cancel culture

  • L'assalto alle statue di Colombo

    di Daniele Boschi

     

    Immagine 1. Colombo BostonFig.1: La statua di Cristoforo Colombo a Boston (Massachusetts) decapitata lo scorso 10 giugno. Fonte Un corposo dossier sulla Guerra delle statue

    Historia Ludens è intervenuta più volte sulla questione dell’abbattimento delle statue, con articoli sugli attacchi ai monumenti avvenuti a partire dal giugno scorso, sul dibattito sviluppatosi intorno alla cosiddetta “guerra delle statue” e sulla proposta di abbattere la statua di Costantino il Grande; abbiamo pubblicato inoltre una sitografia analitica e la presa di posizione degli storici che lavorano al progetto Contested Histories dell’IHJR (Institute for Historical Justice and Reconciliation). Ma l’analisi degli eventi più recenti rimarrebbe sicuramente incompleta, se tralasciasse il fatto che la principale vittima della furia iconoclasta, scatenatasi negli USA dopo l’uccisione di George Floyd lo scorso 25 maggio, non è stata il generale Robert Lee, né Jefferson Davis, né alcun altro dei Confederati, ma piuttosto Cristoforo Colombo.
    Il navigatore genovese, pur non avendo mai messo piede sul territorio attuale degli Stati Uniti, è considerato infatti dai suoi detrattori come una figura simbolo del colonialismo, dello schiavismo e del genocidio dei nativi americani. Per questo motivo, circa trenta statue di Colombo sono state vandalizzate, abbattute o rimosse tra il 9 giugno e il 31 luglio di quest’anno, un numero molto più alto di quelle di ognuno dei Confederati preso singolarmente. E non è affatto detto che la vicenda si chiuda così, dato che ci sono ancora svariate decine di monumenti dedicati a Colombo ancora al loro posto, sparsi sul territorio statunitense (lo si deduce confrontando questo elenco con quello delle statue abbattute o rimosse).

     

    Colombo nella memoria degli Stati Uniti

    Gli attacchi alle statue di Colombo negli Stati Uniti hanno alle spalle una lunga storia, che credo sia utile ricostruire sommariamente (per una analisi più approfondita si veda A. Brusa, Colombo eroe o malfattore? in M. Gazzini, Il falso e la storia, Feltrinelli, Milano 2020, in corso di stampa).
    Va tenuto presente anzitutto che la figura di Cristoforo Colombo ha avuto un ruolo molto importante nella definizione dell’identità e delle origini degli Stati Uniti d’America. Nel corso dell’800 Colombo è divenuto l’oggetto di un autentico culto, sia da parte delle élites sia nella cultura popolare della nuova nazione nordamericana. Un importante e ben noto contributo alla costruzione del mito di Colombo fu la celebre biografia di Washington Irving, A History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828), alla quale si devono buona parte degli elementi costitutivi dell’immagine eroica e romantica del navigatore genovese, tramandata a generazioni di scolari fino a non molto tempo fa. A ciò si aggiunge il fatto che, a partire dalla fine del XIX secolo, Cristoforo Colombo è stato innalzato a figura simbolo degli immigrati italiani negli USA e della loro travagliata integrazione in quel paese. Fu anche in seguito alle pressioni esercitate da un influente uomo d’affari italo-americano, Generoso Pope, che il Presidente degli Stati Uniti F. D. Roosevelt riconobbe nel 1934 il Columbus Day (12 ottobre)come festa nazionale[1].

    A Colombo sono dedicate strade, piazze e monumenti in tutti gli Stati Uniti. Numerose contee e città – tra le quali le capitali dell’Ohio e della South Carolina – e una prestigiosa università – la Columbia University di New York - portano il suo nome, o quello da lui derivato di Columbia. In suo onore il territorio della capitale degli Stati Uniti si chiama, appunto, District of Columbia.
    In netto contrasto con questo glorioso passato, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso la figura dell’esploratore genovese è divenuta oggetto di dure critiche, sia da parte della cosiddetta storiografia ‘revisionista’, sia da parte degli attivisti dei movimenti che si battevano per i diritti dei nativi americani e di altre minoranze[2]. Si è cominciata allora a diffondere una nuova immagine di Colombo, visto non più come il grande navigatore che ha scoperto l’America, ma come l’uomo che ha avviato lo sfruttamento e il genocidio degli abitanti originari del Nuovo Mondo. 

    La decostruzione del mito di Colombo ha avuto varie ripercussioni, anche per effetto delle campagne organizzate dalle associazioni dei nativi americani. Come è ben noto, numerose città e stati, a partire dal 1990, hanno abolito il Columbus Day, rimpiazzandolo in molti casi con l’Indigenous Peoples’ Day(o Native Americans’ Day)[3]. E gruppi di attivisti hanno cominciato a chiedere la rimozione delle statue e dei monumenti dedicati a Colombo, che sono stati talora oggetto di vandalismo, soprattutto in questi ultimi anni, fino all’escalation avvenuta a partire dal giugno scorso.

     

    Immagine 2. Washington IrvingFig.2: Washington Irving (1783-1859), autore della History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828), alla quale risalgono buona parte degli elementi costitutivi dell’immagine eroica e romantica del navigatore genovese. Fonte Colombo nella memoria storica dell'America latina

    È utile ricordare che anche nell’America latina la fortuna di Colombo ha seguito una parabola abbastanza simile a quella descritta negli USA. A partire dal secondo decennio del ‘900, diversi Stati dell’America centro-meridionale hanno celebrato il 12 ottobre come Día de la Raza, per ricordare l’incontro e la contaminazione tra spagnoli e nativi americani come elemento fondante della propria identità nazionale. Ma a partire dalla fine del secolo scorso, molti governi hanno cambiato il nome di questa ricorrenza, che è diventata ad esempio in Venezuela il Día de la resistencia indígena e in Argentina il Día del Respeto a la Diversidad Cultural. Inoltre, alcune statue di Cristoforo Colombo sono state abbattute o rimosse, per essere poi sostituite con monumenti dedicati ai protagonisti della resistenza dei nativi contro i colonizzatori europei. Nel 2015, a Buenos Aires, una statua di Juana Azurduy de Padilla, che lottò per l’indipendenza della Bolivia, ha sostituito un monumento del navigatore genovese. E nello stesso anno a Caracas è stato inaugurato un monumento a Guaicaipuro, leader della resistenza ai conquistadores, sullo stesso posto dove prima si ergeva una statua di Colombo, abbattuta nel 2004.
    La trasformazione dell’immagine di Colombo avvenuta negli ultimi decenni è un fenomeno molto complesso. Infatti, come ha messo in evidenza Antonio Brusa (nel saggio che ho già citato) l’azione demistificatrice, tipica di una storiografia critica, è stata accompagnata da un curioso processo di mitopoiesi “che mentre distrugge il vecchio mito – del Colombo modello di cittadinanza – ne produce uno nuovo, del Colombo simbolo del dominio occidentale sul pianeta e concentrato di crimini contro l’umanità”[4]. C’è inoltre un evidente rapporto – secondo Brusa – tra questo processo e lo stretto connubio tra storia e identità, che si è affermato in tutte le società nel passaggio dall’età della guerra fredda al caotico mondo globale dei nostri tempi. Come vedremo, il dibattito statunitense sugli assalti alle statue di Colombo conferma questa interpretazione.

     

     Colombo nei media americani

    Per esaminare le reazioni e i commenti ai recenti attacchi alle statue di Colombo negli Stati Uniti, diamo un rapido sguardo ad alcuni dei principali quotidiani statunitensi: essi rivelano un’opinione pubblica divisa e non di rado perplessa.
    Alcuni commentatori e, soprattutto, molti amministratori locali non sembrano nutrire molti dubbi sul fatto che i monumenti a Cristoforo Colombo vadano rimossi. Ad esempio, lo scorso 23 luglio, il “Chicago Tribune”, di fronte alle pressanti richieste di rimuovere le statue del navigatore genovese dagli spazi pubblici della città, ha pubblicato un editoriale il cui titolo dice già tutto: “Christopher Columbus was a fraud. He doesn’t deserve statues or a holiday in his honor” (Su Cristoforo Colombo ci hanno ingannati. Non merita statue né una festa in suo onore). L’autrice dell’articolo, Dahleen Glanton, afferma che i libri scolastici, sui quali lei stessa e i suoi concittadini si sono formati, sono pieni di bugie riguardo alla cosiddetta “scoperta dell’America”; e fornisce questa breve ma densa descrizione della figura e delle imprese di Colombo:

    Egli fu certamente un esploratore coraggioso e di successo, ma fu anche un uomo malvagio e brutale che non mise mai piede in quel posto dove ora sono gli Stati Uniti. Sbarcò per caso nei Caraibi, lasciando un retaggio di razzie e schiavitù, per poi essere alla fine arrestato e tornare in Spagna in catene, privato della sua nobiltà. Per la maggior parte dei bianchi americani, Colombo è l’intrepido conquistatore che diede inizio alla colonizzazione transatlantica, che ha reso possibile la loro presenza qui. Ma per molti nativi americani, egli rappresenta il perfetto esemplare di un barbaro colonizzatore. Il sanguinoso processo dell’occupazione coloniale delle Americhe cominciò con lui. Sulla scia della colonizzazione un numero enorme di nativi americani furono uccisi, ridotti in schiavitù o altrimenti cacciati dalla loro terra” (le traduzioni di questo e degli altri brani sono mie).

    Altri editorialisti si sono espressi con maggiore cautela. Per esempio, sullo stesso quotidiano (“Chicago Tribune”, 22/07/2020), Blair Kamin aveva manifestato forti perplessità circa la richiesta di rimuovere le statue di Colombo:

    | Per i suoi difensori, che comprendono molti membri della comunità italo-americana di Chicago, Colombo è ben rappresentato come un audace, pioneristico esploratore che aprì la strada alla prosperità e al progresso sia in America che in Europa. Eppure alcuni recenti studi storici lo dipingono come uno spietato colonizzatore e sfruttatore dei nativi. Per alcuni storici, egli è entrambe le cose. Data questa diversità di opinioni, la questione se sia giusto onorarlo si colloca, almeno a mio giudizio, in una zona grigia, diversa dal caso, facile da risolvere, dei monumenti dei capi dei Confederati, che combatterono sia per distruggere l’Unione, sia per perpetuare la schiavitù.

     

    Colombo e le associazioni dei nativi americani

    D’altro canto, come era logico aspettarsi, l’abbattimento o la rimozione delle statue di Colombo sono stati appoggiati, o addirittura promossi, dalle associazioni dei nativi americani.
    Per esempio, dopo che una statua di Colombo è stata decapitata a Boston il 10 giugno scorso, Jean-Luc Pierite, presidente del North American Indian Center, ha dichiarato che quel monumento rappresentava “la violenza di stato subita dai neri e dai nativi americani per oltre 500 anni” e che qualsiasi tentativo di restaurarlo avrebbe incontrato l’opposizione di queste due comunità. A St. Paul nel Minnesota, Mike Forcia, esponente dell’American Indian Movement, ha promosso e organizzato lui stesso l’abbattimento della statua di Cristoforo Colombo nei pressi dello State Capitol. A Baltimora, dopo lo smantellamento di un’altra statua del navigatore genovese il 4 luglio scorso, Jessica Dickerson, rappresentante dell’associazione Indigenous Strong, ha commentato l’evento con queste parole: “Noi non otteniamo molte vittorie, giusto? Questa è una piccola, ma grande vittoria, [Colombo] è stato un assassino per il mio popolo”.

     

    Immagine 3. Colombo Baltimora 1Fig.3: La statua di Cristoforo Colombo nella zona di Little Italy a Baltimora (Maryland), prima che fosse abbattuta il 4 luglio scorso. Fonte Colombo e le comunità italiane

    Vigorose sono state invece le lamentele e le proteste dei rappresentanti delle comunità italo-americane.
    A Baltimora John Pica Jr., presidente dell’associazione Little Italy’s Columbus Day Commemoration, ha dichiarato che la statua di Colombo appena abbattuta era un monumento agli italo-americani e che questi continueranno comunque a celebrare il Columbus Day. A Columbus, capitale dell’Ohio, dopo l’annuncio che la statua dell’esploratore genovese sarebbe stata rimossa dalla West Broad Street, il Columbus Piave Club ha rilasciato una vibrante dichiarazione di protesta, lamentando di non essere stato nemmeno consultato dalle autorità municipali e ricordando il contributo dato dalla comunità italo-americana all’acquisto e alla manutenzione della statua. Non poteva mancare, anche in questo caso, un riferimento al Columbus Day, una ricorrenza con la quale – si legge nella dichiarazione - si celebrano “gli italo-americani e le positive realizzazioni con le quali gli italiani hanno dato il loro contributo alla nostra società”.
    A questo genere di interventi si replica dal fronte opposto sostenendo che gli italo-americani potrebbero benissimo scegliere, come simbolo della propria identità, un altro personaggio storico meno controverso; tra i nomi proposti ci sono Dante Alighieri, Marco Polo, Michelangelo, Garibaldi, Sacco e Vanzetti, Enrico Fermi[5].
    Lo scontro tra i due opposti gruppi etnici (o tra due gruppi che si presumono tali) e tra le loro storie e memorie contrapposte, è talmente forte da condizionare – come abbiamo visto - anche il giudizio di osservatori indipendenti, e conferma in pieno le osservazioni di Antonio Brusa circa il ruolo centrale che ha assunto la questione dell’identità etnica o nazionale nella cultura storica diffusa.

     

    La voce degli storici: la revisione del mito

    Anche gli storici hanno partecipato al dibattito pubblico sulle statue e sulla figura di Colombo, pur svolgendo in esso un ruolo meno importante rispetto a quello che hanno avuto nelle discussioni sui monumenti dei Confederati[6].
    Tra i commenti dedicati agli attacchi alle statue del navigatore genovese, troviamo ad esempio quello dello storico Michael D. Hattem sul “Washington Post”. Hattem ha posto l’accento sul fatto che la storia del mito di Colombo “rivela in che modo la nostra memoria collettiva del passato venga costruita e cambi col passare del tempo, piuttosto che essere una intrinseca espressione del passato”. Egli ha quindi rievocato le principali tappe dell’evoluzione del mito di Colombo negli Stati Uniti: dall’uso del termine Columbia come personificazione femminile dell’America fin dagli anni ’60 del Settecento alle grandi celebrazioni organizzate nel 1792 in occasione del tricentenario della scoperta del Nuovo Mondo; dall’esaltazione di Colombo nella letteratura e nei libri di testo scolastici fino all’uso politico della sua figura nel corso dell’Ottocento, sia per legittimare l’espansione degli Stati Uniti verso Ovest, sia per facilitare l’assimilazione culturale e politica della sempre più numerosa comunità italo-americana. Ma proprio perché la memoria collettiva si evolve nel tempo, non c’è da sorprendersi se personaggi che per un certo periodo sono stati ingigantiti e celebrati cadano poi in disgrazia quando cambia il contesto culturale o politico.
    Ci si può chiedere, però, se la sostituzione dell’ottocentesca immagine eroica di Colombo con l’antitetica rappresentazione del navigatore genovese come una specie di assassino e mostro genocida sia veramente utile alla comprensione della storia di questo personaggio e dei suoi tempi.
    Il giudizio degli storici, naturalmente, è più cauto e sfumato rispetto a quello totalmente negativo che si è diffuso in una parte dell’opinione pubblica. Kris Lane, che insegna storia alla Tulane University di New Orleans, è intervenuto più volte negli ultimi anni nel dibattito pubblico attorno alla figura di Colombo. Nel 2015 ha scritto un editoriale sul “Washington Post” per confutare ‘cinque miti’ riguardanti l’esploratore genovese, tra i quali vi è quello secondo cui egli sarebbe responsabile del genocidio dei nativi delle isole dei Caraibi. In proposito, Lane ha riconosciuto che non vi sono dubbi sul fatto che Colombo abbia oppresso la popolazione di quelle isole e abbia ridotto in schiavitù quasi 1500 nativi per deportarli e venderli in Europa. Peraltro, Colombo non dovette inventare nulla di nuovo, poiché non fece altro che seguire l’esempio dei Portoghesi e degli Spagnoli, che già da molto tempo erano attivi nel commercio degli schiavi. L’accusa di genocidio, invece, va circostanziata, perché Colombo non aveva nessuna intenzione di sterminare i nativi dei Caraibi: voleva piuttosto avere dei sudditi da tassare e governare. Si può parlare quindi di genocidio solo come risultato involontario delle decisioni prese da Colombo e dai suoi familiari.
    Dopo gli attacchi ai monumenti avvenuti nel giugno scorso, Lane ha rilasciato una lunga e interessante intervista, nella quale ha distinto con precisione le caratteristiche di Colombo come personaggio storico da quelle del mito costruito nell’Ottocento attorno alla sua figura: Colombo fu certamente un grande navigatore, anche se sbagliò nel ritenere di poter arrivare in Asia; cercava l’oro, ma forse più per dimostrare ai sovrani spagnoli l’utilità della sua impresa che per avidità personale; diede inizio nel Nuovo Mondo al commercio degli schiavi, ma questa era una pratica molto diffusa - anche se non universalmente accettata - alla fine del ‘400; fu un uomo del suo tempo, ma fece comunque delle scelte in base alla sua personale visione del mondo. Attorno alla sua figura è stato costruito un mito e ora che esso si è rivelato in buona parte privo di fondamento, è naturale che gran parte della gente non senta più il bisogno di celebrare il navigatore genovese e che molti vogliano disfarsi delle sue statue.

     

    La rilevanza storica di Colombo

    Molto diverso è invece il giudizio dello storico italiano Matteo Casini, che insegna all’Università del Massachusetts. Intervistato dal “Boston Globe”, Casini ha affermato che la figura di Colombo “non deve essere vista per ciò che egli ha fatto più di 500 anni fa, ma, prima di tutto, come un simbolo per gli italiani che cominciarono ad arrivare qui alla fine dell’Ottocento”. Ed ha aggiunto:

    Essi combatterono, come tutti sanno, una battaglia estremamente dura per l’uguaglianza razziale e per il riconoscimento sociale, molto simile a quella degli africani e dei nativi americani. La festa del ‘Columbus Day’ e le statue a dedicate a Colombo negli ultimi 150 anni, devono essere considerate come ‘armi dell’orgoglio’ di una minoranza che voleva conquistare il suo posto nella ‘terra delle opportunità’, mediante il duro lavoro, l’accettazione delle regole comuni e una piena integrazione.

    Fa notare poi un altro storico, William J. Connell, che anche se tutti i monumenti dedicati a Colombo dovessero scomparire, il navigatore genovese rimarrebbe ancora con noi: “E la ragione è molto semplice: il 12 ottobre del 1492 è la data più importante nella storia dell’umanità, a partire almeno dall’invenzione dell’agricoltura”. È infatti da quella data che ha avuto inizio il mondo globalizzato nel quale oggi viviamo. È vero, Colombo diede inizio nel Nuovo Mondo alla deportazione degli schiavi e alla spoliazione delle terre dei nativi. Ma queste colpe non sono soltanto sue: sono infatti i due ‘peccati originali’ della Conquista e degli stessi Stati Uniti d’America.
    Data la vivacità del dibattito, e considerando la grande quantità di statue del navigatore genovese che sono tuttora in piedi, tutto lascia prevedere che negli Stati Uniti le discussioni su Colombo e sul Columbus day si protrarranno ancora per molto tempo.

     

    Immagine 4. Contro il Columbus DayFig.4: Studenti di origine messicana manifestano contro il “Columbus Day”. Fonte Il dibattito italiano: il "processo" a Colombo

    Gli attacchi alle statue e alla figura di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti hanno avuto più di una eco anche in Italia. Se in alcuni casi vi è stata una piena adesione alla demolizione della figura eroica dell’esploratore genovese, non sono però mancate diverse voci critiche rispetto a questo completo capovolgimento dell’immagine tradizionale di Colombo e alle sue implicazioni per il tipo di cultura storica veicolata dai media e dalle università.
    Citerò come esempio del primo atteggiamento il Processo a Cristoforo Colombo messo in scena da Jacopo Fo e Mario Pirovano presso la Libera Università di Alcatraz e diffuso in occasione del Columbus Day del 2017. Secondo i promotori dell’iniziativa “Cristoforo Colombo, un italiano, era un assassino, torturatore, schiavista, e bisogna rompere questa italica censura sulla verità dei fatti e insegnare ai ragazzini che di Colombo c’è da vergognarsi che fosse italiano, tale quale a Totò Riina” (così si legge nella presentazione del video). Il processo – molto ben realizzato e facilmente spendibile a livello didattico - vede Mario Pirovano nel ruolo dell’avvocato difensore, mentre Jacopo Fo sostiene l’accusa. Documenti alla mano, Jacopo Fo presenta tutti i principali capi d’accusa contro Colombo, mentre Pirovano cerca inutilmente di difenderlo. Il tutto si conclude con la damnatio memoriae del genovese, eseguita coprendo la sua statua con un sacco della spazzatura.
    In una diversa prospettiva, il “processo a Colombo” è stato di recente oggetto di un saggio dello storico Antonio Musarra. Lo stesso autore ha fornito sul web una accurata presentazione del suo libro (farò qui riferimento soltanto ad essa). Musarra parte dal fatto che il giudizio degli storici su Cristoforo Colombo negli ultimi trent’anni è cambiato radicalmente: Colombo non è più visto ormai come il sognatore dedito ad oltrepassare i limiti del mondo conosciuto, ma come il primo dei conquistadores, come colui che ha dato inizio all’occupazione delle Americhe, che avrebbe poi provocato lo sterminio di milioni di persone. E tuttavia l’assalto alle statue di Colombo, che si configura come una vera e propria damnatio memoriae, suscita – secondo Musarra - molte perplessità. In primo luogo perché processare la storia non è soltanto sbagliato, anzi si può rivelare pericoloso. In secondo luogo perché le accuse mosse a Colombo sono, sotto vari aspetti, esagerate: non ha senso, ad esempio, accusarlo di genocidio, dato che non gli passò mai per la testa di sterminare i nativi americani. In realtà, a coloro che deturpano o abbattono le statue del navigatore genovese, così come a molte amministrazioni americane, la figura storica di Colombo non interessa veramente: egli è assurto a simbolo della violenza colonizzatrice dell’uomo bianco e la generale condanna nei suoi confronti rivela anche la persistente difficoltà degli Stati Uniti di fare i conti col proprio passato.

     

    Immagine 5. Colombo ProvidenceFig.5: Una statua di Cristoforo Colombo a Providence (Rhode Island) vandalizzata in occasione del “Columbus Day” dell’ottobre 2019. Fonte Il "relativismo totalitario"

    Un approccio critico, ma di altra natura, è stato poi quello di Raffaele Romanelli, che in una lettera al presidente e al comitato direttivo della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (pubblicata sul “Foglio” del 24/06/2020) ha denunciato il “relativismo totalitario” che starebbe prendendo piede nel mondo accademico anglosassone. Con riferimento proprio ai recenti attacchi alle statue e alla figura di Cristoforo Colombo, Romanelli ha messo in evidenza come addebitare a Colombo tutti i crimini e le sopraffazioni che hanno fatto seguito alla sua “scoperta” significa cancellare il principio della responsabilità personale - che è uno dei capisaldi dello stato di diritto e dei diritti dell’uomo e del cittadino – per sostituirlo col concetto di una responsabilità di gruppo: un gruppo, quello dei bianchi occidentali, che tende ad assumere connotati genetici e razziali, e che quindi diventa, nel suo insieme, colpevole dello sterminio dei nativi americani e della schiavitù dei neri. Secondo Romanelli questa tendenza si collega a un più generale clima di intolleranza, che si sta diffondendo negli ambienti universitari americani, canadesi e britannici, e che si manifesta anche con la messa al bando di chiunque non accetti il dogma imperante secondo cui le differenze di genere non hanno una base biologica. Si sta affermando, insomma, una sorta di “relativismo totalitario”, nel senso che la verità viene presentata come relativa/soggettiva, in quanto insensibile ai dati (storici o biologici), ma viene al tempo stesso imposta con le tecniche della persecuzione totalitaria.
    È appena il caso di ricordare che la lettera di Romanelli ha preceduto di sole due settimane la Letter on Justice and Open Debate (pubblicata il 07/07/2020 sullo “Harper’s Magazine”) nella quale 153 intellettuali americani hanno denunciato il pericolo che le giuste richieste di una maggiore giustizia, eguaglianza ed inclusione nella società statunitense possano generare anche una crescente intolleranza nel mondo della cultura, dai giornali alle case editrici alle università. Un’analisi di questa lettera e del dibattito che ha suscitato ci porterebbe molto lontano dall’argomento di questo articolo. Ma riprenderemo certamente, su Historia Ludens, la questione della “cancel culture” (sulla quale si veda intanto The Harper’s ‘Letter,’ cancel culture and the summer that drove a lot of smart people mad, sul “Washington Post” del 23/07/2020).

     

    Piste di lavoro didattico

    L’attacco alle statue di Colombo e il capovolgimento del mito costruito attorno alla sua figura sono anzitutto un’espressione del malessere, delle contraddizioni e dei mutamenti che si sono sviluppati nella società e nella cultura degli Stati Uniti e del mondo occidentale negli ultimi decenni. Sebbene la richiesta di una maggiore giustizia sociale e di un definitivo superamento dell’interpretazione tradizionale delle imprese di Colombo sia assolutamente condivisibile, la furia vendicatrice che si è scatenata nei mesi scorsi sembra essere un ostacolo a una riflessione equilibrata.
    A livello didattico, gli assalti alle statue di Colombo possono rappresentare un’ottima occasione per sviluppare ricerche e dibattiti tra gli studenti, non solo negli Stati Uniti ma anche in Italia, dato che il navigatore genovese è stato a lungo celebrato anche da noi come una figura simbolo della storia e dell’identità nazionale. Molti sono gli interrogativi e i problemi che potrebbero essere posti al centro di un percorso didattico. Ad esempio i seguenti: ha ancora senso parlare di una “scoperta” dell’America? è fondata l’accusa di genocidio mossa nei confronti dell’esploratore genovese? È giusto abbattere o rimuovere le statue di Colombo? Che cosa dovremmo fare se anche qui in Italia qualcuno proponesse di rimuoverle? Fino a che punto i libri di testo scolastici hanno superato l’immagine tradizionale di Colombo e delle sue imprese? È legittimo fare processi ai grandi protagonisti della storia?
    Una seconda occasione, collegata a questa, è data dalla possibilità di riflettere sul nesso storia-memoria-politica. Il caso americano mostra come non solo lo stato, ma anche le comunità (in questo caso etniche) facciano pressione sulla memoria collettiva (i monumenti, le festività) e la storia scolastica (le “bugie dei manuali”) e come la storia e gli storici siano in reale difficoltà a far sentire la propria voce. In ogni caso, questo argomento si aggancerebbe al filone didattico del rapporto fra storia e memoria che, in Italia, rischia di essere circoscritto alle celebrazioni del 27 gennaio e dell’11 febbraio.
    Infine, sono di grande interesse le riflessioni sviluppate, in margine al “processo” a Colombo, da Antonio Musarra e da Antonio Brusa sugli stereotipi, sull’epistemologia naïve e sulla difficoltà di far comprendere, anche al di fuori di ristrette cerchie intellettuali, la complessità dei processi storici. A partire dagli stessi fatti e documenti riguardanti la vicenda di Colombo, il dibattito storico e il dibattito pubblico giungono a conclusioni differenti:

    | Quest’ultimo si conclude con una condanna senza appello, mentre la controversia storica può giungere a conclusioni differenziate, di comprensione varia del “fenomeno Colombo”, e – soprattutto – rifiuta a priori l’alternativa eroe/malfattore, che tanto appassiona la gente[7].

    La comunicazione fra ricerca accademica e società – sostiene Brusa - sembra aver funzionato nella divulgazione di alcune conoscenze, ma non nella trasmissione delle capacità di elaborarle. Si è costretti ancora una volta a constatare una preoccupante divaricazione tra storiografia e senso comune storico, tra sapere accademico e cultura popolare, tra una concezione della società e dello sviluppo storico come fenomeni complessi e una visione semplicistica della storia basata su poche convinzioni e sull’importanza decisiva di singoli eventi e personaggi chiave.
    È davvero auspicabile quindi che l’insegnamento della storia possa tener conto delle problematiche e delle contraddizioni che il “processo” a Colombo, e più in generale la “guerra delle statue”, hanno fatto emergere nel dibattito pubblico, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo occidentale.

     

    [1] Il Columbus day divenne poi una vera e propria festa federale nel 1968 (vedi ancora la voce di Wikipedia citata nel testo).

    [2] Oltre al saggio già citato di Antonio Brusa, vedi H. Schuman, B. Schwartz, H. d’Arcy, Elite Revisionists and Popular Beliefs: Christopher Columbus, Hero or Villain?, “Public Opinion Quarterly”, vol. 69, No. 1, Spring 2005, pp. 2-29.

    [3] Vedi Luke O'Neil, Goodbye, Columbus: holiday in decline as brutal legacy re-evaluated, “The Guardian (International Edition)”, 08/10/2018, e la già citata voce di Wikipedia sul Columbus Day.

    [4] A. Brusa, Colombo eroe o malfattore?, cit.

    [5] Vedi ad esempio: Eric Zorn, Ethnic pride, yes. Columbus Day? No, “Chicago Tribune”, 03/03/2020; Chris Leblanc, As Italian Americans in Boston debate the legacy of Christopher Columbus, some want his statue – recently beheaded – permanently gone, “Chicago Tribune”, 17/06/2020; The false narrative about Christopher Columbus, “Chicago Tribune”, 21/07/2020. 

    [6] Questa è l’impressione che ho ricavato dalle fonti più facilmente accessibili sul web. Ma naturalmente è impossibile passare al setaccio lo smisurato numero di quotidiani e riviste online, blog e siti internet che trattano argomenti storici.

    [7] A. Brusa, Colombo eroe o malfattore?, cit.

  • La "Cancel Culture"

    I contorni di una controversia*

    di Daniele Boschi

    In Italia, come in altri paesi occidentali, le diverse manifestazioni del 'politicamente corretto' e della cosiddetta cancel culture continuano ad essere oggetto di analisi e studi più o meno approfonditi e di interpretazioni e giudizi assai disparati e, in alcuni casi, del tutto opposti e inconciliabili.

    Immagine1Fig.1: vignetta pubblicata sulla rivista “MR Online” nell’ottobre 2020 FonteDa una parte vi sono coloro che affermano che si starebbe sviluppando una vera e propria guerra contro la storia e l’identità dell’Occidente o che sarebbe in atto una sorta di ‘suicidio’ della nostra civiltà. Sul fronte opposto si collocano invece i commentatori che sostengono che non c’è alcun tentativo di cancellare alcunché che non meriti di essere cancellato e che la cancel culture è un fenomeno inventato ad arte da esponenti della destra per squalificare le lotte di movimenti che si battono in favore dei diritti delle minoranze e per una maggiore equità e giustizia sociale. Non mancano posizioni più sfumate e analisi che mettono a fuoco in modo più preciso particolari aspetti e manifestazioni del fenomeno. In questo articolo, e in altri che seguiranno, cercheremo di dar conto di alcuni degli interventi più significativi su questo argomento.

     

    La cancel culture come guerra contro la Storia

    “I monumenti cadono. Le chiese vengono distrutte. L’intero Occidente è percorso da una pazzia iconoclasta che negli ultimi anni – in particolare dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016 – ha assunto dimensioni preoccupanti”.1

    Così si apre il prologo del libro di Emanuele Mastrangelo ed Enrico Petrucci, intitolato Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellaCancel Culture che sta distruggendo la nostra storia, pubblicato alla fine del 2020. Mastrangelo è il caporedattore della rivista online “Storia in rete”, alla quale collabora anche Petrucci. I due autori dichiarano apertamente la propria simpatia per la destra e in particolare per le posizioni assunte sul tema della cancel culture da Fratelli d’Italia.

    Nel volume edito da Eclettica, Mastrangelo e Petrucci, dopo un’analisi di carattere generale del fenomeno, ricostruiscono in modo dettagliato le molte forme che la guerra alle statue e ad altri monumenti ha assunto in diversi paesi dell’Occidente, spaziando dalla distruzione di statue che ricordavano l’ideologia o i regimi comunisti nei paesi dell’Europa dell’Est all’assalto ai monumenti dedicati ai Confederati e a Cristoforo Colombo negli USA, dall’abbattimento delle statue di Franco in Spagna alla demolizione delle chiese neogotiche in Francia, per arrivare infine all’Italia, dove tuttavia l’ondata iconoclasta fa molta fatica ad attecchire, almeno per ora.

    Immagine2Fig.2: Gli attacchi alle statue di importanti personaggi storici sono stati spesso presentati come una manifestazione della ‘cancel culture’ FonteLa responsabilità di questa ondata di violenza viene addebitata in primo luogo all’attivismo di piccole minoranze di estremisti, come i cosiddetti social justice warriors, alle spalle dei quali vi sarebbero però settori importanti dell’intellighenzia progressista, in particolare quegli ambiti del mondo universitario in cui, secondo i due autori, domina il ‘marxismo culturale’, versione degradata e distorta della originaria dottrina di Marx ed Engels. A un livello ancora più alto vi sarebbero poi i vari governi nazionali e le istituzioni sovranazionali “che sulla spinta dell’ideologia woke preparano le basi per l’imposizione giuridica della cancel culture come prassi legale”2 con strumenti quali le leggi che introducono nuovi reati d’opinione o trattati internazionali come la Convenzione di Faro.3

    Le conclusioni di Mastrangelo e Petrucci sono allarmanti:

    “Quella presente è una vera e propria guerra contro la Storia, contro il passato, contro l’eredità lasciata dagli antenati in ciascuna nazione dell’Occidente. Si vuole spezzare il patto fiduciario fra le generazioni del passato e quelle del futuro”.4

    Vi sono già stati naturalmente altri momenti storici in cui si è tentato di rompere quel legame col passato, ma a farlo sono stati generalmente grandi movimenti religiosi o ideologie para-religiose come il Comunismo, che si proponevano di rigenerare l’umanità:

    “Comunque la si pensi sui monoteismi o sul Marxismo realizzato, non si può disconoscere la loro grandezza e profondità di vedute. La distruzione del passato doveva far posto a un futuro nuovo e, secondo costoro, radioso. Molto hanno distrutto, pure molto hanno costruito. … Ma le orde iconoclaste che oggi assediano la cittadella della cultura in Occidente non hanno alcuna reale prospettiva, non un’ideologia organica né una religione. Non verranno abbattuti templi pagani per edificare cattedrali, né saranno distrutte statue per far posto a giardini delle delizie, non verranno venduti i gioielli dello Zar per un giorno mandare un uomo nello spazio”.5

     

    Il ‘suicidio dell’Occidente’

    La critica nei confronti della cancel culture non viene però soltanto da destra. Basti pensare al libro di Federico Rampini Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, uscito nel 2021. Rampini, pur essendo molto critico nei confronti della sinistra radicale statunitense ed europea, non è certo un fautore della destra trumpiana o dei vari sovranismi e populismi del nostro continente. La sua analisi, a differenza di quella di Mastrangelo e Petrucci, è incentrata sugli Stati Uniti, paese del quale è da anni un attento osservatore. Egli riconduce la cancel culture a una più generale smania autodistruttiva che sembra essersi impossessata delle élite americane:

    Immagine3Fig.3: Lo scrittore Ian Buruma è stato indicato da Federico Rampini come una delle vittime più illustri della ‘cancel culture’ Fonte“L’ideologia dominante, quella che le élite diffondono nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo, ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Secondo questa dittatura ideologica, non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare. Questo è il suicidio occidentale”.6

    Dopo aver dato conto della campagna denigratoria contro Cristoforo Colombo e della riscrittura della storia americana che ad essa si accompagna, Rampini dipinge a tinte fosche il clima di intolleranza che si è diffuso nelle università e nei media statunitensi e che sta mettendo a repentaglio la lunga tradizione di libertà di parola e di pensiero così fortemente radicata nella storia degli Stati Uniti:

    “Un attacco insidioso rischia di distruggere dall’interno la più preziosa delle tradizioni americane. È stata definita anchecancel culture o ‘cultura della cancellazione’. È l’avanzata di una nuova forma di pensiero unico, solo in apparenza ‘progressista’, che cancella i disobbedienti privandoli del diritto di parola, denuncia pubblicamente persone accusate di avere offeso qualche valore sacro del politically correct e lancia campagne di boicottaggio contro i reprobi”.7

    Rampini non esita a proporre un paragone con i regimi dittatoriali del passato:

    “[La cancel culture] È una sottile forma di dittatura, anche se non ha una singola cabina di regia: non c’è dietro un Mussolini, uno Stalin, un Mao che silenzia chi dà fastidio. Gli effetti sono egualmente pervasivi e deleteri: le epurazioni avanzano nei campus universitari e nel mondo della ricerca, nelle redazioni dei giornali e delle Tv, nelle case editrici, perfino ai piani alti di molti colossi capitalistici”.8

     

    La cancel culture non esiste

    Una tesi diametralmente opposta a quella formulata, in forma diversa ma parzialmente convergente, da Mastrangelo e Petrucci e da Rampini è quella avanzata dallo storico Germano Maifreda in un articolo pubblicato lo scorso 9 maggio sul sito della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli:

    “La ‘cancel culture’ non esiste. È un grande ombrello denigratorio formulato dalla destra conservatrice e integralista statunitense per designare un insieme molto eterogeneo di proposte relative all’uso del linguaggio e a contenuti intellettuali e figurativi fra loro estremamente diversificati. Ad accomunare queste proposte è solo il fatto che vengono (anche se non sempre) avanzate da membri di minoranze discriminate e sono finalizzate al riconoscimento di maggiori o migliori diritti, dignità, spazi pubblici; nonché alla difesa della propria voce quando non della propria incolumità fisica”.

    Maifreda accosta poi il vittimismo di coloro che presumono di esser stati ‘cancellati’ alla vena profonda di vittimismo presente nella radice culturale del nazismo e di altre forme di totalitarismo e aggiunge:

    “Il vittimismo dei vincitori – lo abbiamo più volte visto in atto anche nell’Italia berlusconiana – è uno strumento formidabile di aggregazione del consenso e di mantenimento delle asimmetrie di potere vigenti, ai danni di ogni alterità”.

    Infine, riferendosi più specificamente al mondo dell’editoria, Maifreda si chiede come sia possibile parlare di censura, o di complotto dei censori, per definire “libere pratiche editoriali odierne di modifica linguistica e terminologica di testi – o di mancata pubblicazione o ripubblicazione di determinati testi, o parti di testi”:

    “Anche in questo caso bisognerebbe meglio riflettere sull’uso delle parole. ‘Censura’ – termine che a sua volta parrebbe avvicinare queste pratiche ai roghi dei libri – è fuorviante: non esistendo in questi casi né leggi, né polizie e tribunali politici, né indici di libri proibiti, né pene previste per i trasgressori di inesistenti divieti”.

     

    Immagini contese

    Maifreda aveva già trattato, in modo meno diretto, il tema della cancel culture nel suo libro Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture, pubblicato da Feltrinelli nel 2022. È uno studio sul modo in cui l’esposizione pubblica e la stessa conservazione di diverse tipologie di immagini, figure o forme visuali sono state di volta in volta permesse, ostacolate o impedite dalle autorità e dalle élite politiche, spesso interagendo con altri soggetti, gruppi di pressione, movimenti sociali.

    Immagine4Fig.4: La statua di Giordano Bruno eretta a Roma in piazza Campo dei Fiori alla fine dell’800 FonteSi parte dalla rimozione, ordinata dal giudice criminale del ducato di Mantova nel giugno del 1625, di un quadro del pittore Vincenzo Sanvito che raffigurava l’impiccagione di sette ebrei, per arrivare alla censura esercitata nei confronti della cinematografia in Italia nel corso del Novecento, passando attraverso altre più o meno note vicende, tra le quali ad esempio le contese politiche che precedettero e accompagnarono la decisione di erigere il celebre monumento a Giordano Bruno in piazza Campo dei Fiori a Roma alla fine dell’Ottocento.

    La tesi generale di Maifreda è la seguente:

    “Come i discorsi, anche le forme che ci sono state consegnate dal passato – e che possiamo decidere se preservare nel presente – non sono né innocenti né neutrali. Ognuna di esse è emersa da un intreccio di rapporti di potere che non procedono solo dall’alto verso il basso della piramide sociale, ma tracciano percorsi variegati, talora minuti, situati nel tempo e nello spazio. In questi fasci di relazioni politiche possono di volta in volta combinarsi o prevalere le logiche di schieramento, la posizione dei soggetti nei sistemi di produzione o nella gerarchia della ricchezza, i divari e le discriminazioni di genere, generazionali, culturali, etnici o di altro tipo”.9

    Immagine5Fig.5: “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini è tra i tanti film che caddero nelle maglie della censura cinematografica in Italia FonteDi qui la critica riguardo al modo in cui molti commentatori hanno trattato il tema degli abbattimenti o delle richieste di rimozione di statue o altre forme visuali collocate in spazi pubblici, etichettandoli sbrigativamente come espressioni di cancel culture:

    “La maggior parte dei commentatori di queste azioni non è andata molto oltre una generica denuncia di lesa maestà storica, rinunciando così ad aprire spazi di discussione. Si è per esempio rinunciato a indagare il significato profondo di quelle immagini e di quelle collocazioni nello spazio pubblico, entrambe –ancora una volta – tutt’altro che neutrali e innocenti; a interrogarsi sulla capacità o meno di specifiche immagini, poste in specifici luoghi, di rappresentare gruppi che in passato non avevano voce ma che guadagnano ora centralità; a denunciare il divario oramai abissale esistente tra manufatti visuali creati e selezionati sulla base di rapporti di forza vigenti in passato e un futuro inesorabilmente pluriculturale”.10

     

     Un possibile terreno di incontro

    A questo punto viene da chiedersi come sia possibile tentare di descrivere e definire in modo oggettivo un fenomeno da alcuni definito come cancel culture, e presentato come una minaccia per l’Occidente, e da altri giudicato come assolutamente insussistente, quantomeno nei termini in cui i primi lo rappresentano. Per cui mentre da una parte si compilano lunghi e minuziosi elenchi di monumenti, opere d’arte, libri, idee, autori, che sarebbero stati ingiustamente ‘cancellati’, dall’altra parte si ribatte che proprio nulla, o quasi nulla, è stato in realtà cancellato che non meritasse di esserlo; e che questo processo è parte di una sana e normale dialettica politica, sociale e culturale.

    Va da sé poi che questa diatriba italiana è in fondo soprattutto un riflesso della battaglia culturale e politica in corso da diversi anni negli Stati Uniti d’America, paese nel quale osservatori e analisti che non hanno posizioni pregiudiziali rimangono non di rado perplessi di fronte alla disparità di valutazioni e opinioni e cercano, a volte, di promuovere un terreno d’incontro tra gli opposti schieramenti.

    Ad esempio Conor Friedersdorf in un articolopubblicato su “The Atlantic” (28/04/2022) ha osservato che la maggioranza degli americani che insistono nel dire che la cancel culture è un problema e la minoranza che lo nega stanno parlando in realtà due lingue diverse senza capirsi.

    Il problema, afferma Friedersdorf, è che si usa un’unica espressione per inquadrare controversie di natura assai differente; e questo non aiuta a capire su che cosa effettivamente i due schieramenti non sono d’accordo. Un primo rimedio potrebbe essere il seguente:

    “Le persone che si lamentano a proposito della ‘cancel culture’ dovrebbero sempre chiarire a che cosa sono contrarie. Bisognerebbe dire loro: dovete specificare meglio le vostre accuse, a meno che non vogliate veramente affermare che nessuno dovrebbe essere licenziato o stigmatizzato per qualsiasi cosa abbia detto o fatto. Analogamente, alle persone che lodano la ‘accountability culture’ o liquidano la cancel culture come un’invenzione bisognerebbe dire: dovete specificare meglio che cosa intendete per giusta punizione, a meno che non vogliate veramente affermare che chiunque sia stato licenziato o stigmatizzato per ciò che ha detto sia stato trattato equamente”.11

    Friedersdorf poi aggiunge:

    “Se tutti quanti specificassero meglio ciò che intendono dire, le persone che sono su opposti schieramenti nell’astratto, generico dibattito sulla cancel culture potrebbero trovare qualche accordo su casi concreti”.

     

    A che cosa si riferisce l’espressione cancel culture

    Sono piuttosto scettico riguardo alla possibilità di arrivare a un accordo tra le diverse correnti di pensiero attorno alla cancel culture, ma una maggiore concretezza e precisione gioverebbero quantomeno a placare gli animi e a rendere più comprensibili i termini della polemica.

    Aggiungo che Friedersdorf ha usato l’espressione cancel culture con un significato piuttosto circoscritto. Ma, come si è visto, questa espressione viene usata anche in un senso molto più ampio. Pertanto, a seconda dell’uso che ne viene fatto, essa può alludere a tutti i seguenti avvenimenti o solo ad alcuni di essi:

    1) la messa sotto pubblica accusa attraverso i social media e la stampa – e la successiva emarginazione - di intellettuali, artisti, ricercatori, docenti, ecc., ma anche di comuni cittadini, per aver detto o fatto cose sconvenienti;
    2) la decisione di non pubblicare, ripubblicare o mettere in mostra - o di farlo solo con opportune modifiche - testi o altre opere prodotte ai nostri tempi perché ‘politicamente scorretti’ o perché i loro autori o autrici sono stati accusati di aver detto o fatto cose sconvenienti;
    3) la decisione di non pubblicare, ripubblicare o mettere in mostra – o di farlo solo con opportune avvertenze o modifiche - o di depennare dai programmi scolastici o universitari, opere letterarie, artistiche, storiografiche, ecc. del passato, perché il loro contenuto, o anche soltanto la condotta dei loro autori o autrici, non sono conformi ai canoni etici odierni;
    4) il divieto di trattare nei libri o nei programmi scolastici argomenti ritenuti controversi o sensibili, come ad esempio negli Stati Uniti quelli attinenti al razzismo e all’antirazzismo o alle questioni di genere;
    5) il deturpamento, l’abbattimento o la rimozione violenta di statue, monumenti, iscrizioni e simili perché celebrano personaggi la cui condotta è ritenuta offensiva o poco in linea rispetto ai codici etici contemporanei;
    6) la decisione legittimamente presa dalle autorità cittadine, locali, o statali, di rimuovere o ricontestualizzare statue, monumenti, iscrizioni e simili per gli stessi motivi sopra indicati.

    Questa lista, che è probabilmente incompleta, evidenzia la notevole complessità dei fenomeni e delle problematiche a cui ci si riferisce o si allude quando si parla di cancel culture. Aggiungo che i problemi sollevati o evocati da chi ha scritto su tali questioni sono almeno di due ordini, in quanto ci si può chiedere se la cancel culture (o qualsiasi cosa si intenda designare con questa espressione):

    a) rappresenti o no una minaccia per la libertà di pensiero e di espressione;
    b) rappresenti o no una minaccia per la conservazione e la trasmissione della storia, dei valori, del patrimonio artistico e culturale, e dell’identità stessa dell’Occidente.

    Queste due domande sono tra loro correlate ma non necessariamente hanno la stessa risposta, negativa o affermativa che sia.
    Ritengo tuttavia che per provare a rispondere a questi e ad altri interrogativi sia necessario esaminare in modo più dettagliato almeno alcuni dei diversi aspetti della questione, come alcuni studi sia italiani che americani hanno cominciato a fare. Li illustreremo nei prossimi articoli.

     


    Note

    *Ho organizzato questo argomento in diversi articoli, che trattano partitamente le singole questioni relative a un tema così complesso come la cancel culture

    1Emanuele Mastrangelo – Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellaCancel Culture che sta distruggendo la nostra storia, Massa, Eclettica Edizioni, 2020, p. 43.

    2Ivi, p. 359.

    3Si tratta della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, adottata a Faro in Portogallo il 27 ottobre 2005 e ratificata attualmente da 24 Stati, tra cui l’Italia, che la ha ratificata il 15 dicembre 2020. 

    4Mastrangelo - Petrucci, Iconoclastia, cit., p. 362.

    5Ivi, pp. 362-363.

    6Federico Rampini, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Milano, Mondadori, 2021, p. 3. 

    7Ivi, p.43.

    8Ivi, p.43.

    9Germano Maifreda, Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture, Milano, Feltrinelli, 2022, pp. 9-10.

    10Ivi, pp. 10-11.

    11 È mia la traduzione dall’inglese di questo brano e di quello immediatamente successivo.

     

    Bibliografia/Sitografia

    - “Cancel culture”, voce di Wikipedia in lingua inglese.

    - Friedersdorf, Conor, The Real Reason Cancel Culture Is So Contentious, “The Atlantic”, 28 aprile 2022.

    - Maifreda, Germano, Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture, Milano, Feltrinelli, 2022.

    - Maifreda, Germano, La “cancel culture” non esiste, “Fondazione Giangiacomo Feltrinelli”, 9 maggio 2023.

    - Mastrangelo, Emanuele - Petrucci, Enrico, Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellaCancel Culture che sta distruggendo la nostra storia, Massa, Eclettica Edizioni, 2020.

    - Messina, Dino, La storia cancellata degli italiani, Milano, Solferino, 2022.

    - Monaco, Emanuele, Fenomenologia della Cancel culture: tra Woke Capitalism e diritti delle minoranze, articolo pubblicato su “CanadaUsa” nel 2022 (senza data precisa).

    - Rampini, Federico, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Milano, Mondadori, 2021.

    - Rizzacasa D’Orsogna, Costanza, Scorrettissimi. Lacancel culture nella cultura americana, Bari-Roma, Laterza, 2022.

     
  • La giornata degli alpini. Un’occasione di riconciliazione, persa tra sciatteria e analfabetismo funzionale storico.

    di Antonio Brusa

    Senza titoloIl ponte dell’amicizia a Livenka, sfregiato dalle truppe russe FonteLa votazione sulla Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino, da celebrarsi il 26 Gennaio, ha visto il Parlamento italiano esibirsi in una rara e festante unanimità. Non credo che sia il segno del dilagare del revisionismo storico. Certo, qualche revisionista ci sarà pure, in questa massa di votanti, come si vedrà subito, spensierati. Ma non lo saranno tanti altri, ai quali forse riesce nuovo lo stesso concetto storiografico. Più giusto definire questi episodi come segno di analfabetismo funzionale storico e di sciatteria. Una sciatteria che, per quanto riguarda la giornata degli alpini, ha come conseguenza la dolorosa perdita di una buona occasione.

    Analfabetismo funzionale storico

    Il relatore, gli intervenuti (anche quelli di sinistra) e i votanti sanno bene che gli alpini combatterono all’interno delle forze dell’Asse. Lo si trova scritto nella relazione dell’onorevole Paolo Ferrari (Lega), alla commissione Difesa, del 21 febbraio 2021  e lo si dice in altri interventi. Analfabetismo funzionale storico significa conoscere un evento, ma non capire che cosa significa. Quello significa: invasione nazifascista dell’Ucraina. Il 26 gennaio del 1943, a Nikolaievka (oggi Livenka) gli alpini impedirono all’Armata rossa di accerchiare definitivamente le truppe italiane e rumene, permettendo il loro sganciamento. Una vicenda passata che l’anno scorso era già calda e da prendere con le pinze, ma che oggi è diventata bollente. Possibile che a nessuno sia venuto in mente, dei tanti senatori e deputati, degli uffici studi che lavorano alle loro dipendenze, dei tanti personaggi subalterni, incaricati di “fare ricerche”? E così, con un tempismo che ha dell’incredibile, nel bel mezzo dell’invasione russa dell’Ucraina, il parlamento italiano va a celebrare una battaglia, certo straordinariamente eroica, combattuta da truppe che settant’anni fa hanno fatto la stessa cosa, e cioè invadere quella nazione. E, per giunta, nell’articolo 4 della legge istitutiva, invitano le scuole a celebrare quell’evento per i prossimi anni.

    Come la sciatteria ti fa perdere una buona occasione

    Il bello è che questa battaglia era salita agli onori della cronaca da un pezzo. Nel 2018, Marta Giansanti, dalle colonne di “Brescia Oggi” ci faceva conoscere un episodio, questo sì, straordinario. A Livenka si inaugurava il “Ponte dell’Amicizia”, costruito dagli Alpini in segno di riconciliazione con quelle popolazioni. E, con questo ponte, veniva eretto un piccolo monumento, anch’esso di ricomposizione e di chiusura di quell’evento tragico, perché, metteva insieme il cappello degli alpini e il berretto con la stella dell’Armata rossa. La targa è semplice e bella: “Da un tragico passato un presente di amicizia per un futuro di fraterna collaborazione”. Questo evento probabilmente non era ignoto al relatore, non solo perché lombardo, ma perché, in fine del discorso citava genericamente le operazioni benefiche fatte dagli alpini in Russia. Non è riuscito a fare 2+2, cosa tipica dell’analfabetismo funzionale, non ne ha tenuto conto per sciatteria o, forse, non aveva idea che, oltre alle battaglie, si potessero commemorare le Riconciliazioni? In ogni caso, si è persa l’occasione magnifica di proporre una Giornata della Riconciliazione, intestata meritoriamente al corpo degli Alpini.

    Questo ponte, col monumento relativo, è tornato alla ribalta perché le truppe russe lo hanno sfregiato, come “monumento nazista”. Il 4 aprile, l’ANA, l’associazione degli Alpini ha protestato contro l’oltraggio. Non è mancata la risposta russa (evidentemente da quelle parte sono molto più attenti dei nostri parlamentari), che ha accusato gli italiani di “cercare vendetta”, e ha ricordato loro di essere fascisti che finirono come “soldati sparsi sulla neve col cielo azzurro italiano smaltato negli occhi morti”.

    Questo articolo russo è di oggi, 8 aprile. Domani ci saranno le risposte piccate, e quelli ci daranno dentro con la denazificazione dell’Italia. Quanto a noi, ci siamo tolti la possibilità di rispondere con l’augurio che anche a loro possa capitare in futuro la fortuna fare un ponte di riconciliazione con l’Ucraina.

Questo sito utilizza cookies tecnici e di terze parti per funzionalità quali la condivisione sui social network e/o la visualizzazione di media. Chiudendo questo banner, cliccando in un'area sottostante o accedendo ad un'altra pagina del sito, acconsenti all’uso dei cookie. Se non acconsenti all'utilizzo dei cookie di terze parti, alcune di queste funzionalità potrebbero essere non disponibili.