arabi

  • E per ultimo arrivò Colombo.

    Autore: Antonio Brusa

    Dei musulmani e dei numerosi altri scopritori dell’America

     

    Indice

    •    La storia fra politica e radiologia
    •    Il metodo degli scopritori
    •    Come nasce una storia inventata
    •    Uso politico della “parastoria”
    •    Un obiettivo che fa gola a molti
    •    Una saga ammonitrice

    Erdogan fra i rappresentanti delle comunità musulmane nell’America Latina

     

    La storia, fra politica e radiologia

    Quando igiornali di tutto il mondo ci informarono che Recep Tayyip Erdogan, presidente della Turchia, aveva dichiarato al “Primo summit dei leader dell’Islam in Sudamerica” (15 nov. 2014) che i musulmani erano arrivati in America ben prima di Colombo, sorpreso come molti, ho provato a cercare la fonte di questa scoperta. Il punto di partenza della ricerca era offerto da quegli stessi giornali: un sito dell’As-Sunna Foundation. E’ un sito americano, prevalentemente dedicato a fatti religiosi, ma provvisto anche di una sezione storica, in fondo alla quale si trova una rubrica dedicata ai musulmani americani, il cui primo articolo era appunto quello della Scoperta Islamica, a firma diShaykh Gibril Fouad Haddad As-Sunnah Foundation of America. Un paio di giorni dopo, l’articolo venne rimosso (siete liberi di immaginarne i motivi). Fortunatamente, Luigi Cajani, che mi aiutava in questa ricerca, l’aveva già scaricato. Così, non ci ho messo molto a ritrovarlo, pubblicato sotto un altro nome, quello di Youssef Mroueh, a tutta vista il suo vero autore. E', infatti, lo scritto che questi redasse per la celebrazione del millenario dell’arrivo dei musulmani in America (996-1996). Mi è parso l’autorità indiscutibile in questo campo, il riferimento obbligato dei sostenitori della tesi islamista. Per la “Washington Post”, Mroueh è uno storico. Per altri, meno condiscendenti, è un rispettabile studioso di radiologia.

     

    Il metodo degli scopritori

    Il nostro storico-radiologo si dimostra padrone di quella forma di ragionamento che potremmo nominare “sillogismo alla Giacobbo”, un dispositivo argomentativo che permette di transitare da una dubitativa iniziale (“delle evidenze suggeriscono che”, “sembra plausibile che”, “tutto lascia pensare che”), a una dubitativa secondaria, che consiste nell’insinuare qualche sospetto sul sapere acquisito, per chiudere con una certezza finale, alla quale segue normalmente la postilla sconsolata sulla scienza ufficiale che ostacolerebbe la scoperta della verità.

    La seconda arma a disposizione di questi scopritori di scopritori, consiste nell’uso sfrenato dell’analogia. Ci sono delle statue americane che somigliano a statue africane? Ci sono petroglifi del Great Basin che richiamano caratteri libici? Toponimi americani dalle sonorità arabe? Anfore scoperte in prossimità del Brasile dalla silhouette simile a quelle mediterranee? Parole di nativi americani (algonchine, caraibiche o quecha, fa lo stesso) che sembrano uscite dal Corano? Colline il cui profilo ripete quello di una moschea (questa analogia, peraltro, fu suggerita dallo stesso Colombo)? per non parlare delle piramidi centroamericane che non poterono che essere costruite a imitazione di quelle egizie. Sommate le somiglianze, avrete la prova irrefutabile della frequenza dei traffici che, all’insaputa di tutti, hanno legato per millenni Africa e America.


    Testa colossale olmeca


    Il terzo genere di prove è francamente sorprendente, perché consiste in testimonianze orali, rese da nativi americani che rammenterebbero tradizioni islamiche precolombiane. Se volete cimentarvi con la lettura completa delle prove a supporto della letteratura “before Columbus”, leggetevi illungo testo di Abdullah Hakim Quick, studioso di radici islamiche del mondo caraibico.

    Trovo che questo incipit di Yahia Zeghoudi, Maître de Conférencedel Centre Universitaire de Ghardaia, costituisca un esempio plastico di questa retorica argomentativa. Si comincia dalle ipotesi “pochi studiosi e molti musulmani sospettano”. Si mette in dubbio il sapere consolidato con l’uso delle virgolette, quando si parla della “scoperta” di Colombo e degli “indiani”, che a questo punto sarebbero poco nativi e molto discendenti di genti musulmane. Si inserisce l’analogia fra l’espressione Mandinka, della quale si riporta il significato in caratteri arabi, e il nome caraibico di San Salvador; e, alla fine, giunge la rivelazione che nessuno avrebbe mai potuto sospettare. Colombo fu proprio l’ultimo.

    Few scholars and ordinary Muslim people suspect the arrival of
    Muslims at the Americas a long time before the “discovery” of
    Christopher Columbus of the San Salvador Island in 1492. By the way,
    this island was called by the natives “Indians” Guana Hani, a Mandinka
    word meaning( الإخوانهانئ). Probably, no one could have dreamt of the
    idea of a Muslim presence on the American continent. However, new
    theories based on archaeological findings tend to point in this direction.
    This means that Columbus was the “last” to arrive, and not the
    discoverer.

     

    Come nasce una storia inventata

    I documenti scritti utilizzati in queste argomentazioni sono brani tratti da geografi arabi medievali, come Al-Masudi e vari altri. Alcuni di questi fanno colpo per la loro notorietà: Idrissi e Piri Reis. Ma, non essendo un arabista, e nemmeno un radiologo, non mi azzardo nella loro esegesi, affidandomi agli specialisti che se ne sono occupati.
     

    Piri Reis: particolare dell’Atlante e ritratto, da unsito turco, nel quale ci si chiede se questa non sia la mappa di un tesoro, nascosto a Gallipoli

     

    Fra le innumerevoli contestazioni, mi sembra particolarmente impressionante quella che riguarda Piri Reis. Il suo Atlante, redatto a Istanbul al principio del 1500, è considerato dai modernisti di tutto il mondo una fonte preziosissima per la cultura geografica e per la storia del Mediterraneo. Tale è anche per Abdullah Hakim Quick, che lo definisce:“the most conclusive pieces of hard evidence to show the validity of Muslim exploration in the Western hemisphere”. Lo studioso islamista ricava questa certezza da Ivan van Sertima, che nel 1991 affermò che Piri Reis “mostra senza ombra di dubbio che gli Africani attraversarono l’Atlantico in tempi antichissimi”. A sua volta, van Sertima ottiene la sua convinzione da Charles Hapgood, che nel 1966 scoprì che Piri Reis aveva copiato la sua mappa da un originale, disegnato ben 10 mila anni fa da una civiltà superiore, a Cuiculco, in Messico. Col tempo – aveva spiegato Hapgood - questo esemplare era andato perduto, ma le sue tracce sono ben visibili (diceva sempre Hapgood) nelle culture egizie, mesopotamiche e cinesi. D’altra parte, poteva godere del sostegno di Erich von Daniken, secondo il quale era fuori di dubbio che queste carte erano ricavate da foto aeree scattate da alieni.

    Questa genealogia di argomentazioni l’ho trovata in un saggio di Bernard Ortiz de Montellano, Gabriel Haslip-Viera e Warren Barbour, They where NOT Here before Columbus. Afrocentric Hyperdiffusionism in the 1990 (“Etnohistory”, 44, 2, pp. 1997, pp. 199-234, 207). In questo saggio si racconta una vicenda interpretativa che inizia nel lontano 1862, quando la scoperta di sculture ciclopiche olmeche portò alcuni ad ipotizzare una loro derivazione da sculture africane, a causa di caratteri identificati come “negroidi”. Ha un punto di svolta nel 1922, data di pubblicazione di  Africa and the Discovery of America, di Leo Wiener, professore di filologia slava negli Usa, che in tre volumi eruditissimi (e altrettanto criticati) lanciò la teoria che i primi scopritori dell’America furono africani. E, poiché alcuni di questi erano musulmani (o avrebbero potuto esserlo), su questa tradizione fu agevole, nel clima della decolonizzazione postbellica e della rivendicazione dei diritti civili, innestare la storia della scoperta islamica (Richard Francaviglia, “Far Beyond the Western Sea of the Arabs...”: Reinterpreting Claims about Pre-Columbian Muslims in the Americas, in “Terraeincognitae”, 46, 2, pp. 103-138).

     

    Uso politico della “parastoria”

    Con l’avvento di internet, questa genealogia lineare – di lettori che leggono libri di altri lettori – diventa una nuvola intricatissima di rimandi che più cresce, più si autoconferma. Una sorta di “parastoria”, che adopera sistemi di verifica e di argomentazione simili a quelli della storia: un fenomeno ben conosciuto, in particolare dagli studiosi del negazionismo. Questa parastoria, essendo totalmente autoreferente, risulta inattaccabile a critiche, che oltretutto tende a catalogare come frutto di avversione ideologica, quando non di pregiudizio eurocentrico (per leggere alcune di queste critiche, basta sfogliare la rivista online history news networks.org, e leggere gli interventi di Rebecca Fachner e David Yeagley).

    E’ una nuvola non neutra politicamente. Audrey Shabbas ha curato un libro di oltre cinquecento pagine - Arab World Studies Notebook - per insegnare nelle scuole che i musulmani hanno scoperto l’America e che, perciò, i nativi americani sono loro discendenti (e ovviamente tanto altro soprattutto sul ruolo degli arabi nel mondo contemporaneo). Trovate la notizia del libro sul suo sito, con i moduli per le donazioni (ma il link al libro non si apre). Ho letto, in un intervento di Rebecca Fachner, che l’autrice, sottoposta a un fuoco di fila di critiche – a quanto pare i nativi americani non gradiscono molto l’imposizione di questa ascendenza -  ha declinato l’invito a mostrare le prove a supporto della sua teoria.

    La posta in gioco è altissima. Secondo Richard Francaviglia, direttore del Center for Greater Southwestern Studies presso l’Università del Texas, questo racconto storico ha tre scopi. Il primo è quello di mostrare come l’esplorazione islamica fu più imponente di quella cristiana; il secondo, quello di dipingere l’Islam gentile con i nativi, al contrario dei cristiani; il terzo, quello di definire bigotti tutti coloro che si oppongono a questa tesi. In questo modo, l’Islam viene trasformato in una fede radicata in America e la Umma, la comunità dei credenti, si estende sul pianeta. E’, senza alcun dubbio (continua Francaviglia), un modo per alimentare la guerra fra le culture (Brad Petter).

     

    Un obiettivo che fa gola a molti

    Diventare “scopritore dell’America”, dunque, è diventato qualcosa di più che rivendicare un titolo di nobiltà. E’, nel mondo globalizzato, affermare la propria centralità planetaria.Questo è il senso dell’intervento di Erdogan, studiato con cura per una importante occasione pubblica. E’ un obiettivo quanto mai appetibile e, come mostra lo specchietto che segue, con tanti aspiranti. Ecco, quindi, l’elenco, temo incompleto, di coloro che si sono proposti come scopritori, con le relative evidenze “scientifiche. Se, scorrendolo, resterete delusi della scarsità delle prove a supporto degli scopritori dell’Antica Roma (un’anfora poi rivelatasi del XVII secolo e un falso, scolpito da uno studente), consolatevi con la recente fatica di  Elio Cadelo, giornalista della Rai, che, con dovizia di citazioni di Virgilio, Tito Livio e tanti altri, sostiene che, avendo l’Impero Romano la capacità di scoprire l’America, l’ha fatto sicuramente.

    Una saga ammonitrice

    Barry Fells è un archeologo marino neozelandese molto utilizzato in questo genere di scritti. La sua prima opera America BC(1976) era stata demolita dagli storici senza pietà. Qualche anno dopo, ha ritentato con Saga America (1980), un libro massiccio, dove si trovano le interpretazioni dei petroglifi del Great Basin, alle quali ho accennato sopra. Anche questa opera, dice David Hurst Thomas, recensendola sul “Journal of California and Great Basin Archaeology”, andrebbe screditata con la stessa severità. Ma, continua, si tratta di un’opera elogiata dalla Casa Bianca, che ha trovato un editore di prestigio e che piace al grande pubblico. Questa diffusione, perciò, ci suggerisce qualche riflessione in più: “Chiunque pensi che gli archeologi dovrebbe adottare una politica di “benigna ignoranza” verso questa archeologia un po’ picchiatella, probabilmente scherza. Libri come questo devono essere un barometro per misurare quanto poco siamo riusciti a spiegare l’archeologia al pubblico americano”.

    Possiamo far nostra anche noi, insegnanti di storia europei, questa conclusione.

  • Gli arabi in Italia meridionale. Appunti da Marco di Branco

    Autore: Antonio Brusa

     

    Marco Di Branco lavora all’Istituto Italo-Germanico. Studia gli arabi in Italia meridionale. Sono andato a sentirlo a Foggia, l’8 maggio scorso. Ecco i miei appunti. Forse saranno utili ai colleghi, e non solo dell’Italia meridionale, desiderosi di informarsi. Dalla relazione di Marco, infatti, mi sono accorto che occorre rivedere qualche conoscenza manualistica.

     

    Indice:

    1. Revisione storica
    2. La cronologia
    3. Fonti musulmane e documentazione
    4. Letteratura

     

    a. Revisione storica

    Gli emirati, innanzitutto. Spesso si parla di tre emirati: Bari, Taranto e Amantea, L’unico attestato è quello di Bari. Gli altri sono delle invenzioni successive (alle quali ho creduto anch’io, ahimé).

    Il Garigliano. Ho trovato spesso che il forte musulmano era situato sulla foce del fiume omonimo. In realtà era su di un monte all’interno, presso il porto fluviale di Montecassino (il Liri era navigabile per tutto il medioevo).

    Le scorrerie. E’ diffusa la “retorica della scorreria”, cioè un modo di vedere la frequentazione musulmana come unicamente motivata dalla predazione. E’ uno stereotipo “colto”, dovremmo dire, dal momento che risale alla ricostruzione di Nicola Cilento, grande storico dell’Università di Napoli. Dall’analisi attenta delle fonti, e soprattutto dalla comparazione con le altre invasioni musulmane, si ricava un modello generale, al quale sottostà anche la vicenda arabo-italiana. Secondo questo modello, vi è una fase iniziale di scorrerie effettive, ma mai del tutto scoordinate; a questa succede un insediamento, solitamente una piazzaforte militare spesso separata dalla popolazione; successivamente ancora iniziano i processi di arabizzazione e di islamizzazione, che, come sappiamo ormai dalla letteratura, sono ben distinti dalla fase della conquista. Secondo questo modello, in Italia meridionale si verificarono sicuramente le prime due fasi, mentre la terza fu bloccata dall’arrivo delle truppe imperiali. Dunque, non si trattava di scorrerie, effettuate da gruppi indipendenti e scoordinati, quanto piuttosto di un piano che rispondeva a una visione politica complessiva.

    Il gihàd. Sul significato di questo termine ormai è stato detto molto. Che non significhi guerra totale e alla morte, contro un nemico da distruggere, quanto piuttosto “sforzo per la conquista del paradiso” credo sia riportato da tutti i manuali informati. Dopo l’XI secolo si aggiunge al vecchio significato bellico anche un’interpretazione religiosa, dal momento che si dice che questo sforzo poteva essere realizzato sia con la guerra, sia con la preghiera e il buon comportamento religioso.

    I rapporti cristiano-musulmani. Lo stereotipo del gihàd (e del corrispettivo “crociata”), però, continua ancora a funzionare, quando  ci porta a immaginare come impossibili i rapporti fra gli appartenenti a religioni diverse. Non era così. Arabi o cristiani non facevano blocco sempre. Anzi, molte volte troviamo musulmani e cristiani alleati fra di loro, contro i rispettivi confratelli. Ad esempio: quando i musulmani iniziano la loro conquista siciliana, trovano come alleati dei bizantini, ribelli all’imperatore. Napoli e Gaeta, nel IX secolo, sono spesso alleate dei musulmani, nella loro lotta perenne contro gli altri potentati longobardi. Quando il Garigliano viene assediato dai cristiani, sono i Gaetani che aiutano i musulmani a salvarsi. Messina, nel IX secolo, viene attaccata da Musulmani e Napoletani coalizzati (eccetera eccetera).

    I Berberi. Sembra che l’emirato di Bari non sia stato conquistato da truppe berbere, quanto piuttosto Yemenite. Gli yemeniti, infatti, erano truppe scelte delle armate musulmane. E Sawdan el Mawri, ultimo emiro di Bari, sembra provenire da una famiglia yemenita. In generale, berberi della tunisia, libici e cretesi erano in competizione fra di loro.

    Signori di fatto. Esattamente come accadeva in occidente, i signori musulmani prima conquistavano il potere, e poi ne chiedevano la legittimazione, ad un’autorità costituita. E’ quello che accade a Bari, dove Sawdan  richiede all’imam del Cairo (e per lui al Califfo, in quel momento di Samarra) la nomina a emiro.

     

    b. La cronologia

    I Fase: ‘scorrerie’

    • Metà VII secolo: attacchi alla Sicilia e alla Sardegna
    • 703-710: spedizioni di Mūsà ibn Nuṣayr
    • 720-752: spedizioni dei governatori della provincia di Ifrīqiya (Tunisia) contro Sicilia e Sardegna.
    • 800: FONDAZIONE DELLA DINASTIA AGHLABIDE in Tunisia
    • Tregua (hudna) con la Sicilia bizantina, verso la fine dell’emirato di Abū ’l-’Abbās: è il tempo del grande califfo Harun al-Rashid (786-809)

    II Fase: offensiva aghlabide

    • 821/22: attacco alla Sardegna
    • 827. Crisi bizantina, causata dalla rivolta di Tommaso lo Slavo. Gli Aghlabidi decidono di non rispettare la tregua e effettuano la prima spedizione in Sicilia
    • 835: Napoli: il console Andrea chiama i musulmani Sicilia contro Sicardo (832-839) principe di Benevento (Giovanni Diacono, Chron. Episcoporum , in RIS, I, p. 314).
    • 838/9: attacco a Brindisi, sbarchi in Calabria, attacco a Ancona e Adria. Le truppe provengono dall’Ifriqyia  e da Creta (questi sono ommayadi di Spagna) e dalla Sicilia
    • 840: Apolofar, proveniente da Creta, attacca Taranto
    • 840/1: Ḥayah in Ibn al-Aṯīr attacca Bari, ma non riesce a conquistarla
    • 842/43: Messina. I musulmani e i napoletani attaccano la città
    • 846/49: attacchi a Roma, Taranto, Ponza e Miseno. Battaglia di Ostia.
    • 847-61: Ḫalfūn al-Barbarī conquista Bari e altre 24 piazzeforti. Gli succede Mufarraǧ ibn Sallām che chiede al Ministro della Posta egizio la possibilità di costruire una moschea. Viene ucciso in una sommossa dei suoi soldati
    • 861-863: Gli succede Sawdan, che chiede la legittimazione del suo potere all’Emiro dei Credenti.
    • 871, 2 febbraio: “Sawdān al-Māwrī, signore di Bāra”, viene catturato dai Franchi (le truppe imperiali di Ludovico II). Abd  Allāh sbarca a Taranto: nuova campagna militare.
    • 872: musulmani sconfitti a Salerno
    • 883-915: Insediamento musulmano a Mons Garilianus

     

    c. Fonti Musulmane e documentazione*

     

    1. Bala¯d u¯ rı¯, Futu¯h. al-bulda¯n, p. 233 ed. de Goeje. Cfr. Ibn al-Atı¯r, Al-Ka¯mil fı¯ ’l-ta’rı¯h, VI, pp. 370-371 ed. Tornberg:


    Prese poi il potere un certo Mufarragˇ b. Sa¯ lim, che si impadronì di ventiquattro piazzeforti da lui custodite. Poi, annunciò le sue conquiste al Governatore dell’Egitto, dicendogli che lui e i suoi seguaci non avrebbero potuto guidare la preghiera senza che l’ima¯m lo confermasse sul distretto e lo facesse governatore, cosicché non potesse essereincluso nella categoria degli usurpatori. Mufarragˇ eresse una moschea congregazionale. Alla fine i suoi uomini insorsero contro di lui e lo uccisero. A lui successe Sura¯n che inviò il suo messaggero ad al-Mutawakkil, l’Emiro dei Credenti, che richiedeva una conferma e una lettera di incarico quale governatore. Tuttavia, al-Mutawakkil morì prima che il suo messaggero partisse con il messaggio per Sura¯n. Al-Muntas.ir-Billa¯h morì dopo aver esercitato il califfato persei mesi. Poi venne al-Musta‘ı¯n Billa¯h Ah.mad ibn Muh. ammad ibn al-Mut‘as.im, che ordinò al suo ‘a¯mil sul Magrib, U¯ ta¯misˇ, un liberto dell’Emiro dei Credenti, di confermare Sura¯n. Ma non appena il messaggero del califfo partì da Surraman-ra’a, U¯ ta¯misˇ fu trucidato. La regione fu allora governata da Wası¯f, un liberto del califfo, che confermò Sura¯n nella sua posizione.


    2. Kita¯b al-‘uyu¯n wa ’l-h. ada¯ ’iq fı¯ ahba¯r al-h. aqa¯’iq, ed. Saïdi, I, pp. 26 e 98:

     

    (872) In quell’anno i Franchi catturarono Sawda¯n al-Ma¯wrı¯, signore di Ba¯ ra. (902) Successivamente Ibra¯h. ı¯m bin Ah. mad invitò la gente al gˇiha¯d e uscì con l’esercito dalla città di Susa per la conquista dirigendosi verso Nubah, lunedì, primo giorno di Gˇ uma¯dà al-’u¯ là, e raggiunse la Sicilia il tre di Ragˇab. Poi egli andò a Taormina, che conquistò di
    domenica, 9 notti prima della fine di Sˇ a‘ba¯n (1 agosto 902). Egli morì nel paese dei Ru¯m in un luogo detto Cosenza che dista nove giorni dalla Sicilia. La sua morte avvenne di lunedì, ma alcuni dicono di sabato, tredici notti prima della fine del mese di Du¯ ’l-Qa‘dah (23 ottobre 902).

     

    3. Ibn al-Atı¯r, Al-Ka¯mil fı¯ ’l-ta’rı¯h, VI, pp. 370-371 ed. Tornberg:

     

    Nel Magrib si trova una terra nota come al-ard al-kabı¯rah, sita a una distanza di più o meno 15 giorni da Barqah. In questa terra c’è una città sulla costa chiamata Ba¯ rah, i cui
    abitanti erano cristiani ma non appartenenti ai Ru¯ m. Questa città fu invasa daHayah, il liberto di al-Aglab, che non riuscì a conquistarla, poi da Halfu¯ n al-Barbarı¯ (probabilmente un affiliato dei Rabı¯‘ah), che la conquistò durante ilprimo periodo del califfato di al-Mutawakkil»

    * I segni di lunga vanno riportati sopra la vocale precedente

     

    d. Letteratura

    Marco Di Branco, Due notizie concernenti l’Italia meridionale dal KITA¯ B AL-‘UYU¯ N WA ’L-H. ADA¯ ’IQ FI¯ AHBA¯ R AL-H. AQA¯ ’IQ (LIBRO DELLE FONTI E DEI GIARDINI RIGUARDO LA STORIA DEI FATTI VERIDICI,)

    F. Marazzi, Ita ut facta videatur Neapolis, Panormus vel Africa. Geopolitica della presenza islamica nei domini di Napoli, Gaeta, Salerno e Benevento, in “Schede Medievali”, 2007, pp. 159-202

     

  • La staffa: un esempio di monocausalità da negare*

    di Giuseppe Sergi

    01jpgFig. 1 Cavaliere franco, armato pesantemente, con angone e scudo. Non adopera la staffa. Sacramentario di Gellone (780-800).

    La storia non ama le "svolte"

    Un permanente contrasto caratterizza, negli ultimi decenni, il rapporto fra scienziati che praticano la storia delle tecniche e storici puri: i primi fondano le loro riflessioni su conoscenze storiche consolidate (e talora obsolete) del pieno Novecento, i secondi si tormentano sulla complessità dei contesti intellettuali e sociali; i primi amano i momenti di svolta (l’invenzione che avrebbe cambiato il corso della storia), i secondi – quasi sempre – ricostruiscono la gradualità e individuano nell’«invenzione» il rischio che si tratti di un luo- go comune. Qualche esempio? Uno dei più grandi storici contemporanei, David Landes, è polemico in modo argomentato contro la diffusa convinzione della corrispondenza fra adozione dei telai meccanici in Inghilterra e rivoluzione industriale (Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell'Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostril, Einaudi 2000). È stato accusato di ingenuità un libro di Steven Shapin e Simon Schaffer sulla pompa ad aria come tappa fondamentale non solo dello sviluppo tecnico ma anche del pensiero scientifico (Il Leviatano e la pompa ad aria. Hobbes, Boyle e la cultura dell'esperimento, La Nuova Italia, 1994).

    Eppure l’idea di svolta piace molto alla divulgazione e al grande pubblico. Certamente una delle tesi che ha avuto più fortuna (nelle scuole, ad esempio) è quella che riguarda l’invenzione della staffa. La cavalleria munita di staffa avrebbe cambiato il corso della storia perché avrebbe consentito a Carlo Martello di vincere nel 732 la battaglia di Poitiers contro le armate musulmane e, poi, sarebbe stata la vera arma segreta in grado di regalare ai Franchi la conquista dell’Europa. Questa tesi ha avuto un autore geniale e di grande livello: Lynn White jr. nel 1962 (Medieval Technology and Social Change, Oxford U.P.). La sua forza è stata (oltre a quella di ragionamenti tecnici e riscontri documentari di indubbia originalità) la semplicità: un oggetto, un semplice oggetto frutto dell’inventiva umana, in grado di spiegare tutto dei secoli successivi e quindi degli sviluppi politici, econo- mici e sociali dell’Europa.

    La contestazione di questa tesi fu quasi subito affidata a ricerche minuziose e ad articoli su riviste specialistiche, le cui argomentazioni sono poi confluite in una sintesi del 1980, il testo fondamentale su La guerra nel medioevo di Philippe Contamine, tradotto in italiano dal Mulino nel 1986: ciò non ostante continua a essere la tesi di White la più nota e circolante, come può constatare chi si informi sul tema in Internet (trovandovi, tra l’altro, il recente articolo Un evo ingegnoso di Vittorio Marchis).

    02Fig. 2 Due armate di età carolingia si affrontano. Al centro le fanterie, sui lati le due cavallerie. I cavalieri non adoperano la staffa. Dall’Apocalisse di Trier (800), Trier Staadtbiblioteck, da D. Nicolle, Poitiers. Ad 732. Charles Martel turns the Islamic Tide, Osprey Publishing, N.Y 2008, p. 42.

     

    Poitiers: battaglia decisiva?

    Tre sono i temi su cui occorre chiarirsi le idee e aggiornarsi per uscire dall’inerzia delle nostre conoscenze:

    -             Poitiers,

    -             il ruolo della cavalleria nelle battaglie medievali,

    -             l’uso della lancia e di altre attrezzature tra cui la staffa.

    Procediamo con ordine.

    Il più grande studioso di civiltà islamica, Bernard Lewis, si è impegnato a dimostrare che la storiografia occidentale è, ancora oggi, vittima della propaganda dei cronisti carolingi e del loro atteggiamento encomiastico nei confronti di Carlo Martello. Poitiers non è un’«invenzione della storia» dovuta a manipolazioni moderne, ma una ben riuscita e immediata creazione della propaganda di poco posteriore. In realtà sarebbe stata una scaramuccia come tante altre, non una gigantesca battaglia che bloccò gli Arabi e impedì all’Europa di islamizzarsi.

    All’inizio del secolo VIII era normale che bande di Saraceni (per lo più irregolari, non inquadrate in una struttura di potere, spesso non arabe ma composte da Berberi e Ispanici), conducessero a nord dei Pirenei spedizioni di saccheggio. Vincevano, di frequente, tornavano in Spagna con il bottino di intere città saccheggiate, era il loro modo di mantenersi: e non traducevano le loro vittorie in conquiste territoriali, non avevano la forza e il numero – probabilmente neanche la volontà – di comportarsi da truppe di occupazione. Tutto, se valutato a mente fredda e senza condizionamenti, suggerisce che anche Poitiers fosse una di queste battaglie: importante, certo, perché Tolosa, Bordeaux e Tours furono salvate dal saccheggio e perché rallentò la pratica di quelle spedizioni – fin allora troppo ‘comode’ – da parte dei musulmani, ma non decisiva.

     

    03Fig. 3. Cavaliere arabo. A dispetto delle mitologie occidentali, anche gli arabi conoscevano la staffa, ma, esattamente come i franchi, tendevano a usarla poco. Questa è una raffigurazione del VII-VIII secolo, conservata presso il Museo del Tessile (N.Y.). D. Nicolle, cit. p. 39.Se per ipotesi Carlo Martello fosse stato sconfitto, non per questo l’Islàm avrebbe dilagato verso settentrione e non per questo si sarebbe costituito un califfato a nord dei Pirenei. Poitiers frenò, senza dubbio, la permanente minaccia musulmana, ma non dobbiamo rievocarla come l’architrave militare su cui si fonda l’Europa cristiana.

     

    Esercito di popolo, esercito di fanti

    Lynn White jr. invece non metteva in discussione l’assoluta importanza di Poitiers e fu giusto, da parte sua, interrogarsi sulle ragioni tecnico-belliche che spiegavano la vittoria di ‘quella’ volta a confronto con le sconfitte precedenti. Ciò anche se la stessa battaglia conteneva dati contraddittori. Perché la ragione per cui le truppe franche non riuscirono a inseguire gli sconfitti deve essere cercata in una spiegazione quasi ovvia: i cavalieri, nell’esercito di Carlo Martello, dovevano essere pochi (la parte aquitana dell’esercito franco).

    E allora ecco che dobbiamo chiarirci le idee anche sulla composizione degli eserciti medievali e, in particolare sulla cavalleria.

    Nell’alto medioevo erano sparite da tempo le coorti regolarissime e ben organizzate dell’esercito romano, ed era sparito anche il mercenariato del basso impero. Tuttavia la fanteria continuava a prevalere largamente, se pur in forma diversa. Teniamo conto che le popolazioni germaniche, tutte (dai Burgundi agli Alamanni, dai Longobardi agli stessi Franchi), convivevano quotidianamente con il combattimento (per lo più per far bottino, spesso perché migravano in massa) e che i loro erano «eserciti di popolo»: erano «exercitales» tutti gli adulti di sesso maschile, erano loro che eleggevano capi e re, c’era insomma coincidenza fra vita militare e vita civile.

    Lo stesso termine «arimanno» (che per gran parte del Novecento la tradizione erudita italiana riferiva al componente di una guardia speciale del re longobardo) non significava altro (come ha dimostrato in modo irreversibile Giovanni Tabacco) che «Longobardo libero armato», cioè l’exercitalis di quel popolo. In queste condizioni non si può pensare né che le armature potessero essere sofisticate, né che ci fossero molti componenti di quegli eserciti di popolo in grado di mantenere un cavallo. La stessa archeologia ci ha dato un aiuto parziale, negli ultimi anni: perché per alcune famiglie era troppo oneroso seppellire i propri morti con le loro armi, che era vitale, invece, trattenere per passarle ad altri membri della famiglia.

    Dunque nell’Europa occidentale, sino al declino dell’età carolingia, gli eserciti erano di massa, con attrezzatura semplice e con prevalenza della fanteria.

     

    Combattere costa

    I Longobardi in Italia, dopo aver riservato per anni il diritto-dovere di combattere solo ai Germani, nel 750, con un editto di re Astolfo, stabilirono che occorreva raggiungere un minimo di ricchezza per far parte dell’esercito e che, a quelle condizioni di censo, potevano far parte dell’esercito anche i Latini. È un editto famoso, usato dagli storici per testimoniare il processo di integrazione etnica, e tuttavia prezioso anche perché fa rilevare come combattere costasse e, in regime di assestata stanzialità, non si potesse più chiedere a tutti. Il mondo carolingio (pur etnicamente integrato fin dal secolo VII, anzi forse proprio per questo), in particolare dagli anni di Ludovico il Pio in poi, cominciò a stentare nel pretendere da tutti l’obbligo del combattimento.

    Ai livelli sociali più bassi l’agricoltura aveva le sue esigenze di continuità, a quelli più alti era difficile far costantemente avvertire l’unità di intenti che era spontaneamente sentita quando si trattava di fare spedizioni di conquista, come quelle precedenti di Carlo Magno.

     

    Finisce l'"esercito del popolo"

    Così, se da almeno mezzo secolo è dimostrato che la politica non era affatto «feudale» e che non c’era alcuna struttura piramidale (anche se la cultura corrente si ostina a non prendere atto della correzione: HL è già intervenuta sulle “piramidi feudali”), l’organizzazione militare invece cominciò a essere fortemente caratterizzata dai rapporti vassallatico-beneficiari (feudali, appunto).

     

    04 Fig. 4 Cavalieri con armature a scaglie, lancia e staffa della fine del secolo IX. Salterio aureo di S. Gallo. FonteGruppi di fedeli (del re, di altri funzionari come conti e marchesi, ma anche di abati, vescovi, latifondisti laici) costituivano le «clientele» armate che normalmente combattevano per i loro seniores, ma in caso di mobilitazione si collegavano fra loro (non c’era una piramide, ma una rete che agiva per provvisorie comunanze di interessi) per far fronte a un nemico comune (i Normanni, ad esempio) o per particolari spedizioni. I diversi regni franchi affiancavano, a queste clientele permanenti, specifici richiami alle armi della popolazione, con disposizioni mirate e costrittive.

    L’esercito di popolo non c’era più, politica e attività bellica si erano separate. I milites (i vassalli di qualcuno) avevano professionalizzato la guerra, nel giurare fedeltà mettevano a disposizione le loro armature e i loro cavalli (dovevano essere ‘già’ ricchi, dunque), erano la minoranza stabilmente armata di una struttura sociale molto articolata e, in caso di mobilitazione militare, coincidevano con i corpi di cavalleria.

     

    L'esercito aristocratico

    Questa è l’aristocrazia militare che spiega molte delle vicende belliche e sociali dei secoli IX-XII. Chi passava le proprie giornate non impegnate in battaglia ad affilare spade e a curare (o far curare) cavalli, lance, corazze, certo accelerava il perfezionamento tecnico della propria attrezzatura e del proprio modo di combattere. Non è un caso, dunque, che ormai si sia tutti convinti che fu solo nell’avanzato secolo IX (quindi non solo dopo Carlo Martello, ma anche dopo Carlo Magno e Ludovico il Pio) che, in seguito a un processo graduale, la staffa divenne di uso generalizzato. E che si sia peraltro tutti convinti che non si possono collegare repentini rivolgimenti al perfezionamento della cavalleria, minoranza degli eserciti, spesso importante e decisiva, ma sempre usata ‘in più’ rispetto alla massa d’urto dei combattenti a piedi.

     

    La staffa e l'armamento del combattente

    Vediamola, allora, la storia aggiornata della staffa. Ridatiamola, e colleghiamola all’insieme dell’attrezzatura di un combattente.

    L’ascia bipenne, o francisca, era una pesante arma prevalentemente da lancio, usata dai fanti, che usavano anche il sax o scramasax, una spada lunga a un solo taglio. Le battaglie, almeno fino all’età merovingia, consistevano essenzialmente in una serie di duelli individuali fra combattenti a piedi con ascia e spada.

    Questo spiega i tempi (implicati ad esempio dal lancio, dal recupero dell’ascia ecc.) e la pluralità di armi: la lancia più usata era l’angone, con punta metallica circondata da uncini che non solo straziavano la vittima ma, nel caso, si piantavano nello scudo riducendo la mobilità dell’obiettivo, a cui a quel punto ci si avvicinava con il sax. Il sax rimase prevalente via via che si passò, dal secolo VIII, a combattimenti più coordinati. Mentre era più rara – perché perfetta in particolare per i corpo a corpo fra cavalieri – la spatha (o gladio), più corta del sax, a due tagli, ma soprattutto pesante più in punta che dal- la parte dell’elsa.

    Il già ricordato angone (una sorta di giavellotto) fu la lancia normalmente usata in un primo tempo anche dai cavalieri, che non ne inventarono subito un uso diverso, e per i quali era normale scendere da cavallo per avvicinarsi con la spada all’avversario colpito o rimasto senza scudo.

     

    I molti modi di cavalcare dell'alto medioevo

     

    Lynn White jr. aveva certamente ragione quando ci insegnava che nell’alto medioevo gli usi della cavalleria e i modi di cavalcare erano vari.

    Vandali, Goti e Longobardi usavano molto i cavalli, mentre tra Franchi e Anglo-Sassoni i combattenti montati erano un’eccezione. Per gli uni e per gli altri era indubbia, nei primi secoli del medioevo, la precarietà dell’equilibrio: cavalcare su una semplice coperta, senza sella e senza staffa, attrezzati solo da redini e morso, serviva essenzialmente a garantire velocità ed essere pronti a saltar giù dalla cavalcatura: infatti White fa notare che prima della staffa per questa operazione si usava il verbo «desilire» (saltar giù) e invece, dopo la staffa, «de- scendere», ed è tra le sue osservazioni più interessanti.

    Jadran Ferluga, documentatissimo bizantinista contemporaneo, dà rilievo alla guerra greco-gotica per più aspetti: 1) perché vi individua una prevalenza, fra i Bizantini, di truppe appiedate, in particolare nell’importante battaglia di Tagina del 552; 2) perché vi compaiono drappelli di arcieri a cavallo, di cui Bisanzio si era dotata copiando i nomadi dell’Asia centrale; 3) perché sono usati i «catafratti» (corazzati in larga parte del corpo) che sono appesantiti ma versatili, e combattono sia a piedi sia a cavallo.

    Si può supporre, nelle truppe bizantine, la presenza – anche se non un uso sistematico – della staffa: si era nel secolo VI (in Cina era già nota alla fine del V). Il modello della staffa era dunque arrivato presto in Occidente, ma si affermò a fatica, proprio per l’adozione tutt’altro che sistematica del combattimento a cavallo.

     

    05Fig. 5 L’arciere monta con la staffa al modo dei nomadi; il cavaliere armato di spada no, dal momento che combatte a piedi (800-824). Bibliothèque municipale de Valenciennes. Ms.99 (92). Fonte

     

    Pochi cavalieri, pochissime staffe

    Per la fine del secolo VII, in Francia orientale, sappiamo di un esercito di 704 combattenti: di questi solo 135 sono cavalieri e tra questi cavalieri solo 13 sono muniti di staffe. Si pensi che addirittura nella battaglia di Hastings, combattuta il 14 ottobre 1066 tra il duca di Normandia Guglielmo e il re d’Inghilterra Aroldo, gli Anglo-Sassoni erano quasi privi di cavalleria e certamente senza staffe.

    Per troppo tempo gli studiosi hanno adottato un’equazione cavalli=cavalleria: mentre è provato che i cavalli servivano prevalentemente a coprire lunghe distanze, in preparazione ai combattimenti a piedi una volta arrivati a destinazione. In una nota e bella fonte iconografica per la storia della guerra, l’arazzo di Bayeux del 1080 circa, sono molti i cavalieri che impugnano ancora la lancia a braccio teso verso l’alto, pronti a usarla come un giavellotto. Ricordiamo sempre che a Poitiers i Franchi non riuscirono a inseguire i musulmani sconfitti.

    Ma prendiamo anche atto che, ancora nel pieno secolo IX, quando la cavalleria cominciava a diffondersi, il combattimento con lancia «in re- sta» era tutt’altro che comune. Eppure il cavaliere saldamente in sella, appoggiato alle staffe, corazzato, con la lancia in resta (cioè appoggia- ta al corpo e pronta a colpire di punta il nemico), era una macchina da guerra straordinaria: la forza d’urto del peso del cavaliere e del cavallo in corsa, tutta concentrata su quella lancia ben assicurata all’insieme, era eccezionale.

     

    Perché la staffa era poco usata

    Perché allora tanta lentezza nell’adottare la staffa e la tecnica di combattimento che consentiva, pur secoli dopo la data-mito di Poitiers? Perché negli eserciti c’erano meno combattenti montati di quanto normalmente si pensi.

    Perché era un’attrezzatura da ricchi, che aveva bisogno della rinuncia agli eserciti di popolo e della successiva diffusione delle clientele militari: formate da aristocratici già abbienti, che per il mantenimento proprio e della propria attrezzatura potevano an- che contare sulle rese delle terre feudali.

    Perché quasi sempre, nella storia, un’innovazione tecnica si afferma progressivamente (anche nella guerra, che purtroppo ne è spesso il motore): è raro che ci siano folgorazioni di massa verso la novità e, soprattutto, occorrono le condizioni economiche e sociali che ne consentano l’adozione generalizzata.

     

    Tre motivi dell'affermazione dei Franchi

    Un’altra, e finale, domanda. Perché allora i Franchi conquistarono l’Europa?

    Perché i re Carolingi (a differenza dei predecessori Merovingi) smisero di imitare il modello statale romano e costruirono un sistema composito e duttile, in cui mescolarono le tradizioni barbariche 

    dei legami personali con apparati solo in parte statali e territoriali.

    Perché mantennero vivo, nel loro ceto dominante, interessi soggettivi alla conquista e all’affermazione, non mediati da apparati burocratici.

    Perché – ed è la causa meno nota – non erano per nulla conservatori ed erano scarsamente gelosi della propria identità etnica: pronti a integrare chiunque con parità di diritti (si trattasse di altri Germani, di Gallo-Romani o di Latini), inclini a mettere sullo stesso piano i loro princìpi di eminenza sociale (tutti giocati sulla capacità di comando e sul valore militare) e quelli delle popolazioni romanizzate (in cui dava prestigio, ad esempio, compiere carriere ecclesiastiche).

    Furono certamente grandi combattenti, ma non cerchiamo una spiegazione unica della loro affermazione (e certamente non la staffa).

     

     

    *Questo articolo è stato pubblicato la prima volta in «Nuvole» (XV, 2005, 25, pp. 92-8), che ringraziamo per averci concesso questa nuova edizione online.

     

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