colonialismo

  • “Le immagini non ritraggono la storia, ma la generano”. Sull’uso didattico delle foto coloniali e di guerra. Una sitografia.

    di Antonio Prampolini

    Indice

    1. Le fotografie come fonti storiche

    2. La piattaforma visual-history.de

    3. Le fotografie etnografiche nella sfera coloniale ed eurocentrica

    4. Le fotografie di guerra e di propaganda nei conflitti di ieri e di oggi

    5. Le fotografie iconiche tra storia e mass media

     

    1. Le fotografie come fonti storiche

    Se è vero che ricordare significa innanzitutto richiamare alla mente le immagini del passato, le fotografie, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, hanno plasmato la memoria visiva dell’umanità e il loro dominio sui mass media continua a diffondersi nel XXI secolo con il progredire della digitalizzazione, la trasformazione di Internet in una rete globale e l’espansione del Web.

    A partire dagli anni Novanta del ‘900, con la “svolta visiva” (Visual Turn) negli studi storici, è stata riconosciuta l’importanza delle fotografie come fonti al pari di quelle scritte.1Tuttavia, nel panorama internazionale della didattica e della divulgazione della storia, risulta ancora oggi assai frequente (se non prevalente) un loro utilizzo al solo scopo di illustrare gli eventi e i personaggi del passato. E questo perché le fotografie non sono facili da “leggere”; pur essendo più vicine alla realtà dei dipinti/disegni, non si limitano a riprodurla ma la interpretano (e in alcuni casi la ricostruiscono), e pertanto richiedono un’attenta critica delle fonti.2

     

    L’importanza della contestualizzazione

    Per essere comprese analiticamente occorre studiare il contesto in cui le fotografie sono state prodotte, i canali di distribuzione, la loro ricezione e i cambiamenti di significato che hanno subito nel corso del tempo.
    Le domande tipiche da porsi in questo caso sono:

    • Chi ha scattato le fotografie (un professionista o un dilettante), quando e in quali circostanze, con quali mezzi tecnici e con quali intenzioni?
    • Sono foto istantanee oppure messe in posa o in scena?
    • Chi o cosa raffigurano?
    • Qual è la tradizione estetico-artistica a cui si ispirano?
    • Su quali supporti e con quali finalità sono state diffuse?
    • Come sono state recepite dai destinatari?
    • Sono state modificate o cambiate nel corso degli anni?
    • Sono state sottoposte a processi di reinterpretazione con attribuzione di nuovi significati?

    Quindi, per l’utilizzazione delle fotografie come fonte storica, non ci si può mai limitare alla sola immagine, ma occorre prendere in considerazione altre fonti, che ci permettano di rispondere alle domande appena elencate.3

     

    Evitare generalizzazioni

    Occorre prestare molta attenzione nelle operazioni di generalizzazione, soprattutto quando abbiamo a disposizione una sola immagine. Per giudicare se un’immagine è rappresentativa, infatti, è necessario disporre di una ampia serie di immagini simili e, come abbiamo appena visto, di informazioni provenienti da altre fonti. Se, ad esempio, le foto del 1914 mostrano in diversi paesi europei manifestazioni pubbliche di volontari entusiasti della guerra, non ne consegue necessariamente che lo fosse la maggioranza della popolazione. Chi non era entusiasta era rimasto a casa, e non ci ha lasciato foto che documentino questa sua decisione.4

     

    Il potere delle immagini

    Le fotografie non rappresentano semplicemente eventi che appartengono al passato, ma fanno parte di un processo comunicativo che, pur riferendosi al passato, agisce nel presente. Le fotografie della violenza, in particolare, puntano contemporaneamente in due direzioni: per gli esecutori (soldati/carnefici) significano l’adempimento di ordini che creano identità; per le vittime (soldati e civili nemici), sono una rappresentazione del loro sacrificio/dovere o della loro impotenza di fronte alla violenza. Secondo lo storico tedesco Gerhard Paul gli autori delle immagini violente del XX secolo erano coscienti del loro potere: «le persone erano state uccise affinché diventassero immagini». Le stesse immagini sono un atto di violenza che continua fino ai giorni nostri e che si ripete nelle guerre del XXI secolo, dove le immagini sono altrettanto efficaci quanto l’uso delle armi, poiché esse «non ritraggono la storia ma la generano».5

     

    Prampolini visual history Leibniz zentrum immagine 1Fig.1: home page della piattaforma online Visual-History.de Fonte2. La piattaforma visual-history.de

    Nel corso del 2013, l’istituto Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung (ZZF), con sede in Germania a Potsdam, fondato nel 1996 per promuovere la ricerca e l’insegnamento della storia contemporanea tedesca ed europea, ha messo in rete una piattaforma digitale sulla Visual History per fornire informazioni riguardanti le attività degli storici e degli altri specialisti in questo ambito e per pubblicare i risultati dei loro studi.6

    La piattaforma consente di effettuare ricerche per Rubriche (Rubriken): Archivi e collezioni (Archive und Sammlungen), Fonti (Quellenbestände), Progetti di ricerca (Forschungsprojekte), Dossier tematici (Themendossiers), Concetti e metodi (Konzepte und Methoden), Dibattiti (Debatten), Recensioni (Rezensionen); per Temi/tag (Themen) e per Pubblicazioni sulla piattaforma (Archiv).

    Ampio spazio viene dedicato alla fotografia. La ricerca per Temi/tag (Themen) segnala numerosi articoli raggruppati nelle diverse categorie in cui viene suddivisa la fotografia (Fotografia privata, Fotografia urbana, Fotografia industriale, Fotografia scientifica, Fotografia etnografica, Fotografia di guerra). Di seguito ne segnaliamo alcuni che riteniamo possano maggiormente interessare gli insegnanti italiani di storia (gli articoli sono in lingua tedesca, ma online è sempre a disposizione il traduttore di Google).

     

    Prampolini visual history Leibniz zentrum immagine 2Fig.2: Collotipia, 14,00 x 8,95 cm, India 1910-1920 Fonte3. Le fotografie etnografiche nella sfera coloniale ed eurocentrica

    Sul contesto della prima fotografia etnologica
    Freiwilligkeit und Zwang. Eine Diskussion im Kontext der frühen ethnologischen Fotografie di Matthias Harbeck und Moritz Strickert, 28/09/2020.

    «Nei viaggi commerciali, nelle spedizioni di ricerca e nello svolgimento di attività amministrative fino alla metà del XX secolo furono scattate numerose fotografie in contesti coloniali ed eurocentrici, che raffiguravano la vita degli abitanti delle zone percorse “come immagini straniere veicolate attraverso i diversi meccanismi di distribuzione e consumo”. Alcune raffigurano scene chiaramente allestite come ritratti di gruppo, battaglie o scatti predisposti in studio, mentre altre si suppone siano istantanee scattate sul campo. Altre sono fotografie antropometriche standardizzate che spesso mostrano le persone raffigurate nude o in costumi apparentemente tradizionali e che servivano come fonte di conoscenza per i ricercatori allo scopo di identificare i gruppi. Le persone raffigurate erano spesso viste come antitetiche alla civiltà occidentale».

    Prampolini visual history Leibniz zentrum immagine 3Fig.3: Il terzo nativo da sinistra spiega la tecnica di lancio del giavellotto degli aborigini australiani, in Colin Ross, Der unvollendete Kontinent, Leipzig 1930. FonteI resoconti di viaggio illustrati fotograficamente dell'inizio del XX secolo
    Ein studentisches Podcast-Projekt über fotografisch illustrierte Reiseberichte des frühen 20. Jahrhunderts
    di Anna Schade, Lukas Kleine-Schütte, Robin Spitzer und Deike Terhorst, 16/07/2021.

    «Nel corso del commercio europeo e dell’espansione coloniale a partire dalla prima età moderna, si sono aperte agli europei nuove opportunità di sperimentare lo “straniero” e lo “sconosciuto” al di fuori del loro continente d’origine. I resoconti di viaggio si affermarono rapidamente come un genere letterario popolare tra la borghesia europea. In un'epoca in cui i viaggi verso gli altri continenti erano riservati solo a pochi, questi hanno plasmato in modo significativo la visione di molti. […] Mentre gli scrittori di viaggio nel XVIII e nella prima metà del XIX secolo cercavano di dare enfasi visiva alle loro impressioni attraverso disegni e schizzi, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, scattando fotografie, essi potevano produrre immagini apparentemente oggettive. Ciò che veniva raffigurato non era più considerato come l'immaginazione di un individuo, ma come la cattura di immagini veritiere. […] Tuttavia, le fotografie non sono documenti trasparenti in un “linguaggio universale”, ma piuttosto, secondo Roland Barthes, segni semiotici la cui “magia” deriva dal fatto che la loro presunta trasparenza conferisce autorità a diverse interpretazioni».

    Prampolini visual history Leibniz zentrum immagine 4Fig.4: “Dove giungla e cultura si incontrano. Un indiano Kampa ascolta il grammofono” di George Miller Dyott, in: Otto Nordenskjöld, Südamerika: Ein Zukunftsland der Menschheit. Natur / Mensch / Wirtschaft, Stuttgart 1927. FonteFoto e cartoline illustrate del Sudamerica nell'Impero tedesco, 1880-1930
    Indigene und Eisenbahnen, Ruinen und Metropolen. Fotos und Bildpostkarten aus Südamerika im Deutschen Reich, ca. 1880-1930 di Hinnerk Onken, 07/12/2015.

    «La conoscenza del Sud America da parte degli europei è stata trasmessa attraverso le immagini fin dalla prima età moderna, quando il continente americano divenne l’obiettivo dell'espansione europea. Questa tradizione dell'immagine ricevette nuovi impulsi nel XIX e all'inizio del XX secolo: le foto e, successivamente, le cartoline illustrate mostrarono agli abitanti dell'Impero tedesco un'immagine ambivalente del continente che interagiva con idee preesistenti, ma che entrava anche in competizione con esse. L'ambivalenza dell'immagine del Sud America è chiara nei motivi, perché i media visivi mostravano, da un lato [la modernità]: ferrovie e stazioni ferroviarie, paesaggi urbani, edifici rappresentativi, porti, zoo e fabbriche, e dall’altro, immagini di indigeni e di rovine, dipingendo così un quadro completamente diverso. A prima vista, le fonti sembrano mostrare una familiare dicotomia tra tradizione e modernità. Ma un esame più attento rivela che emergono significati ibridi che oscillano a seconda del contesto d'uso».

     

     

    Prampolini visual history Leibniz zentrum immagine 5Fig.5: Medici militari italiani curano un indigeno nel corso della Campagna dell’Africa Orientale Italiana (1940-41). Fonte4. Le fotografie di guerra e di propaganda nei conflitti di ieri e di oggi

    Immagini di guerra a confronto nella Germania nazionalsocialista e nell'Italia fascista
    Disziplinierte Bilder. Kriegsbildberichterstattung im nationalsozialistischen Deutschland und faschistischen Italien im Vergleich
    di Markus Wurzer, 06/04/2020.

    «Il regime fascista italiano sperimentò presto il cinema e la fotografia per scopi di propaganda creando non solo un ministero dedicato [Ministero della Stampa e della Propaganda che nel 1937 assumerà la denominazione di Ministero della Cultura Popolare], ma anche un istituto controllato dallo stato, l'Istituto Nazionale LUCE. La guerra d’aggressione italiana contro l’Impero etiope costituì il primo banco di prova di questa “macchina del consenso”. Il regime fascista controllava le immagini per assicurarsi che la campagna militare in Etiopia fosse presentata nella “luce corretta” sia in patria che all'estero. Le immagini [fotografie e filmati] dovevano mascherare la guerra criminale facendola apparire una “missione civilizzatrice”. L’Italia fascista aveva preceduto la Germania nazista nella creazione di un apparato di propaganda finalizzato a “disciplinare” la produzione fotografica e cinematografica. Questo fa sì che si debba dubitare della tesi comune secondo cui i filmati di guerra tedeschi non avevano precedenti al momento della loro realizzazione, costituendo un modello imitato in seguito da altri stati ed eserciti. Si potrebbe invece sostenere che il controllo delle immagini sperimentato dall’Italia nella guerra d'Etiopia fu il vero modello a cui gli altri si ispirarono».

     

    Prampolini visual history Leibniz zentrum immagine 6Fig.6: : “La vita quotidiana in guerra”, in «Die junge Dame», 22/09/1942. FonteGli eroi nella stampa illustrata di massa del nazionalsocialismo (1939-1945)
    Stillstand der Körper im Krieg. Von den Pflichten des Heroischen und dem Reiz des Alltags in der illustrierten Massenpresse des Nationalsozialismus (1939-1945)
    di Vera Marstaller, 22/07/2019.

    «Nelle riviste illustrate le fotografie della vita quotidiana degli eroi sono quantitativamente più importanti di quelle che mostrano le battaglie al fronte. […] L'uniforme della Wehrmacht appare come un simbolo di eroismo, che può essere compreso visivamente da tutti. […] L'uniforme come abbigliamento dell'eroe rappresenta una "comunità nazionale" basata sulla gerarchia di genere e sulla solidarietà maschile illimitata - e quindi parte di un reciproco riconoscimento dell'onore tra gli uomini il cui obiettivo è proteggere le donne del Terzo Reich dal nemico. La violenta demarcazione del popolo tedesco dagli altri popoli/etnie, sia internamente che esternamente, sembra essere una conseguenza logica e una sfida inerente all'eroismo. La guerra diventa così una guerra per la protezione delle donne, e la costruzione di una situazione permanente di autodifesa si traduce in una guerra di aggressione necessaria all’instaurazione di un nuovo ordine».

     

    Prampolini visual history Leibniz zentrum immagine 7Fig.7: Una compagnia di propaganda della Wehrmacht al lavoro (21/06/1940). FonteLe compagnie di propaganda della Wehrmacht e i ghetti nella Polonia occupata
    “Juden unter sich”. The Propaganda Companies and the Jewish Ghettos in Occupied Poland
    di Daniel Uziel, 20/04/2020.

    «Una delle più influenti azioni di propaganda antisemita prodotte nel Terzo Reich negli anni 1939-1941 si basò su immagini e resoconti provenienti da vari ghetti della Polonia occupata. Gran parte della materia prima necessaria per la propaganda antisemita veniva raccolta e consegnata dalle Propagandakompanien (PK) della Wehrmacht. […] Anche se i primi ghetti furono istituiti nella Polonia occupata solo alla fine del 1939, i PK riferirono degli ebrei polacchi mentre la guerra era ancora in corso. Per molti aspetti, questi primi resoconti aiutano a stabilire alcune delle caratteristiche chiave della propaganda nazionalsocialista sui ghetti e sui loro occupanti. […] L’antisemitismo veniva utilizzato per legittimare l'aggressione contro la Polonia, delegittimare il diritto di esistere dello Stato polacco e trasmettere un'immagine negativa della nazione polacca».

     

    Prampolini visual history Leibniz zentrum immagine 8Fig.8: unità fotografica dell'US Signal Corps in addestramento (11/06/1942). FonteLe fotografie delle unità americane US Signal Corps durante e dopo la Seconda guerra mondiale
    Fotografie, Staat und Öffentlichkeit: Signal Corps-Fotografien im und nach dem Zweiten Weltkrieg
    di Annette Vowinckel, 12/01/2015.

    «Le guerre moderne non si combattono solo sul campo di battaglia, ma anche sui media. L'informazione esaustiva sugli scopi bellici e sullo svolgimento della guerra è innanzitutto compito della stampa libera, se esiste. Istituendo reparti di intelligence, gli stati moderni hanno creato uno strumento per prendere nelle proprie mani la produzione e la diffusione delle informazioni di guerra. Nonostante la diversità degli stati in guerra, molto simile era il lavoro di queste unità militari, che a volte venivano chiamati reparti di telecomunicazioni, a volte reparti di intelligence o, nel caso della Wehrmacht, compagnie di propaganda. Oltre alla produzione di messaggi di testo e alla gestione delle telecomunicazioni, l’attività di queste unità spesso comprendeva la realizzazione di fotografie e filmati. Il compito dei fotografi militari era quello di documentare le operazioni di combattimento, ma anche gli eventi dietro il fronte e infine di scattare fotografie aeree del territorio nemico per scopi strategici. […] La storia delle unità US Signal Corps risale al XIX secolo. Come suggerisce il nome, inizialmente i loro compiti consistevano nel trasmettere messaggi con segnali di bandiere o di notte con segnali di torce. A poco a poco, però, si aggiunsero tutte le forme moderne di comunicazione, dalla telegrafia alla radio, dalla fotografia al cinema e alla televisione. La prima guerra fotografata dal personale dell'esercito americano fu la Guerra ispano-americana del 1898. Seguirono la Prima e la Seconda guerra mondiale, la Guerra di Corea, la Guerra del Vietnam e le più recenti guerre in Afghanistan e Iraq. La pratica fotografica delle unità US Signal Corps raggiunse il suo primo apice durante la Seconda guerra mondiale, nel corso della quale più di 700 fotografi realizzarono circa mezzo milione di fotografie».

     

    Prampolini visual history Leibniz zentrum immagine 9Fig.9: soldato ucraino spara dalla finestra di una abitazione FonteImmagini della guerra in Ucraina: un dossier tematico
    Themendossier: Bilder des Krieges in der Ukraine
    di Christine Bartlitz, 06/04/2022.

    «I media visivi svolgono un ruolo centrale nel raccontare la guerra in Ucraina, nel documentare e interpretare i crimini di guerra. Il potere delle immagini come forza creativa e di mobilitazione nel processo politico è sempre stato grande in tempo di guerra. Attualmente stiamo trasmettendo la guerra quasi in tempo reale. Ci sono anche immagini e video che sono stati manipolati o presi fuori contesto. Nei media e nell'opinione pubblica si discute sulla veridicità delle immagini. Le guerre non si combattono mai solo a livello locale, ma anche a livello globale con parole e immagini, come dimostrano in modo impressionante i videomessaggi al pubblico mondiale del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj. Tuttavia, probabilmente, è ancora troppo presto per presentare un quadro storico-visivo completo della guerra in Ucraina: le armi non tacciono, le persone muoiono ogni giorno. Non sappiamo cosa accadrà, come finirà questa guerra. I giornalisti si trovano attualmente ad affrontare sfide particolarmente grandi nella gestione del materiale fotografico».

     

    Prampolini visual history Leibniz zentrum immagine 10Fig.10: “I primi Hereros arrendevoli”, foto con didascalia tratta da un album del 1907. Fonte5. Le fotografie iconiche tra storia e mass media

    Il popolo Herero: una fotografia iconica della distruzione di un popolo
    Starving Hereros. Zur Geschichte einer „Ikone der Vernichtung“
    di Lars Müller, 19/11/2018.

    «Una fotografia in bianco e nero con nove persone riunite a formare un gruppo: sette in piedi, due sedute. Tutti indossano un perizoma che rivela i loro corpi sottopeso, emaciati, indeboliti. Tre persone si sostengono con un bastone, alcuni indossano collane come gioielli. Si possono vedere anche anelli attorno alle caviglie. Non è chiaro se queste possano essere catene di ferro. Gli occhi sono per lo più rivolti allo spettatore, solo le persone sedute sembrano avere gli occhi chiusi. Sullo sfondo si vede un paesaggio brullo. Osservando più da vicino si possono vedere ulteriori dettagli, che però non sono in grado di fornire informazioni precise sulle persone, sul luogo o sull'ora della foto. La fotografia è stata scattata durante la guerra tedesco-herero [1904-1908] in quello che oggi è lo stato della Namibia. Questa guerra ricevette - e riceve ancora oggi - la massima attenzione nei dibattiti pubblici sui numerosi conflitti armati che l'Impero tedesco intraprese con gli abitanti delle sue colonie. Questione centrale è se lo sterminio quasi completo degli Herero sia il prodotto di una volontà sistematica di porre in essere un vero e proprio genocidio da parte della potenza coloniale tedesca (il primo genocidio del XX secolo). Dal centenario della guerra tedesco-herero nel 2004, questa fotografia di gruppo è quasi onnipresente, nei libri scientifici o divulgativi e negli articoli giornalistici. Viene utilizzata non solo in forma stampata, ma anche in documentari televisivi o materiali didattici online. Gli autori sembrano attribuirgli uno speciale potere esplicativo come sinonimo di “sterminio del popolo Herero”».

     

    Prampolini visual history Leibniz zentrum immagine 11Fig.11: la presunta orchestra di musicisti prigionieri nel campo di Janovsk nell’atto di suonare il 'Tango della Morte'. FonteIl “Tango della morte”?. A proposito di una foto scattata nel campo nazista di Lemberg/Lviv
    “Todestango”? Über ein Foto aus einem NS-Lager in Lemberg/Lviv
    di Dirk Dietz, 24/10/2022.

    «Il “Tango della morte” è una delle composizioni più conosciute e allo stesso tempo più enigmatiche che si dice siano state suonate nei campi di concentramento e di sterminio delle SS. Secondo la leggenda, fu creato nel campo di lavoro forzato e di transito Janowska a Lemberg/Lviv, l'allora capitale della Galizia, che passò sotto l'occupazione tedesca dopo l'attacco del regime hitleriano all'Unione Sovietica il 22 giugno 1941. Si dice che il vice comandante del campo, l'SS-Untersturmführer Richard Rokita, che era musicista, avesse dato a due musicisti detenuti (Leopold Striks e Yacub Mund) l'ordine di comporre un "tango della morte", che da allora in poi sarebbe stato suonato durante le esecuzioni dei prigionieri. Due fotografie di un'orchestra svolgono un ruolo cruciale nell'autenticare questa leggenda. Una delle due mostra un'orchestra disposta in cerchio in un lager che apparentemente potrebbe essere il campo di lavoro forzato e di transito Janowska a Lemberg/Lviv. La fotografia e la leggenda del “Tango della morte” formano un'unità suggestiva: “l'orchestra dei musicisti prigionieri nel campo di Janovsk suona il 'Tango della Morte'. Torture ed esecuzioni avvengono contemporaneamente". Questa interpretazione fu coniata dai sovietici e fino ad oggi fatta propria da quasi tutti gli studi e le pubblicazioni su Lemberg, il campo di Janowska e il genocidio degli ebrei della Galizia. Tuttavia, l’esistenza di una composizione speciale denominata “Tango della morte” non è certa né vi è alcuna prova che le fotografie mostrino l’orchestra del campo che suona un brano musicale del genere. Finora questa fotografia non è stata sottoposta ad alcun esame critico della fonte, il che fa riflettere se si considera la “svolta pittorica” proclamata circa 30 anni fa. Per molte persone foto e testo formano ancora oggi un'unità suggestiva: l'idea di un "Tango della morte" e la presunta prova più importante di esso: l'orchestra del campo che suona il "Tango della morte"».

     

    Prampolini visual history Leibniz zentrum immagine 12Fig.12: : Il ritratto dell'SS Oberscharführer Erich Muhsfeldt sul profilo Facebook del Museo statale di Auschwitz-Birkenau Fonte“Ha persino un aspetto malvagio…” Il ritratto dell'SS Oberscharführer Erich Muhsfeldt sul profilo Facebook del Museo statale di Auschwitz-Birkenau
    “He even looks evil …“ Das Porträt des SS-Oberscharführers Erich Muhsfeldt auf dem facebook-Profil des Staatlichen Museums Auschwitz-Birkenau
    di Ina Lorenz, 12/10/2015.

    Il 1° gennaio 2011, sul profilo Facebook del Museo Statale Auschwitz-Birkenau era stata pubblicata la foto di un ufficiale nazista, Erich Muhsfeldt, accompagnata dalla scritta: “Il 1° gennaio 1945 Erich Muhsfeldt, comandante dei forni crematori di Auschwitz, fucilò 200 prigionieri polacchi nel campo di Auschwitz II”.
    «Il ritratto dell'SS-Oberscharführer Erich Muhsfeldt è scelto con intelligenza: mostra l’ufficiale nazista in prigionia e offre quindi una immagine insolita, poiché la nostra idea dei nazisti è caratterizzata da uomini in uniforme, decorati con distintivi e medaglie. […]. La fotografia storica dell'SS Oberscharführer ha suscitato un'ondata di commenti. A prima vista, può sembrare strano pubblicare la foto di un colpevole nazista su Facebook e affrontare in questa sede argomenti seri come il nazionalsocialismo e l’Olocausto. Tuttavia, questa pubblicazione offre l’opportunità di esaminare una nuova forma di rapporto con la storia che, in primo luogo, avviene nello spazio virtuale e, in secondo luogo, segue un approccio partecipativo. Ciò sembra tanto più urgente in quanto Gerhard Paul già diversi anni fa aveva predetto che Internet sarebbe diventato a lungo termine il “mezzo visivo più importante per trasmettere la storia e la cultura della memoria”».7

     


    Note

    Sulla Visual History e sulla svolta visiva degli studi storici: A. Prampolini, La Visual History. Che cos’è e quali storie ci fa conoscere, in «Historia Ludens», 10/02/2021, Visual history. L'uso didattico delle fonti iconografiche (sitografia con una prefazione di A. Brusa), in «Historia Ludens», 10/03/2021, La storia nelle immagini. Laurent Gervereau, uno studioso fra public history e didattica della storia, in «Historia Ludens», 18/09/2023; Vedi anche gli articoli di didattica di chi scrive e di Antonio Brusa, pubblicati nella rivista «Visual history».

    Per un approfondimento: Peter Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci editore, Roma, 2002; Adolfo Mignemi, Lo sguardo e l'immagine: la fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, 2003; Giovanni De Luna, La passione e la ragione, Bruno Mondadori, 2004; Gabriele D’Autilia, L'indizio e la prova. La storia nella fotografia, Bruno Mondadori, 2005.

    3 Cfr. Michael Sauer, Bilder als historische Quellen, in «Bilder in Geschichte und Politik», BpB, 28/12/2005.

    Cfr. Michael Sauer,Bilder als historische Quellen, in «Bilder in Geschichte und Politik», BpB, 28/12/2005; Violetta Rudolf,Kontextualisierung oder Eine Fotografie und ihre Geschichte(n), in «Visual History», 07.11.2022.

    Gerhard Paul,Bilder als generative Kräfte, in «Docupedia-Zeitgeschichte», 13/03/2014; Benet Lehmann,Wie Gewaltbilder erschließen?, in «Visual History», 19.07.2022.

    Per maggiori informazioni sull’istituto ZZF e sulle sue attività: A. Prampolini,La storia contemporanea nel Web. L’esempio della Germania: il Centro per la storia contemporanea di Potsdam, in «Historia Ludens», 21/12/2020.

    Gerhard Paul,Das Jahrhundert der Bilder. Die visuelle Geschichte und der Bildkanon des kulturellen Gedächtnisses, in Das Jahrhundert der Bilder. 1949 bis heute, Göttingen 2008, pp. 14-39.

     

  • L’immaginario coloniale. L’Africa nelle fotografie dell’Istituto Luce

    di Antonio Prampolini

     

    Indice

    1. La fotografia e l’immaginario coloniale

    2. L’Istituto Luce e il monumento visivo dell’Italia fascista

    3. La produzione fotografica del Reparto Africa Orientale Italiana

    3.1 La Guerra di Etiopia

    3.2 Una “colonizzazione civilizzatrice”

    4. Il sito online dell’Archivio Storico Luce

     

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 1Fig.1: Somalia italiana - donna al mercato - foto di Carlo Pedrini (1894-1932) Fonte1. La fotografia e l’immaginario coloniale

    Una delle eredità culturali più interessanti dei vari colonialismi europei in Africa è costituita dalle numerose fotografie prodotte, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, da soggetti diversi (esploratori, viaggiatori, scienziati, militari, missionari, scrittori e giornalisti, fotografi di professione, coloni e funzionari delle amministrazioni coloniali) con lo scopo di documentare e comunicare visivamente un continente “altro” rispetto all’Europa, a cui la storia aveva affidato una “missione civilizzatrice” di popoli “razzialmente e culturalmente inferiori”. Conseguentemente, l’Africa veniva rappresentata come una terra abitata da “etnie primitive” ma dotata di grandi risorse naturali e demografiche che avrebbero potuto essere sfruttate vantaggiosamente dai colonizzatori1.

    A partire dalla metà del secolo XIX, la fotografia aveva messo a disposizione degli europei un nuovo e “rivoluzionario” strumento di raffigurazione delle colonie, che prima della sua invenzione si era limitata a rappresentazioni cartografiche, a disegni e acquerelli che illustravano racconti esotici, diari di viaggio e articoli di giornale.

     

    L’ultimo secolo del colonialismo globale europeo - hanno osservato Matthias Harbeck e Moritz Strickert - è coinciso con una rivoluzione tecnologica e mediatica che avrebbe cambiato per sempre l’immagine pubblica del mondo: l’invenzione della fotografia. Sebbene le immagini fotografiche hanno immortalato molti aspetti della vita pubblica e privata moderna, è nella cultura e nell’immaginazione coloniale che hanno avuto un significato particolare: le colonie non erano più solo territori lontani, oltre l’orizzonte [oltremare], ma ora potevano essere “guardate da casa”. Questa improvvisa vicinanza dei territori colonizzati ha dato vita a una cultura visiva che illustrava il paradosso stesso delle ambizioni globali dell'Europa: da un lato, la legittimazione del colonialismo si basava su immagini di “alterità” del mondo non occidentale, dall'altro, i nuovi territori dovevano essere familiarizzati e quindi rivendicati [e integrati] come parte degli imperi2.

     

    La fotografia coloniale condizionava «la percezione della realtà che agli occhi di molti sarebbe finita col coincidere con la sua rappresentazione [visiva]». E così facendo, svelava la società e la cultura del tempo, «riflettendo i miti [e anche le paure] che l’avventura coloniale stimolava nella popolazione [europea]»3.

     

    La macchina fotografica non è mai stata un mezzo neutrale: parte integrante delle conquiste coloniali venne utilizzata sia per creare mappe, sia per controllare i nuovi territori e favorire una conoscenza di stampo positivista dei popoli e dei luoghi conquistati. La fotografia rientrava dunque in quel vasto flusso di informazioni da cui dipendeva lo stesso progetto coloniale, specializzandosi ben presto nella creazione d’immagini di sterminati spazi vuoti - ideali per nuovi insediamenti colonici -, di popoli primitivi da civilizzare e di categorie razziali da classificare (Monica Cillario, La fotografia e il colonialismo. Ieri e oggi, op. cit.).

     

    La fotografia contribuì, nei decenni successivi alla sua invenzione, a creare un immaginario coloniale del continente africano caratterizzato da pregiudizi e stereotipi (che lasciarono non poche tracce sia nella memoria pubblica che in quella privata), funzionali alla propaganda politica di tutti gli imperi europei4. Una propaganda che non avrebbe mai avuto un successo di legittimazione senza un uso sistematico della fotografia (e, in seguito, anche del cinema) adeguatamente supportata da enti e/o finanziamenti pubblici, come vedremo in Italia con la creazione dell’Istituto Luce.

     

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 2Fig.2: Logo dell'Istituto Luce Fonte2. L’Istituto Luce e il monumento visivo dell’Italia fascista

    L’Istituto Nazionale Luce era stato fondato da Mussolini nel novembre del 1925 come ente di diritto pubblico (in sostituzione della precedente società anonima L.U.C.E - L’Unione Cinematografica Educativa - creata nel 1924) con il compito di organizzare l’informazione e la propaganda del regime fascista attraverso la produzione e la distribuzione di immagini fotografiche e cinematografiche5.

    Grazie alle capacità tecniche e, soprattutto, all’appoggio politico dello stesso Mussolini, in poco tempo, l’Istituto Luce arrivò a detenere di fatto il monopolio delle riprese degli avvenimenti ufficiali del regime e delle immagini del duce, che poi inviava gratuitamente alla stampa nazionale e a quella estera.

    Le fotografie dell’Istituto Luce (nel 1927 era stato creato un apposito Servizio Fotografico) svolsero un ruolo fondamentale nel forgiare l’immagine di Mussolini, alimentando negli italiani il culto del “capo”, esempio di “capacità e virtù straordinarie” a cui tutti avrebbero dovuto ispirarsi.

     

    Un Mussolini solitamente fotografato con inquadrature dal basso che lo elevavano al di sopra degli uomini comuni. Nei ritratti in primo piano, inoltre, si prediligevano le inquadrature che facevano risaltare sul viso di Mussolini uno sguardo pensieroso, rivolto verso il futuro, cercando di identificare il suo volto con il progresso e la vittoria. [...] L’Istituto, inoltre, doveva cercare di diffondere un’immagine di Mussolini rassicurante ma forte allo stesso tempo. La fotografia del Luce testimonia così la molteplicità semantica dell’immagine di Mussolini, non soltanto fra essere dinamico e statuario, ma anche edificandolo nell’icona del condottiero militare e, contemporaneamente, divulgandolo come il paterno protettore della nazione, sempre prodigo a dispensare interessamento e affetto verso la popolazione (Stefano Mannucci, Storia della fotografia dell'Istituto Luce, op. cit.).

     

    L’Istituto Luce aveva attivamente collaborato alla realizzazione della Mostra della Rivoluzione Fascista allestita nel 1932 nel Palazzo dei Musei della capitale in occasione del “Decennale della Marcia su Roma” (28 ottobre 1922). La mostra ricostruiva i momenti salienti dell’affermazione del fascismo, offriva un quadro delle opere del regime e proponeva una rilettura in chiave fascista dell’intera storia nazionale6.

     

    La mostra non rappresentò soltanto il culmine raggiunto dalla fotografia come strumento d’appropriazione del passato, e mezzo per costruire una storia secondo la propria concezione ideologica. La mostra cercò, soprattutto, di oggettivare la fotografia nel suo rapporto con la storia medesima. Infatti, nel momento in cui la fotografia era posta accanto ad oggetti reali del passato, come gli zaini, le armi, le lettere, essa stessa diveniva un oggetto reale ed obiettivo, un prodotto materiale della storia, e non l’effimera visione del mondo da parte di una determinata intenzionalità, donandole così una maggiore forza nel suo rapporto d’oggettività con la storia stessa (Stefano Mannucci, Storia della fotografia dell'Istituto Luce, op. cit.).

     

    E sempre in occasione del Decennale, l’Istituto Luce aveva pubblicato L’Italia fascista in cammino, un fotoracconto che conteneva oltre cinquecento immagini che dovevano «insegnare agli italiani ad osservare il paese e la realtà quotidiana non con i propri occhi, ma con quelli dello stesso regime fascista»7.

    Ma fu soprattutto durante la Guerra di Etiopia che l’Istituto Luce impegnò i propri fotografi e le proprie strutture produttive e distributive in un intenso e straordinario lavoro di documentazione fotografica, oltre che cinematografica, sottoposto al controllo censorio del Ministero per la Stampa e la Propaganda (dal 1937, Ministero per la Cultura Popolare). Documentazione che non si limitò ai soli eventi bellici, volendo fornire agli italiani anche una rappresentazione visiva della nuova colonia.

     

    3. La produzione fotografica del Reparto Africa Orientale Italiana

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 3Fig.3: Guerra di Etiopia - Colonna someggiata in marcia Fonte3.1 La Guerra di Etiopia

    Nel settembre del 1935, su espressa richiesta dello stesso Mussolini, l’Istituto Luce creò il Reparto foto-cinematografico per l’Africa Orientale per seguire l’impresa coloniale dell’Italia in Etiopia (ottobre 1935 - maggio 1936).

    Ricorrendo alle moderne tecniche di propaganda, il regime voleva rendere popolare la guerra coloniale caricandola di contenuti retorici (il mito della Roma imperiale, la missione civilizzatrice dell’Italia fascista, la conquista di uno “spazio vitale” in Africa) per suscitare nel paese una massiccia mobilitazione e giustificare gli inevitabili sacrifici che essa avrebbe comportato (e tra questi, le sanzioni della Società delle Nazioni). La conquista dell’Etiopia, oltre a mettere a disposizione degli italiani nuove terre da coltivare e risorse economiche (più immaginarie che reali) doveva essere, a livello internazionale, una palese dimostrazione della forza militare e delle capacità organizzative dell’Italia fascista8.

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 4Fig.4: Guerra di Etiopia - colonna di autocarri militari in marcia – ottobre 1935 FonteIl Reparto foto-cinematografico per l’Africa Orientale venne strutturato potendo contare su di una consistente disponibilità di uomini e mezzi. Furono create diverse unità fotografiche da dislocare nei vari punti del fronte, dotate ciascuna di carri-laboratorio in grado di sviluppare i negativi da inviare alla sede operativa del reparto Luce ad Asmara (in Eritrea, dove si trovava il quartier generale delle forze militari italiane), che poi li avrebbe sottoposti alla verifica censoria dell’Ufficio Stampa e Propaganda Africa Orientale; ufficio a cui spettava il compito di controllare e selezionare le immagini da trasmettere ai corrispondenti dei giornali italiani e stranieri9.

    Durante i sette mesi di guerra, i fotografi del reparto Luce seguirono le truppe italiane nella conquista dell’Etiopia scattando migliaia di fotografie. Le immagini dovevano dare l’impressione di una “guerra facile”, dove la superiorità degli armamenti, le capacità logistiche e organizzative dell’esercito italiano avrebbero garantito una rapida vittoria con perdite molto limitate tra i propri soldati10.

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 5Fig.5: Guerra di Etiopia – aerei italiani FonteLe fotografie dell’Istituto Luce non documentarono nessuna delle atrocità di cui si erano macchiati gli italiani durante il conflitto, in particolare l’esteso utilizzo delle armi chimiche11. La guerra non veniva ritratta nel suo reale svolgimento, ma rappresentata prevalentemente secondo gli stilemi dell’iconografia tradizionale dei conflitti otto-novecenteschi, che utilizzava, per non allarmare l’opinione pubblica, immagini dove il dolore e la morte costituivano un’eccezione: sentinelle impegnate nei turni di guardia, artiglieri accanto ai loro cannoni, genieri che costruivano ponti, soldati che scrivevano lettere a casa o si rilassavano nei momenti di svago.

    Squarci della realtà bellica erano tuttavia presenti nelle numerose fotografie scattate dai militari italiani (ufficiali e soldati), che, muniti di macchina fotografica, si dilettavano a ritrarre senza reticenze i corpi dei nemici orribilmente sfigurati, le vittime civili dei bombardamenti, le impiccagioni e le fucilazioni degli abissini. Fotografie che, tollerate dai comandi o sfuggite ai controlli della censura, circolavano tra le truppe, e che oggi vengono ritrovate negli album di ricordi personali dell’avventura in Africa Orientale dei militari italiani12.

     

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 6Fig.6: costruzione di case ad Addis Abeba (1936-1937) Fonte3.2 Una “colonizzazione civilizzatrice”

    Dopo la presa della capitale etiope (5 maggio 1936), l’obiettivo principale del Reparto foto-cinematografico per l’Africa Orientale (la cui sede era stata trasferita da Asmara a Addis Abeba) divenne quello di documentare "l'incivilimento e la valorizzazione delle terre conquistate".

    Pertanto, numerose erano le fotografie che, con un evidente taglio propagandistico, mostravano la costruzione di strade e ponti, di mulini e forni per la produzione di farine e pane, la consegna ai coloni di trattori e aratri, l’installazione di linee elettriche e antenne della radio, l’insediamento ad Addis Abeba di filiali commerciali delle aziende industriali italiane come la Fiat, la Lancia, l’Olivetti, e il Banco di Roma.

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 7Fig.7: costruzione di strade nella regione di Addis Abeba FonteA queste si aggiungevano le fotografie che riprendevano le attività dei giovani etiopi inseriti nelle organizzazioni del regime fascista (come ad esempio i saggi ginnici della Gioventù Etiopica del Littorio) o ritraevano gli adulti inquadrati nelle truppe coloniali (gli Àscari) e trasformati da guerrieri “selvaggi” in soldati “disciplinati” di un esercito regolare13. Ricorrenti erano pure le fotografie che ritraevano gli indigeni liberati dalle “catene della schiavitù” o di ras locali che baciavano la bandiera italiana o si inchinavano alle autorità in segno di sottomissione14.

     

     

     

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 8Fig.8: bambini della Gioventù Etiopica del Littorio durante un saggio ginnico FonteGran parte delle fotografie dell’Istituto Luce diffondevano un’immagine fittiziamente bonaria e paternalista delle forze di occupazione e dei coloni italiani; un’immagine che si prestava a coprire il razzismo di fondo del regime fascista, lo sfruttamento delle popolazioni indigene nelle attività economiche e la repressione violenta di ogni loro forma di ribellione15.

     

     

     

     

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 9Fig.9: ufficiali medici italiani con una donna etiope FonteGli etiopi (uomini e donne) venivano generalmente ritratti con un misto di curiosità e talora di attrazione (il mito delle “veneri nere”) per mostrare, in immagini che evidenziavano i loro caratteri somatici, una presunta “inferiorità etnica”. Raramente venivano fotografati nello svolgimento delle loro attività tradizionali o nelle manifestazioni della loro cultura. Ciò che importava ai fotografi dell’Istituto Luce non era far conoscere agli italiani quell’antico popolo africano, ma riaffermare attraverso immagini stereotipate il punto di vista, gli interessi e la “superiore civiltà” dei colonizzatori.

     

     

     

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 10Fig.10: logo dell’Archivio Luce Fonte4. Il sito online dell’Archivio Storico Luce

    Dal 2018 l’Archivio Storico Luce è presente in rete con un proprio sito che permette di accedere a gran parte dei fondi iconografici costituiti dai materiali realizzati o acquisiti dall’Istituto Luce nel corso del Novecento (e oggi opportunamente digitalizzati), offrendo agli storici e a tutti gli interessati una vasta e preziosa documentazione visiva del “secolo breve”16.

    Alcuni fondi dell’archivio online riguardano gli eventi bellici e le occupazioni militari dell’Italia fascista dalla Guerra di Etiopia alla Seconda Guerra Mondiale. Si tratta della produzione foto-cinematografica di quattro reparti dell’Istituto: Reparto Africa Orientale Italiana (1935-1938), Reparto Guerra di Spagna (1936-1939), Reparto Albania (1939-1943), Reparto Guerra (1940-1944).

    In particolare, la sezione dell’archivio Reparto Africa Orientale Italiana (1935-1938) permette di accedere ad oltre diecimila fotografie (10451) attraverso diverse modalità di ricerca: Persone, Temi, Luoghi; per ogni immagine vengono indicati: data, luogo, evento. È sempre possibile impostare ricerche multiple associando Persone, Temi, Luoghi.

    Notevole è quindi il patrimonio fotografico del Reparto Africa Orientale Italiana che l’Archivio Storico Luce ha reso disponibile online sul proprio sito.

    Un patrimonio che richiede però un attento approccio critico per essere utilizzato correttamente a fini didattici. Le fotografie coloniali dedicate all’Etiopia (come tutte le altre prodotte dall’Istituto Luce) «esprimono sempre un messaggio articolato» in cui coesistono “vero e falso”. Sono “vere” per la «autenticità degli elementi contenuti» (persone e oggetti, luoghi ed eventi); sono “false” come «messaggio politico» nel rappresentare l’Etiopia come una colonia pacificata e sotto il pieno controllo del regime fascista (numerose erano le ribellioni e gli attentati che manterranno la colonia in un perenne “stato di guerra” per il breve periodo di durata dell’impero italiano, dal 1936 al 1941); e sono infine ancora “vere” come «documento autentico della propaganda del regime»17.

    Inoltre, non va dimenticato che le fotografie degli etiopi (in particolare delle donne e dei bambini, gli elementi più “deboli” delle comunità locali), come pure quelle degli altri africani, erano spesso il prodotto di una costrizione, di una forzatura da parte dei fotografi, che si traduceva inevitabilmente in una forma di violenza nei loro confronti18.

     


    Note

    1 Genoveffa Palumbo, Gli imperi coloniali, in Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, Treccani, 2014. Romuald Valentin Nkouda Sopgui, Kolonialfotografie: Kulturelle Wahrnehmungsformen und Mediatisierung transnationaler Beziehungsverflechtung, 11/04/2024. Anna Schade, Lukas Kleine-Schütte, Robin Spitzer und Deike Terhorst, Visual Histories. Ein studentisches Podcast-Projekt über fotografisch illustrierte Reiseberichte des frühen 20. Jahrhunderts, 16/07/2021. Matthias Harbeck und Moritz Strickert, Freiwilligkeit und Zwang. Eine Diskussion im Kontext der frühen ethnologischen Fotografie, 28/09/2020. Alberto Baldi, Fotografia antropologica ottocentesca e possesso del mondo. Maria Francesca Piredda, Fotografia missionaria e immaginario esotico: l’incontro con l’Altrove. Monica Cillario, La fotografia e il colonialismo. Ieri e oggi, maggio 2017.

    2 Matthias Harbeck e Moritz Strickert, Freiwilligkeit und Zwang. Eine Diskussion im Kontext der frühen ethnologischen Fotografie, op.cit..

    Stefano Mannucci, La creazione dell’immaginario nel colonialismo italiano, in «Afromagazine» n. 05, gennaio 2009, e Dodo Scaramello, In posa per l’impero. L’uso della fotografia nella propaganda coloniale italiana, 2019. Monica Cillario, La fotografia e il colonialismo. Ieri e oggi, maggio 2017. Giovanni Perillo, Primi anni '80: fototeca e pratiche visive razziste nel colonialismo italiano, in «Cinergie – Il cinema e le altre arti», n.22 (2022). Patrizia Cacciani, Impero filmato, impero-esibito. La cineteca del museo coloniale di Roma (1923-1951), 30/03/2023.

    4 Markus Wurzer, Italian colonialism in visual culture and family memory, 17/09/2018. Nadia Olivieri, L’invenzione dell’Africa. La formazione dell’immaginario coloniale italiano, dossier Insegnare il Mediterraneo contemporaneo, in Novecento.org, n. 4, giugno 2015. Giulia Grechi e Viviana Gravano (a cura di), Presente imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei, Mimesis, Milano, 2016.

    5 Stefano Mannucci, Storia della fotografia dell'Istituto Luce; e sempre dello stesso autore, La fotografia strumento dell’imperialismo fascista. Gabriele D’Autilia, Un caso di studio: l’Archivio fotografico dell’Istituto Luce, in L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, pp. 191-198, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2005. Gian Piero Brunetta, Istituto nazionale L.U.C.E, «Enciclopedia del Cinema», Treccani, 2003.

    6 Archivio Centrale dello Stato, Mostra della Rivoluzione Fascista. Gigliola Fioravanti (a cura di), Mostra della Rivoluzione Fascista - Inventario, Roma, 1990. Stefano Mannucci, Mostra della Rivoluzione fascista. Jeffrey T. Schnapp, Anno X. La mostra della rivoluzione fascista del 1932, Ist. Editoriali e Poligrafici, 2003. Claudio Fogu, The historic imaginary. Politics of history in fascist Italy, Toronto University Press, 2003.
    Per un confronto con l’uso propagandistico delle immagini fotografiche nella Germania nazista: Antonio Prampolini, Gerhard Paul e la storia visiva della Germania nazista, in «Historia Ludens», 10/04/2024.

    7 Stefano Mannucci, Storia della fotografia dell'Istituto Luce, op. cit.. Nel 1932, l’Istituto Luce aveva pubblicato il libro illustrato L’Italia fascista in cammino che comprendeva 516 fotografie tratte dal suo archivio. Stampato in edizione plurilingue (le didascalie erano in italiano, francese, inglese, spagnolo e tedesco), il libro, utilizzando anche diversi fotomontaggi, celebrava le istituzioni e le realizzazioni del regime fascista.

    Gianmarco Mancosu, Vedere l’impero. L’Istituto Luce e il colonialismo fascista, Mimesis, Milano, 2022; dello stesso, la tesi di dottorato La Luce per l’impero. I cinegiornali sull’Africa Orientale Italiana 1935-1942, Università degli Studi di Cagliari, anno accademico 2013-2014. Benedetta Guerzoni, Una guerra sovraesposta. La documentazione fotografica della guerra di Etiopia tra esercito e Istituto Luce, RS Libri, Reggio Emilia, 2017. Angelo Del Boca, Nicola Labanca, L’Impero africano del fascismo nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuniti, Roma, 2002. Patrizia Cacciani, Il fascismo e il suo impero nell’Archivio dell’Istituto Luce, 08/11/2018. Luigi Goglia, Storia fotografica dell’Impero fascista 1935-41, Laterza, 1985. Markus Wurzer, Disziplinierte Bilder. Kriegsbildberichterstattung im nationalsozialistischen Deutschland und faschistischen Italien im Vergleich, 06/04/2020.
    Sugli aspetti economici del colonialismo italiano in Africa Orientale: Giulia Ricci, Alla conquista economica dell’Impero. La guerra coloniale in Etiopia, dossier Insegnare il Mediterraneo contemporaneo, «Novecento.org», n. 4, giugno 2015. Alessio Gagliardi, La mancata «valorizzazione» dell’impero. Le colonie italiane in Africa orientale e l’economia dell’Italia fascista, in «Storicamente», n.12, 2016.

    9 In un bilancio consuntivo, a guerra finita, il direttore dell’Istituto Luce, Giacomo Paulucci di Calboli, dichiarò che erano stati realizzati oltre 8.000 negativi fotografici, dai quali, una volta sviluppati, erano state distribuite circa 350.000 immagini del conflitto, sia in Italia che all’estero. A questa produzione si deve aggiungere un numero considerevole di serie fotografiche stampate in piccolo formato e destinate ai soldati (Adolfo Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 127).

    10 Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. Vol. 2, La conquista dell’impero, Laterza, Bari, 1986. Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall'impero d'Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2008. Nicola Labanca, La guerra d'Etiopia. 1935-1941, il Mulino, Bologna, 2015.

    11 Angelo Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra di Etiopia, Editori Riuniti, Roma, 2021.

    12 Adolfo Mignemi, Immagini per il soldato e il soldato fotografo. Fotografia militare e propaganda, in Immagine coordinata per un impero. Etiopia 1935-1936, a cura di A. Mignemi, Gruppo Editoriale Forma, Torino, 1984. Markus Wurzer, The social lives of mass-produced images of the 1935-41 Italo-Ethiopian War, Cambridge University Press, 10/11/2022. Sul sito https://www.memoriecoloniali.org/ i Fondi documentali

    13 La voce Àscari in Wikipedia edizione italiana.

    14 Gino Satta, L’ultimo baluardo della schiavitù. La “barbarie abissina” nella propaganda per la guerra d’Etiopia, in Variazioni africane. Saggi di antropologia e storia, a cura di Fabio Viti, Il Fiorino, Modena, 2016.

    15 Marida Brignani, Colonialismo e tutela della razza, Dossier Insegnare il Mediterraneo contemporaneo, in «Novecento.org», n. 4, giugno 2015. Gianluca Gabrielli, Razzismo coloniale italiano: dal madamato alla legge contro le unioni miste, in «Novecento.org», n. 12, agosto 2019. Francesco Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie, Bollati Boringhieri, 2021. Cecilia Pennacini, Razzismo e imperialismo nel regime fascista, 29/01/2023.

    16 Il Fondo Cinegiornali e Fotografie dell’Istituto Nazionale Luce è stato inserito nel 2013 dall’UNESCO nel prestigioso registro Memory of the World con la seguente motivazione: «La collezione costituisce un corpus documentario inimitabile per la comprensione del processo di formazione dei regimi totalitari, dei meccanismi di creazione e sviluppo di materiale visivo e delle condizioni di vita della società italiana. Si tratta di una fonte unica di informazioni sull’Italia negli anni del regime fascista, sul contesto internazionale del fascismo (tra cui l’Africa orientale e l’Albania, ma anche ben oltre le aree occupate dall’Italia durante il fascismo, soprattutto per quanto riguarda il periodo della Seconda Guerra Mondiale) e sulla società di massa negli anni Venti e Trenta del Novecento».

    17  Gabriele D’Autilia, L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, op.cit., p.196.

    18 Sulla natura “coercitiva” della fotografia etnografica quale espressione del potere coloniale e del suprematismo dei “bianchi”: Matthias Harbeck e Moritz Strickert, Freiwilligkeit und Zwang. Eine Diskussion im Kontext der frühen ethnologischen Fotografie, op.cit..

  • Quando l’Italia aveva le colonie. Uno strumento utile per studiare una storia spesso trascurata.

    di Maria Laura Cornelli e Daniela Rosa

    Mohamed Aden Sheikh ricordava nelle sue memorie che, studente di medicina in Italia negli anni Cinquanta, spesso gli veniva chiesto dove si trovasse la Somalia: quando rispondeva che era un’isola dei Caraibi «nessuno batteva ciglio. Rarissimi erano gli italiani che avessero una conoscenza, anche vaga, dell’Africa e della sua storia»1. Sono passati oltre sessant’anni, ma la conoscenza della storia coloniale ita­liana non è di certo aumentata, nonostante i risultati di una storiografia sempre più attenta, ed è ancora molto diffuso lo stereotipo del “buon italiano” che ha costruito strade e reso feconde lande desolate.

    Nella convinzione che solo una conoscenza non superficiale di questa parte della storia dell’Italia unitaria permetta di comprendere gli strascichi che ancora permangono, più o meno evidenti2 o latenti, nel nostro paese e di sfatare alcuni miti, le autrici, già docenti di storia, hanno pensato a un testo che ne fornisse una visione complessiva e documentata. Quando l’Italia aveva le colonie, pubblicato in due volumi da Edizioni Conoscenza, si collo­ca tra una storiografia specialistica – a partire dalle opere di Angelo Del Boca, Giorgio Rochat, Nicola Labanca e Gian Paolo Calchi Novati – e una pubblicistica spesso estemporanea. Il testo intreccia narrazione, fonti d’epoca e brani storiografici. Riporta, dunque, documenti, carte e immagini che possono costituire un materiale utile per attività di laboratorio. Infatti è rivolto a lettori non specialisti, interessati alla storia, ma soprattutto a docenti e a studenti della secondaria di secondo grado e dell’università, ed è motivato non solo dall’interesse per un importante fenomeno storico, ma anche da un intento civile: «Ripensare esplicitamente e autocriticamente la storia del colonialismo è una straordinaria occasione per agire sulla nostra cultura.»3.

    01Fig. 1 Copertina del primo volume Fonte L’immagine sotto il titolo è tratta da Eligio Klein, L’Italia guerriera, Capodistria, Scuola tip. ed. Focardi, 1936, p. 61 Lo sfondo rappresenta la battaglia di Adua, da uno schizzo di Edoardo Ximenes, in La guerra italo abissina. 1895-1896. Documentata e illustrata, Milano, Fratelli Treves, 1896, pp. 180-181.Nel primo volume – Una storia lunga quasi un secolo. 1869-1960 – cinque capitoli ripercorrono le fasi dell’espansione coloniale, dal suo avvio alla perdita delle colonie e all’amministrazione fiduciaria della Somalia: una cronologia sintetica alla conclusione di ogni capitolo consente di ricomporre il quadro diacronico e sincronico. Il sesto capitolo ricostruisce invece il complesso intreccio tra la me­moria, pubblica e privata, e la ricerca storiografica, in un per­corso scandito in diverse fasi, dall’immediato dopoguerra agli anni più recenti: dal silenziamento e dall’autoassoluzione1, ai ritorni degli stereotipi e delle minimizzazioni, accanto ad ammissioni e assunzioni di re­sponsabilità.

    02Fig.2: Fig. 2 Copertina del secondo volume Fonte L’immagine sotto il titolo è la copertina dell’edizione originale de La grande Proletaria si è mossa. Discorso tenuto a Barga ''Per i nostri morti e feriti'', di Giovanni Pascoli, Bologna, Zanichelli, 1911 Lo sfondo (“La carrareccia è costruita come per incanto”) è tratto da Africa Orientale Italiana. Il libro dell’eroismo e della gloria, a cura di Giovanni Vaccaro, Casale Monferrato, fratelli Marescalchi S. A., 1936, p. 83.Il secondo volume – Mito e realtà dell’oltremare – approfondisce aspetti specifici solo accennati nel corso della trattazione storica: il razzismo in colonia; le politiche demografiche ed economiche e quelle relative a cittadinanza e giustizia; l’ideologia della “missione civilizzatrice” come diritto all’espansione; la propaganda, il consenso e l’opposizione; l’atteggiamento della Chiesa cattolica; la narrativa coloniale. Le pagine conclusive propongono una riflessione non solo sulle conseguenze sulle popolazioni assoggettate per decenni, ma anche su quanto, del passato coloniale, permane nel nostro attuale sentire, con particolare riferimento al risorgente razzismo.

    I due volumi riportano un centinaio di documenti (46 nel primo e 53 nel secondo): atti parlamentari, pagine di viaggiatori, ministri, in­tellettuali, militari, studiosi, funzionari, giornalisti, governatori, diplomatici, ecc. Alcune carte geografiche, in gran parte riprese da opere coeve, permettono di collocare nello spazio le vicende via via narrate e pos­sono essere anche una spia della visione e della rappresentazione che ave­vano i contemporanei degli scenari coloniali. Anche le immagini sono tratte da opere di epoca coloniale.

    103Fig.3: “La repressione della rivolta a Tripoli. Arabi traditori fucilati”, da Tripoli-Cirenaica. Cronache della guerra italo-turca e della conquista della Libia, a cura di Enrico Mercatali, Milano, Sonzogno, 1911-1912, p. 104.Questa ricchezza di documenti permette di costruire facilmente dei laboratori: per esempio, sul cambiamento dell’immagine della donna “suddita” (utilizzando il repertorio che chiude il secondo volume). Oppure, impostando un dibattito tra favorevoli e contrari alla dichiarazione di guerra alla Turchia, che sfrutti la presenza di diversi soggetti (giornalista / uomo politico / geografo / sacerdote / economista o uomo d’affari). Ancora, i documenti relativi alle unioni interrazziali permettono di capire persistenze e rotture fra periodo liberale e periodo fascista.

    Un ricco repertorio bibliografico indirizza il lettore che voglia approfondire qualche aspetto della vicenda coloniale, dal momento che è organizzato funzionalmente in: Storiografia e memorialistica, Narrativa, Pubblicazioni di epoca coloniale, Pubblicazioni del Comitato per la documentazione dell’Opera italiana in Africa, Documenti istituzionali.

     


    Note

    1 Mohamed Aden Sheikh, La Somalia non è un’isola dei Caraibi. Memorie di un pastore somalo in Italia, Reggio Emilia, Diabasis, 2010, p. 45.

    2 Ne è un chiaro esempio la legge sulla cittadinanza, fondata sullo ius sanguinis: «Si tratta di un diritto di matrice interamente coloniale, che trova la sua naturale collocazione all’interno di un pensiero che fonda le differenze culturali e nazionali su basi razziali.» Barbara Sòrgoni,Pratiche antropologiche nel clima dell’impero, in L’impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), a cura di Riccardo Bottoni, Bologna, il Mulino, 2008, p. 427.

    Paolo Jedlowski, Passato coloniale e memoria autocritica, il Mulino, fascicolo 2, marzo-aprile 2009, p. 234. 

  • Un re schiavista del Benin e la controversa memoria storica della Colonizzazione.

    di Daniele Boschi

    La battaglia per eliminare o ricontestualizzare monumenti e simboli del passato coloniale e schiavista dell’Occidente1, largamente presenti negli spazi pubblici delle principali città europee e americane, può produrre a volte risultati paradossali: lo dimostra il caso della esposizione nella cattedrale di Saint Paul a Londra di una installazione in memoria del re del Benin Ovonramwen, opera dell’artista nigeriano Victor Ehikhamenor.

    1. OvonramwenFig.1: Ovonramwen Nogbaisi, re del Benin dal 1888 al 1897 FontePer comprendere appieno il significato di questo episodio, seguiamo la ricostruzione che ne hanno fatto lo storico Robert Tombs in un articolo pubblicato sullo “Spectator” (08/03/2022) e la giornalista Connie Evans sullo “Evening Standard” (17/02/2022). Occorre anzitutto tenere presente che la Chiesa d’Inghilterra si è impegnata da diversi anni a passare al vaglio tutti gli edifici ecclesiastici e le loro pertinenze allo scopo di rimuovere o ricontestualizzare statue, monumenti e iscrizioni dedicati ai proprietari e trafficanti di schiavi. Nel corso di questa campagna la cattedrale di Bristol ha rimosso da una finestra una dedica allo schiavista Edward Colston; la chiesa di Saint Peter a Dorchester ha coperto una iscrizione che commemorava la repressione di una rivolta di schiavi; e l’arcivescovo di Canterbury ha sollecitato l’eliminazione dalla cappella del Jesus College di Cambridge del memoriale di Tobias Rustat, un benefattore del XVII secolo coinvolto nelle attività della Royal African Company.

    Una diversa strategia è stata invece seguita nella cattedrale di Saint Paul a Londra. Nella cripta dell’imponente edificio londinese si trova una iscrizione scolpita su una lastra di ottone in memoria dell’ammiraglio Harry Holdsworth Rawson (1843-1910), che nel febbraio del 1897 guidò la spedizione militare con la quale la Gran Bretagna pose fine all’indipendenza del regno del Benin. La capitale del regno fu distrutta e il Benin fu incorporato nei possedimenti coloniali britannici dell’area nigeriana. Il re del Benin Ovonramwen fu catturato e mandato in esilio.

     

    Still standing

    Per fornire spunti di riflessione ai visitatori, il decano e il capitolo della cattedrale di Saint Paul hanno deciso di affiancare all’iscrizione in memoria di Rawson una installazione temporanea che offrisse un diverso sguardo sulla figura dell’ammiraglio inglese. Si sono rivolti a tal fine all’Università di York e questa ha interpellato a sua volta il Pitt Rivers Museum di Oxford, che ha incaricato l’artista nigeriano Victor Ehikhamenor di creare un’opera originale che rappresentasse la sua reazione all’iscrizione. Ehikhamenor ha realizzato una installazione alta più di tre metri nella quale spicca un’immagine di color rosso brillante, che raffigura uno oba, ovvero un re del Benin. L’installazione è stata denominata Still standing e l’artista ha dichiarato di essersi ispirato proprio alla figura di oba Ovonramwen. L’opera è stata esposta per tre mesi – tra febbraio e maggio del 2022 - nella cripta della cattedrale di Saint Paul, per poi essere trasferita al Pitt Rivers Museum2.

     

    2. Still standingFig.2: "Still standing", l’opera di Victor Ehikhamenor esposta nella cattedrale di Saint Paul a Londra FonteUn doppio standard morale?

    Il paradosso nasce dal fatto che il regno del Benin è stato a lungo coinvolto nel traffico degli schiavi e lo stesso Ovonramwen non solo possedeva schiavi, ma praticò sacrifici umani accompagnati da orribili torture. Secondo Robert Tombs vi sono solo due possibili spiegazioni dell’accaduto. La prima è che il decano e il capitolo della cattedrale si siano affidati completamente all’Università di York e al Pitt Rivers Museum, senza darsi la pena di controllare il loro operato, oppure abbiano avuto paura di sollevare obiezioni: in questo caso avrebbero dovuto rimuovere immediatamente l’installazione di Ehikhamenor e chiedere scusa. La seconda spiegazione è che essi approvino un’opera che, in modo più o meno consapevole, implica l’adozione di un doppio standard morale: la complicità con la schiavitù è un peccato imperdonabile per i bianchi, ma non per i neri. Tombs concludeva ironicamente il suo articolo con queste parole: “San Paolo ha scritto: ‘Non ci sono più ebrei, né greci, non ci sono più schiavi, né liberi … perché siete tutti una sola persona in Gesù Cristo’. Ma non è così nella cattedrale di Saint Paul”3.

     

    “History Reclaimed”

    A questo punto è opportuno dire che Robert Tombs è il fondatore del sito “History Reclaimed”, nato per contrastare le recenti campagne volte a riscrivere la storia delle grandi democrazie occidentali alla luce delle rivendicazioni dei popoli e delle minoranze che ritengono di essere stati in vario modo oppressi dalle nazioni dell’Occidente. Secondo Tombs e i suoi colleghi, gli attivisti e i seguaci di questi movimenti sostengono non di rado una visione ideologica e unilaterale della storia, tutta incentrata sulle colpe e sui crimini, veri o presunti, dell’Occidente.

    “Noi non riteniamo – scrivono gli editori di “History Reclaimed” – che la nostra storia sia tutta quanta degna di lode perché questo sarebbe assurdo. Ma rifiutiamo come ugualmente assurda l’affermazione che essa sia fondamentalmente carica di vergogna. Concordiamo sul fatto che la storiografia consista di molte opinioni e di molte voci. Ma questo non vuol dire che tutte le opinioni siano valide, e certamente nessuna dovrebbe essere imposta alla stregua di una nuova ortodossia. Intendiamo confutare le distorsioni dei fatti storici e fornire contestualizzazioni, spiegazioni e un approccio equilibrato all’interno di un dibattito nel quale il dogmatismo è troppo spesso preferito all’analisi e la condanna alla comprensione”.

    A capo della redazione di “History Reclaimed” vi sono lo stesso Robert Tombs e il medievista David Abulafia, ben noto anche in Italia.

     

    Come si è giunti a celebrare un re schiavista del Benin?

    Per quanto riguarda in particolare la vicenda della installazione dedicata al re Ovonramwen, Robert Tombs ha ricostruito nei dettagli (in un secondo articolo apparso su “History Reclaimed” il 3 agosto 2022) tutta la trafila che ha portato all’acquisizione dell’opera dell’artista nigeriano. Ha ricordato che la cattedrale di Saint Paul porta avanti da alcuni anni, insieme all’Università di York, il progetto Pantheons: Sculpture at St Paul’s Cathedral, che ha lo scopo di studiare, valorizzare e ricontestualizzare le oltre trecento opere d’arte presenti nella cattedrale risalenti al periodo storico compreso tra il 1796 e il 1914. Una importante sezione del progetto Pantheons è denominata 50 voices in 50 monumentse mira a raccogliere cinquanta “reazioni” (responses) di artisti, scrittori, musicisti, teologi e accademici ad altrettanti monumenti conservati nella cattedrale. È appunto in questa sezione che si voleva inserire una “reazione” all’iscrizione dedicata all’ammiraglio Harry Rawson.

    Su sollecitazione della cattedrale londinese, l’Università di York ha contattato a sua volta Dan Hicks, docente di Archeologia contemporanea e sovrintendente del Pitt Rivers Museum di Oxford, che ha commissionato il lavoro a Victor Ehikhamenor, acquistando poi la sua opera per la non piccola somma di 50.000 sterline grazie ad un finanziamento ottenuto dallo Art Fund, un ente di beneficenza britannico.

    3. EhikhamenorFig.3: L’artista nigeriano Victor Ehikhamenor FontePossibile, si chiede Tombs, che nessuno degli enti e delle persone coinvolti più direttamente in questa operazione abbia avuto qualche perplessità circa l’idea di celebrare un re “schiavista”? L’Università di York ha informato Tombs di aver lasciato il soggetto del lavoro di Ehikhamenor alla libera scelta dell’artista. La direttrice del Pitt Rivers Museum, la professoressa Laura van Broekhoven, ha affermato di aver trovato il lavoro di Ehikhamenor molto coinvolgente e di ritenere che esso sarebbe stato un acquisto straordinario per il museo. Lo Art Fund si è limitato a dichiarare che Ehikhamenor è uno dei principali artisti contemporanei dell’Africa occidentale e che, con l’acquisto della sua opera, egli sarà per la prima volta rappresentato in una collezione pubblica del Regno Unito.

     

    Un silenzio sorprendente ma non inspiegabile

    Non soltanto le istituzioni coinvolte nell’acquisizione del lavoro di Ehikhamenor, ma anche la maggior parte degli autori dei non pochi articoli e commenti apparsi online sulla vicenda sembrano avere completamente ignorato il fatto che Ovonramwen e il regno del Benin praticavano schiavitù e sacrifici umani. L’unica eccezione sembra essere l’articolopubblicato da Michael Mosbacher sul “Telegraph” il 18/02/2022.

    Il fatto che la questione sia stata sollevata soltanto da Tombs e da Mosbacher da un lato è abbastanza sorprendente, ma dall’altro non è del tutto inspiegabile.

    È sorprendente perché la pratica del traffico degli schiavi, della schiavitù e dei sacrifici umani nel regno del Benin è da lungo tempo ben nota agli studiosi ed è stata accuratamente documentata anche dallo storico nigeriano Philip A. Igbafe (vedi in particolare il suo studio su Slavery and Emancipation in Benin, 1897-1945, pubblicato sul “Journal of African History” nel 1975).

    Non è inspiegabile perché da diversi anni il senso di colpa dell’intellighenzia dei paesi europei e americani per i misfatti, veri o presunti, commessi dall’Occidente, nonché i dettami del politically correct, portano spesso ad accettare in modo acritico qualsiasi rivendicazione o iniziativa venga proposta dai rappresentanti dei popoli e delle minoranze che sono stati oppressi dal colonialismo e dall’imperialismo dell’Occidente, anche se questo significa ricostruire gli eventi storici in modo arbitrario.

    Peraltro, la vicenda dell’installazione dell’opera di Victor Ehikhamenor nella cripta della cattedrale di Saint Paul ha sollevato e solleva anche altre questioni, che non possiamo trattare dettagliatamente in questo articolo, ma alle quali vogliamo almeno accennare.

     

    Violenza coloniale e restituzione culturale

    La prima questione è quella della restituzione ai loro paesi d’origine delle opere d’arte e dei manufatti sottratti o raccolti dagli occidentali all’epoca del colonialismo. Si tratta di una richiesta avanzata da lungo tempo dai rappresentanti e dai governi di quei paesi e sulla quale concordano oggi non pochi studiosi europei e americani. Parecchi musei e altre istituzioni culturali hanno già avviato o stanno avviando quest’opera di “restituzione culturale”.

    4. Bronzi del BeninFig.4: uno dei famosi bronzi del Benin FonteQuesta questione è stata spesso trattata nei commenti dedicati all’inaugurazione della installazione di Ehikhamenor, anche perché tra le opere d’arte che dovrebbero essere restituite vi sono anche i famosi bronzi del Benin, portati via dagli inglesi dopo la conquista e la distruzione della capitale del regno africano nel 1897. Lo stesso Ehikhamenor ha insistito con forza su questa richiesta in particolare in una lunga intervista rilasciata al magazine “The Republic” in data 08/12/2022. Sul fronte opposto Robert Tombs e altri opinionisti di “History Reclaimed”4 hanno avanzato forti perplessità su questa politica di restituzione culturale, con varie argomentazioni, tra le quali quella secondo cui i paesi dell’Africa e del Medio Oriente non sarebbero in grado di custodire in modo adeguato i manufatti di cui reclamano il rimpatrio, che rischierebbero così di andare perduti con grave danno per la memoria e le conoscenze delle future generazioni.

     

    La spedizione britannica del 1897 secondo Dan Hicks

    Un’altra questione strettamente legata alla vicenda della installazione che raffigura il re Ovonramwen è quella della esatta ricostruzione della spedizione britannica del 1897. Secondo “History Reclaimed”, sia Victor Ehikhamenor che Dan Hicks si sono basati su una visione molto distorta e parziale di quell’evento. Tombs ha ricordato che Dan Hicks è l’autore di un volume intitolato The Brutish museums. The Benin bronzes, colonial violence and cultural restitution, che era già stato oggetto di severe critiche su “History Reclaimed” da parte di Nigel Biggar in un articolo pubblicato il 12/08/2021.

    Bisogna ricordare che la spedizione britannica del febbraio 1897 fu presentata all’epoca come una rappresaglia per il massacro perpetrato un mese prima dagli Edo (la principale etnia della regione) ai danni di un convoglio guidato dal console ad interim inglese James Phillips, che si stava avvicinando a Benin City per avviare una trattativa col re Ovonramwen.

    Secondo Higgs questo massacro fu semplicemente un pretesto per realizzare l’annessione del Benin già prevista e pianificata dalle autorità britanniche da diversi anni. Il vero movente all’origine dell’aggressione e della successiva annessione del Benin era di carattere economico, mentre l’obiettivo di porre fine alla schiavitù e ai sacrifici umani aveva una funzione meramente ideologica. L’attacco a Benin City fu portato avanti brutalmente con armi enormemente più potenti rispetto a quelle degli africani; i villaggi furono bombardati; la città fu saccheggiata, data alle fiamme e rasa al suolo; ci furono decine di migliaia di morti e durante il saccheggio della città furono trafugati anche i famosi bronzi del Benin.

     

    Le critiche di Nigel Biggar

    Questa ricostruzione dei fatti è stata contestata su “History Reclaimed” da Nigel Biggar, che ha accusato Higgs di avere usato in modo scorretto le sue fonti e di avere quindi travisato gli eventi del 1897. Secondo Biggar, se da un lato non vi sono dubbi che gli inglesi fossero infastiditi dal fatto che il Benin intralciava i loro traffici nella regione e rifiutava di applicare gli accordi commerciali sottoscritti nel 1892, dall’altro lato la promozione di libere e regolari attività commerciali aveva anche lo scopo di porre fine al traffico degli schiavi. Quest’ultimo era un obiettivo secondario, ma comunque reale, come dimostra il fatto che effettivamente dopo l’occupazione del Benin le autorità britanniche posero fine alla schiavitù nella regione. Ad ogni modo lo scopo principale della spedizione del febbraio 1897 era quello di reagire al massacro dei diplomatici britannici avvenuto qualche settimana prima: la Gran Bretagna doveva rispondere a quell’attacco per preservare la sua autorità in quell’area e scoraggiare ulteriori aggressioni. Sempre secondo Biggar, Hicks avrebbe insistito in modo esagerato sulle violenze commesse dai britannici: infatti non vi sono dati precisi sul numero delle vittime; Benin City non fu data deliberatamente alle fiamme, in quanto l’incendio che la distrusse scoppiò per cause accidentali; e non fu saccheggiata nel senso vero e proprio della parola, perché i bronzi e altri oggetti furono sequestrati dalle autorità britanniche come bottino di guerra.

    5. RawsonFig.5: L’ammiraglio Harry Holdsworth Rawson (1843-1910) FonteInfine, secondo Biggar, Hicks adotta chiaramente un doppio standard morale: da un lato sorvola sulla pratica della schiavitù e dei sacrifici umani da parte degli africani; dall’altro lato non riconosce alcun merito o attenuante agli inglesi:

    “Mentre agli Edo è concesso il balsamo dell’indulgenza, un acido cinismo è versato continuamente sopra i britannici. L’abolizione del commercio degli schiavi e della schiavitù nell’Impero britannico non sono minimamente apprezzati. Anzi sono screditati perché avrebbero fornito in nome dei ‘diritti umani’ una giustificazione per un mutamento arbitrario di regime politico. La possibilità che lo sradicamento della schiavitù possa aver richiesto e giustificato il dominio britannico non è mai considerata”.

     

    L’Impero britannico è stato un bene o un male?

    Non è difficile, infine, vedere come la diversa ricostruzione che Hicks e Biggar hanno fornito della spedizione punitiva del 1897 abbia come presupposto due opposte visioni della storia imperiale britannica. Qualche anno fa lo scrittore di origine indiana Kenan Malik osservòche mentre il sole è tramontato da tempo sull’Impero britannico, il dibattito sui meriti o demeriti dell’Impero sembra non tramontare mai. Il nuovo clima politico prodotto dalla Brexit ha creato un terreno propizio per la ripresa di antiche discussioni e polemiche. E il dibattito pubblico sembra essersi polarizzato, appunto, intorno a due opposte visioni: quella dei critici, o dei detrattori, e quella degli apologeti dell’Impero.

     

    Il punto di vista dei detrattori dell’Impero

    Da una parte vi sono studiosi e intellettuali, non di rado originari dei paesi che subirono il dominio coloniale, come lo stesso Malik, i quali pongono l’accento prevalentemente sui misfatti commessi dagli occidentali a scapito delle popolazioni via via assoggettate. Nella loro ottica lo sfruttamento delle risorse delle colonie, la schiavitù e il razzismo hanno, o dovrebbero avere, un ruolo centrale nella ricostruzione della storia dell’Impero britannico. Alla Gran Bretagna non viene riconosciuto quasi nessun merito, neanche quello di avere promosso nel XIX secolo l’abolizione della tratta degli schiavi e della schiavitù. Malik sottolinea infatti che non fu l’Impero britannico ad avviare la lotta contro la schiavitù, ma furono gli stessi schiavi ad iniziarla, insieme a una piccola minoranza di radicali britannici. In ogni caso – aggiunge Malik - l’abolizione della schiavitù, avvenuta nel 1833, non migliorò di molto le condizioni di vita e di lavoro dei popoli coloniali; e mentre gli ex-proprietari di schiavi ricevettero una lauta ricompensa per il danno subìto, i loro ex-schiavi furono obbligati a fornire prestazioni lavorative non pagate per un periodo variabile da quattro a sei anni dopo l’emancipazione.

    6. MalikFig.6: Lo scrittore di origine indiana Kenan Malik FonteUn approccio molto simile a quello di Malik si trova anche in diversi altri articoli e libri pubblicati negli ultimi anni. Ad esempio nel lungo intervento di Maya Jasanoff sul “New Yorker” (02/11/2020), intitolato Misremembering the British Empire, nel quale si sottolinea che la Gran Bretagna non ha ancora veramente fatto i conti con il proprio passato coloniale e imperiale e si stigmatizza il fatto che un terzo dei cittadini britannici ritengono tuttora che il loro impero abbia fatto più bene che male e più di un quarto vorrebbero riportare in vita l’Impero (secondo un sondaggio del marzo 2020).

    La principale obiezione, che si può fare all’approccio di Malik, Jasanoff e altri studiosi che sono sulla loro stessa posizione, è che, sebbene sia corretto assumere anche il punto di vista delle vittime dell’imperialismo europeo, guardare gli eventi passati soltanto attraverso quella lente può essere altrettanto fuorviante quanto lo è stato osservarle unicamente dal punto di vista dei dominatori. Inoltre si trascura il fatto che la schiavitù, le guerre di conquista, i pregiudizi razziali e religiosi non sono certo stati una prerogativa esclusiva dell’Occidente, essendo fenomeni presenti purtroppo a tutte le latitudini e longitudini fin dai tempi più antichi. Per quanto riguarda in modo più specifico la schiavitù, questo approccio unilaterale alimenta i due tabù che Antonio Brusa ha molto bene illustrato proprio qui su “Historia ludens”: il primo tabù è che non si può parlare di tratte di schiavi diverse da quella atlantica; occorre quindi tacere sulla tratta africana e su quella musulmana; il secondo tabù è che non si può dire alcun bene dell’Europa e dell’Occidente e quindi anche il fatto che gli Stati europei e occidentali furono i primi ad abolire la schiavitù va sottaciuto o comunque svalutato.

     

    Il punto di vista degli apologeti

    Sul fronte opposto a quello dei detrattori, vi sono storici e altri studiosi di orientamento conservatore, i quali pur senza negare le violenze commesse dai colonizzatori, tendono a mettere in evidenza anche e soprattutto i benefici arrecati dall’Impero britannico ai propri sudditi non europei. Non è un approccio del tutto nuovo perché era stato già proposto vent’anni fa da Niall Ferguson nel bestseller Empire: How Britain Made the Modern World5. Sulla sua stessa lunghezza d’onda si trova oggi Robert Tombs, che abbiamo già citato più volte. In un interessante dibattito con lo storico Alan Lester (pubblicato in data 01/02/2022 sia quisul sito dell’Università del Sussex, sia qui su “History Reclaimed”), Tombs ha sostenuto infatti quanto segue:

    “L’Impero conferiva alcuni benefici, inclusa la protezione dalle aggressioni straniere, l’accesso al commercio internazionale, un sistema amministrativo moderno, la tecnologia, l’investimento di capitali e il mantenimento dell’ordine. Lo faceva a costi abbastanza contenuti: la tassazione era più bassa che negli Stati indipendenti. C’era chi ci guadagnava e chi ci perdeva, e il fatto che i sudditi lo considerassero in maniera positiva o negativa variava a seconda dei diversi soggetti, dei periodi e dei luoghi. Le voci degli schiavi liberati, delle donne alle quali fu risparmiato un matrimonio forzato, o delle persone salvate da sacrifici rituali sono andate in gran parte perdute, a differenza di quelle delle tanto celebrate élites anti-coloniali. L’indipendenza diede enormi vantaggi a queste ultime, che presero il potere nelle ex-colonie, ma questa non fu una liberazione per tutti i loro popoli, molti dei quali furono governati in modo peggiore dopo l’indipendenza. La fine dell’Impero nel corso degli anni ’40, ’50 e ’60 del ‘900 fu sotto molti aspetti una liberazione per la Gran Bretagna, la cui economia, le cui finanze e la cui sicurezza erano state alterate dal possesso di un impero”.

    Una tesi ancora più estrema era stata proposta nel settembre del 2017 da Bruce Gilley, docente di Scienze Politiche alla Portland State University, in un articolo pubblicato sul “Third World Quarterly” intitolato The case for colonialism. Partendo da una ricostruzione storica simile a quella di Tombs, Gilley si era spinto fino a prospettare una sorta di ritorno al colonialismo, auspicando un maggiore coinvolgimento dei governi occidentali negli affari interni dei paesi meno sviluppati e immaginando persino la fondazione di nuove colonie in territori disabitati dell’Africa e del Medio Oriente sulla base di accordi con i governi locali. Quindici dei trentaquattro membri del comitato editoriale della rivista si dimisero per protesta e una petizione che chiedeva il ritiro dell’articolo raccolse più di diecimila firme. Alla fine l’articolo fu ritirato dopo che l’editore della rivista era stato minacciato fisicamente.

     

    7. LImpero britannicoFig.7: L’Impero britannico negli anni Venti del Novecento FonteUna vivace discussione sull’eredità dell’Impero britannico e sulla libertà di opinione

    Questi eventi suscitarono nelle settimane seguenti una vivace discussione sulle pagine del “Times”.

    Nigel Biggar, che abbiamo già incontrato, e lo storico Lawrence James si schierarono con Gilley. “Non sentitevi colpevoli per la nostra storia coloniale. Chiedere scusa per l’Impero è ora obbligatorio, ma la vergogna può impedirci di affrontare i problemi del mondo di oggi”: così titolava il “Times” del 30/11/2017 introducendo il pezzo di Nigel Biggar. “Gli imperi hanno fatto anche cose buone e dobbiamo sentirci liberi di dirlo” ribadiva, sempre nel titolo, l’articolo di Lawrence James, uscito cinque giorni dopo.

    Allo stesso tempo un folto gruppo di accademici espresse solidarietà al “Third World Quarterly” e al suo editore affermando che, a prescindere dalle diverse opinioni sul saggio di Gilley, il ritiro del suo articolo, provocato dalle forti pressioni del pubblico, rappresentava un pericoloso precedente per la libertà dell’accademia.

    Ma qualche giorno dopo un gruppo ancora più numeroso di ricercatori e docenti universitari criticò l’intervento di Biggar sostenendo che le razionalizzazioni ideologiche del dominio imperiale sono state completamente screditate dagli studiosi; e fornì la seguente giustificazione della soppressione dell’articolo di Gilley:

    “Se è vero che gli autori hanno il diritto di proporre argomentazioni fallaci, gli editori di riviste accademiche hanno la responsabilità di mantenere gli standard dell’accademia stessa e un dovere etico di respingere i lavori che difendono la violazione dei diritti umani, di cui il colonialismo è un esempio eclatante. Promuovere l’assoggettamento di interi popoli e la violazione di libertà fondamentali è qualcosa che non dovrebbe avere alcun posto negli studi universitari”.

    Il “Times” pubblicò anche alcune lettere di privati cittadini, i quali per lo più difesero le tesi in favore dell’Impero. Ad esempio un certo Dominic Kirkham di Manchester scrisse quanto segue:

    “Parecchi membri della mia famiglia hanno servito l’Impero. Un mio nonno fu capo ingegnere della East India Railway e prospettò alla famiglia Tata la possibilità di sviluppare la lavorazione dell’acciaio. Un mio zio fu rettore di un college a Ceylon che aprì nuove prospettive di carriera per innumerevoli sudditi dello Sri Lanka. Nessuno dei due concepì il suo lavoro se non come un aiuto alle persone che serviva.”

    Anche una lettrice di nome Kusoom Vadgama, probabilmente di origine indiana6, rifiutò di condannare in modo assoluto l’Impero:

    “L’Impero britannico deve chiedere scusa per molte cose, avendo commesso gravi crimini come la rivolta del 18577 e il massacro di Jallianwala Bagh nel 19198 in India, che non saranno mai dimenticati o perdonati, ma questo non dovrebbe far dimenticare i molti aspetti positivi del governo inglese in India e nel resto dell’Impero. Senza i britannici, l’India non sarebbe il paese unito e potente che è diventato e senza l’afflusso di ingenti risorse finanziarie e il contributo dei soldati provenienti dall’India e dall’Impero nelle due guerre mondiali, la Gran Bretagna non sarebbe la potenza globale che è diventata. Come ha detto lo storico Elie Kedourie ‘una grande potenza non sta sempre e necessariamente dalla parte del torto’ ”.

     

    Conclusione

    Come abbiamo già riscontrato a proposito di altre controversie relative al passato colonialista e schiavista dell’Occidente9, anche il dibattito sulla figura del re del Benin Ovonramwen, sulle politiche di restituzione culturale e sulla memoria storica dell’Impero britannico non avviene nelle torri d’avorio dell’accademia, ma si sviluppa in un contesto pubblico surriscaldato dalle lotte politiche e dalle contrapposizioni ideologiche del nostro agitato mondo contemporaneo.

    Il nostro auspicio, come sempre, è che gli storici possano contribuire ad elaborare una visione equilibrata e non ideologica degli eventi passati, compresi quelli ai quali l’opinione pubblica appare più sensibile, che devono essere ricostruiti per quanto possibile in modo obiettivo, e non deformati a seconda degli interessi e delle convenienze dei partiti e dei movimenti che si scontrano nella pubblica arena. Ma non è affatto un’impresa facile, in particolare per una vicenda epocale e tragica quale quella della colonizzazione, come dimostrano le vicende e le controversie che abbiamo illustrato in questo articolo.

     


     

    Note

    1 Su questo tema HL è già intervenuta con diversi articoli il 09/07/2020, il 07/10/2020, il 04/11/2020 e il 29/01/2021.

    2 Vedi la figura 2. Una immagine migliore di Still standing, coperta da copyright, si può vedere all’inizio di questo articolo.

    3 La traduzione dall’inglese è mia (lo stesso vale per gli altri brani riportati tra virgolette nel seguito di questo articolo).

    4 Vedi gli articoli di Robert Tombs, Mike Wells e di Elizabeth Weiss, pubblicati su “History Reclaimed” in data 17/08/2022 e citati in modo completo nella sitografia in fondo a questo articolo.

    5 Tradotto in italiano col titolo Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno (Milano, A. Mondadori, 2007).

    6 Questa lettrice è forse da identificare con la scrittrice di origine indiana autrice del libro India and Britain: Over four centuries of shared heritage, pubblicato nel 2019.

    7 Si allude evidentemente alla repressione della rivolta dei Sepoy scoppiata in quell’anno e denominata anche “the Sepoy Mutiny”.

    8 Si tratta dell’evento noto anche come il massacro di Amritsar.

    9 Vedi gli articoli, in parte già citati sopra, pubblicati su “Historia ludens” il 07/10/2020, il 04/11/2020 e il 06/08/2021.

     

    BIBLIOGRAFIA / SITOGRAFIA

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