di Daniele Boschi
Una statua di Ottaviano Augusto e un’altra di Marco Aurelio adornano gli spazi pubblici del campus della Brown University, una delle più antiche e prestigiose università statunitensi, fondata a Providence, Rhode Island, nel 1764.
La prima statua è una riproduzione in bronzo dell’Augusto di Prima Porta, conservato nei Musei Vaticani; la seconda è una copia della celeberrima statua equestre di Marco Aurelio, attualmente custodita nei Musei Capitolini a Roma.
Da diversi mesi un gruppo di studenti ne chiede la rimozione in quanto simboli del colonialismo, del razzismo e del suprematismo bianco. È un altro capitolo della “guerra delle statue” che ha infuriato per diversi mesi negli Stati Uniti e della quale Historia ludens ha già dato conto in diversi articoli (l’ultimo in ordine di tempo è questo, nel quale sono richiamati quelli precedenti).
Decolonizzare l’università
Gli studenti che vogliono togliere di mezzo le due statue appartengono al gruppo Decolonization at Brown (DAB). Hanno spiegato le loro ragioni in un lungo articolo pubblicato lo scorso 17 ottobre, nel quale affermano di aver preso spunto dal fatto che la Public Art Committee della Brown University aveva proposto di restaurare la statua di Augusto e di ricollocarla in prossimità di un altro monumento, lo Slavery Memorial. Una iniziativa a loro avviso poco opportuna: essi ritengono infatti che sia la statua di Augusto, sia quella dell’imperatore Marco Aurelio dovrebbero essere semplicemente rimosse.
Quelle due statue – si legge nell’articolo – sono monumenti moderni: sono infatti copie di antiche statue romane, appositamente realizzate per essere donate all’Università da due facoltosi benefattori, i fratelli Moses Brown e Robert Hale Ives Goddard, rispettivamente nel 1906 e nel 1908.
Ma perché i due fratelli Ives Goddard scelsero proprio quei due personaggi storici? E perché la Brown University si mostrò così orgogliosa del dono ricevuto? Secondo gli studenti del DAB, ciò si spiega con il fatto che le due statue miravano a celebrare la superiorità culturale e razziale delle élites bianche, tracciando una ideale, ma storicamente falsa, linea di continuità tra l’antica Roma e i moderni Stati Uniti, per meglio giustificare e legittimare la sottomissione dei neri, dei nativi americani e della gente di colore. Le due statue erano dunque – e sono tuttora - l’espressione di una ideologia razzista e colonialista, alla quale fanno ancora riferimento alcuni movimenti suprematisti bianchi, e che non è stata del tutto abbandonata dalla Brown University, i cui curricoli continuano ad essere incentrati sui canoni della tradizione classica e occidentale.
Le reazioni all’interno del campus
Quali sono state, all’interno del campus, le reazioni alle richieste del DAB?
Dietrich Neumann, presidente della già menzionata Committee on Public Art e docente di Storia dell’Arte e dell’Architettura, ha affermato di condividere l’obiettivo perseguito dal DAB di fare i conti con l’eredità del colonialismo, ma si è detto contrario alla rimozione delle statue. Esse andrebbero a suo avviso contestualizzate ed eventualmente ricollocate.
Tra gli studenti si è svolto un dibattito abbastanza vivace, e non privo di asprezze polemiche, del quale è rimasta un’ampia traccia sia nei commenti pubblicati sul blog, dove è apparso l’articolo già citato, sia sul “Brown Daily Herald”, il quotidiano online gestito dagli studenti del campus.
Gli argomenti contro la rimozione
Coloro che sono contrari alla rimozione affermano anzitutto che le due statue, come tutti i monumenti, non propongono un messaggio univoco, ma si prestano a diverse interpretazioni. Uno dei lettori del blog osserva che, probabilmente, già all’epoca in cui furono donate, le due statue non erano considerate come un simbolo della supremazia dei bianchi, ma piuttosto come un ricordo di due grandi personaggi storici. Infatti, in alcuni articoli apparsi tra il 1906 e il 1908 sulla rivista “Brown Alumni Monthly”, Augusto veniva celebrato come patrono delle arti e delle lettere, Marco Aurelio come incarnazione dell’ideale platonico del re-filosofo.
Un altro commentatore scrive che Marco Aurelio è una figura simbolo della filosofia stoica. La sua statua, lungi dall’evocare la white supremacy, rappresenta la grinta, la razionalità, la forza d’animo, la caparbietà, l’amor fati e molte altre qualità stoiche, che possono unire le persone di qualsiasi colore, etnia, cultura o ideologia.
Una diversa prospettiva è quella di Nidhi Bhaskar, il quale afferma che rimuovere le due statue solo per il fatto che esse non si accordano con i valori oggi dominanti, o perché creano disagio in alcuni gruppi di studenti, sarebbe un vero e proprio atto di censura, non molto differente dalla cancellazione di contenuti ritenuti problematici dai curricoli accademici. Al contrario, proprio la presenza delle due statue – opportunamente ricollocate e contestualizzate – può aiutare gli studenti a fare i conti con la complessità del passato e a confrontarsi anche con i suoi aspetti più controversi.
In generale, coloro che si oppongono alla proposta del DAB affermano di condividere la sua battaglia contro il razzismo e a favore di una maggiore apertura alle voci, alla storia e alla cultura dei gruppi minoritari, anche attraverso l’installazione nel campus di nuove opere prodotte da artisti nativi o di colore.
Gli argomenti a favore della rimozione
Sul fronte opposto, in un articolo apparso sul quotidiano del campus il 1° novembre 2020, Belinda Hu, Junaid Malik, George Noll e Hsiao Shan Peck hanno ribadito che le due statue devono essere rimosse: esse celebrano infatti la perdurante occupazione delle terre dei nativi e contribuiscono alla cancellazione della loro storia attraverso l’esaltazione della cultura bianca e occidentale.
Gli autori dell’articolo tracciano un rapido excursus storico, ricordando che fin dal XVIII secolo le élites della nascente nazione nordamericana furono spinte ad immedesimarsi con i romani antichi per l’evidente analogia tra la costruzione di un impero come quello di Roma, basato sulla sottomissione dei popoli barbari, e l’espansione nel Nord America dei coloni europei e poi degli Stati Uniti, avvenuta a spese dei nativi. È per questo che centinaia di copie di statue romane furono portate dall’Europa negli Stati Uniti tra il XIX e il XX secolo, affinché fossero esposte nelle università, nei musei e negli spazi pubblici.
In un altro articolo pubblicato sul “Brown Daily Herald” il 18/11/2020, Emilia Ruzicka ribatte punto per punto alle argomentazioni in favore della conservazione delle statue. In particolare, Ruzicka contesta il fatto che le due statue possano rappresentare un modello culturale, in quanto rievocherebbero la tradizione letteraria o filosofica greco-romana. Anzitutto – sostiene Ruzicka - questa tradizione tende tuttora a lasciare nell’ombra il contributo dato da altre culture, come quella mesopotamica e quella indiana, allo sviluppo della civiltà antica. Ma, in ogni caso, le due statue non raffigurano certo i due imperatori nella veste di intellettuali o di filosofi: Augusto indossa un’armatura e con la mano alzata incita i soldati alla lotta; e anche Marco Aurelio protende la mano dall’alto del suo cavallo, pronto a guidare i suoi uomini in battaglia.
Non possiamo qui tacere il fatto che entrambe queste interpretazioni appaiono discutibili. La teoria secondo cui l’Augusto di Prima Porta avrebbe la mano alzata perché sta per parlare ai soldati prima di una battaglia è abbastanza diffusa, ma contrasta con l’autorevole interpretazione proposta da Claudio Parisi Presicce (in una lezione del 2013), secondo la quale la statua proponeva un messaggio di pace e non di guerra, come è dimostrato dalle decorazioni della corazza. Secondo Parisi Presicce l’opera originale in bronzo (della quale l’Augusto di Prima Porta era una copia) era collocata sulla sommità del mausoleo del Campo Marzio e rappresentava un Augusto già divinizzato, che con la mano alzata invitava i suoi spettatori a leggere le tavole delle sue Res gestae. Per quanto riguarda invece la statua equestre di Marco Aurelio, non può sfuggire il fatto che l’imperatore non indossa l’armatura, mentre la sua mano destra protesa è stata vista da alcuni studiosi come il segno di un gesto di clemenza.
Ma tornando al nostro articolo, Ruzicka respinge la proposta di ricollocare o ricontestualizzare le due statue, sostenendo che questo significherebbe soltanto spostare altrove il danno che esse producono in quanto simboli del colonialismo e della supremazia dei bianchi. Certamente, conclude l’autrice dell’articolo, la rimozione delle due statue non può essere l’unica azione che l’Università intraprende per fare i conti con il proprio passato, ma sarebbe un passo importante nella giusta direzione.
La decisione del Consiglio studentesco
Lo Undergraduate Council of Students della Brown University, nella riunione del 4 novembre 2020, non ha aderito alla richiesta del DAB di rimuovere le due statue. Anche se il 46,4% degli studenti ha votato a favore, e soltanto il 39,3% ha votato contro, l’astensione del rimanente 14,3% ha fatto sì che nessuno dei due opposti schieramenti raggiungesse la maggioranza assoluta.
Al momento la questione appare chiusa così, anche se non è escluso che gli studenti del gruppo Decolonization at Brown riprendano in futuro la loro battaglia contro le due statue.
Non si può negare in effetti che il DAB abbia diverse buone frecce nel proprio arco. Il nesso tra le due statue e la politica imperialistica degli Stati Uniti al principio del ‘900 appare innegabile, così come appare evidente la funzione simbolica e ideologica che esse ambivano ad avere negli spazi dove sono collocate attualmente. Tuttavia, non si vede il motivo per il quale le statue dei due imperatori romani non possano trovare una diversa collocazione all’interno del campus, sia in quanto riproduzioni di importanti monumenti del mondo antico, certamente assai utili dal punto di vista didattico, sia in quanto testimonianze del modo in cui le élites si rapportavano al mondo classico agli inizi del XX secolo.
Un’altra prospettiva: le statue antiche come simbolo di superiorità razziale e perfezione antropometrica
Attualmente non risulta che vi siano state negli USA altre proteste contro la presenza di statue che raffigurano personaggi della cultura classica o del mondo antico. In Gran Bretagna si erano diffuse voci che la statua dell’imperatore Costantino a York fosse stata oggetto di critiche (lo ha riferito su HL Antonio Brusa in questo articolo). In quel caso si trattava di una statua realizzata, su commissione, da un artista contemporaneo e l’accusa nei confronti dell’imperatore era quella di non aver abolito la schiavitù.
Ma il rapporto tra le statue antiche e il sentimento della superiorità culturale, etnica o razziale dell’Occidente sono stati esaminati negli ultimi anni anche in una diversa prospettiva. Mi riferisco in particolare a un articolo pubblicato dalla storica Sarah Bond della University of Iowa sulla rivista “Hyperallergic” il 7 giugno 2017 (un altro articolo della stessa Bond dal contenuto molto simile era già apparso sulla rivista “Forbes”).
La Bond parte dalla constatazione che la tecnologia moderna ha ormai dimostrato in modo inconfutabile che molte statue, sculture in rilievo e sarcofagi creati dai greci e dai romani antichi erano policromi. La studiosa ricorda, a questo proposito, le ricerche dell’archeologo Vinzenz Brinkmann e la mostra itinerante Gods in color che, partendo dal Glyptothek di Monaco nel 2003, ha fatto il giro delle capitali di mezzo mondo. Ciononostante, quando si mostrano le opere dell’età classica, il bianco continua ad essere il colore dominante, tanto nei musei quanto nei libri di testo di storia dell’arte. E questo fatto contribuisce ad avallare la falsa convinzione che i Greci e i Romani antichi pensassero di essere ‘di razza bianca’. Anche videogames come Ryse: Son of Rome e film come 300 aiutano a perpetuare questo stereotipo vagamente razzista. In questo modo si alimentano i pregiudizi dei suprematisti bianchi e si allontanano i neri e le persone di colore dagli studi classici.
D’altra parte, qual è l’origine degli odierni pregiudizi in favore della razza bianca e del colore bianco? Essi risalgono alla diffusione della teoria delle razze nel XVIII e XIX secolo. E a questa teoria anche la storia dell’arte e l’estetica diedero un importante contributo, soprattutto grazie alla celebre Geschichte der Kunst des Alterthums (1763), nella quale Johann Joachim Winckelmann celebrò la ‘bianchezza’ (whiteness) della statuaria classica e per questo motivo propose l’Apollo del Belvedere come la quintessenza della bellezza. La Bond cita a questo proposito la storica Nell Irvin Painter, che nella sua History of White People ha tacciato Winckelmann di eurocentrismo per il fatto che disprezzava i cinesi e i calmucchi e ha messo in evidenza che dopo di lui “il colore nella scultura cominciò ad essere sinonimo di barbarie, perché si dava per scontato che i Greci antichi, così elevati spiritualmente, fossero troppo sofisticati per colorare le loro statue”. L’associazione tra barbarie e colori e tra whiteness e civiltà era destinata a durare a lungo. Ancora oggi, prosegue la Bond, non ci rendiamo conto dell’incredibile quantità di razzismo che informava le idee di importanti studiosi dell’età antica.
Inoltre non è certo un caso che, a partire dalla fine del XVIII secolo, i medici e gli anatomisti interessati a definire la perfetta costituzione fisica della superiore razza bianca o europea (ad esempio Pieter Camper e Mathias-Marie Duval) abbiano preso non di rado come modello le bianche statue degli antichi greci e romani, a cominciare proprio dall’Apollo del Belvedere.
La Bond conclude il suo articolo con un appello ai public historians affinché si impegnino a cambiare la narrazione ancora oggi dominante e a restituire al mondo antico i suoi colori. In che modo? Ad esempio migliorando i pannelli museali, affiancando ricostruzioni in 3D alle opere originali, oppure proiettando su di esse i raggi luminosi elaborati da computer.
L’intervento della Bond ha suscitato un certo interesse ed è stato ripreso da diversi organi di informazione, tra i quali la rivista “National Review”, di orientamento conservatore, che ha ironizzato sulla efficacia degli interventi proposti dalla studiosa rispetto all’obiettivo di combattere il razzismo. Successivamente la Bond ha ricevuto offese e minacce di violenza, come ha riferito il quotidiano online “Inside Higher Ed” in un articolo del 19/06/2017, che riporta anche altri casi di docenti universitari che avevano dovuto subire intimidazioni più o meno gravi per aver affrontato pubblicamente questioni legate ai contrasti e ai pregiudizi etnici o razziali.
Conclusione
Le perduranti tensioni tra i diversi gruppi etnici, che lacerano la società statunitense, sono sfociate qualche mese fa nelle proteste del Black Lives Matter e nei violenti scontri che ad esse si sono accompagnati. Tanto l’intervento di Sarah Bond e le reazioni che ha suscitato, quanto la discussione sulle statue di Augusto e di Marco Aurelio alla Brown University mostrano come quelle stesse tensioni si riflettano anche all’interno delle Università, spingendo docenti e studenti a mettere in discussione il modo in cui il passato viene raccontato nei libri di testo e nei curricoli, o illustrato mediante statue e altri monumenti. Come storici e come insegnanti di storia non possiamo non guardare con grande interesse, e non senza qualche preoccupazione, a quello che sta accadendo dall’altra parte dell’Atlantico.
SITOGRAFIA
All roads lead to removal: replacing two statues and redefining campus space at Brown, “The Blogonian”, October 17, 2020
Bhaskar, Nidhi, Brown should not remove statues of Roman emperors from campus. Here’s why, “Brown Daily Herald”, October 18, 2020
Bond, Sarah E., Whitewashing Ancient Statues: Whiteness, Racism And Color In The Ancient World, “Forbes”, April 27, 2017
Bond, Sarah E., Why We Need to Start Seeing the Classical World in Color, “Hyperallergic”, June 7, 2017
Borris, Jack, Decolonization at Brown, Prof. Neumann present statue changes to UCS, “Brown Daily Herald”, October 28, 2020
Borris, Jack, UCS does not officially endorse Decolonization at Brown statue initiative, “Brown Daily Herald”, November 10, 2020
Flaherty, Colleen, Threats for What She Didn’t Say, “Inside Higher Ed”, June 19, 2017
Hu, Belinda - Malik, Junaid – Noll, George –Peck, Hsiao Shan, The statues must go: Brown should not celebrate colonialism, “Brown Daily Herald”, November 1, 2020
Parisi Presicce, Claudio, Augusto e la nuova età dell’oro, lezione tenuta al Palazzo delle Esposizioni a Roma, 19 dicembre 2013
Ruzicka, Emilia, Debunking common misconceptions about removing Roman-style statues at Brown, “Brown Daily Herald”, November 18, 2020
Timpf, Katherine, Professor: White-Marble Sculpture Contributes to ‘White Supremacy’, “National Review”, June 9, 2017
BIBLIOGRAFIA
Painter, Nell Irvin, The History of White People, New York, W. W. Norton & Company, 2010
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