fallisca, scoraggiando successivi tentativi. Infatti, wikispaces permette sia l’utilizzo della modalità thread (sequenza di risposte ad un messaggio inziale) sia di quella document (creazione collaborativa di un documento). Soddisfa, quindi, l’esigenza di affrontare la risoluzione di problemi, ponendosi le giuste domande e rispondendo attraverso il vaglio critico di più punti di vista, prima di formulare una soluzione condivisa. In questo modo tutti contribuiscono all’obiettivo di gruppo ed interagiscono liberamente e senza costrizioni.

     

    Vantaggi per gli studenti
    L’interazione fra studenti in piccoli gruppi stimola lo sforzo individuale di attribuire significato alle informazioni acquisite durante il processo di ricerca; la comprensione, sempre individuale, dell’argomento oggetto di studio è arricchita dallo scambio delle interpretazione delle informazioni. Ascoltandosi, gli studenti possono apprendere l’uno dall’altro, non solo dall’insegnante, e generare una varietà di approcci alla risposta.
    La ricerca ha dimostrato nettamente la forza cognitiva e democratica del fare domande e discutere in gruppo. Le open-ended questions, domande che ammettono una pluralità di risposte, danno all’allievo la certezza che ogni sua risposta potrà avere dignità di ascolto e cittadinanza nella dinamica dell’apprendimento (Y. Sharan, S. Sharan 2007, 12-13). Infine, la pianificazione cooperativa delle attività di ricerca motiva gli studenti che si sentono gratificati nel vedere come le proprie idee diano un contributo agli altri.

     

    Ruolo del docente

    Il ruolo del docente in un wiki può essere molteplice, «ma sicuramente il più interessante e consono alla filosofia del mezzo è quello di guida, una sorta di wikimaster che coordina da lontano il lavoro degli studenti. Nonostante lo studente sia cosciente che sopra di lui c’è questa sorta di tutor, si sente comunque padrone di un proprio spazio, nel quale agisce nel limite delle direttive del suo wikimaster e nel rispetto del lavoro degli altri compagni» (Bedini, Balò 2008, 5).
    Si consideri però che se l’insegnante fa troppo da guida può interferire in modo eccessivo, se lo fa troppo poco può ottenere una confusione frustrante. D’altra parte, la maggiore formalità della lingua scritta, che è sempre esposta al giudizio dell’insegnante, aiuta a evitare situazioni di scontro verbale e abitua nel contempo all’uso della discussione in vista della risoluzione finale. Evita, inoltre, problemi di status e di leadership che potrebbero evidenziarsi all’interno dei gruppi fisici nel contesto classe, per sua essenza competitivo.
    La gestione dei gruppi virtuali è possibile quindi anche per un solo insegnante senza ulteriori collaboratori, anche nel caso di classi numerose. Infine, sebbene l’interazione necessiti un’accurata pianificazione dell’attività e un’adeguata strutturazione dell’ambiente d’apprendimento, la modalità di blended learning consente alla lunga un uso ottimale delle ore scolastiche.

     

    Competenze di laboratorio
    Quali competenze vengono sviluppate negli studenti? Innanzitutto la modalità wiki si basa sulla responsabilità individuale e il rispetto reciproco per una corretta interazione nel gruppo: tutti possono modificare il prodotto altrui, ogni pagina permette dei commenti finali (discussion attraverso post). Chi agisce deve dunque orientare il proprio intervento in maniera costruttiva, in vista della realizzazione di un obiettivo condiviso, e chi vede delle modifiche nel proprio scritto deve saperle accettare, mettendo da parte l’individualismo. Riteniamo che la collaborazione con gli altri tenda a valorizzare gli individui più che a sommergerli.
    Diversi studi dimostrano che i risultati migliori si raggiungono proprio quando responsabilità individuali e di gruppo si intersecano nel progetto di lavoro, e l’apprendimento concettuale aumenta più i compiti di gruppo sono interessanti ed attraenti (Cohen 2010, 83-84). È importante aiutare gli studenti ad imparare a lavorare con gli altri e l’apprendimento delle abilità sociali è proprio uno dei punti a nostro avviso qualificanti dell’uso di wiki al servizio dell’insegnamento cooperativo. Le abilità sociali sono di fondamentale importanza per lo sviluppo della mente, dell’apprendimento, del rispetto dell’altro e della capacità di stare e di lavorare insieme.
    Si esplicita in questo modo uno degli obiettivi forti della didattica laboratoriale: «educare secondo un’idea di cittadinanza in cui il discorso pubblico si costruisce e si rinnova attraverso una negoziazione di valori condivisibili, in un processo aperto e problematico» (Di Caro 2005, 77). Inoltre, saper fare ricerca in gruppo e cooperare per la pubblicazione di un risultato comune sono senz’altro competenze fondamentali anche nel campo lavorativo. Infine, non meno importante è l’idea di media education, l’educazione, cioè, a un uso critico e responsabile dei mezzi digitali, elemento nodale nella formazione delle nuove generazioni (su queste tematiche si veda l’interessante contributo Vayola 2012).

     

    Per chi vuole provare
    Nella pratica: l’iscrizione a wikispaces.com, nel caso di uso didattico dello strumento, è gratuita. Una volta iscritti, si apre il proprio wiki che diverrà l’ambiente di apprendimento. A partire dalla pagina iniziale (home), si possono predisporre le altre pagine in cui si caricherà facilmente il materiale (basta cliccare su edit). Gli studenti, iscritti dall’insegnante attraverso il loro indirizzo mail, possono navigare agevolmente a casa, dalla postazione internet, all’interno del wiki ed editare il materiale prodotto. Gli esempi che abbiamo realizzato, e che verranno pubblicati su HL riguardano il Muro di Berlino e l’Emigrazione italiana. 


     
    Bibliografia
    Bedini, Balò 2008: Serena Bedini, Roberto Balò, Gli usi didattici del wiki per l’apprendimento collaborativo e cooperativo nell’italiano L2/LS, “Bollettino Itals”, a. VI, 25, giugno 2008, ultima consultazione 4 giugno 2013
    Cohen 2010:  Elizabeth Cohen, Organizzare i gruppi cooperativi. Ruoli, funzioni, attività, Trento, Erickson, 2010
    Di Caro 2005: Gianna Di Caro, La storia in laboratorio, Roma, Carocci, 2005
    Vayola 2012: in Paolo Bernardi, Francesco Monducci, Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, Novara, De Agostini scuola, 2012, pp. 261-279

     

  • La storia non fa ridere. I meme nella didattica e nel dibattito pubblico

    di Raffaele Guazzone

    Il cavallo del principe nero
    ha fatto la cacca sul sentiero,
    e i soldati dell’armata
    tutti quanti l’han pestata.
    Dice un soldato – porca miseria
    la guerra è proprio una roba seria!
    Risponde un altro – miseria porca
    la guerra è proprio una roba sporca…

    Antico adagio popolare

     

    1Fig.1: Bernie Sanders alla cerimonia di insediamento del presidente Biden. FonteIo me l’immagino lo storico che fra 150 anni cercherà di ricostruire la cerimonia dell’insediamento di Biden, e si arrovellerà cercando di capire il ruolo di Bernie Sanders in quel contesto, e come mai ci siano in rete più informazioni sui suoi buffi guanti che sull’evento in sé: è bastata una foto d’agenzia ripresa da vari utenti di Twitter per scatenare la creatività e l’ironia del web, che hanno piazzato il senatore del Vermont nei più sperduti angoli del globo e della storia.  

      È lui il primo a scherzarci, ma intanto stampa felpe e magliette con la sua effigie per finanziare centinaia di pasti per anziani non autosufficienti attraverso il progetto Meels on the Wheels: al momento in cui sto scrivendo la cifra si aggira attorno ai due milioni di dollari.

     

     

    Se è chiar2Fig.2: Bernie Sanders in pausa pranzo con gli operai più celebri della storia dell’edilizia. Fonteo che non possiamo fare storia con i meme, ma che dovremmo fare al limite la storia dei meme, a partire dalla questione della loro conservazione in un mondo come quello della rete, dove l’obsolescenza è dietro l’angolo, è evidente però che queste immagini dicono tanto sul nostro tempo, come spiega ad esempio Antonio Brusa analizzando il caso dei meme sul povero Colombo, che negli USA riesce a farsi strumentalizzare dall’alt-right come dai liberal.

     

    Roba da museo

    Dobbiamo insomma lasciarci alle spalle l’idea che un meme sia solo un’immagine virale con una battuta di spirito, una specie di vignetta 2.0 della Settimana enigmistica, magari imparando dal mondo anglosassone, dove l’attenzione all’oggetto invece è completamente diversa: inglesi, americani ed australiani li analizzano come autentici prodotti culturali, e c’è anche chi, come il ricercatore Arran Rees, si pone il problema della loro conservazione e suggerisce di approntare un museo). Io già me li vedo gli studenti del futuro, annoiati dalla gita al museo di storia del XXI secolo, che si ringalluzziscono nella sala dei meme e si danno le gomitate come abbia fatto qualunque alunno che abbia visitato il lupanare di Pompei. Però la questione è tutt’altro che banale; chiunque abbia iniziato a pubblicare contenuti sul web prima dei social sa bene a quante piattaforme abbiamo dato l’addio causa rapida obsolescenza: GeoCities in un decennio è passato da terzo sito più visitato in rete alla chiusura, e con lui se ne sono andate pagine e pagine di materiali creati dagli utenti. Spero di sbagliarmi, ma l’ottimismo con cui archiviamo dati nei nostri cloud assomiglia un po’ troppo alla fiducia con cui molti audiofili hanno soppiantato la propria collezione di vinili con i compact-disc.

     

    Fare didattica coi meme

    3Fig.3: Alessandro Lolli, La guerra dei meme. Fonte A chiunque volesse approfondire la questione dal punto di vista storico e sociologico, non posso che consigliare la lettura del saggio di Alessandro Lolli, La guerra dei meme.

    Una cosa che posso dire per certo però, dal mio punto di vista di insegnante, è che con i meme possiamo fare didattica della storia. Parlo per esperienza personale: a cavallo delle vacanze di Natale, anche per vincere l’entropia della didattica a distanza, ho proposto un laboratorio sul tema ai miei ragazzi di terza superiore, i cui esiti potete leggere qui.

    Analizzando più a freddo la questione, anche alla luce degli esiti del lavoro in classe, ci sono un paio di punti su cui mi pare sensato riflettere. Tutti i miei ragazzi sanno cos’è un meme, ma solo il 10% di loro ne produce con qualche creatività. Il più delle volte per loro si tratta semplicemente di scrivere su un’immagine usando Instagram. Vero, esistono diverse applicazioni intuitive che permettono di svolgere in maniera rapida le operazioni principali: io consiglio il software libero imgflip, il popolarissimo Meme Generator oppure giphy per produrre gif animate. Resta il fatto che non tutti i ragazzi hanno competenze di fotoritocco necessarie per produrre artefatti più elaborati, e soprattutto non tutti sono in grado di produrre una battuta che sia sintetica, precisa, divertente e originale. D’altronde la ripetitività schematica del meme ha la sua forza nella variazione, più che nella creazione originale.

    4Fig.4: Mr. Burns che cerca nuovi amici fra gli studenti. FonteCome spiega bene il saggio di Lolli (pagg. 83-97), gli internet meme nascono in contesti molto chiusi, caratterizzati dall’anonimato e da comunità con un’identità forte, i cui utenti si scambiano 

    immagini su forum o bacheche evidentemente riservate ad adulti, sia per i contenuti che per i temi; solo in un secondo tempo, grazie anche al ruolo dei social network, il gioco viene allargato ad una platea molto più ampia, a tal punto che i meme si avviano a soppiantare le emoticons come strumento di reazione ad una conversazione online.

     In sintesi, il creatore-tipo di meme appartiene alla generazione dei Millennials, è cioè a cavallo tra i 30 e i 40 anni: senza dubbio non l’età media del corpo docente italiano, in ogni caso più vicina agli insegnanti che agli studenti. Portare i meme a scuola quindi non è “parlare giovanilese”, cercare di accalappiare l’attenzione dei ragazzi con qualcosa che appartiene al loro mondo per far filtrare i contenuti del programma. Semmai, è utilizzare uno strumento contemporaneo e condiviso da entrambi per riorganizzare le conoscenze in una dinamica di laboratorio. 

     

    Qualche esperienza in rete

    Per capire lo stato delle cose nel nostro paese basta fare un piccolo esperimento: se si inseriscono le parole meme e didattica in Google, troviamo decine e decine di pagine che raccolgono immagini dove si scherza sulla scuola. Anzi, il suggeritore del motore di ricerca ti sussurra all’orecchio: “stavi forse cercando meme didattica a distanza?”. Clicco, e scorro gli stessi meme che girano da quasi un anno su qualsiasi gruppo WhatsApp popolato da insegnanti, evidentemente creati da colleghi o da genitori frustrati dalla DaD, alcuni divertenti, altri meno.

    5Fig.5: Lo stress da DaD. Fonte Bisogna giocare per un po’ con la rotella del mouse per incrociare il lavoro di alcuni colleghi che, seguendo la stessa intuizione che ho avuto io, hanno creato situazioni laboratoriali che prevedessero un meme come artefatto finale.

    La collega Maria Pellegrino, che lavora all’ IS “A. Venturi” di Modena (un liceo artistico che include anche un percorso professionale di grafica), ha chiesto ai ragazzi di esprimere le proprie emozioni contrastanti derivate dalla didattica a distanza e dal confinamento a cui siamo stati sottoposti tra marzo e aprile dell’anno scorso usando proprio i meme come strumento per raccontarsi: il progetto si chiama Un meme per il Coronavirus e ha coinvolto classi del primo e secondo anno; i ragazzi hanno sfruttato noti loghi pubblicitari per creare slogan che giocando con le parole e con i marchi utilizzati invitassero a rimanere a casa, e più in generale ad adottare comportamenti socialmente corretti. In un colpo solo, lavoro sull’immagine, sulla lingua, sulle competenze di cittadinanza, sulle competenze digitali. E alcuni dei risultati sono decisamente efficaci, basta spulciare le cartelle di Google Drive che la docente ha condiviso in rete.

    Pure gli allievi dell’indirizzo linguistico del Liceo Poerio di Foggia si sono dati da fare: la collega Clotilde Moro, approfittando della distanza, ha svolto alcune lezioni di Fisica in inglese secondo la metodologia CLIL, ha illustrato la tecnica di base per concepire e realizzare un meme e poi ha dato carta bianca ai ragazzi. I risultati, immagini dove si ironizza su questioni scientifiche, sono stati raccolti dagli alunni su una bacheca padlet che si può visualizzare qui; ai ragazzi infine è stato chiesto di argomentare – sempre in lingua inglese – spiegando e contestualizzando i contenuti del loro lavoro.

    Anche se rimangono anonime, sono sicuro che ci sono centinaia di altre esperienze positive; purtroppo però ai docenti italiani manca un po’ la capacità di documentare e condividere il lavoro svolto, facendo rete. So per certo che molti colleghi hanno cercato di interpretare con creatività la contingenza – per lo meno quelli che hanno capito che didattica a distanza e didattica in presenza non sono intercambiabili, ma sono due cose diverse, e che se per il secondo approccio abbiamo strumenti rodati, per il primo c’è ancora tanto da inventare. Questo bisogno di sperimentare probabilmente è l’unico aspetto positivo dei tempi terribili che stiamo vivendo: dovremmo aggrapparci alla nostra fantasia come a un salvagente, trasformare la frustrazione in creatività.

     

    Cosa si dice oltre oceano

    C’è anche da dire che il lavoro meritorio dei colleghi citati, spesso è frutto di intuizione e di una buona dose di improvvisazione: gli insegnanti hanno pochi strumenti a disposizione per organizzare questo genere di attività, poco tempo per progettare il lavoro, una formazione inadeguata e una resistenza al cambiamento quasi genetica. Anche così si spiega quell’entropia che attira pure il migliore di noi verso la sedia della cattedra, verso la formula magica “aprite il libro, io leggo e voi sottolineate” con cui la maggior parte di quelli che sono stati i nostri insegnanti (specie i peggiori di loro) risolvevano ogni questione didattica.

    Torniamo però all’esperimento di partenza, chiediamo a Google cosa dice il mondo anglosassone a proposito dello stesso tema. Quello che colpisce subito digitando meme e education, è che – tolte un paio di raccolte di immagini - gli altri articoli sono suggerimenti su come usare i meme a scuola: E, fatto da sottolineare, tutti gli interventi non sono generati come nel nostro caso dalla contingenza della didattica a distanza, ma fanno parte di una riflessione organica e ben radicata.

    Sharon Serano, un’insegnante di matematica della Washington Townhall High School, ha introdotto da anni nella sua scuola i meme come strumento per promuovere una comunicazione fra studenti e docenti all’insegna della chiarezza e del senso dell’umorismo: nel suo blog riflette su questioni importanti, ad esempio sull’appropriatezza dell’uso di certe immagini piuttosto che altre, sulla scelta dello strumento per realizzare e condividere il lavoro. La collega americana intuisce che ci siano mille applicazioni didattiche per questo genere di attività, anche non strettamente connesse a una disciplina: creare regole per la classe, arricchire il vocabolario, sintetizzare passaggi cruciali di un’opera letteraria, o mettere in evidenza fatti storici significativi.

    6Fig.6: Come spoilerare il finale della saga di Harry Potter con un meme. Fonte Mentre noi siamo ancora qui a chiederci se la storia vada spiegata sui manuali e basta, o se vale la pena di tentare un approccio diverso ed inserire qualche strumento giocoso nella nostra cassetta degli attrezzi, Joshua D. Brown, che insegna all’Università della Florida, si chiede come mai nei corsi del dipartimento di Farmacia non venga chiesto agli studenti di lavorare coi meme: in fondo chi partecipa al suo corso (Pharmacoepidemiology and Drug Safety) deve acquisire la competenza fondamentale di saper comunicare in maniera immediata contenuti complessi a chi non ha particolari conoscenze scientifiche in materia di farmaci, come la media dei pazienti che si rivolgono ad un operatore sanitario. Pertanto propone di integrare il tradizionale saggio di fine corso con almeno due meme che sostengano le argomentazioni del candidato.

      

    Strumenti e risorse

    Se permanesse qualche ulteriore dubbio, basta andare a scorrere le pagine che la Library of Congress dedica ai meme: c’è un’intera sezione del più importante istituto dedicato alla conservazione del patrimonio culturale americano dedicata alla “web culture”, dove si spiega esplicitamente che raccogliere sistematicamente e conservare le creazioni collettive che si trovano in rete è doveroso, perché le forme e pratiche di produzione culturale contemporanee vanno documentate alla stessa stregua delle tradizioni dei nativi, o dell’impatto dei migranti europei nelle metropoli d’inizio ‘900. In una parola: i meme sono (saranno) storia.

    La cosa più simile ad un museo dei meme, come evocato all’inizio dell’articolo, è il sito Knowyourmeme, forse il più grande catalogo online di immagini virali. È uno strumento prezioso per varie ragioni: funzionando come un archivio, è possibile risalire alla prima versione di un meme, e ricostruire l’albero genealogico delle sue filiazioni. Per ciascuna immagine gli utenti segnalano la provenienza, la storia, le varianti. Nessun criterio filologico, si badi bene, ma sono comunque informazioni piuttosto utili anche per analizzare con gli studenti il contesto in cui nasce uno scatto virale e le modalità della sua propagazione. La questione non è banale, perché risalire alla fonte primaria di queste immagini è un’attività complicatissima.

    7Fig.7: Saccheggiatore ready made. FonteUn altro aspetto, di particolare interesse per chi voglia far cimentare i ragazzi con un’attività di laboratorio, è che su Knowyourmeme c’è una mole impressionante di materiali già pronti per essere riutilizzati: sfondi, templates, gif animate modificabili rapidamente. Cerchi Sanders imbacuccato sulla seggiola? C’è. Ti serve invece un saccheggiatore del Campidoglio? Eccolo qui, già pronto per essere appiccicato sul tuo sfondo preferito, in attesa di una battuta folgorante.

      

    Potrei fare decine di esempi di siti che offrono repertori di immagini e strumenti per costruire meme, oltre a quelli già citati finora, ma c’è da dire che nessuno di essi è stato realizzato con un taglio didattico. Chiudo quindi questa panoramica assegnando un trofeo speciale all’opera meritoria di tre volontari della Biblioteca Nazionale dei Paesi Bassi, che hanno realizzato un tool stupendo: Medieval Memes. Sul sito è presente una collezione considerevole di immagini, che rimanda all’archivio dei codici miniati della biblioteca, attraverso il quale si possono fare ricerche più raffinate. Se invece ci si accontenta della selezione proposta, cliccando su ciascuna illustrazione possiamo accedere direttamente allo strumento per personalizzarla, ma la pagina offre anche altri contenuti, che in maniera semplice inquadrano l’immagine dal punto di vista storico, analizzano i dettagli che la compongono, descrivono la fonte da cui è tratta. Completa il pacchetto una clip video, dove con linguaggio accessibile (per chi conosce l’inglese o il neerlandese, ovviamente) viene ricapitolato tutto ciò che c’è da sapere.

     8Fig.8: Crea il tuo meme. FonteIn pochi passi il meme è pronto per essere condiviso sui social, mentre l’utente ha fatto qualcosa di più che realizzare una barzelletta digitale. Ha fatto vivere un archivio, ha ricostruito un contesto, ha aggiunto il suo contributo ad un dibattito che ha a che fare con l’immaginario pubblico, anche se nella sua mente l’operazione non è molto diversa da quello che fanno i miei ragazzi scarabocchiando le foto del loro libro di storia: alla fine, anche i più svogliati almeno le didascalie le leggono.

    Se potessi immaginare un paese ideale dove le scuole lavorano in sinergia con le biblioteche e con chi progetta software, chiederei alla biblioteca di digitalizzare tutte le immagini che trova, all’ingegnere informatico di inventare un programma per ritoccarle rapidamente, ai miei alunni di scrivere i contenuti per spiegare agli utenti la storia nascosta dietro ogni miniatura. Non sarebbe bellissimo?

     9Fig.9: All you need. Fonte

    Biblio-sitografia

    - Memes should be archived in a museum, 30 marzo 2020 nella pagina delle notizie del sito dell’Università di Leeds, https://ahc.leeds.ac.uk/fine-art/news/article/1516/memes-should-be-archived-in-a-museum.

    - J. D. Brown, What Do You Meme, Professor? An Experiment Using “Memes” in Pharmacy Education, 29 ottobre 2020, in MDPI, https://www.mdpi.com/2226-4787/8/4/202/pdf.

    - A. Brusa, 12 ottobre 2020. Columbus memes, 12 ottobre 2020 su Historia Ludens, http://www.historialudens.it/diario-di-bordo/379-columbusmemes.html.

    - R. Guazzone, MEME-NTO MORI. Ovvero come sfottere papi e imperatori al tempo dei social (e leggere attentamente il manuale), 20 gennaio 2021 su Historia Ludens, http://www.historialudens.it/didattica-della-storia/399-memento-mori-ovvero-come-sfottere-papi-e-imperatori-al-tempo-dei-social-e-leggere-attentamente-il-manuale.html.

    - R. H. Levey, Sanders Camp Turns Meme into Meals (on Wheels), 26 gennaio 2021 su TheNonProfitTimes, https://www.thenonprofittimes.com/news/sanders-camp-turns-meme-into-meals-on-wheels/.

    - A. Lolli, La guerra dei meme – Fenomenologia di uno scherzo infinito, Effequ, Orbetello 2017.

    - C. Moro, La didattica con i meme: Fisica e Clil, presentazione del progetto didattico pubblicata sul sito del Liceo Poerio di Foggia il 30 giugno 2020, https://www.liceopoerio.it/la-didattica-con-i-meme-fisica-e-clil/.

    - M. Pellegrino, Un meme per il coronavirus, presentazione del progetto didattico pubblicata sul sito dell’IS Venturi di Modena, https://www.isarteventuri.edu.it/pvw/app/MOIA0001/pvw_sito.php?sede_codice=MOIA0001&page=2680190.

    - S. Serrano, 5 Ways to Use Memes With Students, 21 gennaio 2021 in International Society for Technology in Education, https://www.iste.org/explore/classroom/5-ways-use-memes-students.

    - A. Rees, Are memes worth preserving?, 17 gennaio 2020 sul sito dell’ACMI, https://www.acmi.net.au/stories-and-ideas/are-memes-worth-preserving/.

    - M. Wright, Smitten with Bernie!, articolo pubblicato il 20 gennaio 2021 sulle pagine online del Daily Mail, https://www.dailymail.co.uk/news/article-9168813/Bernies-Vermont-dadcore-fashion-steals-inauguration.html#i-177a07672d34d8c9.

     

    Applicazioni e collezioni di immagini

    https://imgflip.com/
    https://memegenerator.net/
    https://giphy.com/
    https://www.reddit.com/
    https://www.4chan.org/
    https://www.loc.gov/collections/web-cultures-web-archive/
    https://knowyourmeme.com/
    https://www.medievalmemes.org/
    https://manuscripts.kb.nl/

  • Lumière, Jobs e i compiti in classe. Sull’utilità e l’inutilità del tablet

    Autore: Raffaele Guazzone

    Indice:

    • Lumière e noi
    • Né apocalittici e nemmeno integrati
    • Aforismi sul cartaceo di contrabbando
    • Il digitale si traveste da cartaceo
    • Ciò che manca (e che tutti sappiamo)
    • Impariamo da Franti?


    Raffaele Guazzone ha una solida esperienza nel campo dei libri e dell’editoria. Ma è anche laureato in Lettere e, quando partono i Tfa, sente il richiamo della foresta. Lascia il suo ufficio e si iscrive. Frequenta con un piccolo gruppo di sopravvissuti alle prove di selezione il corso a Pavia, e lì l’ho incontrato. Un corso rapidissimo di didattica, giusto il tempo per conoscersi, poi, agli esami, discutiamo di tecnologie. Il suo tirocinio, infatti, si svolge in un corso Web, dove i libri sono proibiti e si usa solo il tablet. Gli ho chiesto di raccontarci della sua esperienza (A. Brusa)

     

    Lumière e noi

    Nel lontano 1895 papà Lumière – un serio uomo d'affari, con la passione per la pittura e la fotografia – osservando Auguste e Louis affaccendati a mettere a punto il loro proiettore, bollò gli sforzi con una frase passata alla storia: “il cinema è un'invenzione senza futuro”.

    Se il cinema non ha cambiato il mondo, ha certo cambiato il nostro modo di raccontare; in ogni caso, la citazione dice molto del sospetto della generazione dei padri, messi al confronto con il divario tecnologico che li separa da chi pare già pronto a soppiantarli. Ma cosa succede quando, per cause interne o esterne, i genitori sono costretti a mettersi in gioco con strumenti che non padroneggiano bene quanto i loro figli?

    Uso l'espressione giocare perché probabilmente – per me e per i miei coetanei – la prima vittoria contro la superiorità (e l'autorità) paterna prende i connotati di una partita di videogame. Adesso che sono passati più di 25 anni, il mio ruolo non è più quello del figlio che insegna al padre come si usa il computer, ma quello del docente che muove i primi passi in una scuola che scopre molto diversa dal modello che conosceva. Le ragioni del cambiamento hanno la stessa radice comune che separava me e mio papà mentre giocavamo a Tetris sul finire degli anni ottanta. Sul capo degli insegnanti – specie su quello dei superstiti della generazione dei miei genitori, o di quelli delle dimensioni intermedie – pesa una minaccia all'autorità e al ruolo professionale anche maggiore di quella che gravava sugli sfortunati genitori costretti a farsi umiliare davanti allo schermo del pc. Solo che questa volta non si tratta di una rivoluzione nata dal basso (si compra il computer, o la console di videogame, per assecondare desideri e capricci dei figli) ma dall'alto: ci si sottomette alla digitalizzazione dell'istruzione per assecondare le direttive ministeriali.

     

    Né apocalittici e nemmeno integrati

    Nonostante l'antifona, non voglio farne una questione generazionale, per quanto sia assolutamente evidente, anche da un punto di vista ristretto come il mio, che le maggiori resistenze all'introduzione delle nuove tecnologie – a volte ai limiti del luddismo –, vengono da insegnanti che dietro un'affezione a un modello consolidato di didattica nascondono una difficoltà nei confronti dell'informatica che si spiega anche con ragioni anagrafiche. Soprattutto, non voglio generalizzare descrivendo una scuola popolata di insegnanti che rimpiangono pennino e calamaio, incapaci di adoperare un mouse, contrapposti a pochi ipertecnologici docenti che fanno miracoli con un click, suscitando l'entusiasmo di schiere di studenti. Nella scuola, come sempre, ci sono pratiche inadeguate che vanno soppiantate da buone prassi, ci sono insegnanti che pongono resistenze e altri che cercano di interpretare il cambiamento, anche quando questo viene imposto dall'esterno.1

    Superando la consueta divisione tra apocalittici e integrati, restano però dei tratti comuni a tutti gli attori di questa rivoluzione che – come tutte quelle del nostro paese, ammesso ce ne siano mai state – viene calata in modo artificiale più che rispecchiare in modo organico e graduale gli effettivi mutamenti della società, che pure ci sono, ma vanno ricondotti alla loro reale entità.2

     

    Aforismi sul cartaceo di contrabbando

    Scendendo nel dettaglio della mia esperienza di tirocinio, provo a sintetizzare una serie di paradossi  nei quali mi sono imbattuto parlando con docenti, dirigenti e studenti. Pareri limitati, riduttivi, personali, al limite del luogo comune, che non vogliono in nessun modo essere una fotografia della scuola ai tempi del digitale, ma che spero facciano sorgere qualche domanda ai miei colleghi. E non solo a loro.

    La tecnologia è scomoda. Gli insegnanti devono ancora affinare il loro rapporto con LIM e libri digitali, la cui consultazione effettivamente non è così agevole. Si riducono a circolare con fasci di fotocopie sotto braccio, da sottoporre agli alunni in alternativa al libro adottato. Gli alunni poi lamentano quanto sia faticoso studiare sui tablet, anche se nelle loro parole mi sembra di scorgere più la diffidenza verso la lettura in generale, e l'opinione filtrata delle famiglie. Dubito che il tempo trascorso a fissare lo schermo di un pc, magari chattando o guardando video, susciti le stesse proteste per l'affaticamento agli occhi o la stessa comprensione da parte dei genitori.

    La tecnologia costa. Le LIM costano, costano i tablet, che nel caso dell'Istituto dove svolgo il tirocinio sono stati acquistati dalla scuola e ceduti in comodato d'uso agli studenti. Le scuole investono considerevoli somme nella tecnologia, ma non hanno fondi per pagare i supplenti o per delle semplici fotocopie. Che dire poi degli studenti, che per incuria o distrazione, hanno rotto il loro tablet?

    La tecnologia non è al passo. I tablet in adozione sono modelli superati, e la copertura wi-fi dell'istituto non è in grado di supportare la connessione alla rete di tutti gli studenti (dei loro tablet, ma anche degli smartphone personali), diventando pressoché inutile. Se decido di fare una lezione prevedendo la necessità – mia e degli alunni – di ricorrere a internet, sono costretto a comunicarlo preventivamente ai tecnici informatici, che fanno il possibile per garantire la copertura. (Questo almeno è ciò che mi ha riferito un docente, che personalmente – pur essendo titolare di una cattedra in una classe web – non ha mai avuto bisogno di internet per spiegare in classe).

    La tecnologia è usata male. I tablet, quando non vengono usati per giocare (preoccupazione più degli insegnanti che degli studenti) sono degli scomodi succedanei per i libri di testo, la LIM è per lo più usata come un proiettore per slides di Powerpoint, o come una televisione, per mostrare video e intrattenere la classe quando si fa incontenibile, riprendendo le stesse pratiche della cattiva maestra di cui sopra.

     

    Il digitale si traveste da cartaceo

    Siamo cioè di fronte a un mero cambio di supporti, dalla carta al digitale, basato su presupposti economici (il digitale costa meno alle famiglie, pesa meno negli zaini degli studenti) e incapace di sfruttare quello che è il vero potenziale messo a disposizione degli insegnanti.

    L'interattività dell'e-book è identica a quella del volume tradizionale, a parte il caso di qualche editore particolarmente avveduto. In genere i libri di testo sono semplici pdf che simulano in toto la fruizione della versione cartacea, compresa l'animazione che riproduce lo sfogliare delle pagine. Gli appunti non si prendono più a margini, ma aprendo una nota; non si evidenzia più con il pennarello ma con un movimento del dito sullo schermo; gesto e procedimento però restano gli stessi, resi solo più macchinosi da una tecnologia non così immediata come si vorrebbe far credere.

    La possibilità di produrre contenuti diversi, che non siano il semplice testo scritto, e di condividerli in tempo reale, agevolando così il lavoro di gruppo, non è quasi mai sfruttata ai fini didattici, così come non è sfruttata – anche per gli inconvenienti tecnici di cui sopra – la possibilità di accedere a molte più risorse rispetto a quelle contenute nel libro di testo, che dovrebbe configurarsi sempre più come ipertesto, multimediale e aperto ai contributi dell'insegnante e dell'alunno, agevolando percorsi di fruizione individuali e personalizzati, dove il piacere della scoperta utilizza la guida del docente per affrancarsi dalla direttività del manuale o di un programma rigido, con l'obiettivo – utopico, me ne rendo conto – di superarla.

     

    Ciò che manca (e che tutti sappiamo)

    A mio parere, non è semplicemente affidandosi a un nuovo supporto che si cambia la prospettiva dell'insegnamento, ma è nell'apprendere a usarlo come strumento che da un valore aggiunto, che permette di confrontarsi più rapidamente, che forniste stimoli diversi rispetto all'itinerario consueto. Qui, secondo me, che sta la vera natura del cambiamento digitale. È una rivoluzione pari a quella che ci ha fatto passare dal trasporto animale ai veicoli a combustione interna: cambiano la velocità, gli orizzonti del viaggio, ma serve una perizia sempre maggiore nel condurre il nuovo mezzo.

    Ci sarebbero ancora molte cose da dire. Ci sarebbe da discutere, ad esempio, il ruolo dell'editoria – non solo di quella scolastica – nel passaggio da libro di carta a e-book; oppure quali siano le nuove competenze necessarie all'insegnante, e quanta parte vi abbia la dimestichezza con le pratiche dei nuovi media o del web 2.0; oppure come ci si debba relazionare con una tecnologia che – per quanto diffusa in modo capillare tra gli alunni – non è di per sé auto-evidente. Che non produce autonomamente nuovi contenuti, ma va stimolata grazie a un indirizzo che solo l'insegnante può dare.

    Sono questioni che poste ad ogni professionista dell'insegnamento, senza demandare la soluzione del problema a un fisiologico assestamento del sistema scuola. Anche perché gli studenti, ben più reattivi di noi, dimostrano di saper interpretare lo stimolo con risultati proficui. Dal loro punto di vista, almeno.

     

    Impariamo da Franti?

    La condivisione di conoscenze in tempo reale è una pratica che tutti i ragazzi delle nostre classi già sperimentano nella loro quotidianità, sia che si tratti di postare e commentare foto o video su un social network (quanti docenti, dal canto loro, hanno competenze di montaggio audio-video, o di fotoritocco?), che di copiare durante un compito in classe. Devo dire grazie ai miei allievi, che mi hanno messo a parte dei segreti della copiatura ai tempi del web 2.0, conoscenza che mi sono dovuto formalmente impegnare a non usare contro di loro. La gamma degli espedienti è ampia. Si va dalla versione digitale del caro vecchio bigliettino (basta scattare uno screenshot della pagina del libro sul tablet, e inviarlo tramite bluetooth al cellulare) alla vera e propria creazione collettiva del compito in classe: basta uno smartphone connesso a internet, nascosto come da tradizione nell'astuccio, sotto il banco o nello zaino, e l'applicazione di messaggistica istantanea WhatsApp, un programma molto popolare che permette, fra l'altro, di costruire gruppi per conversazioni a più partecipanti. Il primo che arriva alla soluzione del problema, la manda a tutti i compagni, che dibattono brevemente (alla sintesi tipica dell'sms si somma la rapidità indispensabile per non farsi intercettare dall'insegnante) per perfezionare la risposta.

    Al di là dell'aspetto deontologico (anche nella scuola di dopodomani sarà considerato poco etico copiare) siamo di fronte alla dimostrazione pratica della possibilità de ss1074 lla tecnologia di creare un'intelligenza collettiva il cui prodotto – i compiti dei singoli studenti che integrano alle proprie le risposte della comunità – è superiore alla semplice somma delle parti. Anche se applicata a fin di male, siamo di fronte a una dinamica di gruppo dal potenziale enorme, una competenza preziosissima da affinare in vista dell'ingresso nel mondo del lavoro (in quante aziende all'avanguardia la creatività e il management sono gestiti in questo modo?) a cui gli studenti sono arrivati molto prima dei loro insegnanti. Certamente i ragazzi si comportano in modo selvaggio in questo nuovo territorio. Ma perché non studiamo noi la maniera di mettere a frutto quel che già fanno, in forme tanto competenti quanto istintive e incontrollate, volte solo al raggiungimento di un beneficio immediato?

    Ci sono tutti i presupposti per adottare una prospettiva di formazione che sfrutti questo “dialogo delle intelligenze”. Proviamo, perciò, a capire l'uso che i ragazzi fanno della tecnologia; impariamo da loro, per poi riappropriarci del ruolo che ci compete, insegnando a sfruttare le possibilità del mezzo per fini meno disdicevoli e autoreferenziali.

    E’ ovvio che la tecnologia non sia né buona né cattiva. È utile o inutile, a seconda del contesto, di quel che le chiediamo e del fine per cui ce ne serviamo. Non risolve i problemi, li semplifica: per riuscirvi serve un po’ di quella competenza che separa studenti e insegnanti. Sento, quindi, come necessaria l’umiltà di dialogare con i ragazzi. Mi sembra indispensabile unire la loro creatività con la nostra professionalità. Serve la voglia di fare esperimenti: forse per questo piace tanto il mito di Steve Jobs. So che se ci limitiamo a imporre di spegnere i cellulari, certi che a scuola ci siano strumenti (oltre che contenuti) legittimi, e altri meno, rischiamo di passare alla storia come papà Lumière, che si vide scivolare il futuro sotto gli occhi.

    (In questo momento sto proprio nella fase sperimentale: ma che cosa ne verrà fuori ve lo racconterò dopo gli esami).

     

    Le ultime due immagini sono ricavate da Ai no gakko Cuore monogatari, il manga tratto dall’opera di Edmondo de Amicis. In questo sito lo si trova diviso in sequenze, ideali per il suo uso didattico
    http://www.youtube.com/playlist%3Flist%3DPL6DC150892063B224

     

    1. Sfogliando il programma del Salone del Libro di Torino, mi imbatto – troppo tardi per organizzare la trasferta! – in un laboratorio dedicato a piattaforme online per i DSA, o in una conferenza dove studenti d'istituto tecnico, docenti e ricercatori raccontano come è possibile riscoprire i Promessi sposi grazie ai social network: http://www.salonelibro.it/programma/domenica-19/details/2884-Storie-di-bravi-filatori-e-monache-e-di-studenti-alle-prese-con-i-social-network-narrativi.html
    2. Largamente sopravvalutata (dal MIUR in primis) l'idea che i nativi digitali abbiano sviluppato capacità cognitive speciali e più raffinate capacità relazionali o collaborative. Si veda in proposito Laboratorio di storia 2.0, di Patrizia Valoya, in P. Bernardi, F. Monduzzi, Insegnare storia, UTET, 2012, pp. 262-263.
  • Non c’è una fine. Camminare a Auschwitz con Piotr Cywiṅski

    Enrica Bricchetto

    Non c’è una fine. Camminare a Auschwitz con Piotr Cywiṅski

     

    Una lezione per il 27 gennaio che parta dall’oggi: è uscito il libro di Piotr Cywińsky, il direttore del sito memoriale di Auschwitz. In classe ci si può lavorare con quello che si trova in rete. Per conoscere, discutere, comprendere e rammemorare giacché “fare storia al tempo presente è una sfida”. 


     

     Intorno al libro

     

     

    Il modo in cui le informazioni circolano, rimangono e possono essere recuperate nella rete,  aiuta a costruire attività didattiche. Cliccando sul  link della scheda libro di Non è la fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz di Piotr Cywińsky, nel sito della casa editrice Bollati Boringhieri, chi avesse perso l’uscita degli articoli in tempo reale, può recuperare tutto: l’intervista che su “Repubblica” Glodek Goldkorn fa a Cywińsky,  l’analisi approfondita di Enrico Manera su Doppiozero,  le clip di Radio 1 e di Farehneit, su Radio 3 e infine  Una morale essenziale, la recensione di David Bidussa sulla “Domenica” de “Il Sole 24 ore”.  Mi sembra che sia stato già detto e scritto tutto quello che serve per decidere se  leggere o no  questo libro.  Di sicuro ce n’è abbastanza per lavorarci a scuola. 

     

    fig. 1 La scheda libro nel sito della casa editrice Bollati Boringhieri

     

     

    Con gli occhi del docente

      

    Ho pensato quindi che il libro di Cywińsky potesse essere messo al centro della mia lezione sul 27 gennaio del 2017, Giorno della Memoria. Ha un legame forte con l’oggi - parla di un’esperienza di vita e di lavoro - e, allo stesso tempo, apre molte porte sul passato. Del libro di Cywińsky ho fatto una lettura didattica che ho trasposto in un’esperienza da portare in classe.
    In questo articolo do conto  sia della progettazione sia della realizzazione della mia lezione - producendo tutti i materiali che possono servire al docente.


    Mentre leggevo il libro, da più parti ho avuto notizia - da Facebook e da un articolo su "Il Post" e su “La Stampa” del sito Yolocaust. de e, nel frattempo, è uscito il film Austerlitz  (se ne parla in questo sito). Anche questi c’entrano con la lezione sul 27 gennaio del 2017 che sto per raccontare.

     

     

    Il 27 gennaio e la narrazione storica

      

    Chi insegna storia incontra il popolo ebraico in molti momenti del suo discorso storico: quando si trattano le città e gli antichi regni intorno al 1000 a.C., quando nella Palestina romana, all’epoca di Tiberio, nasce, viene ucciso Cristo e il cristianesimo si diffonde; quando si parla della distruzione del tempio di Gerusalemme del 70 d.C. e della Diaspora, evento centrale e non facile comprendere fino in fondo per gli studenti.  Dal 135 d.C. in poi gli ebrei migrano per ogni dove e si stabiliscono in comunità con lingue e religioni diverse. Nell’occidente  cristiano gli ebrei, uniti dall’appartenenza alla comunità, dalla religione e dalla lingua, vivono a parte. Già dal IV sec. vengono emanate leggi che sanciscono a livello giuridico l’inferiorità degli ebrei e la loro marginalizzazione: non possono contrarre matrimoni con i cristiani, costruire sinagoghe troppo visibili  e possedere schiavi cristiani.  Dal 1215 il Concilio Lateranense IV prescrive che   indossino un segno distintivo  e con la peste del 1348 diventano individui pericolosi, in seguito anche oggetto di espulsioni.  Poi la Limpieza de Sangre, poi la costruzione dei ghetti, e il lungo travaglio della costruzione degli stati moderni in Europa. E ancora la diversa storia tra gli ebrei occidentali e quelli orientali, i pogrom che si intensificano soprattutto nell’Europa orientale, il passaggio dall’antigiudaismo cristiano all’antisemitismo e il progetto del sionismo fino alla politica nazista dello sterminio. Nell’affrontare queste tappe, in momenti diversi della formazione storica degli studenti, si precisa anche il lessico: dal mettere a fuoco il significato di  popolo eletto e popolo del libro, alla definizione dell’identità del popolo ebraico, alle distinzioni tra antigiudaismo, antiebraismo e antisemitismo.

     

     

    Ogni anno, il 27 gennaio

     

    fig. 2 Manifesto per il 72° anniversario della liberazione di Auschwitz

     

     Il 27 gennaio di ogni anno mi spinge a mettere a confronto le tematiche già affrontate relative al popolo ebraico con l’anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, in Italia la data della commemorazione della Shoah. Ogni anno cerco di mettere in relazione il 27 gennaio con un momento della storia dell’ebraismo e con quello che offre il dibattito pubblico. Antonio Brusa ha già riflettuto molto su come affrontare didatticamente il Giorno della Memoria, su come costruire una didattica della Shoah cognitivamente solida, basata su un incremento conoscitivo che consenta recepire in modo critico le scelte dei media su questo tema (vedi riferimenti bibliografici).  Penso che, in questo senso, l'attenzione ai contenuti storici e al loro uso pubblico vadano affrontati parallelamente.

     

    Ogni anno pubblicazioni di ricerca e  di riflessione o la  fiction (romanzi e film) propongono ai docenti nuove prospettive per tornare sul tema in modo non ripetitivo e soprattutto non soltanto commemorativo. Il partigiano Edmond di Aharon Appelfeld, per esempio, appena uscito da Guanda porta in una dimensione della Shoah molto diversa, quella dell’ebreo che reagisce, che resiste (recensione) o un film straordinario come Remember di Atom Egoyan (2016, trailer), che affronta, in modo profondo, il tema della memoria latente nelle vite di vittime e carnefici. Per il docente quindi molte sono le possibilità per tornare su un tema consueto in modo un po’ diverso e per allontanare il pericolo della Historia Magistra - un vero e proprio stereotipo che accomuna la maggior parte degli studenti ma anche degli adulti - che ripetono il mantra che bisogna conoscere per non rifare gli stessi errori. Se - come scrive David Bidussa La storia al tempo presente è una sfida, uno dei suoi momenti essenziali è “ cogliere le analogie che fanno sì che la storia faccia le rime, ma non si ripete sempre uguale, presenti dei tratti che consentano di fare delle comparazioni, o di vedere le analogie e le differenze, ma non di dare sempre la stessa risposta”. La storia serve per capire che cosa il genere umano è in grado di fare nel bene e nel male e, qualche volta anche il perchè.

     

     

    La proposta didattica

      

    L’anno scorso, in questo sito, ho recensito il romanzo di Carlo Greppi, Non restare indietro, e proprio Greppi, giovane storico dell’età contemporanea e scrittore, ha segnalato e tradotto il libro di Cywińsky, Non c’è una fine, scrivendo una bella postfazione sui viaggi della memoria. Quest’anno ho scelto una via più operativa. Il libro di Cywińsky è la risposta al perché ogni anno più di un milione di persone visitano il sito memoriale di Auschwitz e aiuta chi ci è già stato a capire di più; è un piccolo manuale per dare senso al racconto dello sterminio degli ebrei in Europa ma anche ad altri stermini, che sono venuti dopo. E’ un libro che serve per riflettere sull’aspetto umano della Shoah, intesa come azione di uomini verso uomini, genere umano verso genere umano.

     

    fig. 3 La presentazione del libro a Milano, il 13 gennaio, con autore e curatore (Articolo 21

     

     

    Metodo e strumenti

      

    Nelle mie classi gli studenti sono abituati a leggere e a lavorare sui materiali in digitale a casa, dai loro computer o soprattutto dai loro telefoni. Utilizzando il loro dispositivi, accedono al nostro ambiente di classe dove possono leggere le mie consegne e esplorare materiali, mettere e condividere i loro testi o i loro artefatti. Quasi tutti hanno scaricato sul telefono le app di Google Classroom, Google Drive, Google Doc e Presentazioni.
    Per quel che riguarda il metodo, da tempo in classe utilizzo il modello di lezione EAS (Episodi di Apprendimento Situato) messo a punto da Pier Cesare Rivoltella e sviluppato da me in ambito di didattica della storia, le cui caratteristiche si chiariranno procedendo nella lettura.

     

    Quest’anno in occasione del 27 gennaio, per la classe quarta, ho pensato di mettere insieme due esperienze: realizzare un EAS sul libro di Cywińsky e assistere a Il piacere dell’odio, che il regista e attore Marco Alotto - autore anche del testo - ha messo in scena con la compagnia Itaca teatro, composta da giovanissimi attori (teatro Astra di Torino, 23 gennaio 2017). Questo spettacolo teatrale, mostrando le forme che prende l’odio in varie esperienze di genocidi - inizia con Auschwitz, poi la Bosnia, Ruanda, Cecenia e di nuovo Auschwitz - ha richiamato il tema della responsabilità dell’individuo con una recitazione corale di grande intensità e coinvolgimento.

     

    Fig.4 La locandina dello spettacolo

     

     

    Lavorare in anticipo (a casa)

     

     La mia lezione in classe sul libro di Cywińsky è stata preceduta dalla seguente consegna:

    apri il link della scheda del libro Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz di P.Cywińsky  che trovi nel sito della casa editrice Bollati Boringhieri e:

    A. Ascolta le clip della radio;
    B. leggi l’intervista a Cywińsky su “Repubblica” del 9 gennaio 2017 e rispondi a queste domande:

    1. Chi è Cywińsky?
    2. Che lavoro fa Cywińsky?
    3. Perché per il suo lavoro sono necessarie “umiltà” e “insolenza”?
    4. Quali caratteri di autenticità - secondo Cywińsky si sono conservati a Auschwitz?
    5. Riporta la definizione di empatia che dà Cywińsky nell’intervista.
    6. Riscrivi quello che ti colpisce di più delle risposte di Cywińsky.
    7. Cerca informazioni su Glodek Goldkorn partendo da questo link.
    8. Analizza le domande di Goldkorn: ti sembra che sia d’accordo con quello che sostiene Cywińsky o no? In che parte dell’intervista emergono la personalità e la storia personale di Goldkorn?

     

    C. leggi l’articolo di E. Manera su “Doppiozero” e metti in evidenza, spiegandole con parole tue “le chiavi di ingresso” alla lettura del libro di Cywińsky proposte. Puoi farlo, creando una mappa digitale o un’infografica, in modo narrativo o in forma di elenco.

    D. Cerca i trailer dei tre film usciti quest’anno per il 27 gennaio (Austerlitz, In viaggio con Fanny, Nebbia in agosto) e scrivi, dalla sola visione del trailer, quale, secondo te, il tema di ognuno dei film e se sono opere di fiction o di non-fiction.

     

    L'attività a casa il giorno precedente alla lezione  deve essere caricata nell' ambiente Classroom. Questo significa che io posso, se voglio, iniziare la lezione avendo chiaro che cosa hanno fatto gli studenti e quali difficoltà hanno trovato. Vorrei precisare che ogni studente ha a disposizione la versione completa del lavoro da fare a casa. In realtà la sua realizzazione può avvenire a vari livelli. Alcuni vanno oltre quello che viene proposto loro. Altri adeguano le consegne ai propri stili di studio o alle loro modalità di apprendimento. Chi ha problemi di lettura può concentrarsi sulle clip radio e da lì ricava gran parte delle informazioni. Per le domande su Goldkorn, nel sito Feltrinelli c’è un’intervista che dà elementi sufficienti per capire chi è (link).

    Rispetto all’analisi di Manera - non scritta certo per adolescenti - la richiesta di mettere in evidenza le “chiavi di ingresso”, cioè gli aspetti individuati come più significativi, consente di orientarsi meglio nel testo. O ancora, questi studenti nel loro file di consegna possono dare risposte per parole chiave o in forma di schema. La fase anticipatoria dell'EAS - così viene definito il lavoro che precede la lezione - consente al docente di progettare nell’ottica della personalizzazione, necessaria in classi eterogenee come quelle attuali. Tale modalità di lavoro è facilitata dall’ambiente digitale e punta all’inclusione di tutti gli studenti nella proposta didattica.

     

     

    A scuola

      

    All'inizio della lezione il  gruppo classe era quindi  variamente informato. Avevo già guardato i loro lavori a casa,  perciò ho fatto una breve raccolta di dubbi o impressioni e poi ho preso  la parola per fare quello che nel metodo EAS  viene definito Framework. Qui il docente crea - in venti minuti - una cornice in cui include gli elementi più importanti ripresi dai materiali dati a casa e aggiunge informazioni, riflessioni e spunti per svolgere l’attività in classe.  Aver già fatto il lavoro a casa determina un coinvolgimento immediato.

     

    Ho scelto questa volta di fare una lezione narrativa, con il libro in mano sul libro. In effetti non lo faccio sempre, perché penso che anche le versioni digitali del libro siano il libro stesso: la carta o i pixel sono soltanto il supporto. In questa lezione, però, ho portato il libro. Quando lo faccio, quasi sempre qualcuno me lo  chiede  in prestito.
    Aggiungo anche che so, perché ne abbiamo già parlato, che la maggior parte dei miei studenti, come quasi tutti gli adolescenti, vorrebbero visitare Auschwitz (qualcuno lo ha già fatto) e guardano con grande interesse al periodo del fascismo e del nazismo. Conoscono anche un buon numero di film.

     

     

    Il Framework

     

     

    Fig. 5 Il portale del sito memoriale di Auschwitz

     

    Come sempre capita nel nostro lavoro  più tempo del previsto è stato occupato dalla raccolta dei dubbi sul lavoro a casa e anche sullo spettacolo. Ho comunque ascoltato e risposto.
    Essendosi  ridotto il tempo per la mia lezione,  ho deciso di proiettare una sorta di scaletta in cui avevo inserito gli aspetti di cui avrei voluto parlare, mettendo in grassetto le parole chiave. Ho capito che non avrei potuto toccare tutti quei temi e ho chiesto agli studenti di dirmi quali aspetti sembravano loro più interessanti. Ho ragionato su quelli e ho letto le parti corrispondenti del libro di Cywińsky. Questa scaletta può essere usata anche come guida per la lettura del libro o come spunto per cercare, al suo interno, i temi relativi alla Shoah.


    Ecco la scaletta:

     

    1.La foto in copertina. E’ Zeilek, ha nove anni, la foto lo ritrae appena arrivato a Auschwitz, un attimo prima di essere mandato a morte. E’ nell’Album Auschwitz  ed è il fratello di Lili Jacob che ha trovato l’Album. Oggi è il logo del museo (p.29).


    2. Il genere letterario. “ Questo libro, che mi sono impegnato a scrivere principalmente perché me l’hanno chiesto alcuni amici e che è stato scritto la sera tardi, nelle rare vacanze e talvolta nelle assenze per malattia, è una raccolta di considerazioni soggettive e di osservazioni –qualche volta molto personali sul Luogo che sommerge, del quale non si può essere all’altezza, e che non si potrà mai comprendere del tutto C’è un tono quasi di riflessione tra sé, che rende la lettura interessante e piena di porte di che si aprono, è un testo soggettivo ma ricco di informazioni storiche, traspare la preoccupazione di Cywiṅski di fornire alcune prove di quello che scrive ma anche una ricerca di approvazione. Sta facendo quello che è giusto per conservare Auschwitz (p.27).


    3. Il percorso di memoria dagli oggetti alle persone (p.29)


    4. Come avere sempre la percezione che in Auschwitz ci sono state le persone: Cywiṅski risponde personalmente a chi chiede informazioni sui propri parenti (p.35-36).


    5. Il tema dell’indifferenza umana: dove erano tutti gli uomini mentre il nazismo attuava la soluzione finale? Dove siamo noi oggi di fronte alla distruzione della città di Aleppo? Per questa ragione C. ritiene che la storia di Anne Frank abbia in sé un modello educativo sbagliato: era una vittima, non aveva chance, nessuno poteva salvarle o proteggerla, nemmeno la sua famiglia. Non è un modello in cui identificarsi (pp. 70-73). Ai giovani bisogna dare un modello attivo: siamo proprio sicuri che di fronte alle tragedie contemporanee non possiamo fare niente, un ragazzo polacco che sentiva le urla di Auschwitz poteva gettare un pezzo di pane oltre il filo spinato ?


    6. Il luoghi del crimine. Le lapidi di Treblinka, Chelmo e Sobibor e l’architettura del sito di Auschwitz, dove molto è rimasto (p. 38).
    7. Che cos’è il Museo oggi? Un museo, un memoriale, un cimitero, un sito memoriale? No, la parola per definirlo è Auschwitz: racchiude tutto. (p. 39).


    8. Archeologia del campo: la stella di David (p.42)


    9. Esiste un luogo che rappresenti l’intera Auschwitz? Auschwitz è Pars pro toto (50-51).


    10. C.osserva le ragazze e i ragazzi che entrano: rumoreggiano, chiacchierano tra loro ma escono in silenzio. Non ritiene di dover riprendere chi all’inizio sembra non rendersi conto di dove si trova. Sa che, tutti, escono diversi da come sono entrati. Sanno che entrano per vedere conoscere capire ma non sanno come escono (p.46).


    11. A Auschwitz ci sono più sopravvissuti che negli altri campi: era luogo di lavoro schiavo e centro di sterminio. Auschwitz ha una forma ancora decifrabile (p. 54)


    12. Come far comprendere oggi Auschwitz a livello simbolico. L'autore mette al centro della narrazione la struttura. La narrazione della memoria coincide con il luogo. Un luogo per molto tempo narrato dai sopravvissuti. Oggi non ci sono più ma le loro testimonianze rimangono. C’è un sostegno reciproco tra parole e il luogo. Sono un tutt’uno. Auschwitz non può rispecchiare una narrazione decisa a tavolino, un progetto educativo. Una narrazione così andrebbe oltre e Auschwitz perderebbe il suo significato universale (p.58-61).


    13. Dialogo e ed empatia: o senti il dolore o non lo senti. Punto e basta (p.68).


    14. Perché così tante persone visitano Auschwitz oggi? Perchè è un luogo di autenticità. L’autenticità è il paradigma di ogni sito memoriale e consente di vivere, non di visitare Auschwitz. Per questa ragione non devono esserci aggiunte narrative di tipo multimediale. Oggetti e strutture dicono tutto quello che si può dire. C. dunque propende per una conservazione minimalista, che mantenga quello che c’è e, pur prendendo in esame, i consigli di cambiamento che riceve, rimane fermo sul mantenimento di quello che c’è, almeno per quanto è possibile (p. 64).


    15. Il tempo ha un effetto catastrofico sul sito di Auschwitz, sui più di 150 edifici, qualcosa come 300 rovine, oltre 100000 scarpe, chilometri di recinzione di filo spinato ecc. Il restauro deve mantenere leggibile il luogo, sostituendo le parti che il tempo rovina.
    16. Passeggiare nel campo per percepirlo. Cogliere il contrasto con la vita normale che scorre incontro. Vedere la diversità delle stagioni. La passeggiata è un’esperienza di passaggio (pp.76-77).


    17. Spesso chi visita Auschwitz, soprattutto se è adolescente, domanda alla guida perché, nel percorso che va dalla Judenrampe alle camere a gas nessuno provava, almeno a scappare. Gli alleati dei nazisti erano: la famiglia e la speranza (pp.82-84 e conclusione a p. 87): tenere unite le famiglie e alimentare la speranza di essere trasferiti in campi di lavoro.


    18. Quante persone lavoravano a Auschwitz? C’erano 70.000 persone libere: soltanto 1600 furono processate dopo la guerra (89-90).


    19. Come si diventava SS (p.93).


    20. La Shoah dei bambini (pp. 98-101).


    21. Questo luogo non può essere normalizzato (pp.107-108)


    22. La responsabilità di Dio. Qui C. risponde da cattolico: “Perché l’uomo ha permesso che questo accadesse? (p.105).


    23. Di che cosa è memoria Auschwitz? La memoria “E’ la base e il compito di questo luogo”. Degli eventi, delle sofferenza, della morte, delle vittime, di tutti quelli che c’erano, dei sopravvissuti, dei carnefici e del loro odio ma anche dell’eroismo di alcuni (p.114).


    24. Perché è stato così difficile ricordare Auschwitz?Finché non sono cambiate le generazioni il senso della condivisione della colpa ha mantenuto il silenzio (p.116).

    25 Consapevolezza. “La memoria deve essere al servizio della consapevolezza e la consapevolezza deve essere costruita sulla memoria. Ed è qui che in genere il compito diventa molto più difficile. Provare a far capire ai giovani cosa significa che quasi un intero popolo è stato assassinato in Europa, e che in più si tratta del popolo che diede all’Europa cristiana le sue fondamenta, è immensamente problematico” (p.120).


    26 A Auschwitz l’Europa ha perso se stessa e le basi culturali, religiose, politiche su cui si fondava. Deve essere ripensata (p.122).


    27. Che cosa posso fare io? La responsabilità: “Oggi coloro che visitano Auschwitz provano a capire come si è arrivati a quest’inferno in terra, questo anus mundi. Maledicono chiunque non sia riuscito a fare tutto il possibile per impedire che accadesse, per opporsi. Camminando tra le recinzioni di filo spinato, si sentono vicini alle vittime. Vedendo le torrette di guardia tremano per l’empatia. A volte piangono, e non si può dubitare che le loro lacrime siano sincere. E poi tornano a casa (124).

     

     

    Il videostimolo

     

     

    fig. 6 Shoah, animazione di Giuliano Parodi. (link)

     

    In un EAS  al termine della parte del docente c’è sempre un videostimolo che  serve a introdurre elementi meno argomentativi e esplicativi,  più legati al piano emotivo.  Il videostimolo è uno stacco tra la prima e la seconda parte della lezione, predispone allo svolgimento della fase successiva.
    Per questa lezione e per questa occasione ho scelto Shoah , un video di animazione di Giuliano Parodi , che ho visto nella pagina Facebook di Enrica Ena, una collega della scuola primaria che lavora, facendo attività didattiche molto significative e profonde, con il metodo EAS ( link).

     

     

     L'attività in classe

      

    Il metodo EAS  richiede  che a questa fase, detta “operatoria”, si dedichi almeno un’ora.

    Per le classi digitali (che usano dispositivi propri o della scuola) ho previsto queste attività.

    1. Scaricate le prime pagine del libro di Cywińsky, usando l’applicazione Kindle. Leggete e individuate che cosa succede il 17 dicembre 1942. Sono tre fatti storici e simbolici. A quali considerazioni rimandano?

    2. Scrivete in poche righe alcune considerazioni sulle attività svolte fino qui.


    3. Immaginate di poter intervistare Cywińsky. Che cosa gli chiedereste?


    4. Esplorate il sito del memoriale di Auschwitz, individuare le fonti storiche o immagini del campo, sceglierne alcune e commentarle sceglierne alcune (link). Per questa attività si possono usare le seguenti app: Skitch, Thinglink.

     Se un docente decidesse di realizzare  questo EAS,  potrebbe sceglierne una da questo elenco, in base alla classe, al tempo e agli strumenti che ha. Il lavoro può essere fatto singolarmente o in piccolo gruppo. Quello che è importante è proporre un'attività realizzabile nel tempo previsto e che consenta agli studenti di aumentare le informazioni e la consapevolezza rispetto a tema tin questione.. 

     

     

    La discussione

     

     Al termine dell’attività, ho riproiettato il trailer di Austerlitz,il documentario girato con camera fissa che per un'intera giornata ha ripreso i visitatori, perlopiù giovani e per lo più distratti e rumorosi. Poi ho chiesto quanti dalla loro frequentazione dei social conoscevano il sito Yolocaust.de. (pochi). Abbiamo visitato il sito e visto i pochi fotomontaggi rimasti. 

    Ho sollecitato i loro commenti e le loro reazioni. La discussione è stata animata. Qualcuno ha osservato che il selfie si fa per ricordare dove si è stati. Ho cercato di arginare una deriva moralistica, sempre dietro l’angolo ("Io no lo farei mai!).  

     

    Questioni storiche, didattiche, di memoria

     

     Questo modello didattico, attraverso lo svolgimento delle sue parti, porta lo studente a apprendere in situazioni diverse: lavora guidato ma in autonomia a casa, a scuola ascolta il docente e si impegna  in attività di rielaborazione o creative. Infine ha uno spazio per la riflessione.

     

     Inoltre, come in questo caso, può condurre gli studenti nel vivo di un dibattito e può aiutare a capire che il giorno della Memoria non è un vuoto rituale, che parlare della Shoah interpella il nostro essere cittadini e coinvolge anche il mondo dei social che loro abitano o le loro abitudini, come fotografarsi continuamente. La Shoah è una questione di storia, di memoria e di empatia. Un’empatia che deve essere anche verso il mondo di oggi. E' un tema vivente.

     

     

    Piccola avvertenza finale

      

    L’EAS Non è la fine può essere realizzata per intero, se ne possono prendere delle parti o semplicemente modificarla.  
    Ho analizzato e approfondito il metodo EAS in ambito storico nel mio libro Fare storia con gli EAS. A lezione di Mediterraneo, Brescia, Morcelliana- Els, 2016, pp.188 dove suggerisco anche strumenti per il lavoro didattico e luoghi in cui reperire contenuti digitali.

     

      

    Riferimenti bibliografici

      

    PC. Rivoltella, Che cos’è un EAS. L’idea, il metodo, la didattica, Brescia, La Scuola, 2016
    A.Brusa, La terra di nessuno fra storia, memoria e insegnamento della storia. Didattica e non didattica della Shoah, in Popshoah, a cura di F.R. Recchia Luciani e C. Vercelli, Genova, Il Melangolo, 2016
    A. Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2011
    E. Traverso. Il passato:istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, Verona, Ombre Corte, 2006

     

     

    Siti web

     

    Memoriale Auschwitz

    Cremit(Centro di ricerva per i media, l'informazione e la tecnologia), Milano, Università Cattolica

    Deina, associazione viaggi  per i viaggi di memoria

     

  • Quando il digitale è “denso”: la tecnologia al servizio del ragionare storicamente

    di Sara Faroni

    meme per recensione Ho finalmente terminato la prima lettura di Insegnare storia con le nuove tecnologie, scritto da Lucia Boschetti, Silvia Ditrani e Raffaele Guazzone e pubblicato da Carocci editore, all'interno della collana "Insegnare storia", diretta da Antonio Brusa e Walter Panciera, e l'ho trovato ricco sia di una cornice chiara (l'importanza di insegnare a ragionare storicamente, la necessità di personalizzare i dispositivi digitali a immagine della nostra didattica) sia di moltissimi strumenti a cui attingere per creare attività stimolanti per noi e per gli studenti.

    Nella prima parte del libro viene dato uno sguardo d’insieme su come il mestiere dello storico sia cambiato nell’era del web, con la possibilità – ad esempio - di consultare, da ricercatori, gli archivi digitali online (uno su tutti lo sterminato sito del Sistema Archivistico Nazionale).

    Si passa poi, nella seconda parte, all’uso consapevole e critico degli strumenti: utilissimo è il capitolo Vademecum per la ricerca in rete, soprattutto nelle due regole (che passerò senz’altro ai miei studenti) della “lettura laterale” e del “click furbo”.

    Fin dalle prime pagine del testo ho avvertito una consonanza con il mio approccio didattico (insegno lettere alla secondaria di I grado), soprattutto nell’uso ricorrente delle connessioni, nell’attenzione alla metacognizione e alla condivisione finale dei lavori nell’ambito del gruppo classe. Arrivata alla lettura della terza parte del libro, quella dedicata alle proposte operative, mi sono quasi commossa nel trovare come esempio di proposta didattica innovativa (utile per una lettura approfondita dei testi anche storici) il metodo del Writing and Reading Workshop, che studio da un po' di anni cercando di applicarlo in classe, dopo essermi abbeverata a In The Middle di Nancie Atwell1, conosciuta grazie a Jenny Poletti Riz.

    Ed ecco infatti spuntare in bibliografia il testo delle mie colleghe e amiche Linda Cavadini, Loretta de Martin e Agnese Pianigiani (Leggere, comprendere, condividere. Guida all’analisi del testo narrativo, Pearson 2021), che ha dato ispirazione a un’attività di lettura attenta e approfondita di un testo storico o fonte da cui fare emergere, attraverso una riflessione, connessioni fra il passato studiato e il tempo in cui si vive (Il “muro delle connessioni”).

    Un’altra attività che ritengo interessante, anche per il collegamento che intravedo fra storia e scrittura di un testo argomentativo, è quella del Confrontare con i meme, che propone la raccolta di dati storici per creare dei meme a sostegno di due fazioni contrapposte come, ad esempio, Atene e Sparta: in quest’ottica, infatti, il meme non è solo un gioco divertente in cui esercitare l’ironia ma anche il frutto di un’argomentazione consapevole, supportata da fonti.

    Molto stimolante è anche la creazione di infografiche, in cui raccogliere e raccontare dati. Una fra le proposte che più mi ha colpito è quella relativa alla percezione e alla ricaduta della Giornata della Memoria, sia perché nella nostra scuola tale ricorrenza è molto sentita sia perché spesso diviene esercizio di retorica fine a se stessa. Gli autori del libro propongono di progettare un questionario (un esempio viene fornito nel materiale online scaricabile con il Qr Code) sulla percezione della Giornata della Memoria e degli approfondimenti che vengono svolti ogni anno sul tema. Quest’attività intreccia storia con educazione civica, stimolando molte riflessioni: in che modo la conoscenza del passato (la Memoria) ricade sulle nostre scelte nel presente? In che modo può essere strumentalizzata? Ricorrenze come la Giornata della Memoria sono ancora utili o no?

    Insomma: questo manualetto non deve ingannare, è piccolo ma denso, è da studiare e da consultare. Io me lo terrò accanto come un talismano contro lo sconforto che a volte coglie noi insegnanti, minacciandoci di ributtarci in quella palude chiamata "Si è sempre fatto così".

     

    1 N. Atwell, In the Middle: A Lifetime of Learning About Writing, Reading, and Adolescents, Heineman, Londra 2014.

  • Quando il gioco si fa duro

    Autore: Raffaele Guazzone

    Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”
    John Belushi, Animal house

    “Quando il gioco si fa storico, gli storici cominciano a giocare.
    (Anzi, continuano).”
    Docente anonimo, Sala professori

     

    Stanotte ho fatto un sogno. Ho sognato che mio figlio mi svegliava nel cuore della notte disperato: “papà papà, non riesco a finire i compiti! Se domani non sono pronto, quella di storia mi mette il debito!”. “Tranquillo caro” rispondevo, tirandomi su dal letto “non c’è problema, ti aiuto io. Cosa devi fare?”. “Devo finire il sesto livello di Assassin’s Creed: Brexit edition e non riesco a infiltrarmi nell’UKPD… ho provato anche a cercare i trucchi su internet ma non li trovo! Domani abbiamo la verifica in modalità multiplayer e se non entro nei primi dieci sono spacciato!”.

    Mi sono svegliato in un lago di sudore. Poi ho acceso il pc indeciso fra una serie di alternative: scaricare Assassin’s Creed e cominciare a prepararmi per essere un buon padre, oppure scrivere alla Ubisoft proponendo l’idea della Brexit edition. Poi il lato professionale ha avuto il sopravvento e ho cominciato a riflettere sul rapporto fra didattica e videogiochi, partendo dalla mia esperienza personale. Per età anagrafica appartengo, come videogiocatore, alla “Nintendo generation”: sono cresciuto con le prime console domestiche e con le sale giochi. Vivo in una città il cui più (ehm) autorevole rappresentante musicale ha persino dedicato una canzone alla sala giochi dove tutti gli studenti si trovavano a bigiare (per quelli di altre generazioni, parlo di Max Pezzali, di Pavia e della canzone Jolly blue) .  A scuola i computer c’erano, primitivi e usati in modo ancor più primitivo, e pure i videogiochi: se finivi in fretta il programmino in Basic, poi potevi giocare a Pacman fino alla fine dell’ora. Di Basic non ricordo nulla, di Pacman sì.

    Fig. 1 Direttamente dagli anni ‘80… il Basic!

     

    I giochi sono già a scuola
    Grazie al cielo l’informatica, la tecnologia e la scuola hanno fatto passi da gigante rispetto a quei tardi anni ottanta. L’unica cosa rimasta costante è l’attenzione degli studenti per i videogames: tramontato l’universo delle sale giochi (con tutte le implicazioni sociologiche di aggregazione giovanile), nei bar ci sono solo tristissime slot machines, ma i ragazzi giocano ancora. Molto di più che in passato, ovunque, su qualunque supporto, rubando ore al sonno e allo studio, socializzando  a modo loro, quel modo che noi insegnanti e adulti in genere fatichiamo a comprendere e decodificare. E ancora una volta, il mondo della scuola deve darsi da fare per mettersi al passo col cambiamento.

    Provo a fare il punto. Praticamente qualsiasi collega riconosce l’utilità di software specifici disegnati per l’apprendimento: fioriscono giochini didattici per potenziare l’analisi logica, le tabelline, i verbi, la geografia, le lingue e quant’altro. Ho visto interi laboratori di lettoscrittura per ragazzi DSA organizzati in aule informatiche, nelle quali gli studenti si esercitavano per la prima parte dell’ora, e poi venivano lasciati liberi di giocare a quel che preferissero. Mi è tornato in mente Basic, Pacman, e ho sorriso. 

    Nel 2009 è stato presentato al Consiglio d’Europa un rapporto dal titolo Games in Schools, che metteva in evidenza come il 70% degli insegnanti intervistati avesse già effettivamente introdotto i videogiochi nella didattica, anche se solo il 15% si dichiarava un esperto giocatore. Per tranquillizzare i colleghi: non si tratta di aggiungere al monte ore per verifiche, preparazione delle lezioni, studio individuale, anche del tempo da passare davanti a un videogioco. Si tratta di capire un universo che ci sembra alieno, di notare il potenziale dello strumento – riconoscendone punti di forza e debolezza – e di mettere quel che di buono rimane al servizio di una didattica efficace. Siamo riusciti a farlo con film, video, musica, possiamo farlo anche coi videogiochi: lo hanno capito le aziende, che sempre più usano simulazioni manageriali e serious games per verificare le competenze dei propri dipendenti, lo hanno capito i piloti di Formula uno, che simulano corse virtuali prima di scendere sul tracciato.

    Intanto qualche collega di genio dimostra di saper interpretare la sfida, come Annarita Vizzari, che (pur non giocandoci) è riuscita ad usare Minecraft per far realizzare ai propri studenti una ricostruzione del villaggio neolitico di Çatalhöyük, oppure di una fabbrica dell’epoca della rivoluzione industriale.

    Secondo Manuela Canoia, docente di psicologia alla Cattolica, “alla fine dire videogame è come dire carta. Sono un mezzo neutro. Sono così tanti e così diversi che ogni generalizzazione è inutile. Bisogna capire quale piattaforma si usa, quale console e quale videogame e per quale scopo. Sono realtà diverse. E invece le famiglie si fermano alla parola "gioco" e non controllano, lasciano che sia un terreno in mano a bambini e adolescenti” (in Jaime D’Alessandro, “Studiamo storia con Civilization”. A scuola sbarcano i videogame, La Repubblica, 22 gennaio 2012.

    E non sorprende che abbia fatto il giro del mondo il video di Cordelle Steiner, uno studente di terza elementare, che racconta come nella sua scuola, la Matoska International Elementary di White Bear Lake, i videogiochi vengano usati in modo quotidiano, non sporadico e premiale, e vengano ben inseriti nella prassi didattica.

     

    Gli studi su videogiochi e didattica
    Lo studio dei rapporti fra videogiochi e didattica, in particolare fra videogiochi e storia, è particolarmente vivo in area anglosassone. Partendo proprio dal grande risalto dato al loro uso come strumenti per l’insegnamento nelle scuole secondarie, lo storico A. Martin Wainwright, dell’università di Akron, in Ohio, ha ideato un ciclo di lezioni dal titolo History in video games. In un saggio del 2014, dal titolo Teaching Historical Theory through Video Games,ha tracciato un bilancio delle prime tre edizioni del corso, che puntava ad analizzare i principali videogiochi a sfondo storico, tenendo conto sia dell’insegnamento scolastico della disciplina storica che della dinamica e della critica specialistica del settore videoludico: partire dalla scoperta (e dalla pratica) del videogame per arrivare alla storiografia. I frequentanti dunque hanno dovuto confrontarsi con la tradizionale bibliografia di un corso di storia, ma anche con sessioni di gioco a Civilization, che venivano poi discusse in aula mettendo in luce sia le dinamiche di realizzazione del gioco sia i riscontri – e contrasti – con la produzione saggistica in programma. Un tentativo evidente di dare una risposta a un bisogno condiviso da parte delle classi di Wainwright, almeno stando al commento di uno dei suoi studenti: “i videogiochi sono sempre più popolari. Come storici, è imperativo essere preparati ad analizzare questo medium così come facciamo con gli altri” (p. 581). In rete, inoltre, si trovano le indicazioni di José M. Cuenca Lopez, uno studioso dell’Università di Huelva che si è particolarmente dedicato all’uso didattico dei giochi storici commerciali (qui, il suo intervento alla Summer School sul Paesaggio medievale,e qui il suo articolo su “Mundus” eWikipedia, inoltre, propone una categorizzazione dei videogiochi storici poco funzionale alla riflessione di Wainwright (li divide per epoca), ma senz’altro l’elenco dei titoli in commercio è esauriente. E’ un modo di catalogare i giochi che permette di inserirli “al posto giusto”, nel corso del curricolo. Invece, per rendersi conto delle loro potenzialità formative, e per usarli di conseguenza, è utile ragionare per dinamiche e modalità di gioco. Proverò, quindi, a descriverli da questo punto di vista, sperando che i giocatori incalliti perdoneranno un’eventuale scarsa precisione, tutta a vantaggio, però, dell’essenzialità del ragionamento.

     

    Un catalogo per categorie
    Strategici: sono l’equivalente delle grandi metanarrazioni storiografiche, solo di recente tornate in auge; coprono grandi lassi di tempo e si concentrano sui processi di lungo termine. Appartengono a questa categoria i titoli della serie Civilization, in cui l’azione è suddivisa per turni (grossomodo come in un gioco da tavolo), e i titoli della serie Age of Empires, in cui l’azione si svolge in simultanea (strategici in tempo reale), implicando per il successo anche una buona rapidità e coordinazione manuale. La narrazione storica può essere strutturata attraverso la progressione di una serie di scenari accuratamente sceneggiati (Age of Empires) oppure lasciare al giocatore la libertà assoluta di guidare una nazione attraverso i secoli (Europa Universalis).

    Giochi di ruolo: sono l’equivalente degli studi di caso, attraverso l’interpretazione di un personaggio permettono di confrontarsi con porzioni ridotte di storia favorendo la ricostruzione d’ambiente, l’immedesimazione e l’empatia, dimostrando affinità anche con la narrativa storica. Appartengono a questa categoria i titoli della serie Assassin’s creed, Call of Duty, Medal of Honor; richiedono una buona coordinazione mano-occhio, ma anche capacità logiche per risolvere i rompicapo che inframmezzano le scene di combattimento.

    Simulatori manageriali: si concentrano sugli aspetti gestionali e socio-economici, declinandoli – eventualmente – anche in un contesto storico preciso, che funge però principalmente da ambientazione. Appartengono a questa categoria i titoli della serie SimCity e Anno, oppure Railroad Tycoon; richiedono doti di pianificazione e strategia che li rendono anche preziosi strumenti per l selezione e il training aziendale cui accennato sopra.

    Wainwright,  per i suoi corsi, ha scelto di usare il gioco Civilization (in particolare il quarto capitolo della saga) per  varie ragioni. È accessibile dal punto di vista tecnologico (abbastanza datato da funzionare su qualsiasi supporto, abbastanza recente da essere ancora giocabile con piacere), non richiede abilità particolari, come la coordinazione mano-occhio, ed è stato a lungo al centro di un dibattito fra gli storici. Pone inoltre al giocatore una serie di scelte dal punto di vista della gestione della fazione richiesta (si pensi ad esempio al ruolo della religione, che nel gioco può seriamente modificare la produttività di un impero), creando sviluppi sofisticati e meno deterministici di altri titoli, permettendo varie riflessioni storiche nella decostruzione dei meccanismi di gioco e delle tematiche scelte dal team creativo.

     

    Economia e ambiente
    Secondo William Uricchio, Civilization è portatore di una serie di posizioni ideologiche ben precise, sintetizzabili con lo slogan “più efficiente la produzione, più avanzata la civiltà” (William Uricchio, Simulation, History, and Computer Games, in Handbook of Computer Game Studies, ed. Joost Raessens and Jeffrey H. Goldstein, Cambridge, MA: The MIT Press, 2005, p. 335). Non c’è da stupirsi che un videogioco – per sua natura prodotto informatico, basato sulla quantificazione di dati, privilegi i fattori economici e ambientali. Basti pensare alla distribuzione geografica delle risorse (come nota Wainwright, uno dei temi centrali del libro di Jared Diamond Armi, acciaio e malattie), una delle determinanti per ottenere il successo nei vari titoli della serie. Ad esempio, la presenza di metalli e cavalli nel territorio occupato dal giocatore è fondamentale per sviluppare le truppe più avanzate dell’età pre-moderna. Lo stesso dicasi per carbone, petrolio e uranio, relativamente alle fasi successive del gioco: grosso modo le stesse chiavi (ambientali) del successo per il Vicino oriente antico o per l’Inghilterra durante Rivoluzione industriale.

    Ci sono altri due titoli, sempre progettati dal creatore di Civilization, Sid Meyer, che ben rappresentano le dinamiche economiche evidenti nel gioco: Railroad Tycoon II e CivCity: Rome, dove al giocatore viene richiesto rispettivamente di costruire una rete ferroviaria durante il XIX secolo e di amministrare l’antica Roma. Si potrebbe dire che praticamente ad ogni scelta che il giocatore deve affrontare soggiace una ragione economica: parlando di questa tendenza “marxista” dei computer, intesi come sofisticati calcolatori, Wainwright sostiene che è il medium stesso a determinare il messaggio. Altro indizio per rilevare i presupposti ideologici – principalmente di Civilization e CivCity: Rome -  è il ruolo che svolge uno dei più sofisticati strumenti per il controllo delle masse, la religione, per citare il filosofo tedesco “oppio dei popoli”.

     

    Stereotipi storici e pregiudizi didattici
    Stando a quanto detto sopra, appare evidente in questo genere di prodotti la rappresentazione di un Occidente capitalista e trionfante. In particolare poi, nella caratterizzazione delle varie culture giocabili, Civilization risulta ricco di imprecisioni e stereotipi. Caterina di Russia è una specie di cocotte che flirta in maniera piuttosto esplicita nella fase della gestione dei rapporti diplomatici;

    Fig. 2 Una civettuola Caterina di Russia – Civilization IV

    l’Inghilterra (unita con la Scozia sin dalla preistoria!) può addestrare i fucilieri “Redcoat” durante il Rinascimento, nonostante in quell’epoca i soldati portassero moschetti e non fucili, e riuscirà in ogni caso a sviluppare una delle migliori fanterie del gioco nell’età industriale, indipendentemente dalle scelte fatte in precedenza: proprio quel genere di determinismo e di stereotipo che è al centro dei lavori di tanti storici. In più, somma ironia, la propensione per la libertà di religione è uno dei tratti peculiari del personaggio di Elisabetta I, che certo non ha lesinato esecuzioni a destra e manca. È poi proprio necessario sospendere l’incredulità, per far guidare una nazione dallo stesso personaggio per 6000 anni di storia, senza ricordare che non ha senso parlare di Inghilterra prima del Medioevo, e che non ha senso parlare di Babilonia oggi.

    Ma probabilmente non è questo genere di fedeltà storica ciò che si aspettano gli utenti di Civilization. I dettagli e la ricostruzione dei fatti passano in second’ordine rispetto alla linearità dell’esperienza di gioco che punta ai coinvolgimento attraverso la catena di scelte decisionali e di relazioni causa-effetto scatenate dalle scelte del giocatore, che viene lasciato libero di interagire in modo creativo in un ambiente dalla grafica spartana e con dinamiche di sviluppo delle civiltà magari grossolane (clava-spada-fucile-cannone-bomba atomica), ma che offre un ventaglio di opzioni e combinazioni decisamente ampio.

    Fig.3 L’infinità di variabili e opzioni per lo sviluppo di una civiltà è il vero punto di forza di un sistema di gioco come Civilization

    Diverso invece il discorso per la saga Assassin’s Creed. Nella sequenza introduttiva di ciascun capitolo della serie, i produttori si sono sentiti in dovere di puntualizzare, attraverso un’apposita schermata di avvertenze, che “quest’opera di finzione è stata progettata, sviluppata e prodotta da un team multiculturale, con idee personali e religiose differenti”.

    Fig. 4 - Il disclaimer di Assassin’s Creed

    In effetti, il protagonista Altair, nel primo capitolo, sembra muoversi a suo agio fra cristiani e musulmani nel vicino oriente delle Crociate. Wainwright però nota che i Templari – i cattivi del gioco – sono tratteggiati secondo lo stereotipo più becero, coinvolti in cospirazioni degne di un romanzo di Dan Brown. I produttori sono molto attenti a non urtare la sensibilità dell’utente moderno (tanto i Templari sono i “maledetti” per antonomasia), ma a scapito della rappresentazione storicamente fedele: quello che conta è la ricostruzione d’ambiente, spesso oggettivamente impressionante, come nel caso del capitolo ambientato nell’Italia del Rinascimento, dove architettura, abbigliamento, dettagli, rappresentano l’aspetto più coinvolgente del gioco.

    Fig. 5 - Un assassino a palazzo PittiAssassin’s Creed II

     

    Word history e storia controfattuale
    Le principali tesi sulle cause del predominio occidentale degli ultimi secoli possono essere riassunte, a seconda delle posizioni, in: civiltà antichissime, che raggiungono il loro apice in questa fase storica; superiorità culturale e tecnologica europea; una temporanea anomalia, provocata dalla casuale scoperta dell’America da parte degli europei, con conseguente conquista del continente.

    Ma cosa sarebbe successo se… ? (per una discussione critica di questo approccio, e la bibliografia relativa, rimando all’intervento qui su Historia Ludens, di Antonio Brusa). Ci sono diversi titoli che permettono autentici, per quanto elementari, esperimenti di storia controfattuale: ad esempio Empire: Total War, focalizzato su conquista, commercio e sviluppo tecnologico nell’età moderna, che permette al giocatore di impersonare società non occidentali come l’Impero ottomano, o tribù di Nativi americani. Wainwright, ad esempio, propone una sua personale sessione di gioco dove i Caraibi sono dominati dall’impero Maratha, dopo la conquista dell’India all’inizio del XVIII secolo, una rivoluzione repubblicana del 1747 e una conseguente politica di espansione navale e industrializzazione che nel 1770 porta alla guerra contro la Spagna.

    fig. 6 - E se… l’India avesse conquistato i Caraibi al posto della Spagna? – Empire: Total war

    Il gioco poi si rivela molto utile dal punto di vista didattico per comprendere il sistema mondiale moderno. In particolare, l’albero dei progressi tecnologici non è esclusivamente centrato sull’aspetto militare ma mette in luce il soggiacente processo di industrializzazione, e i suoi legami con le idee dell’Illuminismo.

    Tutt’altro che adeguata invece la rappresentazione del sistema dei commerci (i beni sono rappresentati con astratte monete d’oro). Molto più significativo in questo senso è Europa Universalis III, dedicato all’esplorazione europea di Africa e America. Centrale nel gioco è l’accesso a risorse strategiche come caffè e zucchero, che però sono rappresentate come prodotti del Nuovo mondo in attesa degli occidentali che vengano a sfruttarli. Inoltre lo sviluppo dell’abilità di trapiantare specie animali e vegetali in un nuovo ecosistema, centrale nei lavori di Diamond, è totalmente assente nel gioco.

    Altro tema caro a Diamond e non ben sviluppato – in questo e altri titoli – è quello delle malattie: in titoli come Medieval II: Total War la peste scoppia e si diffonde senza apparente connessione con il sistema dei commerci e con lo spostamento di popolazione. È vista insomma secondo lo stereotipo della piaga prodotto di secoli bui, piuttosto che come il segnale della presenza di una rete di scambi ben radicata e soprattutto, in prodotti che coinvolgono il continente americano, non viene messa in relazione con il successo della conquista da parte europea: si perpetua quindi la consueta narrazione eurocentrica.

    Lo stesso vale per la schiavitù: in Civilization IV: Colonization gli Europei insediano colonie nel nuovo mondo (senza diffondere malattie), commerciano coi Nativi americani, creano piantagioni produttive e le coltivano tutte da soli. Al massimo verranno raggiunti da qualche compatriota, se il giocatore desidera, ma non c’è traccia della tratta africana. Fa eccezione Europa Universalis, che tra i beni scambiabili prevede anche gli schiavi, rappresentati in modo edulcorato con delle catene che non sembrano far male.

     

    La rappresentazione della violenza
    Se i videogiochi strategici si concentrano sulla contingenza, i videogiochi di ruolo (specie gli sparatutto in prima persona) hanno il vantaggio di rappresentare in modo efficace la brutalità dei combattimenti. Meno programmazione, più adrenalina. Filone più rappresentativo del genere è quello dedicato alla Seconda Guerra mondiale: grande precisione di ricostruzione dal punto di vista della storia militare (uniformi, armi, ambienti, schieramenti) e possibilità di interazione realistica sul campo di battaglia costituiscono il cuore dell’attrattiva di questo genere di prodotti, molto amati dai ragazzi quanto deprecati da gran parte dei loro genitori (per non parlare dei docenti).

    In particolar modo, viene contestata la rappresentazione ludica. E, facendo leva sulla teoria dell’apprendimento sociale di Bandura, sul ruolo di condizionamento sociale dei media, e su spiacevoli fatti di cronaca, si vede in questo genere di videogiochi l’ennesimo “cattivo maestro” da mettere all’indice. Non entrerò nel dibattito sulla diseducatività dei videogames (anche se questo articolo vuole dimostrare l’opposto): insegno, non educo. Posso solo dire – varrà qualcosa la mia esperienza – che qualunque adolescente è in grado di distinguere fra realtà e finzione meglio di quel che noi adulti pensiamo. Mi aiuta, in questo, Francesca Antonacci, che insegna Pedagogia del gioco alla Bicocca: “Nel videogioco […] è possibile scatenare, in forma mediata e virtuale, azioni aggressive, violente e competitive. Ma non dobbiamo dimenticare che i bambini, e in particolare i giovani maschi, hanno sempre giocato in modo sadico e violento tra loro, con piccoli animali, con i bambini più piccoli o fragili. Il videogioco non fa che portare questa espressione totalmente umana e carnale, in una forma fittizia e artificiale, totalmente protetta, senza fare del male a nessuno.” (Puer ludens, Franco Angeli, Milano 2012, p. 43).

    Ciò non toglie che la rappresentazione della violenza in titoli come Call of Duty e Medal of Honor abbia dei limiti, dal punto di vista storico prima che etico: oltre al recupero implausibile dalle ferite (basta stare un po’ al riparo e curarsi), sono altri i fatti che attirano l’attenzione. L’assenza di civili, ad esempio, che costituiscono una buona percentuale dei caduti nel secondo conflitto mondiale: in nessun gioco è permesso commettere stragi di massa come quelle perpetrate a Marzabotto o alle Fosse ardeatine. Dal punto di vista didattico, sarebbe interessante mettere a confronto sequenze di gioco con testimonianze da parte di civili, così come paragonare la rappresentazione dello sbarco in Normandia fatta da Medal of Honor: Allied Assault e dal film di Steven Spielberg Salvate il soldato Ryan con altre fonti, che parlano esplicitamente di vittime del fuoco amico. Più in generale, questo genere di videogiochi, facendo quello che oggi è riconosciuto come un “uso pubblico della storia”, o una “storia pubblica”, dipinge gli Alleati in maniera più favorevole, coesa ed eroica della realtà, poggiandosi su un immaginario filmico di prevalente genesi americana, ma non solo. Quindi i giapponesi sono brutali, i tedeschi terribili (specie in Russia), gli americani cavallereschi pur combattendo con nemici fanatici.

    Più in generale, secondo Wainwright, la legislazione di molti paesi europei volta a contrastare i cosiddetti “Hate speech”, spinge i produttori a realizzare scelte ben precise, che prevedono tra le altre cose di non poter usare simboli come la svastica. La svedese Paradox, ad esempio, dopo aver chiuso diversi post sul suo forum, si sente in dovere di specificare agli utenti di Heart of Iron 2che nel gioco non è possibile costruire gulag, campi di concentramento, bombardare civili o usare armi chimiche . La scelta di Paradox, seppur condivisibile, ha ragioni di mercato che portano a diversi interrogativi: è per ragioni di mercato che molti produttori americani ignorano il tema della schiavitù descritto sopra? Per non offendere gli Afroamericani? O per perpetuare un’immagine positiva della storia del loro paese?

    In tal senso molto ha fatto discutere il videogioco JFK Reloaded in occasione del quarantunesimo anniversario dell’assassinio Kennedy: nei panni di Oswald, il giocatore è chiamato a riprodurre l’omicidio sulle basi del rapporto della commissione Warren.

    Fig. 7 - Sulle tracce di Oswald –JFK Reloaded

    Per promuovere il lancio, gli autori misero in palio un premio di 10.000 $ per la ricostruzione più fedele, scatenando fortissime polemiche, che nemmeno la seconda distribuzione del gioco (senza premi) riuscì a placare: il sito di riferimentovenne dismesso pochi mesi dopo.

     

    Conclusione destinata alla rapida obsolescenza
    La legge di Moore condanna questo mio testo, come qualsiasi cosa abbia a che fare con l’informatica, a una rapida obsolescenza.

    Tutto quello che mi resta da fare è immaginare il futuro, e vedere quanto il mio incubo d’apertura abbia radici concrete. In un’intervista del 2012 Matteo Bittanti, esperto del settore, ha ben delineato il rapporto fra videogiochi e narrazioni storiche, mettendo in evidenza come, grazie alla tecnica del machinima – un incrocio fra il linguaggio del cinema e il rendering della computer graphic – il mondo dell’entertainment sta già sfruttando l’immaginario creato dai videogames per produrre narrazioni originali. Nicholas Werner ad esempio ha usato l’ambientazione di Rome: Total War per mettere in scena il tranello teso da due capitani cartaginesi ai danni dell'esercito romano. In più la fruizione non lineare, frammentaria e diffusa dei videogames, la loro capacità di ri-mediare narrazioni diverse confrontandosi con il romanzo, il cinema, la scienza, dice molto del mondo in cui viviamo e che sarà dei nostri studenti. Per questo è fondamentale estendere anche ai videogiochi quella cultura che la scuola sta lentamente sviluppando nei confronti della tecnologia, il cui approccio efficace può essere sintetizzato in: non cerchiamo di creare qualcosa ad hoc per la didattica. Sarà sempre una forzatura, in ritardo sui tempi. Prendiamo invece quel che già esiste, partiamo da quello che i ragazzi già fanno, e vediamo di portare il nostro contributo in termini di didattica e insegnamento.

    Sulla scia di Wainwright, in questo articolo ho messo in luce il potenziale di alcuni titoli in commercio, sicuramente popolari tra i nostri studenti (anche se alcuni un po’ obsoleti, Moore docet). Altrettanto sforzo è andato a definire quali sono i limiti e i difetti di tale strumento, che in quanto tale, rivela la propria utilità solo nelle mani di chi lo usa. Non dimentichiamoci che, davanti ad ogni esperienza videoludica, siamo di fronte a una narrazione, che in quanto tale deve selezionare (e quindi omettere), semplificare, rimodellare per ottenere il proprio scopo. Esattamente come facciamo noi a scuola. Ma un videogioco nasce come prodotto di intrattenimento, deve soddisfare un consumatore, non uno storico né tantomeno uno studente. Nessuno si aspetterebbe l’aderenza assoluta ai fatti da un film o da un romanzo storico: per quello esistono i documentari e i manuali. È proprio all’incrocio fra quest’offerta e la domanda dei nostri alunni che deve lavorare la didattica.

    Non è dunque nella fedeltà storiografica che risiede il potenziale dei videogiochi illustrati. Nonostante – per scopi commerciali – venga pubblicizzata l’aderenza al tal fatto, alla tale ambientazione, il valore aggiunto (che la didattica deve sfruttare) risiede nella libertà con cui l’utente può sfruttare le variabili di gioco per creare nuovi scenari. Se nei giochi di ruolo si tratta in sintesi di riprodurre un evento storico preciso, nei giochi strategici l’invito è a fare meglio rispetto a quanto accaduto in realtà: il che implica (seppure in una visione manichea e neopositivista, che vede il progresso come inarrestabile sviluppo in linea retta) comprendere e riflettere sugli errori commessi dalla cultura che abbiamo scelto di impersonare, e provare a porvi rimedio, evitando per esempio la caduta dell’Impero romano, o permettendo all’India di partecipare alla colonizzazione del Nuovo mondo.

    Ovviamente, come in ogni attività di questo genere, il ruolo decisivo dal punto di vista formativo è caratterizzato dal debriefing, o Dopogioco. E’ in questo momento che il docente ricompone in un discorso significativo la quantità di osservazioni, di scelte, di conflitti, di ripensamenti, di sensazioni e di soluzioni che i giocatori hanno messo in atto durante il gioco.  E’ in questa fase che, dal gioco, inteso come metafora di un aspetto della realtà storica, si ritorna alla storia effettiva, con la speranza che questo nostos conservi qualcosa del piacere ludico, e veda dei naviganti un po’ più attrezzati e disposti alla fatica dello studio.

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