I contorni di una controversia*
di Daniele Boschi
In Italia, come in altri paesi occidentali, le diverse manifestazioni del 'politicamente corretto' e della cosiddetta cancel culture continuano ad essere oggetto di analisi e studi più o meno approfonditi e di interpretazioni e giudizi assai disparati e, in alcuni casi, del tutto opposti e inconciliabili.
Da una parte vi sono coloro che affermano che si starebbe sviluppando una vera e propria guerra contro la storia e l’identità dell’Occidente o che sarebbe in atto una sorta di ‘suicidio’ della nostra civiltà. Sul fronte opposto si collocano invece i commentatori che sostengono che non c’è alcun tentativo di cancellare alcunché che non meriti di essere cancellato e che la cancel culture è un fenomeno inventato ad arte da esponenti della destra per squalificare le lotte di movimenti che si battono in favore dei diritti delle minoranze e per una maggiore equità e giustizia sociale. Non mancano posizioni più sfumate e analisi che mettono a fuoco in modo più preciso particolari aspetti e manifestazioni del fenomeno. In questo articolo, e in altri che seguiranno, cercheremo di dar conto di alcuni degli interventi più significativi su questo argomento.
La cancel culture come guerra contro la Storia
“I monumenti cadono. Le chiese vengono distrutte. L’intero Occidente è percorso da una pazzia iconoclasta che negli ultimi anni – in particolare dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016 – ha assunto dimensioni preoccupanti”.1
Così si apre il prologo del libro di Emanuele Mastrangelo ed Enrico Petrucci, intitolato Iconoclastia. La pazzia contagiosa della Cancel Culture che sta distruggendo la nostra storia, pubblicato alla fine del 2020. Mastrangelo è il caporedattore della rivista online “Storia in rete”, alla quale collabora anche Petrucci. I due autori dichiarano apertamente la propria simpatia per la destra e in particolare per le posizioni assunte sul tema della cancel culture da Fratelli d’Italia.
Nel volume edito da Eclettica, Mastrangelo e Petrucci, dopo un’analisi di carattere generale del fenomeno, ricostruiscono in modo dettagliato le molte forme che la guerra alle statue e ad altri monumenti ha assunto in diversi paesi dell’Occidente, spaziando dalla distruzione di statue che ricordavano l’ideologia o i regimi comunisti nei paesi dell’Europa dell’Est all’assalto ai monumenti dedicati ai Confederati e a Cristoforo Colombo negli USA, dall’abbattimento delle statue di Franco in Spagna alla demolizione delle chiese neogotiche in Francia, per arrivare infine all’Italia, dove tuttavia l’ondata iconoclasta fa molta fatica ad attecchire, almeno per ora.
2 con strumenti quali le leggi che introducono nuovi reati d’opinione o trattati internazionali come la Convenzione di Faro.3
La responsabilità di questa ondata di violenza viene addebitata in primo luogo all’attivismo di piccole minoranze di estremisti, come i cosiddetti social justice warriors, alle spalle dei quali vi sarebbero però settori importanti dell’intellighenzia progressista, in particolare quegli ambiti del mondo universitario in cui, secondo i due autori, domina il ‘marxismo culturale’, versione degradata e distorta della originaria dottrina di Marx ed Engels. A un livello ancora più alto vi sarebbero poi i vari governi nazionali e le istituzioni sovranazionali “che sulla spinta dell’ideologia woke preparano le basi per l’imposizione giuridica della cancel culture come prassi legale”Le conclusioni di Mastrangelo e Petrucci sono allarmanti:
“Quella presente è una vera e propria guerra contro la Storia, contro il passato, contro l’eredità lasciata dagli antenati in ciascuna nazione dell’Occidente. Si vuole spezzare il patto fiduciario fra le generazioni del passato e quelle del futuro”.4
Vi sono già stati naturalmente altri momenti storici in cui si è tentato di rompere quel legame col passato, ma a farlo sono stati generalmente grandi movimenti religiosi o ideologie para-religiose come il Comunismo, che si proponevano di rigenerare l’umanità:
“Comunque la si pensi sui monoteismi o sul Marxismo realizzato, non si può disconoscere la loro grandezza e profondità di vedute. La distruzione del passato doveva far posto a un futuro nuovo e, secondo costoro, radioso. Molto hanno distrutto, pure molto hanno costruito. … Ma le orde iconoclaste che oggi assediano la cittadella della cultura in Occidente non hanno alcuna reale prospettiva, non un’ideologia organica né una religione. Non verranno abbattuti templi pagani per edificare cattedrali, né saranno distrutte statue per far posto a giardini delle delizie, non verranno venduti i gioielli dello Zar per un giorno mandare un uomo nello spazio”.5
Il ‘suicidio dell’Occidente’
La critica nei confronti della cancel culture non viene però soltanto da destra. Basti pensare al libro di Federico Rampini Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, uscito nel 2021. Rampini, pur essendo molto critico nei confronti della sinistra radicale statunitense ed europea, non è certo un fautore della destra trumpiana o dei vari sovranismi e populismi del nostro continente. La sua analisi, a differenza di quella di Mastrangelo e Petrucci, è incentrata sugli Stati Uniti, paese del quale è da anni un attento osservatore. Egli riconduce la cancel culture a una più generale smania autodistruttiva che sembra essersi impossessata delle élite americane:
“L’ideologia dominante, quella che le élite diffondono nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo, ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Secondo questa dittatura ideologica, non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare. Questo è il suicidio occidentale”.Dopo aver dato conto della campagna denigratoria contro Cristoforo Colombo e della riscrittura della storia americana che ad essa si accompagna, Rampini dipinge a tinte fosche il clima di intolleranza che si è diffuso nelle università e nei media statunitensi e che sta mettendo a repentaglio la lunga tradizione di libertà di parola e di pensiero così fortemente radicata nella storia degli Stati Uniti:
“Un attacco insidioso rischia di distruggere dall’interno la più preziosa delle tradizioni americane. È stata definita anche cancel culture o ‘cultura della cancellazione’. È l’avanzata di una nuova forma di pensiero unico, solo in apparenza ‘progressista’, che cancella i disobbedienti privandoli del diritto di parola, denuncia pubblicamente persone accusate di avere offeso qualche valore sacro del politically correct e lancia campagne di boicottaggio contro i reprobi”.7
Rampini non esita a proporre un paragone con i regimi dittatoriali del passato:
“[La cancel culture] È una sottile forma di dittatura, anche se non ha una singola cabina di regia: non c’è dietro un Mussolini, uno Stalin, un Mao che silenzia chi dà fastidio. Gli effetti sono egualmente pervasivi e deleteri: le epurazioni avanzano nei campus universitari e nel mondo della ricerca, nelle redazioni dei giornali e delle Tv, nelle case editrici, perfino ai piani alti di molti colossi capitalistici”.8
La cancel culture non esiste
Una tesi diametralmente opposta a quella formulata, in forma diversa ma parzialmente convergente, da Mastrangelo e Petrucci e da Rampini è quella avanzata dallo storico Germano Maifreda in un articolo pubblicato lo scorso 9 maggio sul sito della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli:
“La ‘cancel culture’ non esiste. È un grande ombrello denigratorio formulato dalla destra conservatrice e integralista statunitense per designare un insieme molto eterogeneo di proposte relative all’uso del linguaggio e a contenuti intellettuali e figurativi fra loro estremamente diversificati. Ad accomunare queste proposte è solo il fatto che vengono (anche se non sempre) avanzate da membri di minoranze discriminate e sono finalizzate al riconoscimento di maggiori o migliori diritti, dignità, spazi pubblici; nonché alla difesa della propria voce quando non della propria incolumità fisica”.
Maifreda accosta poi il vittimismo di coloro che presumono di esser stati ‘cancellati’ alla vena profonda di vittimismo presente nella radice culturale del nazismo e di altre forme di totalitarismo e aggiunge:
“Il vittimismo dei vincitori – lo abbiamo più volte visto in atto anche nell’Italia berlusconiana – è uno strumento formidabile di aggregazione del consenso e di mantenimento delle asimmetrie di potere vigenti, ai danni di ogni alterità”.
Infine, riferendosi più specificamente al mondo dell’editoria, Maifreda si chiede come sia possibile parlare di censura, o di complotto dei censori, per definire “libere pratiche editoriali odierne di modifica linguistica e terminologica di testi – o di mancata pubblicazione o ripubblicazione di determinati testi, o parti di testi”:
“Anche in questo caso bisognerebbe meglio riflettere sull’uso delle parole. ‘Censura’ – termine che a sua volta parrebbe avvicinare queste pratiche ai roghi dei libri – è fuorviante: non esistendo in questi casi né leggi, né polizie e tribunali politici, né indici di libri proibiti, né pene previste per i trasgressori di inesistenti divieti”.
Immagini contese
Maifreda aveva già trattato, in modo meno diretto, il tema della cancel culture nel suo libro Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture, pubblicato da Feltrinelli nel 2022. È uno studio sul modo in cui l’esposizione pubblica e la stessa conservazione di diverse tipologie di immagini, figure o forme visuali sono state di volta in volta permesse, ostacolate o impedite dalle autorità e dalle élite politiche, spesso interagendo con altri soggetti, gruppi di pressione, movimenti sociali.
Si parte dalla rimozione, ordinata dal giudice criminale del ducato di Mantova nel giugno del 1625, di un quadro del pittore Vincenzo Sanvito che raffigurava l’impiccagione di sette ebrei, per arrivare alla censura esercitata nei confronti della cinematografia in Italia nel corso del Novecento, passando attraverso altre più o meno note vicende, tra le quali ad esempio le contese politiche che precedettero e accompagnarono la decisione di erigere il celebre monumento a Giordano Bruno in piazza Campo dei Fiori a Roma alla fine dell’Ottocento.
La tesi generale di Maifreda è la seguente:
“Come i discorsi, anche le forme che ci sono state consegnate dal passato – e che possiamo decidere se preservare nel presente – non sono né innocenti né neutrali. Ognuna di esse è emersa da un intreccio di rapporti di potere che non procedono solo dall’alto verso il basso della piramide sociale, ma tracciano percorsi variegati, talora minuti, situati nel tempo e nello spazio. In questi fasci di relazioni politiche possono di volta in volta combinarsi o prevalere le logiche di schieramento, la posizione dei soggetti nei sistemi di produzione o nella gerarchia della ricchezza, i divari e le discriminazioni di genere, generazionali, culturali, etnici o di altro tipo”.9
Di qui la critica riguardo al modo in cui molti commentatori hanno trattato il tema degli abbattimenti o delle richieste di rimozione di statue o altre forme visuali collocate in spazi pubblici, etichettandoli sbrigativamente come espressioni di cancel culture:
“La maggior parte dei commentatori di queste azioni non è andata molto oltre una generica denuncia di lesa maestà storica, rinunciando così ad aprire spazi di discussione. Si è per esempio rinunciato a indagare il significato profondo di quelle immagini e di quelle collocazioni nello spazio pubblico, entrambe –ancora una volta – tutt’altro che neutrali e innocenti; a interrogarsi sulla capacità o meno di specifiche immagini, poste in specifici luoghi, di rappresentare gruppi che in passato non avevano voce ma che guadagnano ora centralità; a denunciare il divario oramai abissale esistente tra manufatti visuali creati e selezionati sulla base di rapporti di forza vigenti in passato e un futuro inesorabilmente pluriculturale”.10
Un possibile terreno di incontro
A questo punto viene da chiedersi come sia possibile tentare di descrivere e definire in modo oggettivo un fenomeno da alcuni definito come cancel culture, e presentato come una minaccia per l’Occidente, e da altri giudicato come assolutamente insussistente, quantomeno nei termini in cui i primi lo rappresentano. Per cui mentre da una parte si compilano lunghi e minuziosi elenchi di monumenti, opere d’arte, libri, idee, autori, che sarebbero stati ingiustamente ‘cancellati’, dall’altra parte si ribatte che proprio nulla, o quasi nulla, è stato in realtà cancellato che non meritasse di esserlo; e che questo processo è parte di una sana e normale dialettica politica, sociale e culturale.
Va da sé poi che questa diatriba italiana è in fondo soprattutto un riflesso della battaglia culturale e politica in corso da diversi anni negli Stati Uniti d’America, paese nel quale osservatori e analisti che non hanno posizioni pregiudiziali rimangono non di rado perplessi di fronte alla disparità di valutazioni e opinioni e cercano, a volte, di promuovere un terreno d’incontro tra gli opposti schieramenti.
Ad esempio Conor Friedersdorf in un articolo pubblicato su “The Atlantic” (28/04/2022) ha osservato che la maggioranza degli americani che insistono nel dire che la cancel culture è un problema e la minoranza che lo nega stanno parlando in realtà due lingue diverse senza capirsi.
Il problema, afferma Friedersdorf, è che si usa un’unica espressione per inquadrare controversie di natura assai differente; e questo non aiuta a capire su che cosa effettivamente i due schieramenti non sono d’accordo. Un primo rimedio potrebbe essere il seguente:
“Le persone che si lamentano a proposito della ‘cancel culture’ dovrebbero sempre chiarire a che cosa sono contrarie. Bisognerebbe dire loro: dovete specificare meglio le vostre accuse, a meno che non vogliate veramente affermare che nessuno dovrebbe essere licenziato o stigmatizzato per qualsiasi cosa abbia detto o fatto. Analogamente, alle persone che lodano la ‘accountability culture’ o liquidano la cancel culture come un’invenzione bisognerebbe dire: dovete specificare meglio che cosa intendete per giusta punizione, a meno che non vogliate veramente affermare che chiunque sia stato licenziato o stigmatizzato per ciò che ha detto sia stato trattato equamente”.11
Friedersdorf poi aggiunge:
“Se tutti quanti specificassero meglio ciò che intendono dire, le persone che sono su opposti schieramenti nell’astratto, generico dibattito sulla cancel culture potrebbero trovare qualche accordo su casi concreti”.
A che cosa si riferisce l’espressione cancel culture
Sono piuttosto scettico riguardo alla possibilità di arrivare a un accordo tra le diverse correnti di pensiero attorno alla cancel culture, ma una maggiore concretezza e precisione gioverebbero quantomeno a placare gli animi e a rendere più comprensibili i termini della polemica.
Aggiungo che Friedersdorf ha usato l’espressione cancel culture con un significato piuttosto circoscritto. Ma, come si è visto, questa espressione viene usata anche in un senso molto più ampio. Pertanto, a seconda dell’uso che ne viene fatto, essa può alludere a tutti i seguenti avvenimenti o solo ad alcuni di essi:
1) la messa sotto pubblica accusa attraverso i social media e la stampa – e la successiva emarginazione - di intellettuali, artisti, ricercatori, docenti, ecc., ma anche di comuni cittadini, per aver detto o fatto cose sconvenienti;
2) la decisione di non pubblicare, ripubblicare o mettere in mostra - o di farlo solo con opportune modifiche - testi o altre opere prodotte ai nostri tempi perché ‘politicamente scorretti’ o perché i loro autori o autrici sono stati accusati di aver detto o fatto cose sconvenienti;
3) la decisione di non pubblicare, ripubblicare o mettere in mostra – o di farlo solo con opportune avvertenze o modifiche - o di depennare dai programmi scolastici o universitari, opere letterarie, artistiche, storiografiche, ecc. del passato, perché il loro contenuto, o anche soltanto la condotta dei loro autori o autrici, non sono conformi ai canoni etici odierni;
4) il divieto di trattare nei libri o nei programmi scolastici argomenti ritenuti controversi o sensibili, come ad esempio negli Stati Uniti quelli attinenti al razzismo e all’antirazzismo o alle questioni di genere;
5) il deturpamento, l’abbattimento o la rimozione violenta di statue, monumenti, iscrizioni e simili perché celebrano personaggi la cui condotta è ritenuta offensiva o poco in linea rispetto ai codici etici contemporanei;
6) la decisione legittimamente presa dalle autorità cittadine, locali, o statali, di rimuovere o ricontestualizzare statue, monumenti, iscrizioni e simili per gli stessi motivi sopra indicati.
Questa lista, che è probabilmente incompleta, evidenzia la notevole complessità dei fenomeni e delle problematiche a cui ci si riferisce o si allude quando si parla di cancel culture. Aggiungo che i problemi sollevati o evocati da chi ha scritto su tali questioni sono almeno di due ordini, in quanto ci si può chiedere se la cancel culture (o qualsiasi cosa si intenda designare con questa espressione):
a) rappresenti o no una minaccia per la libertà di pensiero e di espressione;
b) rappresenti o no una minaccia per la conservazione e la trasmissione della storia, dei valori, del patrimonio artistico e culturale, e dell’identità stessa dell’Occidente.
Queste due domande sono tra loro correlate ma non necessariamente hanno la stessa risposta, negativa o affermativa che sia.
Ritengo tuttavia che per provare a rispondere a questi e ad altri interrogativi sia necessario esaminare in modo più dettagliato almeno alcuni dei diversi aspetti della questione, come alcuni studi sia italiani che americani hanno cominciato a fare. Li illustreremo nei prossimi articoli.
Note
* Ho organizzato questo argomento in diversi articoli, che trattano partitamente le singole questioni relative a un tema così complesso come la cancel culture.
1 Emanuele Mastrangelo – Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa della Cancel Culture che sta distruggendo la nostra storia, Massa, Eclettica Edizioni, 2020, p. 43.
3 Si tratta della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, adottata a Faro in Portogallo il 27 ottobre 2005 e ratificata attualmente da 24 Stati, tra cui l’Italia, che la ha ratificata il 15 dicembre 2020.
4 Mastrangelo - Petrucci, Iconoclastia, cit., p. 362.
6 Federico Rampini, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Milano, Mondadori, 2021, p. 3.
9 Germano Maifreda, Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture, Milano, Feltrinelli, 2022, pp. 9-10.
11 È mia la traduzione dall’inglese di questo brano e di quello immediatamente successivo.
Bibliografia/Sitografia
- “Cancel culture”, voce di Wikipedia in lingua inglese.
- Friedersdorf, Conor, The Real Reason Cancel Culture Is So Contentious, “The Atlantic”, 28 aprile 2022.
- Maifreda, Germano, Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture, Milano, Feltrinelli, 2022.
- Maifreda, Germano, La “cancel culture” non esiste, “Fondazione Giangiacomo Feltrinelli”, 9 maggio 2023.
- Mastrangelo, Emanuele - Petrucci, Enrico, Iconoclastia. La pazzia contagiosa della Cancel Culture che sta distruggendo la nostra storia, Massa, Eclettica Edizioni, 2020.
- Messina, Dino, La storia cancellata degli italiani, Milano, Solferino, 2022.
- Monaco, Emanuele, Fenomenologia della Cancel culture: tra Woke Capitalism e diritti delle minoranze, articolo pubblicato su “CanadaUsa” nel 2022 (senza data precisa).
- Rampini, Federico, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Milano, Mondadori, 2021.
- Rizzacasa D’Orsogna, Costanza, Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana, Bari-Roma, Laterza, 2022.
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