Storia e Memoria

  • Conflitti di memoria, dovere di storia

    Autore: Antonio Brusa

    Introduzione

    Troppo spesso, quando si parla di “memoria collettiva”, si accetta il gioco asfittico imposto dalla politica e del talk show. Ci sfugge la storia complessa di questo costrutto. Ci sfugge la sua geografia, altrettanto complessa. Questa nostra incapacità ci impedisce di cogliere la portata dell’immane conflitto memoriale che l’avvento della globalizzazione ha scatenato nel mondo: il nostro rapporto con la modernità. Di noi uomini e donne del XXI secolo, occidentali e no. Dentro questa grande contesa, si situano i conflitti e i problemi memoriali locali (come quello italiano) e circoscritti, come quello che ci pone di fronte ai fatti tragici della Seconda guerra mondiale. Questo conflitto, lo anticipava negli anni ’70 Jacques Le Goff, richiede allo storico un nuovo impegno, volto alla democratizzazione di una “memoria collettiva”, sulla quale in troppi, oggi, mettono le mani. In questo processo di democratizzazione della memoria sta, a mio modo di vedere, il contributo più importante che la storia può dare all’educazione alla cittadinanza. (Ringrazio Isral, Istituto storico della Resistenza di Alessandria, per aver concesso la ripubblicazione di questo articolo, originariamente in L. Ziruolo (a cura di), I luoghi, la storia, la memoria, Alessandria 2007)


    Memorie ad alta voce

    All’uscita del campo di Mauthausen, con lo sguardo ancora oppresso dal granito di quella fortezza-prigione, entriamo nel “giardino delle memorie”, dove si innalzano ventuno monumenti, in ricordo delle vittime di altrettante nazionalità. Qui si vedono le architetture del mondo comunista, della Bulgaria, dell’Unione sovietica o dell’Ungheria, che, sul solco del realismo eroico, trasformano  il dolore nell’esaltazione della vittoria sul nazismo. Altre opere, invece, come quelle della Germania Orientale, dell’Ucraina o della Slovenia, sollecitano la compassione per le vittime. Molti sono i  monumenti aniconici, che sembrano dichiarare l’indicibilità dei sentimenti: il muro, per l’Italia, la Jugoslavia o i Sinti e i Rom; la colonna o la stele per la Cecoslovacchia, la Grecia, la Francia; la tomba, per la Polonia e l’Olanda.1

    monumento agli ebrei ungheresi 

    monumento alle vittime italiane 

    monumento alle vittime ceche               

     

    In questo campo del ricordo ci aggiriamo, ancora al principio del nostro ventunesimo secolo, mentre la voglia di studiare e di capire (e il mestiere inguaribile dello storico) prendono di forza il sopravvento. Trent’anni fa, quando il memoriale fu completato, questa era la gamma del rammemorare: dal silenzio dell’indicibile al trionfo della rivincita. Era un gradiente, declinato nei modi propri di ciascuna nazione. Infatti, non c’è soltanto la reminiscenza del passato nel memoriale di Mauthausen. C’è anche la geografia dell’Europa, prima della caduta del Muro di Berlino. Essa è leggibile, come è ovvio, nel nome nazionale, ma si mostra chiaramente nella concezione stessa del monumento. Dal realismo sovietico fino alla razionalità tedesco-occidentale, dalla colonna greca fino alla menorah stilizzata, riconosciamo i marchi identitari delle ventuno nazioni che proclamano, con questo memoriale, la loro sopravvivenza allo sterminio.

     
    Memorie in silenzio

    Nel 1986 venne inaugurato a Hamburg-Harburg, nel nord della Germania, il monumento Contro il fascismo, ideato da Esther Shalev-Gerz e Jochen Gerz. Chi oggi lo vuol visitare, troverà al suo posto solo una lapide con una scritta. Venti anni fa, invece, il monumento era un imponente pilastro quadrangolare, rivestito di lastre di piombo, alto 12 metri. Accanto vi era uno stilo con cui si poteva scrivere sul metallo, in modo indelebile, mentre un cartello in sette lingue invitava i cittadini a incidere i loro pensieri sul fascismo. Man mano che le pareti del pilastro si riempivano di scritte, il monumento si immergeva. Nel 1993 è scomparso del tutto, e la lapide, che ne segnala l’interramento, dice: “… perché nel tempo niente potrà alzarsi al nostro posto contro l’ingiustizia”.2

    monumentoContro il fascismo...prima e...                                                            ...dopo


    Chi oggi visita Contro il fascismo, viene sommerso da pensieri e da sentimenti, diversi da quelli che si provano al memoriale di Mauthausen. Riflette, innanzitutto, sul fatto che c’è una memoria che si coltiva nel pudore e, dunque, è antagonista della pubblica ostentazione; sul fatto che la memoria  è personale, implica il coinvolgimento individuale, e non può essere sostituita dalla pietra: per quanto questa sia una metafora efficacissima di eternità e coerenza, mentre la nostra capacità di ricordare è inevitabilmente frammentaria e caduca. E’ costretto a considerare che la memoria cambia nel tempo e che, perciò, non possiamo che erigere monumenti all’oblio.3


    La memoria non è un soggetto reale

    Questi due esempi di commemorazione monumentale ci mostrano, più che due diverse accezioni di memoria, due universi memoriali, due linguaggi o due modi di pensare così lontani fra di loro, che potrebbero appartenere a epoche o a società diverse. Ce lo conferma Joël Landau, nel racconto della sua esperienza di studioso. Al principio, spiega, quando aveva cominciato i suoi studi sulla memoria, gli sembrava che questa fosse un soggetto. Un qualcosa di unico, individuabile: e quindi, da preservare, custodire, oltre che da studiare. C’erano, allora, gli studi di Maurice Halbwachs, il collega di Marc Bloch, precursore di tutti i lavori sulla memoria collettiva, e due ipotesi sulla sua natura: che questa fosse una sorta di sostanza superindividuale; oppure che fosse un corredo di conoscenze condivise, possedute, cioè, contemporaneamente da più individui.

    Entrambe erano due ipotesi “realistiche”; entrambe sono state smentite dalle ricerche successive. Infatti, numerosi studi empirici hanno mostrato che nei grandi gruppi nazionali è molto difficile trovare conoscenze realmente condivise (come accade invece nei piccoli gruppi e nelle famiglie). Dal canto loro, le ricerche neuro-psicologiche e filosofiche hanno messo in chiaro che le memorie sono soltanto individuali. “Ogni spirito/cervello è unico – conclude la sua rassegna Landau – e i nostri stati mentali sono incommensurabili”.


    La metafora della “memoria collettiva”

    Ma un tale chiarimento non è riuscito a scalfire l’importanza sociale della “memoria collettiva”. Anzi, l’idea che questa esista realmente è diventata così solida e diffusa, da dar luogo ai recenti “conflitti di memoria”: contese politiche, culturali, a volte militari, scatenate in nome di un ricordo, che si vuole comune.
    Quando noi parliamo di “memoria collettiva”, prosegue lo studioso, indichiamo “quell’insieme di pratiche, di discorsi, di supporti memoriali” che, rammentando eventi del passato, aiutano un gruppo a costituirsi. I monumenti, che abbiamo ricordato sopra, appartengono esattamente a questi “supporti memoriali”. Capiamo, ora con lucidità, il portato critico dell’installazione dei Gerz. Intendiamo la consonanza fra quel pilastro che scompare, e il fatto che per la storiografia e per le scienze sociali odierne il termine “memoria collettiva” altro non sia che una metafora.

    Il punto è che, mentre gli studiosi compivano il loro percorso di revisione,  questa metafora si è ontologizzata. In altri termini: nessuno, quando la usa, si accorge della sua natura analitica (una metafora è un costrutto intellettuale che serve per determinati scopi, scientifici o poetici). Si è convinti, invece, che si tratti di un soggetto reale.  Questo fenomeno crea per l’Università e la Scuola, i centri produttivi di sapere e di formazione, una situazione paradossale e nuova, generata dal fatto che la società sembra spingere studiosi e professori ad abbandonare le conquiste critiche, e a tornare al  modello iniziale della memoria, quello che Henry Moniot definisce, con ironia, “angelico”.4


    Lo “stereotipo colto” della memoria collettiva

    Ma c’è un’ulteriore ironia, per quanto di sapore diverso, nell’evoluzione di questo concetto e nella conseguente impasse delle strutture pubbliche del sapere. La memoria collettiva, infatti, non è il frutto spontaneo di una società dalla cultura approssimativa. Al contrario, è un prodotto raffinato, nato e coltivato negli strati intellettuali delle nostre società. E’ un esempio splendido di quegli “stereotipi colti”, che caratterizzano il discorso pubblico della storia.5 Ne possiamo seguire l’evoluzione nella ricostruzione, analitica e straordinariamente erudita, che ne ha fatto Michael Kammen. E’ il caso degli Stati Uniti, quello che presenta. Come abbiamo avuto modo di constatare negli ultimi tempi, e non solo in Italia, un caso che siamo obbligati a considerare paradigmatico.6 Da James Fenimore Cooper a Saul Bellow, lo studioso convoca l’intera letteratura americana; mostra come, insieme con i più celebri scrittori e poeti, anche storici, politici, gli 8200 musei nazionali,  e naturalmente Hollywood - la crema della cultura americana, infine – tutti abbiano collaborato alla nascita dell’idea di memoria storica, e all’elaborazione concreta di una memoria storica nazionale.


    Le ragioni che portano alla nascita della memoria collettiva

    Questo processo secolare conduce ai nostri giorni ad un rapporto, fra società e storia, che è necessario tenere presente, per capire la portata sociale e politica del fenomeno. Kammen ne sintetizza i motivi. Vale la pena tenere a mente il suo schema, perché fa risaltare il valore inequivocabile della posta in gioco:

    • l’interesse pubblico verso il passato cresce in modo impetuoso e continuo
    • abbiamo costruito una memoria selettiva del sapere storico accumulato
    • il passato può essere mobilizzato per scopi partigiani
    • il passato può essere commercializzato per sviluppare il turismo e le attività collegate
    • si invoca il passato sia da parte di chi resiste al cambiamento, sia per promuovere innovazioni
    • la storia è un ingrediente fondamentale per definire identità nazionali, di gruppo e individuali
    • il passato e le sue testimonianze possono dare un piacere estetico e non utilitaristico
    • gli individui e i gruppi minoritari (religiosi, etnici, sociali, nazionali) a vocazione tradizionalista, sollecitano la formazione di un senso del passato condiviso.7


    La centralità politica della memoria collettiva

    Un processo di elaborazione paradigmatico: sboccia come patriottico e, dopo un lungo itinerario anche di laicizzazione, ritorna, negli ultimi decenni del secolo scorso, ad un nuovo patriottismo. Siamo agli inizi degli anni ’70. Kammen cita alcuni numeri speciali di “Time” e “Newsweek”, che fecero epoca e crearono un linguaggio, che abbiamo talmente introiettato, che lo consideriamo familiare: The mining of nostalgia e Exploring American Past.8 Nasceva il turismo storico; i movimenti identitaristi si diffondevano  anche in Europa; termini come “eredità”, “radici”, “identità” entravano nei discorsi, pubblici e quotidiani. “Memoria” iniziava a diventare una parola strategica, nella riflessione e nella politica.

    Se ne rendeva pienamente conto Jacques Le Goff, quando ne redasse per l’Enciclopedia Einaudi la voce, giustamente diventata celebre fra gli studiosi:”Impadronirsi della memoria e dell’oblio è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degli individui che hanno dominato e dominano le società storiche”. Era il 1979. E in quel tempo lo storico ricavava dalla sua pur dura analisi una ragione di impegno, dalla quale ci si poteva aprire ad un certo ottimismo. Così, infatti, concludeva: “Spetta ai professionisti scienziati della memoria, agli antropologi, agli storici, ai giornalisti, ai sociologi, fare della lotta per la democratizzazione della memoria sociale uno degli imperativi prioritari della loro oggettività scientifica” 9.


    Gli storici perdono la guerra della memoria

    Eric Hobsbawm, Perry Anderson e Pierre Nora dimostrano, in modo emblematico, l’impegno che la storiografia ha profuso in questa direzione. Il primo, sul finire degli anni ’70, promosse un convegno per denunciare, attraverso il disvelamento dei miti tradizionali, il tentativo moderno di reinventarli. Il secondo mostrò come il processo di nation building, messo a punto in Europa nel XIX secolo, era stato abbondantemente esportato in tutto il mondo, e aveva dispiegato ovunque l’identico apparato di uso della storia, di costruzione di memorie collettive e così via. Il terzo, infine, dette vita ad una titanica impresa, in sette volumi, per censire i dispositivi di memoria francesi (monumenti, libri, feste, ecc), imitata in vari paesi, fra i quali l’Italia.10  “L’invenzione della tradizione”, “le comunità immaginate” e “i luoghi di memoria”, più che titoli di libri di successo, si sono configurati come autentici programmi di ricerca, che hanno mobilitato una parte importante della comunità storica internazionale. Talmente noti che sono essi stessi diventati dei modi di dire. Nicholas Pethes e Jens Ruchatz hanno sistematizzato l’imponente produzione scientifica su questi argomenti, in un dizionario sulla memoria, di rara utilità11. Il concetto “memoria” vi è articolato e scomposto in circa cinquecento lemmi, per analizzare i quali si richiede il contributo di un gran numero di scienze: sociali, psicologiche, filosofiche, letterarie, della comunicazione e neurobiologiche.

     

    E’ stata una specie di Guerra dei Trent’anni, quella ingaggiata fra storia e memoria, a partire dalla metà degli anni ’70, in un periodo ricco di studi e di innovazioni, che Christian Amalvi chiama, con una qualche dose di ironia, “i Trenta Gloriosi degli storici”.12 Un impegno, tuttavia, che non è stato del tutto efficace, se l’idea essenzializzata di memoria continua a imperversare, nei talk show, nell’uso politico della storia, in quelle contese etno-culturali che ormai fanno parte del dire quotidiano. E’ come se il concetto fosse sfuggito di mano, e vivesse di una vita propria, ormai incontrollabile: lo confessava qualche anno or sono lo stesso Pierre Nora.13 E David Glassberg aumenta il nostro sconforto, quando rileva - in un suo studio sull’impatto della storiografia nella costituzione della memoria pubblica americana -  “l’enorme distanza che esiste fra storici e pubblico”.14


    L’impossibile spartizione del passato

    Ma altre considerazioni vanno fatte, per comprendere appieno la portata di questo fenomeno. Il complesso delle ricerche (e dei monumenti) che abbiamo osservato, infatti, si concentra sul rapporto fra una comunità e la sua (più o meno pretesa) memoria collettiva. Non tiene conto del quadro complessivo, di un mondo cioè nel quale ogni comunità nazionale inventa una propria memoria. Questa attività ha alcuni esiti abnormi. Da una parte, immagina (o rende legittimo) che gli stati possano esercitare sul passato un’azione di “definizione territoriale”: stabilire che cosa appartenga a questi o a quello è un’operazione impossibile e in se stessa ridicola, se applicata ad un soggetto così impalpabile come “il tempo che è trascorso”. Ma è esattamente ciò che si fa – e con grande dedizione - in libri di testo, in programmi di studio, o nelle discussioni sulle “eredità” e sui “patrimoni”, che trascorrono dai media ai parlamenti alle case editrici, ma non di rado anche alle cattedre universitarie e scolastiche. Dall’altra, si cerca di ottenere alcune ricadute politiche molto concrete da questo “bottino”, come rivendicazioni, risarcimenti o revisioni di trattati. La politica internazionale, non più soltanto quella delle educazioni nazionali, è entrata finalmente nel gioco, rendendolo, come si può immaginare, pesantissimo, perché rischia di intrappolare la storia nei complicatissimi e duri codici dei rapporti fra gli stati.15

    Dal canto loro, gli apparati nazionali (le università e le scuole) si sono rapidamente adeguati a questa mondializzazione della storia nazionale: non tutti gli storici e i professori di storia, dobbiamo ammetterlo, sono apparsi sensibili al richiamo di J. Le Goff. Sono nate, così, in diverse parti del mondo, repliche locali dell’eurocentrismo ottocentesco. L’afrocentrismo o l’indocentrismo sono le prospettive più note, nel dibattito storiografico internazionale16. Ma scorrendo l’Atlas des Atlas, una rassegna dei modi adottati localmente, per guardare al mondo, si scopre che dal Perù al Belgio alla Cina, molti sono i pretendenti al ruolo strategico dell’ombelico17. E’ un’epidemia di onfalismo, che deforma da una parte la geografia, dall’altra la storia, e si riversa per intero nelle scuole di ogni paese18. Il gioco dell’oppressore e della vittima, sul quale in Europa si è costruita la fierezza di appartenere alla propria comunità nazionale, ora si è allargato a dismisura. Il conflitto di memoria non ha più come oggetto i conti che gli europei odierni devono chiudere con la propria storia (i vincitori e i vinti). Ha come proscenio il mondo, e come trama la storia dell’umanità.


    Il conflitto mondiale della memoria

    In questa dilatazione dello sfondo, si impone, in un’agenda di discussione ormai mondiale, un conflitto di memoria fondamentale, nel quale i termini e i protagonisti dei conflitti di memoria “tradizionali” tendono a rifondersi e cambiare. La nuova posta in ballo è la modernità, cioè il senso stesso del periodo che noi stiamo vivendo. Qual è il suo valore? Se essa è positiva, chi ne è il vero autore?  E chi ha diritto a goderne i frutti? E se, invece, è negativa, chi ne è responsabile e in che modo deve ripagare i torti commessi? Chi, infine, ha diritto a definire i caratteri di questa modernità? Questo modo di guardare al passato tende a internazionalizzare i sentimenti della rivalsa (il risarcimento della vittima) o della difesa a oltranza dei propri privilegi (le sacrosante conquiste del passato). Ha creato un clima insostenibile e pericoloso. Scrive Nira Wickramasinghe, professoressa di storia all’Università di Colombo, nello Sri Lanka: “Vorrei vedere un giorno una scrittura della storia che non sia né la biografia di una nazione, né una critica del moderno”.19


    L’Italia

    Un recente pamphlet di Stefano Pivato ci permette di focalizzare il nostro sguardo sui fatti italiani.20 Lo storico vi rappresenta un quadro impietoso, nel quale politici e giornalisti si impegnano in un saccheggio del passato, irrispettoso di un qualsiasi riscontro scientifico; e con altrettanta foga si industriano nella modellazione di una memoria collettiva, che a loro giudizio dovrebbe essere molto malleabile. Sfugge allo studioso, tuttavia, un elemento che renderebbe ancora più tragica la situazione: il fatto che l’Italia è probabilmente l’unico paese al mondo nel quale i cittadini non hanno mai studiato la storia del dopoguerra. Sono vissuti, potremmo dire, soltanto della loro memoria. Hanno avuto come interlocutori, per confrontarla e costruirsene una ragione critica, soltanto i gestori pubblici della memoria (i media e la politica). Sono stati privati del confronto con la storia21 e costretti in un ring asfittico, nel quale il dibattito politico nazionale dettava anche l’agenda dei problemi interpretativi.

    Quando nel 1996, l’allora ministro Berlinguer stabilì che i programmi di storia dovessero riservare l’ultimo anno di studi al Novecento, e quindi rese possibile, per la prima volta, lo studio degli ultimi decenni, si trattò di una riforma fondamentale, non solo per la didattica, ma anche per l’educazione civile nazionale. Se servirà, lo sarà per le generazioni che prossimamente voteranno o prenderanno le redini di questo paese. Ma sicuramente, bisognerà riprendere in attenta considerazione quanto scriveva ancora Le Goff: “Occorre far sì che nasca un’autentica storia contemporanea, una storia del presente … che la si faccia finita con una storia che poggi su una separazione netta fra passato e presente … proprio nel momento in cui il presente muta natura”.22


    Memoria collettiva: una questione didattica socialmente viva

    In effetti, è proprio ciò che è accaduto e che abbiamo cercato di descrivere,sia pur rapidamente: la memoria storica ha cambiato natura, nel nostro presente. E’ diventata un tema caldissimo, della vita sociale complessiva, in tutte le sue dimensioni, dal locale al globale. E’ diventata, quella che Charles Heimberg chiama una “questione socialmente viva”.23 Pezzi di storia o di storiografia che diventano oggetto di dibattito sociale, e che, proprio per questo si presentano al docente come occasioni straordinarie per insegnare una disciplina, che tende ad apparire fredda e vecchia, agli occhi degli allievi. La memoria storica, questione oggi socialmente viva, è un possibile splendido tema di indagine scolastica: permette di discutere stereotipi, false conoscenze, modalità di uso sociale della storia. Permette di cominciare a costruire, con i ragazzi, non soltanto una conoscenza storica, ma anche una iniziale consapevolezza storiografica.

    Forse è questo, che possiamo aggiungere, a distanza di tempo, all’invito di Le Goff. Che non siano soltanto gli storici a svolgere una battaglia, che gli anni recenti hanno rivelato impari; ma che si diffonda un gusto per la storia, una capacità di giudizio diffusa, tale che renda un po’ più difficile e penoso l’abuso della storia e la manipolazione delle memorie.

     

    Note

     

    1. http://www.mauthausen-memorial.at/index_open.php.Sulla rielaborazione del ricordo nel “giardino delle memorie” di Mauthausen, si veda J. Jacob,From the Profane to the Sacred: Ritual and Mourning at Sites of Terror and Violence, in “Journal for the scientific Study of religion”, 43, 3, 2004, pp. 3111-315.Negli ultimi anni si sono moltiplicate gli studi sui memoriali.Una recente rassegna critica è T. Cole,Scales of Memory, Layers of Memory: recent Works on Memory of the II War and the Holocaust, in “Journal of Contemporary History”, 37, 1, 2002, pp. 129-138.

    2.http://www.shalev-gerz.net/FR/oeuvres/mahnmal.html

    3.E. Shalev-Gerz,Le mouvement perpétuel de la mémoire,inTravail de mémoire. 1914-1998. Une nécessité dans un siècle de violence, a cura di J.-P. Bacot, Autrément, Paris 1999, pp. 24 ss

    4. J. Landau,Conflits de mémoire: pertinence d’une métaphore?, inConflits de mémoire, a cura di V. Bonnet, Karthala, Paris 2004, pp. 21 ss.; H. Moniot,L’enseignememt de l’histoire. Le ménage de la connaissance et de la connivence, inL’histoire en partage. Usages et mises en discours du passé,, a cura di B. Jewsiewski e J. Létourneau, l’Harmattan, Paris 1996, pp. 205-232, 223 ss.

    5. A. Brusa,Davide e il Neandertal. Gli stereotipi colti sulla preistoria, inEvoluzione, preistoria dell’uomo e società contemporanea, a cura di L. Sarti e M. Tarantini, Carocci, Roma 2007, pp. 45-73, 48; Id.,Un récueil des stéréotypes autour du Moyen Age, in “Le cartable de Clio”, 4, 2004, pp. 119-129, 119 s.

    6. M. Kammen, Mystic chords of Memory. The Transformation of Tradition in American Culture, Vintage Books, New York 1993.

    7. Ibidem, p. 10, con qualche adattamento mio. Il numero dei musei, a p. 635. In particolare, sul coinvolgimento dei musei americani in questo uso pubblico della storia: S. A. Crane,Memory distorsion and History in the Museum, in “History and Theory”, 36, 4, 1997, pp. 44-63.

    8. Ibidem, pp, 619 ss.

    9.  J. Le Goff,Memoria, inEnciclopedia Einaudi, vol. 8, Torino 1979, pp. 1068-1109, 1070 e 1105.

    10. E. Hobsbawm, T. Ranger,L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 2002 (ma prima edizione 1979); P. Anderson, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, , Manifestolibri, Roma 1996 (ma prima edizione 1983); P. Nora,Les lieux de mémoire, Gallimard, Paris 1984. Per l’Italia, il riferimento è a M. Isnenghi,I luoghi della memoria,Laterza, Bari-Roma 1998.

    11.Dizionario della memoria e del ricordo, a cura di N. Pethes e J. Ruchatz, Bruno Mondadori, Milano 2002.

    12. Ch. Amalvi,1975-2005 Les «Trente Glorieuses » des historiens ?, in Id., (a cura di)Les lieux de l’histoire, Armand Colin, Paris 2005, pp. 371-394, 378 ss.

    13. P. Nora,La France est malade de sa mémoire, in “Le monde 2”, 105, 2002, pp. 20-27, 26.

    14.D. Glassberg,Sense of History: The Place of the Past in American Life,University of Massachusetts Press, Amherst 2001, p. XIII.

    15.G. Noiriel,Sur la” crise” de l’histoire, Gallimard, Paris 2005.

    16. A. Brusa, L. Cajani,Africa y la historia mundial : las dificultades historiograficas de una adecuada contextualizaciòn, in « Didactica de las ciencias experimentales y sociales », 19, 2005, pp. 3-18 ; F.-X. Favelle Aymar, J.-P. Chrétien, Cl.-H. Perrot,Afrocentrismes.L’histoire des Africains entre Egipte et Amérique,Karthala, Paris 2000 ; P. Heers,Shades of Orientalism : Paradoxes and problems in Indian Historiography, in « History and Theory », 42, 2003, pp. 169-195; E. Vickers,Introduction: History and Identity in East Asia,in “International Journal of Educational Research”, 37, 2002, pp. 537-544.

    17.L’Atlas des Atlas, numero speciale del “Courrier International”, marzo-aprile-maggio, 2005.

    18. T. Morris-Suzuki,Global Memories, National Accounts : Nationalism and the rethinking of History, inwww.nuim.ie/staff/dpringle/igu_wpm/morris.pdf.

    19.N. Wickramasinghe,L’histoire en dehors de la nation, in Mamadou Diouf,l’Historiographie indienne en débat. Colonialisme, nationalisme et sociétés postcoloniales,Karthala-Sephis, Paris1999, pp. 419-432, 432.

    20.  S. Pivato,Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita publica italiana, Laterza, Bari 2007.

    21. Per apprezzare le differenze fra storia e memoria si studi lo splendido schema di Ch. Heimberg,Histoire, historiographie, histoire enseignée, inInsegnare Storia, a cura di Paolo Gheda, Libreria Stampatori, Torino 2007, pp.25-82, 54.

    22.  J. Le Goff,Passato/presente, inEnciclopedia Einaudi, 10, Torino1980, pp. 496-511, 510 s.

    23. Ch. Heimberg,Le questioni socialmente vive, in “Mundus”, 1, 2008, in corso di stampa.

  • L'assalto alle statue di Colombo

    di Daniele Boschi

     

    Immagine 1. Colombo BostonFig.1: La statua di Cristoforo Colombo a Boston (Massachusetts) decapitata lo scorso 10 giugno. Fonte Un corposo dossier sulla Guerra delle statue

    Historia Ludens è intervenuta più volte sulla questione dell’abbattimento delle statue, con articoli sugli attacchi ai monumenti avvenuti a partire dal giugno scorso, sul dibattito sviluppatosi intorno alla cosiddetta “guerra delle statue” e sulla proposta di abbattere la statua di Costantino il Grande; abbiamo pubblicato inoltre una sitografia analitica e la presa di posizione degli storici che lavorano al progetto Contested Histories dell’IHJR (Institute for Historical Justice and Reconciliation). Ma l’analisi degli eventi più recenti rimarrebbe sicuramente incompleta, se tralasciasse il fatto che la principale vittima della furia iconoclasta, scatenatasi negli USA dopo l’uccisione di George Floyd lo scorso 25 maggio, non è stata il generale Robert Lee, né Jefferson Davis, né alcun altro dei Confederati, ma piuttosto Cristoforo Colombo.
    Il navigatore genovese, pur non avendo mai messo piede sul territorio attuale degli Stati Uniti, è considerato infatti dai suoi detrattori come una figura simbolo del colonialismo, dello schiavismo e del genocidio dei nativi americani. Per questo motivo, circa trenta statue di Colombo sono state vandalizzate, abbattute o rimosse tra il 9 giugno e il 31 luglio di quest’anno, un numero molto più alto di quelle di ognuno dei Confederati preso singolarmente. E non è affatto detto che la vicenda si chiuda così, dato che ci sono ancora svariate decine di monumenti dedicati a Colombo ancora al loro posto, sparsi sul territorio statunitense (lo si deduce confrontando questo elenco con quello delle statue abbattute o rimosse).

     

    Colombo nella memoria degli Stati Uniti

    Gli attacchi alle statue di Colombo negli Stati Uniti hanno alle spalle una lunga storia, che credo sia utile ricostruire sommariamente (per una analisi più approfondita si veda A. Brusa, Colombo eroe o malfattore? in M. Gazzini, Il falso e la storia, Feltrinelli, Milano 2020, in corso di stampa).
    Va tenuto presente anzitutto che la figura di Cristoforo Colombo ha avuto un ruolo molto importante nella definizione dell’identità e delle origini degli Stati Uniti d’America. Nel corso dell’800 Colombo è divenuto l’oggetto di un autentico culto, sia da parte delle élites sia nella cultura popolare della nuova nazione nordamericana. Un importante e ben noto contributo alla costruzione del mito di Colombo fu la celebre biografia di Washington Irving, A History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828), alla quale si devono buona parte degli elementi costitutivi dell’immagine eroica e romantica del navigatore genovese, tramandata a generazioni di scolari fino a non molto tempo fa. A ciò si aggiunge il fatto che, a partire dalla fine del XIX secolo, Cristoforo Colombo è stato innalzato a figura simbolo degli immigrati italiani negli USA e della loro travagliata integrazione in quel paese. Fu anche in seguito alle pressioni esercitate da un influente uomo d’affari italo-americano, Generoso Pope, che il Presidente degli Stati Uniti F. D. Roosevelt riconobbe nel 1934 il Columbus Day (12 ottobre)come festa nazionale[1].

    A Colombo sono dedicate strade, piazze e monumenti in tutti gli Stati Uniti. Numerose contee e città – tra le quali le capitali dell’Ohio e della South Carolina – e una prestigiosa università – la Columbia University di New York - portano il suo nome, o quello da lui derivato di Columbia. In suo onore il territorio della capitale degli Stati Uniti si chiama, appunto, District of Columbia.
    In netto contrasto con questo glorioso passato, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso la figura dell’esploratore genovese è divenuta oggetto di dure critiche, sia da parte della cosiddetta storiografia ‘revisionista’, sia da parte degli attivisti dei movimenti che si battevano per i diritti dei nativi americani e di altre minoranze[2]. Si è cominciata allora a diffondere una nuova immagine di Colombo, visto non più come il grande navigatore che ha scoperto l’America, ma come l’uomo che ha avviato lo sfruttamento e il genocidio degli abitanti originari del Nuovo Mondo. 

    La decostruzione del mito di Colombo ha avuto varie ripercussioni, anche per effetto delle campagne organizzate dalle associazioni dei nativi americani. Come è ben noto, numerose città e stati, a partire dal 1990, hanno abolito il Columbus Day, rimpiazzandolo in molti casi con l’Indigenous Peoples’ Day(o Native Americans’ Day)[3]. E gruppi di attivisti hanno cominciato a chiedere la rimozione delle statue e dei monumenti dedicati a Colombo, che sono stati talora oggetto di vandalismo, soprattutto in questi ultimi anni, fino all’escalation avvenuta a partire dal giugno scorso.

     

    Immagine 2. Washington IrvingFig.2: Washington Irving (1783-1859), autore della History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828), alla quale risalgono buona parte degli elementi costitutivi dell’immagine eroica e romantica del navigatore genovese. Fonte Colombo nella memoria storica dell'America latina

    È utile ricordare che anche nell’America latina la fortuna di Colombo ha seguito una parabola abbastanza simile a quella descritta negli USA. A partire dal secondo decennio del ‘900, diversi Stati dell’America centro-meridionale hanno celebrato il 12 ottobre come Día de la Raza, per ricordare l’incontro e la contaminazione tra spagnoli e nativi americani come elemento fondante della propria identità nazionale. Ma a partire dalla fine del secolo scorso, molti governi hanno cambiato il nome di questa ricorrenza, che è diventata ad esempio in Venezuela il Día de la resistencia indígena e in Argentina il Día del Respeto a la Diversidad Cultural. Inoltre, alcune statue di Cristoforo Colombo sono state abbattute o rimosse, per essere poi sostituite con monumenti dedicati ai protagonisti della resistenza dei nativi contro i colonizzatori europei. Nel 2015, a Buenos Aires, una statua di Juana Azurduy de Padilla, che lottò per l’indipendenza della Bolivia, ha sostituito un monumento del navigatore genovese. E nello stesso anno a Caracas è stato inaugurato un monumento a Guaicaipuro, leader della resistenza ai conquistadores, sullo stesso posto dove prima si ergeva una statua di Colombo, abbattuta nel 2004.
    La trasformazione dell’immagine di Colombo avvenuta negli ultimi decenni è un fenomeno molto complesso. Infatti, come ha messo in evidenza Antonio Brusa (nel saggio che ho già citato) l’azione demistificatrice, tipica di una storiografia critica, è stata accompagnata da un curioso processo di mitopoiesi “che mentre distrugge il vecchio mito – del Colombo modello di cittadinanza – ne produce uno nuovo, del Colombo simbolo del dominio occidentale sul pianeta e concentrato di crimini contro l’umanità”[4]. C’è inoltre un evidente rapporto – secondo Brusa – tra questo processo e lo stretto connubio tra storia e identità, che si è affermato in tutte le società nel passaggio dall’età della guerra fredda al caotico mondo globale dei nostri tempi. Come vedremo, il dibattito statunitense sugli assalti alle statue di Colombo conferma questa interpretazione.

     

     Colombo nei media americani

    Per esaminare le reazioni e i commenti ai recenti attacchi alle statue di Colombo negli Stati Uniti, diamo un rapido sguardo ad alcuni dei principali quotidiani statunitensi: essi rivelano un’opinione pubblica divisa e non di rado perplessa.
    Alcuni commentatori e, soprattutto, molti amministratori locali non sembrano nutrire molti dubbi sul fatto che i monumenti a Cristoforo Colombo vadano rimossi. Ad esempio, lo scorso 23 luglio, il “Chicago Tribune”, di fronte alle pressanti richieste di rimuovere le statue del navigatore genovese dagli spazi pubblici della città, ha pubblicato un editoriale il cui titolo dice già tutto: “Christopher Columbus was a fraud. He doesn’t deserve statues or a holiday in his honor” (Su Cristoforo Colombo ci hanno ingannati. Non merita statue né una festa in suo onore). L’autrice dell’articolo, Dahleen Glanton, afferma che i libri scolastici, sui quali lei stessa e i suoi concittadini si sono formati, sono pieni di bugie riguardo alla cosiddetta “scoperta dell’America”; e fornisce questa breve ma densa descrizione della figura e delle imprese di Colombo:

    Egli fu certamente un esploratore coraggioso e di successo, ma fu anche un uomo malvagio e brutale che non mise mai piede in quel posto dove ora sono gli Stati Uniti. Sbarcò per caso nei Caraibi, lasciando un retaggio di razzie e schiavitù, per poi essere alla fine arrestato e tornare in Spagna in catene, privato della sua nobiltà. Per la maggior parte dei bianchi americani, Colombo è l’intrepido conquistatore che diede inizio alla colonizzazione transatlantica, che ha reso possibile la loro presenza qui. Ma per molti nativi americani, egli rappresenta il perfetto esemplare di un barbaro colonizzatore. Il sanguinoso processo dell’occupazione coloniale delle Americhe cominciò con lui. Sulla scia della colonizzazione un numero enorme di nativi americani furono uccisi, ridotti in schiavitù o altrimenti cacciati dalla loro terra” (le traduzioni di questo e degli altri brani sono mie).

    Altri editorialisti si sono espressi con maggiore cautela. Per esempio, sullo stesso quotidiano (“Chicago Tribune”, 22/07/2020), Blair Kamin aveva manifestato forti perplessità circa la richiesta di rimuovere le statue di Colombo:

    | Per i suoi difensori, che comprendono molti membri della comunità italo-americana di Chicago, Colombo è ben rappresentato come un audace, pioneristico esploratore che aprì la strada alla prosperità e al progresso sia in America che in Europa. Eppure alcuni recenti studi storici lo dipingono come uno spietato colonizzatore e sfruttatore dei nativi. Per alcuni storici, egli è entrambe le cose. Data questa diversità di opinioni, la questione se sia giusto onorarlo si colloca, almeno a mio giudizio, in una zona grigia, diversa dal caso, facile da risolvere, dei monumenti dei capi dei Confederati, che combatterono sia per distruggere l’Unione, sia per perpetuare la schiavitù.

     

    Colombo e le associazioni dei nativi americani

    D’altro canto, come era logico aspettarsi, l’abbattimento o la rimozione delle statue di Colombo sono stati appoggiati, o addirittura promossi, dalle associazioni dei nativi americani.
    Per esempio, dopo che una statua di Colombo è stata decapitata a Boston il 10 giugno scorso, Jean-Luc Pierite, presidente del North American Indian Center, ha dichiarato che quel monumento rappresentava “la violenza di stato subita dai neri e dai nativi americani per oltre 500 anni” e che qualsiasi tentativo di restaurarlo avrebbe incontrato l’opposizione di queste due comunità. A St. Paul nel Minnesota, Mike Forcia, esponente dell’American Indian Movement, ha promosso e organizzato lui stesso l’abbattimento della statua di Cristoforo Colombo nei pressi dello State Capitol. A Baltimora, dopo lo smantellamento di un’altra statua del navigatore genovese il 4 luglio scorso, Jessica Dickerson, rappresentante dell’associazione Indigenous Strong, ha commentato l’evento con queste parole: “Noi non otteniamo molte vittorie, giusto? Questa è una piccola, ma grande vittoria, [Colombo] è stato un assassino per il mio popolo”.

     

    Immagine 3. Colombo Baltimora 1Fig.3: La statua di Cristoforo Colombo nella zona di Little Italy a Baltimora (Maryland), prima che fosse abbattuta il 4 luglio scorso. Fonte Colombo e le comunità italiane

    Vigorose sono state invece le lamentele e le proteste dei rappresentanti delle comunità italo-americane.
    A Baltimora John Pica Jr., presidente dell’associazione Little Italy’s Columbus Day Commemoration, ha dichiarato che la statua di Colombo appena abbattuta era un monumento agli italo-americani e che questi continueranno comunque a celebrare il Columbus Day. A Columbus, capitale dell’Ohio, dopo l’annuncio che la statua dell’esploratore genovese sarebbe stata rimossa dalla West Broad Street, il Columbus Piave Club ha rilasciato una vibrante dichiarazione di protesta, lamentando di non essere stato nemmeno consultato dalle autorità municipali e ricordando il contributo dato dalla comunità italo-americana all’acquisto e alla manutenzione della statua. Non poteva mancare, anche in questo caso, un riferimento al Columbus Day, una ricorrenza con la quale – si legge nella dichiarazione - si celebrano “gli italo-americani e le positive realizzazioni con le quali gli italiani hanno dato il loro contributo alla nostra società”.
    A questo genere di interventi si replica dal fronte opposto sostenendo che gli italo-americani potrebbero benissimo scegliere, come simbolo della propria identità, un altro personaggio storico meno controverso; tra i nomi proposti ci sono Dante Alighieri, Marco Polo, Michelangelo, Garibaldi, Sacco e Vanzetti, Enrico Fermi[5].
    Lo scontro tra i due opposti gruppi etnici (o tra due gruppi che si presumono tali) e tra le loro storie e memorie contrapposte, è talmente forte da condizionare – come abbiamo visto - anche il giudizio di osservatori indipendenti, e conferma in pieno le osservazioni di Antonio Brusa circa il ruolo centrale che ha assunto la questione dell’identità etnica o nazionale nella cultura storica diffusa.

     

    La voce degli storici: la revisione del mito

    Anche gli storici hanno partecipato al dibattito pubblico sulle statue e sulla figura di Colombo, pur svolgendo in esso un ruolo meno importante rispetto a quello che hanno avuto nelle discussioni sui monumenti dei Confederati[6].
    Tra i commenti dedicati agli attacchi alle statue del navigatore genovese, troviamo ad esempio quello dello storico Michael D. Hattem sul “Washington Post”. Hattem ha posto l’accento sul fatto che la storia del mito di Colombo “rivela in che modo la nostra memoria collettiva del passato venga costruita e cambi col passare del tempo, piuttosto che essere una intrinseca espressione del passato”. Egli ha quindi rievocato le principali tappe dell’evoluzione del mito di Colombo negli Stati Uniti: dall’uso del termine Columbia come personificazione femminile dell’America fin dagli anni ’60 del Settecento alle grandi celebrazioni organizzate nel 1792 in occasione del tricentenario della scoperta del Nuovo Mondo; dall’esaltazione di Colombo nella letteratura e nei libri di testo scolastici fino all’uso politico della sua figura nel corso dell’Ottocento, sia per legittimare l’espansione degli Stati Uniti verso Ovest, sia per facilitare l’assimilazione culturale e politica della sempre più numerosa comunità italo-americana. Ma proprio perché la memoria collettiva si evolve nel tempo, non c’è da sorprendersi se personaggi che per un certo periodo sono stati ingigantiti e celebrati cadano poi in disgrazia quando cambia il contesto culturale o politico.
    Ci si può chiedere, però, se la sostituzione dell’ottocentesca immagine eroica di Colombo con l’antitetica rappresentazione del navigatore genovese come una specie di assassino e mostro genocida sia veramente utile alla comprensione della storia di questo personaggio e dei suoi tempi.
    Il giudizio degli storici, naturalmente, è più cauto e sfumato rispetto a quello totalmente negativo che si è diffuso in una parte dell’opinione pubblica. Kris Lane, che insegna storia alla Tulane University di New Orleans, è intervenuto più volte negli ultimi anni nel dibattito pubblico attorno alla figura di Colombo. Nel 2015 ha scritto un editoriale sul “Washington Post” per confutare ‘cinque miti’ riguardanti l’esploratore genovese, tra i quali vi è quello secondo cui egli sarebbe responsabile del genocidio dei nativi delle isole dei Caraibi. In proposito, Lane ha riconosciuto che non vi sono dubbi sul fatto che Colombo abbia oppresso la popolazione di quelle isole e abbia ridotto in schiavitù quasi 1500 nativi per deportarli e venderli in Europa. Peraltro, Colombo non dovette inventare nulla di nuovo, poiché non fece altro che seguire l’esempio dei Portoghesi e degli Spagnoli, che già da molto tempo erano attivi nel commercio degli schiavi. L’accusa di genocidio, invece, va circostanziata, perché Colombo non aveva nessuna intenzione di sterminare i nativi dei Caraibi: voleva piuttosto avere dei sudditi da tassare e governare. Si può parlare quindi di genocidio solo come risultato involontario delle decisioni prese da Colombo e dai suoi familiari.
    Dopo gli attacchi ai monumenti avvenuti nel giugno scorso, Lane ha rilasciato una lunga e interessante intervista, nella quale ha distinto con precisione le caratteristiche di Colombo come personaggio storico da quelle del mito costruito nell’Ottocento attorno alla sua figura: Colombo fu certamente un grande navigatore, anche se sbagliò nel ritenere di poter arrivare in Asia; cercava l’oro, ma forse più per dimostrare ai sovrani spagnoli l’utilità della sua impresa che per avidità personale; diede inizio nel Nuovo Mondo al commercio degli schiavi, ma questa era una pratica molto diffusa - anche se non universalmente accettata - alla fine del ‘400; fu un uomo del suo tempo, ma fece comunque delle scelte in base alla sua personale visione del mondo. Attorno alla sua figura è stato costruito un mito e ora che esso si è rivelato in buona parte privo di fondamento, è naturale che gran parte della gente non senta più il bisogno di celebrare il navigatore genovese e che molti vogliano disfarsi delle sue statue.

     

    La rilevanza storica di Colombo

    Molto diverso è invece il giudizio dello storico italiano Matteo Casini, che insegna all’Università del Massachusetts. Intervistato dal “Boston Globe”, Casini ha affermato che la figura di Colombo “non deve essere vista per ciò che egli ha fatto più di 500 anni fa, ma, prima di tutto, come un simbolo per gli italiani che cominciarono ad arrivare qui alla fine dell’Ottocento”. Ed ha aggiunto:

    Essi combatterono, come tutti sanno, una battaglia estremamente dura per l’uguaglianza razziale e per il riconoscimento sociale, molto simile a quella degli africani e dei nativi americani. La festa del ‘Columbus Day’ e le statue a dedicate a Colombo negli ultimi 150 anni, devono essere considerate come ‘armi dell’orgoglio’ di una minoranza che voleva conquistare il suo posto nella ‘terra delle opportunità’, mediante il duro lavoro, l’accettazione delle regole comuni e una piena integrazione.

    Fa notare poi un altro storico, William J. Connell, che anche se tutti i monumenti dedicati a Colombo dovessero scomparire, il navigatore genovese rimarrebbe ancora con noi: “E la ragione è molto semplice: il 12 ottobre del 1492 è la data più importante nella storia dell’umanità, a partire almeno dall’invenzione dell’agricoltura”. È infatti da quella data che ha avuto inizio il mondo globalizzato nel quale oggi viviamo. È vero, Colombo diede inizio nel Nuovo Mondo alla deportazione degli schiavi e alla spoliazione delle terre dei nativi. Ma queste colpe non sono soltanto sue: sono infatti i due ‘peccati originali’ della Conquista e degli stessi Stati Uniti d’America.
    Data la vivacità del dibattito, e considerando la grande quantità di statue del navigatore genovese che sono tuttora in piedi, tutto lascia prevedere che negli Stati Uniti le discussioni su Colombo e sul Columbus day si protrarranno ancora per molto tempo.

     

    Immagine 4. Contro il Columbus DayFig.4: Studenti di origine messicana manifestano contro il “Columbus Day”. Fonte Il dibattito italiano: il "processo" a Colombo

    Gli attacchi alle statue e alla figura di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti hanno avuto più di una eco anche in Italia. Se in alcuni casi vi è stata una piena adesione alla demolizione della figura eroica dell’esploratore genovese, non sono però mancate diverse voci critiche rispetto a questo completo capovolgimento dell’immagine tradizionale di Colombo e alle sue implicazioni per il tipo di cultura storica veicolata dai media e dalle università.
    Citerò come esempio del primo atteggiamento il Processo a Cristoforo Colombo messo in scena da Jacopo Fo e Mario Pirovano presso la Libera Università di Alcatraz e diffuso in occasione del Columbus Day del 2017. Secondo i promotori dell’iniziativa “Cristoforo Colombo, un italiano, era un assassino, torturatore, schiavista, e bisogna rompere questa italica censura sulla verità dei fatti e insegnare ai ragazzini che di Colombo c’è da vergognarsi che fosse italiano, tale quale a Totò Riina” (così si legge nella presentazione del video). Il processo – molto ben realizzato e facilmente spendibile a livello didattico - vede Mario Pirovano nel ruolo dell’avvocato difensore, mentre Jacopo Fo sostiene l’accusa. Documenti alla mano, Jacopo Fo presenta tutti i principali capi d’accusa contro Colombo, mentre Pirovano cerca inutilmente di difenderlo. Il tutto si conclude con la damnatio memoriae del genovese, eseguita coprendo la sua statua con un sacco della spazzatura.
    In una diversa prospettiva, il “processo a Colombo” è stato di recente oggetto di un saggio dello storico Antonio Musarra. Lo stesso autore ha fornito sul web una accurata presentazione del suo libro (farò qui riferimento soltanto ad essa). Musarra parte dal fatto che il giudizio degli storici su Cristoforo Colombo negli ultimi trent’anni è cambiato radicalmente: Colombo non è più visto ormai come il sognatore dedito ad oltrepassare i limiti del mondo conosciuto, ma come il primo dei conquistadores, come colui che ha dato inizio all’occupazione delle Americhe, che avrebbe poi provocato lo sterminio di milioni di persone. E tuttavia l’assalto alle statue di Colombo, che si configura come una vera e propria damnatio memoriae, suscita – secondo Musarra - molte perplessità. In primo luogo perché processare la storia non è soltanto sbagliato, anzi si può rivelare pericoloso. In secondo luogo perché le accuse mosse a Colombo sono, sotto vari aspetti, esagerate: non ha senso, ad esempio, accusarlo di genocidio, dato che non gli passò mai per la testa di sterminare i nativi americani. In realtà, a coloro che deturpano o abbattono le statue del navigatore genovese, così come a molte amministrazioni americane, la figura storica di Colombo non interessa veramente: egli è assurto a simbolo della violenza colonizzatrice dell’uomo bianco e la generale condanna nei suoi confronti rivela anche la persistente difficoltà degli Stati Uniti di fare i conti col proprio passato.

     

    Immagine 5. Colombo ProvidenceFig.5: Una statua di Cristoforo Colombo a Providence (Rhode Island) vandalizzata in occasione del “Columbus Day” dell’ottobre 2019. Fonte Il "relativismo totalitario"

    Un approccio critico, ma di altra natura, è stato poi quello di Raffaele Romanelli, che in una lettera al presidente e al comitato direttivo della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (pubblicata sul “Foglio” del 24/06/2020) ha denunciato il “relativismo totalitario” che starebbe prendendo piede nel mondo accademico anglosassone. Con riferimento proprio ai recenti attacchi alle statue e alla figura di Cristoforo Colombo, Romanelli ha messo in evidenza come addebitare a Colombo tutti i crimini e le sopraffazioni che hanno fatto seguito alla sua “scoperta” significa cancellare il principio della responsabilità personale - che è uno dei capisaldi dello stato di diritto e dei diritti dell’uomo e del cittadino – per sostituirlo col concetto di una responsabilità di gruppo: un gruppo, quello dei bianchi occidentali, che tende ad assumere connotati genetici e razziali, e che quindi diventa, nel suo insieme, colpevole dello sterminio dei nativi americani e della schiavitù dei neri. Secondo Romanelli questa tendenza si collega a un più generale clima di intolleranza, che si sta diffondendo negli ambienti universitari americani, canadesi e britannici, e che si manifesta anche con la messa al bando di chiunque non accetti il dogma imperante secondo cui le differenze di genere non hanno una base biologica. Si sta affermando, insomma, una sorta di “relativismo totalitario”, nel senso che la verità viene presentata come relativa/soggettiva, in quanto insensibile ai dati (storici o biologici), ma viene al tempo stesso imposta con le tecniche della persecuzione totalitaria.
    È appena il caso di ricordare che la lettera di Romanelli ha preceduto di sole due settimane la Letter on Justice and Open Debate (pubblicata il 07/07/2020 sullo “Harper’s Magazine”) nella quale 153 intellettuali americani hanno denunciato il pericolo che le giuste richieste di una maggiore giustizia, eguaglianza ed inclusione nella società statunitense possano generare anche una crescente intolleranza nel mondo della cultura, dai giornali alle case editrici alle università. Un’analisi di questa lettera e del dibattito che ha suscitato ci porterebbe molto lontano dall’argomento di questo articolo. Ma riprenderemo certamente, su Historia Ludens, la questione della “cancel culture” (sulla quale si veda intanto The Harper’s ‘Letter,’ cancel culture and the summer that drove a lot of smart people mad, sul “Washington Post” del 23/07/2020).

     

    Piste di lavoro didattico

    L’attacco alle statue di Colombo e il capovolgimento del mito costruito attorno alla sua figura sono anzitutto un’espressione del malessere, delle contraddizioni e dei mutamenti che si sono sviluppati nella società e nella cultura degli Stati Uniti e del mondo occidentale negli ultimi decenni. Sebbene la richiesta di una maggiore giustizia sociale e di un definitivo superamento dell’interpretazione tradizionale delle imprese di Colombo sia assolutamente condivisibile, la furia vendicatrice che si è scatenata nei mesi scorsi sembra essere un ostacolo a una riflessione equilibrata.
    A livello didattico, gli assalti alle statue di Colombo possono rappresentare un’ottima occasione per sviluppare ricerche e dibattiti tra gli studenti, non solo negli Stati Uniti ma anche in Italia, dato che il navigatore genovese è stato a lungo celebrato anche da noi come una figura simbolo della storia e dell’identità nazionale. Molti sono gli interrogativi e i problemi che potrebbero essere posti al centro di un percorso didattico. Ad esempio i seguenti: ha ancora senso parlare di una “scoperta” dell’America? è fondata l’accusa di genocidio mossa nei confronti dell’esploratore genovese? È giusto abbattere o rimuovere le statue di Colombo? Che cosa dovremmo fare se anche qui in Italia qualcuno proponesse di rimuoverle? Fino a che punto i libri di testo scolastici hanno superato l’immagine tradizionale di Colombo e delle sue imprese? È legittimo fare processi ai grandi protagonisti della storia?
    Una seconda occasione, collegata a questa, è data dalla possibilità di riflettere sul nesso storia-memoria-politica. Il caso americano mostra come non solo lo stato, ma anche le comunità (in questo caso etniche) facciano pressione sulla memoria collettiva (i monumenti, le festività) e la storia scolastica (le “bugie dei manuali”) e come la storia e gli storici siano in reale difficoltà a far sentire la propria voce. In ogni caso, questo argomento si aggancerebbe al filone didattico del rapporto fra storia e memoria che, in Italia, rischia di essere circoscritto alle celebrazioni del 27 gennaio e dell’11 febbraio.
    Infine, sono di grande interesse le riflessioni sviluppate, in margine al “processo” a Colombo, da Antonio Musarra e da Antonio Brusa sugli stereotipi, sull’epistemologia naïve e sulla difficoltà di far comprendere, anche al di fuori di ristrette cerchie intellettuali, la complessità dei processi storici. A partire dagli stessi fatti e documenti riguardanti la vicenda di Colombo, il dibattito storico e il dibattito pubblico giungono a conclusioni differenti:

    | Quest’ultimo si conclude con una condanna senza appello, mentre la controversia storica può giungere a conclusioni differenziate, di comprensione varia del “fenomeno Colombo”, e – soprattutto – rifiuta a priori l’alternativa eroe/malfattore, che tanto appassiona la gente[7].

    La comunicazione fra ricerca accademica e società – sostiene Brusa - sembra aver funzionato nella divulgazione di alcune conoscenze, ma non nella trasmissione delle capacità di elaborarle. Si è costretti ancora una volta a constatare una preoccupante divaricazione tra storiografia e senso comune storico, tra sapere accademico e cultura popolare, tra una concezione della società e dello sviluppo storico come fenomeni complessi e una visione semplicistica della storia basata su poche convinzioni e sull’importanza decisiva di singoli eventi e personaggi chiave.
    È davvero auspicabile quindi che l’insegnamento della storia possa tener conto delle problematiche e delle contraddizioni che il “processo” a Colombo, e più in generale la “guerra delle statue”, hanno fatto emergere nel dibattito pubblico, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo occidentale.

     

    [1] Il Columbus day divenne poi una vera e propria festa federale nel 1968 (vedi ancora la voce di Wikipedia citata nel testo).

    [2] Oltre al saggio già citato di Antonio Brusa, vedi H. Schuman, B. Schwartz, H. d’Arcy, Elite Revisionists and Popular Beliefs: Christopher Columbus, Hero or Villain?, “Public Opinion Quarterly”, vol. 69, No. 1, Spring 2005, pp. 2-29.

    [3] Vedi Luke O'Neil, Goodbye, Columbus: holiday in decline as brutal legacy re-evaluated, “The Guardian (International Edition)”, 08/10/2018, e la già citata voce di Wikipedia sul Columbus Day.

    [4] A. Brusa, Colombo eroe o malfattore?, cit.

    [5] Vedi ad esempio: Eric Zorn, Ethnic pride, yes. Columbus Day? No, “Chicago Tribune”, 03/03/2020; Chris Leblanc, As Italian Americans in Boston debate the legacy of Christopher Columbus, some want his statue – recently beheaded – permanently gone, “Chicago Tribune”, 17/06/2020; The false narrative about Christopher Columbus, “Chicago Tribune”, 21/07/2020. 

    [6] Questa è l’impressione che ho ricavato dalle fonti più facilmente accessibili sul web. Ma naturalmente è impossibile passare al setaccio lo smisurato numero di quotidiani e riviste online, blog e siti internet che trattano argomenti storici.

    [7] A. Brusa, Colombo eroe o malfattore?, cit.

  • L'operazione Husky nel suo anniversario. Storia, memoria e fake indistruttibili.

    di Antonio Brusa

     

    Operazione HuskyLa lapide che commemora la battaglia di Gela https://www.avvenire.it/amp/agora/pagine/sbarco-in-sicilia-77-anni

    Tre anni fa, di questi giorni di luglio, cadeva il 75° anniversario dell’“Operazione Husky”, il primo vero DDay della seconda guerra mondiale, quando quasi tremila navi sbarcarono sulle coste siciliane truppe inglesi, canadesi e americane. Allora intervennero molti quotidiani a commemorare l’evento. Quest’anno, in tono minore, la tv lo ha ricordato nei giorni scorsi proiettando il film di Pif In guerra per amore (2016), e, a quanto mi risulta, solo Vincenzo Grientine ha parlato dalle pagine dell’ “Avvenire” (9 luglio 2020).

    Grienti mette in rilievo alcuni aspetti che vanno ricordati. Che la resistenza italiana non fu all’acqua di rosa (se mai furono i tedeschi che se la svignarono “brillantemente”), e che dunque quello sbarco non fu un’ “avanzata trionfale fra due ali di folla”. Al contrario, fu ostacolato da battaglie sanguinose, come quella di Gela, e macchiato da stragi. Tedesche innanzitutto (purtroppo questo Grienti non lo segnala): ben 65 episodi di violenza con 133 vittime costituiscono il prologo di quel rosario di eccidi che costellò la ritirata tedesca lungo la penisola. Ma anche americane, con civili e militari uccisi a freddo. Rosario Mangiameli, fra i tanti storici che hanno studiato l’argomento, ce ne parla diffusamente in un bel saggio apparso nel 2012.

    Fra qualche giorno cadrà l’anniversario di un episodio che non so se verrà commemorato, nemmeno nella città dove avvenne, Canicattì: forse l’unica città al mondo dove si susseguirono a stretto giro una strage tedesca (il 12) e una americana (il 14). La conosciamo solo grazie al lavoro e al coraggio di J. S. Salemi della N. Y. University.

    Quindi lode a Grienti che ritiene giusto non dimenticare. Aggiungo, però, a evitare un’eccessiva retorica, due osservazioni. La prima riguarda l’accenno all’accordo fra gli americani e Lucky Luciano, che avrebbe garantito l’appoggio della mafia agli invasori. E’ una diceria. Dura a morire, certo: ma proprio per questo non dobbiamo stancarci di ribadirlo. Nacque proprio durante gli eventi, proprio in quegli ambienti fascisti che avevano bisogno di raccontare alla popolazione perché un esercito che avrebbe dovuto immobilizzare l’invasore “sul bagnasciuga” fallì il suo compito. La mafia era una buona scusa. Riciclata e rifunzionalizzata da Michele Pantaleone nel 1962 (qualcuno ricorderà il suo Mafia e Politica), diventò un cavallo di battaglia della sinistra contro la Democrazia Cristiana e, finalmente, è diventata di dominio pubblico, al punto da fornire il pretesto narrativo al film di Pif, appunto passato in tv in questi giorni. (Su questi fatti HL è già intervenuta).

    La seconda osservazione riguarda il fatto che Grienti, presentando delle nuove ricerche su questi eventi, riporta la favola che la storiografia ufficiale ha sempre evitato di affrontare questi argomenti, giudicati spiacevoli. Anche questa è una fake, una post-verità alla quale i media indulgono volentieri. Non è vero che gli storici non se ne sono occupati e che, quindi, si tratta di una “controstoria” che viene finalmente raccontata ai ragazzi “diversamente da quanto si legge nei libri di scuola” (come se i manuali raccontassero ampiamente dell’operazione Husky).

    Sono decenni che si susseguono gli studi (italiani e americani) su questi eventi e la bibliografia è ormai abbastanza lunga. Mangiameli, nell’articolo citato sopra, spiega le ragioni per cui gli stessi testimoni prima, e poi l’opinione pubblica, ma oggi potremmo dire la storia pubblica, hanno scelto di tacere. Gli studi ci sono. Sono i media che non ne parlano. Non rovesciamo le responsabilità, per piacere.

  • L’Editto di Costantino o della gestione del passato

    Autore: Antonio Brusa

    Indice

    1. Le certezze
    2. E le certezze distrutte
    3. Che dicono i manuali stranieri
    4. Il Cosiddetto
    5. Wikipedia o a ciascuno il suo Editto
    6. Conoscere o commemorare?
    7. Costantino, 313. La mostra
    8. Le cose importanti. I valori e le radici.
    9. Ma se sei secchione e pignolo
    10. Il messaggio della mostra
    11. Troppo complesso

     

    1 - Le certezze

    Quelle sull’Editto di Costantino, Arnaldo Marcone ce le elenca con chiarezza. Quattro certezze fondamentali. Leggetele. Aprono un problema che non riguarda soltanto la questione dell’Editto, ma il rapporto più generale fra ricerca storica e divulgazione, fra ricerca e didattica e, forse, il senso stesso del nostro mestiere.

    Eccole:

    • Il documento che è consuetudine chiamare “Editto di Milano” non è un editto
    • Tale documento non fu promulgato a Milano
    • L’autore del documento non è Costantino, ma Licinio
    • I cristiani non ottennero la tolleranza attraverso quel documento perché l’avevano già ottenuta due anni prima in virtù dell’editto di Galerio dell’aprile 311.

    Marcone sottolinea che si tratta di “conclusioni inoppugnabili” stabilite da Otto Seeck, studioso tedesco di quelli che è bene non mettere in discussione a cuor leggero, pubblicate per giunta qualche tempo fa, nel 1891.

    Dunque è più di un secolo che si sa con certezza che Costantino e Licinio non si videro a Milano, la capitale occidentale del nuovo impero disegnato da Diocleziano, per emanare il famoso decreto, ma tutt’al più discussero sul perché quello vecchio (appunto emanato da Galerio) non venisse messo in pratica ovunque. In quell’occasione, probabilmente, decisero di inviare delle lettere per sollecitarne l’applicazione, cosa che fu fatta da Licinio, una volta tornato a Nicomedia, la capitale orientale. Dunque, è più di un secolo che si sa che quella vicenda, per come la conosciamo, è una invenzione. Dunque, è più di un secolo che la frase “Costantino emanò l’Editto di Tolleranza a Milano nel 313 d. C” è falsa; ed è più di un secolo che, invece, la scriviamo nei manuali, la insegniamo come verità scontata e ci facciamo su, come vedremo, tante altre belle operazioni.

     

    2 - E le certezze distrutte

    Da subito debbo confessare la mia crisi, di autore e di insegnante. Lo sapevo dell’Editto come tutti. Certo, ne conoscevo letture critiche. Ma in fondo, che i due Augusti, nel momento del loro accordo, avessero licenziato quel documento mi sembrava una cosa scontata, una tipica conoscenza manualistica. Insomma, ero convinto che fosse doveroso indagare sulle cause dell’Editto, le sue conseguenze, la sua filosofia e il contesto nel quale venne scritto, ma non sul fatto.

    Perciò, troverete quella frase anche nel mio manuale. Ora so che avrei dovuto scrivere, invece, una frase di questo genere: “Il 30 aprile del 311, Galerio emanò a Serdica, l’attuale Sofia, capitale della Bulgaria, l’Editto con il quale si concedeva libertà di culto ai cristiani”. Lo farò, non appena ne avrò l’occasione, come ho fatto in tutti i casi analoghi (dalla donazione di Sutri, ai servi della gleba, alle Crociate o alla Piramide feudale: sono un medievista e queste cose mi riescono meglio per quel periodo). Ma so che quando consegnerò il nuovo testo, il redattore farà un balzo sulla sedia e correrà dall’editore, che mi prenderà amichevolmente sottobraccio: “caro Tonio, il libro lo dobbiamo vendere, cerca di smorzare un po’ i toni, sai gli insegnanti non la prendono bene”.

    E mi dirà. Se proprio ci tieni tanto, fai così. Lascia la frase tradizionale sull’Editto, perché se l’aspettano tutti. Poi, a lato, ci piazziamo una finestra. Un “per saperne di più” o un “cosa dice lo storico”. Guarda, fanno così anche i tuoi colleghi di antichistica. Eva Cantarella, ad esempio, parla di Costantino, di Milano e del 313 con il relativo Editto, e rimanda all’approfondimento accanto (Corso di Storia Antica, Einaudi, Torino 1995). Una scheda lunga e articolata che inizia con queste parole: “Il primo atto formale che permise ai fedeli della religione cristiana di praticare liberamente il proprio culto è quello di Galerio”. E’ la prassi manualistica. Ragazzi, imparatevi l’Editto, poi ai pignoli e ai secchioni gli diciamo la verità, o un qualcosa che le si avvicini. Tanto, la scheda di approfondimento la si può sempre togliere, come – in questo caso - accade nell’edizione successiva del 2001 (Le tracce della storia, Einaudi, Torino).

     

    3 - Che dicono i manuali stranieri

    Ma prima di andare avanti, è necessaria un’avvertenza. Non voglio mettere sotto accusa i manuali e nemmeno i bravissimi colleghi che li scrivono. D’altra parte, mi sono messo io, per primo, nella schiera dei peccatori. Né vorrei che si pensasse ad un’ulteriore polemica sull’arretratezza della scuola italiana. Per questo motivo, con l’aiuto di Luigi Cajani, con il quale ho ragionato su questo argomento, mi sono andato a vedere dei manuali tedeschi. Più o meno sono come i nostri. Forse solo più sintetici e, perciò, più assertivi. Ad esempio, Martin e Zwoelfer scrivono che Costantino “pagò il suo debito con il Cristianesimo, stabilendo a Milano, con il suo collega Licinio, che i Cristiani e tutti gli altri avrebbero avuto la possibilità di praticare il loro culto”. (Geschichtsbuch 1, Cornelsen, Berlino 1987), p. 145. Oppure Askani e Wagener citano il “cosiddetto Editto di tolleranza”.  (Anno 1, Band 1, Westermann, Braunschweig 1994, p. 182).

     

     

    Certamente, uno di noi coglie in queste espressioni il filo di ironia, la presa di distanza. Ma, come sappiamo tutti, guai a cercare di far comprendere agli allievi, anche se sono tedeschi, queste sfumature, senza passare per professori pedanti e rompi-qualcosa.

     

    4 - Il Cosiddetto

    In realtà, la presa di distanza è obbligatoria, come ammonisce Laura Franco, nel catalogo della Mostra dedicata all’Editto. “Si aggiunge in genere l’aggettivo “cosiddetto”, quando si parla dell’Editto di Milano”, osserva nel suo contributo Costantino nelle fonti letterarie fra storia e mito, in Costantino 313 a.C, p. 58. Ma non c’è bisogno di ricorrere ai manuali di leggibilità, per sapere che questi “cosiddetti”, che noi studiosi amiamo tanto, per limare, specificare, prendere le distanze, sono un macigno nella comprensione diffusa. Il lettore medio li salta, perché non ne capisce bene la ragione. Ma lo fa anche lo storico non specialista. Ad  esempio Jerry Bentley, il grande storico americano scomparso di recente, scrive nel suo affascinante manuale di storia Traditions and Encounters. A Global Perspective on the Past, Mc Graw Hill, N.Y, 2009, p. 308 che Costantino fece una cosa grandissima con il suo Editto (senza virgolette). E, come lui, tantissimi colleghi, fra i quali la maggior parte degli studiosi che scrivono sul catalogo.

     

    5 - Wikipedia o a ciascuno il suo Editto

    Wikipedia è probabilmente lo specchio di una battaglia delle virgolette, diventata ormai internazionale.

    L’edizione tedesca è precisa. Cita subito l’autorità imprescindibile, quell’Otto Seecks che abbiamo visto sopra, e mette in chiaro la cronologia: prima Galerio, autore delToleranzedikt, che vuol dire Editto di Tolleranza, senza virgolette,poi la battaglia contro Massenzio, e buoni ultimi Costantino e Licinio, dei quali si specifica che non emanarono un Editto. Ma i tedeschi sono gli unici (potenza di Otto Seecks?).

    La stessa cronologia è ripresa dall’edizione latina, che non ha dubbi: “Edictum tolerationis Galerii est finis persecutionum religionis Christianae in Imperio Romano”, dice in un latino, così chiaro che lo capisce anche chi non lo sa. A scanso di equivoci, qualche riga sotto si ribadisce che quello di Milano non fece che confermare ciò che già era stato stabilito da Galerio. Questo alla voce dedicata a Galerio. La voce sull’Editto di Milano, specifica che si trattò di una riunione in seguito alla quale vennero mandate delle lettere che possono essere intese come un complemento dell’editto di Galerio.

    L’edizione francese è sconcertante. Riporta tutte e due le versioni. Prima quella sbagliata e poi quella giusta. Senza un’avvertenza al lettore. Insomma: questo è quello che si dice, fate un po’ voi.

    La versione polacca dice che l’Editto è stato pronunciato dai due imperatori (…) nel 313 a Milano, uniti dalla fede nell’impero romano. Prosegue affermando “da questo momento, il cristianesimo non ebbe più ostacoli. In base a questo editto furono restituite alle comunità cristiane palazzi e terre di proprietà ecclesiastici”. Cita, a supporto, il resoconto di Lattanzio, che vedremo subito, spacciato (ma è una prassi consueta nella rete) come testo dell’Editto.

    L’edizione spagnola distingue fraLa tolerancia del Cristianismo, così viene chiamato l’ Editto di Milano, del quale si racconta la versione tradizionale, el’Edicto de Tolerancia de Nicomedia, che sarebbe quello di Galerio, declassato a “antecedente”.

    L’edizione finlandese spinge per una interpretazione progressiva, secondo la quale l’Editto di Milano fu un perfezionamento di quello di Serdica.Lo dice sulla base di una fonte vecchiotta, per quanto informatissima, Philip Schaff, il teologo e storico protestante svizzero, che scrisse nel 1800 unaStoria della Chiesa, il quale sostenne che con l’Editto di Milano si passò da una neutralità negativa a una positiva, che apriva le porte all’adozione del Cristianesimo come religione ufficiale. L’opera è in inglesee forse per affinità linguistica anche gli ungheresi adottano un’interpretazione simile.

    Chi vuole chiudere questo giretto con un po’ di divertimento, vada a consultare l’edizione italiana, per la quale l’Editto ci fu, ed  è presentato come quello vero, ma non era il primo, perché ce ne fu un altro, sempre di tolleranza, nel quale però venne concessa ai cristiani solo un’indulgenza: e qui l’equivoco con la prassi penitenziale cristiana è inevitabile come le virgolette, da spargere a piene mani (Se riuscirete a capirci qualcosa, non vorrà dire che siete bravi, ma solo che siete perfettamente inseriti nello schema di funzionamento di questa nazione).

     

    6 - Conoscere o commemorare?

    Virgolette, dunque, ma decisive, quando si parla della creazione di un evento, come le celebrazioni costantiniane. Ecco come vengono presentate dal giornale della diocesi ambrosiana.

    Ebbene, per commemorare dal punto di vista scientifico tale centenario e per discutere tutti gli aspetti problematici connessi a quello che per l’appunto definiamo convenzionalmente come “editto” (…)

    Dunque, che sia un Editto è una convenzione, non una realtà storica. Però questa convenzione è indispensabile sia per fissare l’anniversario (che si celebra solitamente per qualcosa che è realmente avvenuto), sia per designare la città – luogo reale - dove commemorarlo (vi figurate i milanesi che festeggiano l’ “Editto Bulgaro di Tolleranza”?). Ma questo imbroglio fra realtà e invenzione, cede sicuramente il passo a quella perla della “commemorazione scientifica”, che avrete sicuramente notato, e sulla quale gli studiosi dei rapporti tra storia e memoria potrebbero scrivere libri.

     

    7 - Costantino, 313. La mostra

    E siamo arrivati alla mostra. Ci dovevamo tornare perché il bello dello stereotipo dell’Editto è che l’articolo di Marcone, che me lo ha svelato, è pubblicato proprio nel catalogo della mostraCostantino 313, svoltasi a Milano in occasione del suo 1700 anniversario, e ora aperta a Roma, al Colosseo Editto di Milano: dalle persecuzioni alla tolleranza, pp. 42-47.

    Questa esposizione si apre con il famoso brano di Lattanzio, quello da cui prende il via l’invenzione dell’Editto. Tu entri e ti accoglie la prosa familiare del grande scrittore cristiano.

     

     

    Pensi. Come sono simpatici questi due imperatori, che si vedono a Milano, chiacchierano come due tipi qualunque, e a un certo punto fanno: ma perché non li lasciamo liberi, questi benedetti cristiani? Qui, però, la nota erudita me la dovete concedere, perché serve a spiegare almeno una parte della confusione. Noi non possediamo il testo di quel documento che chiamiamo “Editto di Milano”. Oltre ad una versione ridotta di Eusebio di Cesarea, disponiamo solo dell’ampio resoconto di Lattanzio, autore decisamente schierato a favore di Costantino, e da questi assunto come precettore del figlio Crispo (en passant, Costantino spese veramente male i soldi per la sua istruzione, dal momento che lo fece ammazzare). Sappiamo, dunque, che le precauzioni interpretative sono obbligatorie, in situazioni come questa (nella mia piccola ricerca su Internet, ho trovato perfino il racconto di Lattanzio suddiviso in paragrafi numerati “come se fosse” un documento legislativo.

    Quindi ti aggiri fra i pezzi (belli; emozionanti). Scopri un impero dalle tante religioni. Vedi la mano di Sabazio – dio della nascita e della morte – la mano con le tre dita distese, alla quale si ispirò il gesto cristiano della benedizione. Ammiri un bassorilievo raffigurante Mitra, con i resti della colorazione originale (il dio ha il volto dorato e il mantello rosso). E poi Iside, Giove Dolicheno, il Sol Invictus (accanto al quale Costantino amava farsi raffigurare nelle sue monete d’oro) e tanti altri.

     

     

    La convivenza di questa moltitudine di culti era garantita dall’imperatore, anche prima del nostro Editto. Certo, si sentiva nell’aria una “ricerca del monoteismo”, si premurano di avvertirci i curatori, che evidentemente dispongono di speciali fonti di informazione; per quanto, curiosamente, proprio dopo la legalizzazione completa del Cristianesimo (appunto dopo l’Editto), questa pacchia libertaria finì, dal momento che gli imperatori cristiani si dettero a vigorose campagne di repressione di ogni religione che non fosse quella cristiana, per giunta nella versione che di volta in volta ritenevano ortodossa. I curatori della mostra non mancano di rilevare, infatti, che da subito Costantino impose “qualche limitazione” a questa tolleranza. Un eufemismo si direbbe, visto che appena l’anno successivo al nostro Editto di Tolleranza, si celebrò il concilio di Arles, con la condanna dei donatisti; sei anni dopo vennero proibiti i sacrifici pagani e, da allora, seguì un crescendo ininterrotto di repressioni dall’alto e di violenze dal basso, che portò alla scomparsa di quella varietà di religioni che ci affascina visitando questa mostra. Nella quale, per contro, si racconta con dettagli delle persecuzioni contro i cristiani, illustrate con immagini efficaci di condannatiad beluas , che sfortunatamente non si riferiscono mai a martiri. Non lo può essere, ad esempio, questa scena nella quale un orso sta per sbranare una ragazza legata ad un palo (la si riconosce a destra nella mia pessima foto), troppo sensuale e svestita per essere una santa da venerare.

     

     

    8 - Le cose importanti. I valori e le radici.

    Ma non cavilliamo, dice la mostra. Qui si parla di cose più importanti e attuali. Di tolleranza e di convivenza dei diversi. E, naturalmente, delle radici cristiane di tutto ciò. Questo è il succo che il visitatore comune deve ricavare dalla sua visita. Inoltre, se sei quello che ne vuol sapere di più (e ti senti anche di spendere qualche euro in più), eccoti il catalogo. La sua apertura, di autorità e sponsor, ti incoraggerà in questa interpretazione, come rivela questa rapida antologia.

     

    Ci sono date che partono da una città e arrivano al mondo. Nel 313 Milano proclama “ai Cristiani e a tutti gli uomini la libertà di seguire la religione che ciascuno crede”  (Giuliano Pisapia, sindaco di Milano)

     

    Il rescritto, a firma dei due Augusti Costantino e Licinio, segna la fine delle persecuzioni contro i cristiani e l’atto di nascita della libertà religiosa, ben diversa dalla semplice tolleranza” (Angelo Scola, cardinale)

     

    La celebrazione dell’Editto di Costantino ci ricorda di un antico primato di Milano, da sempre storico crocevia di esperienze e laboratorio civile di sviluppo” (Stefano Boeri, assessore alla cultura di Milano)

     

    Con quella rivoluzionaria decisione Milano divenne il luogo simbolo dell’integrazione e della convivenza di fedi ed etnie diverse” (Diana Bracco, Presidente della Fondazione Bracco)

     

    9 - Ma se sei secchione e pignolo

    E lo devi essere proprio, perché non ti devi fermare alla visita, né ti devi limitare a sfogliarne il bel catalogo e a leggiucchiarne un articolo qua e là. Devi individuare proprio quello di Marcone, e giungere sino alla fine, quando lo storico elenca le certezze che già sapete.

    Ma se lo farete anche voi, capirete che non è una questione di date né di pedanteria erudita. Infatti: un conto è sapere che quell’Editto fu promulgato da Galerio, imperatore talmente pagano e talmente mal visto dai cristiani (fu proprio lui che spinse Diocleziano a iniziare la sua persecuzione), che Lattanzio lo fece crepare tra le sofferenze nel suo De mortibus persecutorum; un conto, ancora, è sapere che perfino l’”Editto cosiddetto”, o il “rescritto” come puntualizza il cardinale Scola,  fu promulgato da Licinio, che era quello pagano della coppia di Augusti. E un conto totalmente diverso è essere convinti che quell’Editto fu opera dell’imperatore che era, o che sarebbe diventato cristiano. Se, infatti, furono gli imperatori pagani a promulgarlo, vuol dire che esso venne pensato per ragioni che per loro erano di “buon governo”. Probabilmente si convinsero che era quello che ci voleva per andare avanti, e si comportarono di conseguenza. Nel caso contrario, come sappiamo tutti, quell’Editto si inscrive in un percorso destinato a portare alla vittoria del Cristianesimo. E ci suggerisce che noi siamo tali (tolleranti e aperti) proprio perché siamo inseriti in quel percorso.

    Che i cristiani potessero liberamente celebrare i loro culti, dunque, era già un fatto acquisito nel 313. Certamente, c’era chi si opponeva (come Massimino Daia, il Cesare che fu sconfitto da Licinio). Ma certamente non Massenzio o qualcuno degli altri pretendenti al trono, che Costantino fece fuori, uno dopo l’altro. E questo forse ci obbliga a guardare da una prospettiva diversa anche la faccenda del Ponte Milvio.

    Cambia totalmente anche la questione del rapporto fra Editto e celebrazione della Tolleranza. Infatti, se è vero che pochi anni dopo la sua promulgazione, Costantino e il suo nuovo entourage cristiano dettero il via a delle pratiche restrittorie della libertà religiosa, allora ne dovremmo trarre la conseguenza che la stagione della tolleranza fu brevissima, e che Costantino, in luogo di inaugurarla, fu quello che la chiuse.

     

    10 - Il messaggio della mostra

    Uno spostamento di due anni (311/313), e il messaggio della mostra si rovescia. Oggi il messaggio è: “il bene della tolleranza ha le sue radici in Costantino, e dunque nell’avvento del Cristianesimo. Dura dunque da 1700 anni, e perciò lo celebriamo tutti, laici e cristiani e di qualsiasi religione”. Potrebbe essere, invece: “Quella che consideri “tolleranza” durò una manciata di anni, e poi scomparve rapidamente. E’ un bene fragilissimo, ci dicono quel periodo e quegli eventi, che pure consideriamo fondanti. Perciò datti da fare se ci tieni veramente”.

    E mi sembra che Arnaldo Marcone non lasci alternative, quando conclude che è alquanto improprio parlare di “tolleranza” e di “persecuzione” per quei tempi. Si trattava, dice, di un fluttuare di situazioni, mai generali e mai durature e mai, soprattutto, nette. Questa mostra, dunque, dovrebbe aiutarci a prendere le distanze, piuttosto che esaltare fieramente i quarti di nobiltà della tradizione occidentale.

     

    11 - Troppo complesso

    E’ quello che ti dicono, quando ti chiamano a organizzare una mostra, a scrivere un manuale o, come mi è capitato anche, a redigere dei programmi di studio. La gente non capirebbe. Bisogna essere chiari e semplici, e tu fai sempre dei problemi. Be’, proprio questa mostra ci insegna che si tratta di un alibi e che il “farsi capire da tutti” è proprio l’ultima delle preoccupazioni. Guardate queste foto. Sono alcune didascalie di oggetti presentati nella mostra. Ecco questa “Alzata frammentaria di coperchio di sarcofago con pastore crioforo”. Uno moderatamente ignorante come me deve smanettare con lo smartphone, per capire che “moscoforo” e “crioforo” sono più o meno la stessa cosa. Più o meno, ma non sottilizziamo. Altrimenti, senza dare nell’occhio, allunga lo sguardo alla versione inglese. Anche a saperne poco, quello shepherd carrying a lamb, lo guida alla soluzione. “Il buon pastore”. Ah. Fortunatamente sono di quelli che non hanno problemi con l’“alzata frammentaria di sarcofago”.

     


    E l’inglese mi salva anche per capire che cos’è questo oggetto, che a prima vista penserei fosse uno stravagante “portatore di tavola”.Trapezoforo, infatti, recita minacciosa la didascalia, mentre la traduzione mi rassicura. E’ la gamba di un tavolino. Ma a quella successiva ci dobbiamo arrendere tutti, gli italiani sfortunati e gli inglesi (che, come avrete notato, sono trattati più umanamente dai curatori della mostra). La “lucerna bilicne”, infatti, ci rimette tutti al nostro posto.

    Se veramente il “farsi capire” fosse il motore delle scelte e delle semplificazioni, allora avrebbero scritto “Buon Pastore, “Gamba di tavolino”, “Lucerna a due luci”. Senza trascurare, ovviamente, il termine tecnico. Quello ci vuole, e chi è bravo e vuole veramente farsi comprendere, sa anche dove e come metterlo. E riesce anche a valorizzarne l’importanza (a far intendere anche quella, infine).

    No, ci dice questa mostra. No, ci dicono “gli approfondimenti”. No, ci dicono queste didascalie e queste virgolette. Il capire è un qualcosa di pochi. Degli esageratamente pignoli. Gli altri, la gente, si accontenti delle storie facili, quelle che già circolano e alle quali è abituata. Si limiti a quelle “spiegazioni semplicistiche e riduzionistiche, secondo le quali fu Costantino, facendo del cristianesimo la religione ufficiale dell'impero, a determinarne definitivamente il successo" (Questa frase, di Andrew M. Greely, un prete irlandese, sociologo e giornalista, l’ho trovata nel sito curato da Andrea Nicolotti, al quale rinvio per chi voglia continuare a informarsi su questo genere di argomenti).

     

  • L’iconoclastia tra storia e attualità. La “guerra delle statue” nella rete.

    di Antonio Prampolini

    La “guerra delle statue” è un’espressione ricorrente nei numerosi articoli che, a partire dalla fine del mese di maggio 2020,sono stati pubblicati dalle principali testate della stampa internazionale a commento dei ripetuti episodi di contestazione antirazzista consistenti nell’abbattimento o nella vandalizzazione di monumenti dedicati, sia in America che in Europa, a personaggi giudicati emblemi dello schiavismo, del colonialismo e della discriminazione razziale.

    Articoli che, oltre alla cronaca degli eventi, contengono anche interessanti contributi di approfondimento da parte non solo di editorialisti/opinionisti ma anche di storici.

    Pur trattandosi di “eventi in corso” si è, tuttavia, ritenuto utile e opportuno proporre una sitografia sull’argomento, sia per la loro rilevanza (non solo dal punto di vista sociale e politico, ma anche da quello storico-memorialistico), che per la loro diffusione a livello mondiale. La sitografia (che potrà essere successivamente aggiornata alla luce dello sviluppo degli eventi e di nuove pubblicazioni in rete) accompagna e integra i numerosi articoli che Historia Ludens dedica a questo argomento.

    La sitografia è suddivisa in tre parti. La prima ha come titolo L’iconoclastia: il fenomeno e le sue manifestazioni; la seconda, I monumenti: definizione e loro valore simbolico e politico; la terza, che costituisce il focus della sitografia, La “guerra delle statue”: la contestazione antirazzista dei monumenti. Nella prima e nella seconda parte vengono segnalate, senza alcuna pretesa di organicità ed esaustività, quelle risorse della rete che possono contribuire a meglio inquadrare dal punto di vista storico e concettuale i recenti eventi di contestazione antirazzista dei monumenti. La terza parte contiene una selezione degli articoli, apparsi sulla stampa italiana e internazionale, che non si limitano ad una semplice cronaca degli eventi ma offrono un commento e un’interpretazione della “guerra delle statue”, intesa sia come fenomeno globale che locale, con le sue specificità nelle differenti realtà nazionali.

    Nelle sezioni in cui si articola la sitografia per argomenti, gli articoli segnalati (diversamente dalle voci enciclopediche) sono elencati in ordine cronologico di pubblicazione.

    La sitografia è completata da un indice in ordine alfabetico degli autori.

    Tutti gli articoli erano consultabili in rete alla data del 23/09/2020.

    1. L'iconoclastia: il fenomeno e le sue manifestazioni

    1.1 Voci enciclopediche

    ICONOCLASTIA TRA STORIA E ATTUALITA IMMAGINE 1Costantino V, imperatore bizantino (718-775) ordina la distruzione delle icone (miniatura del XIV Secolo); fonte: http://wwwbisanzioit.blogspot.com/2012/10/l-iconoclastia.html

    Il portale della Treccani permette di accedere alla voce Iconoclastia dell’Enciclopedia Italiana. La voce, che porta la firma di Angelo Pernice, studioso di storia bizantina edell’Oriente mediterraneo, è stata pubblicata nella prima edizione dell’enciclopedia (Vol.18: Gu-Inde, 1933) ed è dedicata al movimento contro l’uso e il culto delle immagini sacre che aveva agitato l’Impero bizantino e la Chiesa nei secoli VIII e IX dividendo i fedeli in due partiti avversi: quello dei fautori (iconoduli) e quello dei nemici delle immagini (iconoclasti).

    Sempre dal portale è possibile consultare la voce Iconoclastia dell’Enciclopedia dell'Arte Medievale (1996). Autore della voce è lo storico dell’arte Herbert Leon Kessler.Voce collegata:Icona (J. Lafontaine-Dosogne).

     Nell’Encyclopédie Larousse troviamo la voce redazionale Iconoclasme. La voce è suddivisa in tre capitoli: 1. Les origines de l’iconoclsme byzantin; 2. Le premiericonoclasme, 730-787(Les débuts de l’iconoclasme sous le règne de Léon III, La politique iconoclaste de Constantin V, Le rétablissement du culte des images, 787-814); 3. Le second iconoclasme, 814-843 (Introduction, La résurgence iconoclaste,  Les nouvelles conceptions iconodoules, Le rétablissement de l'orthodoxie, 843).

    Voci collegate:Empire byzantin;Icône;Orthodoxie.

      

    L’Encyclopedia.com (sito in lingua inglese che aggrega informazioni tratte da fonti enciclopediche, dizionari e da altre opere di reference) ospita la voceIconoclasm della studiosa americana di storia e cultura delle religioni Diane Apostolos-Cappadona. Indice della voce: Iconoclasm: An Overview; General Perceptions of Iconoclasm; Prejudices about iconoclasm; Process of defining iconoclasm; Cultural permutations; Eastern permutations of iconoclasm; Western permutations of iconoclasm; Further Considerations for the Study of Iconoclasm; Bibliography.

    Voci collegate:Visual Culture And Religion: An Overview;Artand Religion;Images: Veneration Of Images;Images: Images, Icons, And Idols;Images, Veneration Of;Aesthetics: Visual Aesthetics.

    ► La voceIconoclasm scritta dal bizantinista Adrian Fortescue e pubblicata nel 1910 sulla Catholic Encyclopedia. Indice: The first Iconoclast persecution; The second general council (Nicæa II, 787); The second Iconoclast persecution; Iconoclasm in the west.

    Su Wikipedia segnaliamo le voci:Iconoclastia dell’edizione in lingua italiana dell’enciclopedia online,Iconoclasm dell’edizione in lingua inglese,Iconoclasme dell’edizione in lingua francese,Politischer Ikonoklasmus dell’edizione in lingua tedesca.

    1.2 Articoli, Saggi e Approfondimenti

    ICONOCLASTIA TRA STORIA E ATTUALITA IMMAGINE 2L’abbattimento della “Colonne Vendôme”, durante la Comune di Parigi (16 maggio 1871); fonte: https://raspou.team/1871/destrction-de-la-colonne-vendome/

    Lo statuto dell’immagine tra icona e simulacro di Giuseppe Patella, in«Kainós», rivista telematica di critica filosofica (n.1 - 2001). Indice: 1. Il Bilderstreit; Nicea e il diritto all’immagine; 3. Porta dell’invisibile: l’icona; 4. L’immagine tecnica: il simulacro.

    L’iconoclasme: I. Entre archaïsme et modernité, II. De la révolution au symbole,III.Une forme d’idolâtrie?, IV. Prudence des Réformateurs, V. Iconoclasme et art contemporain, cinque articoli di Jérome Cottin pubblicati sulla rivista «Réforme», n°2965-2970 (février-mars 2002).

    "Destroy the icons"!Zur Renaissance des politischen Ikonoklasmus di AndreasMertin, in «Magazin für Theologie und Ästhetik», 23/2003.

    La disputa iconoclasta. Indagine sulle ragioni di Francesco Arduini, in«InStoria», n.4 – Aprile 2008 (XXXV).Indice: Le origini della disputa; Gli sviluppi; Le dispute teologiche; Il trionfo della inconodulia; Conclusione.

    L’iconoclasme politique au XIXe siècle : la dépacification des signes (1814-1871) di Emmanuel Fureix, relazione presentata al 10° Congresso AFSP (Association Française de Science Politique), Grenoble, 7-9 settembre 2009. Indice della relazione: I- Persistance de l’iconoclasme: des révolutions symboliques; II- Dépacification, violence et sacré; III- Des gestes en situation: souveraineté et lien politique.

    Violence against Art: Iconoclasms Past and Present,presentazione in forma di slide sul tema pubblicata nella piattaforma SlideShare, 14/10/2011.

    Iconoclastia. Il fanatismo politico che si nasconde dietro la furia teologica di Silvia Ronchey, in«la Repubblica», 28/02/2015.

    Survivance de l’image. Notes sur les limites de l’iconoclasme en Islam, di Lamia Balafrej, in«Histoire de l’Art», n. 77, 2015/2.

    Iconoclasme en Jihadie. Une réflexion sur les violences et destructions culturelles de l’état islamiquedi Olivier Moos, in «Études et Analyses», n° 35 – Décembre 2015. Indice: Introduction; Meurtre sacrificiel, vandalisme culturel et fabrique d’une  identité; Les Bouddhas de Bamyan; C’est l’antique qu’on décapite; Un territoire que  l’on exorcise.

    L’iconoclasme, un objet d’histoire politique? Souveraineté et recharge révolutionnaire, 1830-1831 diEmmanuel Fureix, in «Raison publique», 2017/1 (N°21). Indice: Les signes politiques dans une société postrévolutionnaire; Mimesis révolutionnaire? (Paris, juillet 1830); Révolutions et contre-révolutions symboliques (Province, été-automne 1830); Recharge iconoclaste et neutralisation de l’espace public (printemps-automne 1831).

    Regulative Autorität und Ikonoklasmus beim Islamischen Staat di Tom Bioly e Christoph Günther in «Totalitarismus und Demokratie», 14 (2017). Indice: I. Einleitung; II. Der Islamische Staat; III. Ikonoklasmus in der allgemeinen und islamischen Religionsgeschichte; IV. Die ikonoklastischen Aktionen des Islamischen Staates; V. Zusammenfassung.

    Une brève histoire de l'iconoclasme di Jean-Paul Demoule, in «Sciences et Avenir», 17/06/2020. Indice: Des diverses formes d’iconoclasme; L’iconoclasme politique; Les trois aspects du débat.

    Neo-Totalitarianism and the Erasure of History di Benjamin Kerstein, in «Quillette», 26/06/2020.

    You Say You Want a Revolution? di Andrew Sullivan, in «Intelligencer», 26/06/2020.

     2. I monumenti: definizione e loro valore simbolico e politico

    2.1 Voci enciclopediche

    ICONOCLASTIA TRA STORIA E ATTUALITA IMMAGINE 3Statua della Libertà – Baia di New York, inaugurata il 28 ottobre 1886; fonte: https://newyorkwordpresscom.wordpress.com/2015/10/28/la-statua-della-liberta-storia-e-curiosita/

    ► Nell’Enciclopedia Italiana troviamo la voceMonumento scritta da Gustavo Giovannoni, architetto e storico dell’arte medievale e moderna, e pubblicata nella prima edizione dell’opera (Vol. 23: Messie-Ms, 1934). XXI Secolo (sempre della Treccani) ospita la voceIl culto dei monumenti (2010) dell’urbanista e storico dell’architettura Claudio Varagnoli. Della voce enciclopedica segnaliamo in particolare il capitolo dedicato alle Distruzioni e ricostruzioni.

    ► La voce redazionaleMonument dell’Encyclopédie Larousse,che tratta brevemente della tutela del patrimonio artistico in Francia, fa parte di un più ampio dossier dedicato alPatrimoine. Tra le voci del dossier:Patrimoine;Art Populaire;Musée.

    ► La Encyclopaedia Britannica non contiene una voce specifica dedicata ai monumenti. Sull’argomentoMonument (Memorial) rinvia a capitoli di altre voci collegate.

    L’Encyclopedia.com (sito in lingua inglese che aggrega informazioni tratte da fonti enciclopediche, dizionari e da altre opere di reference) pubblica online la voceMemorials And Monuments scritta dalla storica dell’arte Harriet F. Senie.

    ► In Wikipedia, le voci:Monument (Etymology, Creation and functions, Protection and preservation, Examples of notable monuments),Removal of Confederate monuments and memorials (Academic commentary, History of removals, Removed monuments and memorials),List of monument and memorial controversies in the United States,List of monuments and memorials removed during the George Floyd protests, Actions against memorials in the United Kingdom during the George Floyd protests dell’edizione in lingua inglese dell’enciclopedia online;Monument (Usages du terme «monument», La notion de «monument historique», Typologie) eMonument historiqueenFrance (Histoire, Répartition historique et statistiques, Institutions relatives aux monuments historiques, Procédure de classement ou d'inscription)dell’edizione in lingua francese.

    2.2 Articoli, Saggi e Approfondimenti

    ICONOCLASTIA TRA STORIA E ATTUALITA IMMAGINE 4Il Vittoriano (1911) – Altare della Patria (1921); fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_Vittoriano#/media/File:Piazza_Venezia_-_Il_Vittoriano.jpg

    Mémoire et monuments - Dossier pédagogique, Musée royal de l’Armée et d’Histoire militaire

    Das Denkmal zwischen Originalsubstanz und immateriellen Werten. Ein Vorschlag f¸r die Praktische Denkmalpflege  di Eckart Rüsch, 16.11.2002

    Police des signes, ordre et désordre urbains en temps de crise (1814-1816) di  Emmanuel Fureix, in«Histoire urbaine» 2015/2 (n°43).

    Memorie di guerra. I monumenti ai caduti della prima guerra mondiale di Paolo Sacchini, in «Novecento.org», n. 7, febbraio 2017.

    La memoria contro-monumentale di Horst Hoheisel di Edoardo Trisciuzzi, in «arte e oltre / art and beyond» (rivista trimestrale di arte contemporanea), numero 17, anno V, del 20/01/2018.

    Monuments and Memorials in Changing Societies: A Semiotic and Geographical Approach di Federico Bellentani, in«SemiotiX» (A global information magazine), 2018.

    Pour une approche sémiotique des monuments et des mémoriaux di Federico Bellentani e Mario Panico, in «Revue d’exploration sémiotique», n.6, 2018.

    Das Denkmal zum Gedenken errichtet di Von Ana Rios, Planet Wissen,26/09/2018.

    Jacqueline Lalouette,Un peuple de statues. La célébration sculptée des grands hommes (1804-2018) di Emmanuel Fureix, in «Revue d’histoire du XIXe siècle», 2019/2 (n°59).

    Suggestioni della memoria e riflessioni storiografiche di Paolo Sorcinelli, in«Storia e Futuro», n. 52, Aprile 2020.

    Monumenti e movimenti nella Storia di Alessandro Portelli, in «Il Manifesto», 16/06/2020.

    Il passato non si scrive una volta sola diAugusto Illuminati e Mariateresa Curcio, in «Dinamo Press», 16/06/2020.

    Non dobbiamo giustificare gli abbattimenti dei monumenti controversi. Ci sono altre soluzioni di Federico Giannini, in«Finestre sull’Arte», 12/06/2020.

    What Statues Really Mean(It’s not hard to tell the difference between a monument to George Washington and a monument to a Confederate general) di Yevgeny Simkin, in «The Bulwark», 09/07/2020.

    3. La "guerra delle statue": la contestazione antirazzista dei monumenti

    3.1 Riflessioni sul fenomeno

    Furia iconoclasta di Riccardo Venturi, in «Doppiozero», 11/10/2017.

    Anche le statue muoiono, di Riccardo Venturi in «Doppiozero», 18/10/2017.

    Abolition de l’esclavage: rendre àVictor Schœlcher ce qui lui revient di Myriam Cottias, in «Libération», 26/05/2020.

    Déboulonné, ce passé que je ne saurais voir! di Silyane Larcher,  <blogs.mediapart.fr> 31/05/2020.

    History vs. Memory: Statues of Stonewall Offer a Lesson di Chris Mackowski, in «Emerging Civil War», giugno 2020

    Antiracisme: pourquoi s'en prendre aux statues est un acte hautement politique, intervista a Emmanuel Fureix di Mathieu Dejean, 09/06/2020.

    Ces statues qui font l’actu:Victor Schœlcher en Martinique di Christiane Chaulet, in «Diacritik», 10/06/2020.

    Statue abbattute e revisione storica di Franco Cardini, in «Avvenire», 11/06/2020.

    La distruzione delle statue: dai «moretti» a Otello il fanatismo che azzera la Storia di Pierluigi Battista, in «Corriere della Sera», 11/06/2020.

    Des statues occidentales dans le collimateur di JoSeseSeko, <joseseseko.overblog.com>, 11/06/2020.

    Le statue della vergogna Celebrano il passato, ipotecando il presente di Alessandro Portelli, in «Il Manifesto», 12/06/2020.

    Altre statue cadranno (perdonate il disordine)di Riccardo Venturi, in «Doppiozero», 12/06/2020.

    Perché vengono abbattute le statue di Cristoforo Colombo, <ilpost.it>, 12/06/2020.

    Ancora un’altra guerra delle statue di Anna Mastromarino, in «la Costituzione.info», 14/06/2020.

    Il trionfo dell’iconoclastia antirazzista di Giuditta Giardini, «Sole 24 Ore», 15/06/2020.

    Hol den Vorschlaghammer! di Hedwig Richter, in «Spiegel Geschichte», 15/06/2020.

    Vandalisme et déboulonnage de statues mémorielles: l’histoire à l’épreuve de la rue di Erick Cakpo, in «The Conversation», 15/06/2020.

    Déboulonnage de statues: «La Révolution française avait ouvert la boîte de Pandore» di Loris Chavanette, in «Le Figaro», 17/06/2020.

    Denkmäler zu entfernen bedeutet nicht, Geschichte umzuschreiben di Markus Mack, <ze.tt>, 17/06/2020.

    Le statue non si abbattono. Ci aiutano a capire il mondo, intervista ad Alessandro Barbero di Daniela Ranieri, in «il Fatto Quotidiano», 19/06/2020.

    Faire disparaître des statues historiques est une erreur monumentale di Ryan Moffatt, in «The Epoch Times», 23/06/2020.

    Le statue controverse: in piazza o nei musei? di Tomaso Montanari, <volerelaluna.it>, 23/06/2020.

    Tearing Down Statues Doesn’t Erase History, It Makes Us See It More Clearly di Enzo Traverso, in «Jacobin», 24/06/2020.

    Le vandalisme des statues, expression d'une quête de pureté illusoire, «Vatican News», 25/06/2020.

    How India’s Most Downtrodden Embraced the Power of Statues di Shruti Rajagopalan, in «BloombergQuint», 09/07/2020.

    3.2 Gli eventi nel mondo

    ICONOCLASTIA TRA STORIA E ATTUALITA IMMAGINE 5La statua dell'abolizionista Victor Schoelcher abbattuta a Fort de France (Martinica) il 22 maggio 2020. fonte: https://antilla-martinique.com/deux-statues-de-victor-schoelcher-detruites-le-22-mai-jour-de-la-commemoration-de-labolition-de-lesclavage-en-martinique/

    Russia Wants Bulgarians to Stop Painting Soviet Monuments To Look Like American Superheroes, <earthlymission.com>, October 2017.

    Cosa fare con le tracce scomode del nostro passato di Igiaba Scego, in «Internazionale», 09/06/2020.

    Le statue indesiderabili abbattute dopo l’omicidio di George Floyd di Pierre Haski, in «Internazionale», 9/06/2020.

    Gare au déboulonnage mondial?di Mathilde Serrell, in «France Culture», 09/06/2020.

    Abattre le racisme en faisant tomber des statuesdiMaxime Tellier, di Maxime Tellier, in «France Culture», 10/06/2020.

    Léopold II, Christophe Colomb: Ces statues qu’on renverse…, rassegna stampa internazionale «Le Monde d’Antigone», 12/06/2020.

    Far-Right Groups Push Back as Protesters Rally in Europe di Iliana Magra, Elian Peltier and Constant Méheut, in «The New York Times», 13/06/2020.

    Dispute over colonial monuments, rassegna stampa internazionale «EuroTopics». 25/06/2020.

    3.3 in America (USA)

    ICONOCLASTIA TRA STORIA E ATTUALITA IMMAGINE 6statua di Cristoforo Colombo abbattuta a St Paul in Minnesota (11 giugno 2020); fonte: https://tg24.sky.it/mondo/2020/06/11/george-floyd-statua-cristoforo-colombo-saint-paul#00

    Political Idolatry and Iconoclasm.Statuary and memorials are never permanent di Crispin Sartwell, in «Splice Today», 21/08/2017.

    L’iconoclastia soft degli anti-Trump diArianna Casarini, in «The Bottom Up», 23/08/2017.

    Tear Down the Confederate Monuments—But What Next? 12 Art Historians and Scholars on the Way Forward, Artnet News, 23/08/2017.

    La “guerra delle statue” in USA di Valentina Colombi,Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 11/09/2017.

    Costruire, non distruggere di Maurizio Vaudagna, in «Il Mulino», 10/11/2017.

    Quando il passato non passa. La “guerra delle statue” e la memoria pubblica di Valentina Colombi,Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 31/08/2018.

    The Bust of Grant and the Indiscriminate Destruction of Monuments di Chris Mackowski, in «Emerging Civil War», giugno 2020.

    Non sono monumenti storici, ma politici di Gianni Riotta in <huffingtonpost.it>, 15/06/2020.

    Why the Christopher Columbus statue in Chula Vista must godi Pedro Rios, in «The San Diego Union-Tribune», 18/06/2020.

    We need to do more than topple (some) statues di Massimo Faggioli, in America (The Jesuit Review), 22/06/2020.

    Civil War Statues Should Be Removed”(Ken Burns vs Donald Trump) di Tom Tapp, in <deadline.com>, 23/06/2020.

    Goodbye Roosevelt. Vita e morte di una statua di Riccardo Venturi in «Doppiozero», 05/07/2020.

    Who Tore Down This Frederick Douglass Statue? di Michael Gold, in «The New York Times», 07/07/2020.

    In St. Louis, History and Nostalgia Battle It Out di Matthew Gabriele and David Perry, in «SmithsonianMag.com», 09/07/2020.

    Pelosi on Baltimore's Columbus statue: 'If the community doesn't want the statue, the statue shouldn't be there'di Kaelan Deese, in «MSN News», 10/07/2020.

     3.4 in Belgio

    ICONOCLASTIA TRA STORIA E ATTUALITA IMMAGINE 7la statua di Leopoldo II re dei belgi a Bruxelles con i segni delle recenti contestazioni (giugno 2020); fonte: https://www.ancorafischiailvento.org/2020/07/21/anche-in-belgio-si-ricordano-del-serial-killer-leopoldo-ii/

    Carte blanche: «Dix idées reçues sur la colonisation belge» di Amandine Lauro, in «Le Soir», 08/03/2019.

    Statue of Leopold II, Belgian King Who Brutalized Congo, Is Removed in Antwerp di Monika Pronczuk and Mihir Zaveri, in «The New York Times», 09/06/2020.

    Belgium forced to reckon with Léopold's legacy and its colonial pastdi Jennifer Rankin, in «The Guardian», 12/06/2020.

    3.4 in Francia

    Colonisation, esclavage: faut-il déboulonner nos statues? di Xavier Frere, in «L’Alsace», 10/06/2020.

    Racisme, esclavage: quelles statues posent problème en France?, <huffingtonpost.fr>, 12/06/2020.

    De De Gaulle à Traoré: quelle République? di Karine Bechet-Golovko in «Comité Valmy», 18/06/2020.

    Requiem pour des statues ? di Emmanuel Fureix, in «Politis», 24/06/2020.

    3.6 in Germania

    Rassismusdebatte: Wie deutsche Städte mit ihren Kolonialdenkmälern umgehen diMatthias Schwarzer, in «RND», 12/06/2020.

    Diskussion um rassistische Denkmäler und Statuen di Vanessa Wohlrath,in «NDR», 17/06/2020

    Was tun mit dem Kolonialerbe in Hamburg?, NDR info, 17/06/2020.

    Umstrittene Denkmäler – auch in Deutschland ein Problem? di Marc Zimme, in «MDR Aktuell», 20/06/2020.

    3.7 in Inghilterra

    ICONOCLASTIA TRA STORIA E ATTUALITA IMMAGINE 8A Bristol (UK) la folla abbatte la statua di Edward Colston, trafficante di schiavi inglese del XVII Secolo (8 giugno 2020). fonte: https://nationalpost.com/news/world/u-k-protesters-tear-down-17th-century-slave-trader-statue-and-toss-it-in-bristol-harbour

    British Protesters Throw Statue of Slave Trader Into Bristol Harbor di Nora McGreevy, in «Smithsonian Magazine», 10/06/2020.

    Tensions rise over race and heritage as more statues are attacked di Nazia Parveen,Robert Tait,Dan Sabbagh and Vikram Dodd, in «The Guardian», 11/06/2020.

    London monuments boarded up ahead of protests, BBC News, 12/06/2020.

    This iconoclasm is class warfare di Alexander Adams, in «Spiked», 25/06/2020.

    What statues teach us about Britain’s imperial history di Jack Rhoden, in «The Lincolnite», 10/07/2020.

    3.8 in Italia

    ICONOCLASTIA TRA STORIA E ATTUALITA IMMAGINE 9La statua di Indro Montanelli imbrattata a Milano con vernice rossa dagli attivisti di Rete Studenti Milano e LuMe (13 giugno 2020); fonte: https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2020/06/statua-di-indro-montanelli-imbrattata-a-milano-tutte-le-volte-che-la-scultura-ha-creato-dissensi/

    Nessuno tolga Montanelli dai suoi Giardini di Beppe Severgnini, in «Corriere della Sera», 11/06/2020.

    Statua di Indro Montanelli imbrattata a Milano. Tutte le volte che la scultura ha creato dissensidi Desirée Maida, in «Artribune», 14/06/2020.

    Montanelli e la statua della discordia di Alessandra Corica, in «la Repubblica», 15/06/2020.

    Wu Ming 2: Decapitare statue? A volte è sacrosanto, ma l'inventiva è l'arma migliore di Lillo Montalto Monella eLuca Santocchia, in «Euronews»,15/06/2020.

    La statua di Montanelli ci spiega perché l’Italia non è innocente di Francesca Coin,in «Internazionale», 17/06/2020.

    Il busto del generale Baldissera imbrattato al Pincio (Roma) di Arianna Di Cori, in «la Repubblica», 19/06/2020.

    Indro e Karima di Mattia Feltri, in «huffingtonpost.it», 20/06/2020.

    Indice autori

    A

    ► Adams Alexander,This iconoclasm is class warfare, in «Spiked», 25/06/2020.

    Apostolos-Cappadona Diane,Iconoclasm, in «Encyclopedia.com», 2005.

    ► Arduini Francesco, La disputa iconoclasta. Indagine sulle ragioni,in «InStoria», n.4 – Aprile 2008 (XXXV).

    ► Artnet News,Tear Down the Confederate Monuments—But What Next? 12 Art Historians and Scholars on the Way Forward, 23/08/2017.

    B

    Balafrej Lamia,Survivance de l’image. Notes sur les limites de l’iconoclasme en Islam di Lamia Balafrej, in «Histoire de l’Art», n. 77, 2015/2.

    ► Battista Pierluigi,La distruzione delle statue: dai «moretti» a Otello il fanatismo che azzera la Storia, in «Corriere della Sera», 11/06/2020.

    ► BBC News,London monuments boarded up ahead of protests, 12/06/2020.

    ► Bechet-Golovko Karine,De De Gaulle à Traoré: quelle République?, in «Comité Valmy», 18/06/2020.

    ► Bellentani Federico,Monuments and Memorials in Changing Societies: A Semiotic and Geographical Approach, in «SemiotiX» (A global information magazine), 2018.

    ► Bellentani Federico e Panico Mario,Pour une approche sémiotique des monuments et des mémoriaux, in «Revue d’exploration sémiotique», n.6, 2018.

    Bioly Tom e Günther Christoph, Regulative Autorität und Ikonoklasmus beim Islamischen Staat,in «Totalitarismus und Demokratie», 14 (2017).

    C

    ► Cakpo Erick,Vandalisme et déboulonnage de statues mémorielles: l’histoire à l’épreuve de la rue, in «The Conversation», 15/06/2020.

    Cardini Franco,Statue abbattute e revisione storica, in «Avvenire», 11/06/2020.

    Casarini Arianna,L’iconoclastia soft degli anti-Trump, in «The Bottom Up», 23/08/2017.

    ► Catholic Encyclopedia,Iconoclasm (Adrian Fortescue), 1910.

    Chaulet Christiane, Ces statues qui font l’actu:Victor Schœlcher en Martinique, in «Diacritik», 10/06/2020.

    ► Chavanette Loris,Déboulonnage de statues: «La Révolution française avait ouvert la boîte de Pandore», in «Le Figaro», 17/06/2020.

    Coin Francesca,La statua di Montanelli ci spiega perché l’Italia non è innocente, in «Internazionale», 17/06/2020.

    ► Colombi Valentina,La “guerra delle statue” in USA,Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 11/09/2017;Quando il passato non passa. La “guerra delle statue” e la memoria pubblica,Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 31/08/2018.

    ► Corica Alessandra,Montanelli e la statua della discordia, in «la Repubblica», 15/06/2020.

    Cottias Myriam,Abolition de l’esclavage: rendre àVictor Schœlcher ce qui lui revient, in «Libération», 26/05/2020.

    ► Cottin Jérome, L’iconoclasme:I. Entre archaïsme et modernité,II. De la révolution au symbole,  III.Une forme d’idolâtrie?,IV. Prudence des Réformateurs,V. Iconoclasme et art contemporain, in «Réforme», n°2965-2970 (février-mars 2002).

    D

    Deese Kaelan, Pelosi on Baltimore's Columbus statue: 'If the community doesn't want the statue, the statue shouldn't be there', in «MSN News», 10/07/2020.

    ► Dejean Mathieu,Antiracisme: pourquoi s'en prendre aux statues est un acte hautement politique, intervista a Emmanuel Fureix, 09/06/2020.

    Demoule Jean-Paul,Une brève histoire de l'iconoclasme, in «Sciences et Avenir», 06.17.2020.

    ► Di Cori Arianna,Il busto del generale Baldissera imbrattato al Pincio (Roma), in «la Repubblica», 19/06/2020.

    E

    <earthlymission.com>, Russia Wants Bulgarians to Stop Painting Soviet Monuments To Look Like American Superheroes, October 2017.

    Encyclopaedia Britannica,Monument (Memorial). L’enciclopedia non contiene una voce specifica dedicata ai monumenti. Sull’argomento rinvia ai capitoli di altre voci collegate.

    Encyclopedia.com,Iconoclasm (Diane Apostolos-Cappadona), 2005;Visual Culture And Religion: An Overview;Artand Religion;Images: Veneration Of Images;Images: Images, Icons, And Idols;Images, Veneration Of;Aesthetics: Visual Aesthetics;Memorials And Monuments (Harriet F. Senie).

    ► Enciclopedia dell'Arte Medievale,Iconoclastia ( Herbert Leon Kessler), 1996;Icona (J. Lafontaine-Dosogne), 1996.

    ► Enciclopedia Italiana,Iconoclastia(Angelo Pernice), 1933;Monumento (Gustavo Giovannoni), 1934.

    ► Encyclopédie Larousse,Iconoclasme;Empire byzantin;Icône;Orthodoxie;Monument;Patrimoine;Art Populaire;Musée.

    ► EuroTopics,Dispute over colonial monuments, rassegna stampa internazionale, 25/06/2020

    F

    ► Faggioli Massimo,We need to do more than topple (some) statues, in «America» (The Jesuit Review), 22/06/2020.

    ► Feltri Mattia,Indro e Karima, in «huffingtonpost.it», 20/06/2020.

    ► France Culture,Abattre le racisme en faisant tomber des statuesdiMaxime Tellier, in 10/06/2020.

    ► Frere Xavier,Colonisation, esclavage: faut-il déboulonner nos statues?, in «L’Alsace», 10/06/2020.

    Fureix Emmanuel,L’iconoclasme politique au XIXe siècle : la dépacification des signes (1814-1871), relazione presentata al 10° Congresso AFSP(Association Française de Science Politique), Grenoble, 7-9 settembre 2009;Police des signes, ordre et désordre urbains en temps de crise (1814-1816), in «Histoire urbaine» 2015/2 (n°43); L’iconoclasme, un objet d’histoire politique? Souveraineté et recharge révolutionnaire, 1830-1831,in «Raison publique», 2017/1 (N°21); Jacqueline Lalouette,Un peuple de statues. La célébration sculptée des grands hommes (1804-2018), in «Revue d’histoire du XIXe siècle», 2019/2 (n°59);Requiem pour des statues ?, in «Politis», 24/06/2020.

    G

    Gabriele Matthew and Perry David,In St. Louis, History and Nostalgia Battle It Out, in «SmithsonianMag.com», 09/07/2020.

    ► Giannini Federico,Non dobbiamo giustificare gli abbattimenti dei monumenti controversi. Ci sono altre soluzioni, in «Finestre sull’Arte», 12/06/2020.

    Giardini Giuditta,Il trionfo dell’iconoclastia antirazzista, «Sole 24 Ore», 15/06/2020.

    ► Giovannoni Gustavo,Monumento,in «Enciclopedia Italiana», 1934.

    H

    Haski Pierre,Le statue indesiderabili abbattute dopo l’omicidio di George Floyd, in «Internazionale», 9/06/2020.

    ► <huffingtonpost.fr>,Racisme, esclavage: quelles statues posent problème en France?, 12/06/2020.

    I

    Illuminati Augusto e Curcio Mariateresa, Il passato non si scrive una volta sola, in «Dinamo Press», 16/06/2020.

    ►<ilpost.it>,Perché vengono abbattute le statue di Cristoforo Colombo,  12/06/2020.

    J

    ► JoSeseSeko,Des statues occidentales dans le collimateur, <joseseseko.overblog.com>, 11/01/2020.

    K

    ► Kerstein Benjamin,Neo-Totalitarianism and the Erasure of History,in «Quillette», 26/06/2020.

    ► Kessler Herbert Leon,Iconoclastia,in «Enciclopedia dell'Arte Medievale», 1996.

    L

    ► Lafontaine-Dosogne Jacqueline,Icona, in «Enciclopedia dell'Arte Medievale», 1996

    ► Larcher Silyane,Déboulonné, ce passé que je ne saurais voir!,  <blogs.mediapart.fr> 31/05/2020.

    Lauro Amandine, Carte blanche: «Dix idées reçues sur la colonisation belge», in «Le Soir», 8/03/2020.

    ► Le Monde d’Antigone,Léopold II, Christophe Colomb: Ces statues qu’on renverse…, rassegna stampa internazionale, 12/06/2020.

    M

    ► Mack Markus,Denkmäler zu entfernen bedeutet nicht, Geschichte umzuschreiben, <ze.tt> 17/06/2020.

    ► Mackowski Chris,History vs. Memory: Statues of Stonewall Offer a Lesson, in «Emerging Civil War», giugno 2020;The Bust of Grant and the Indiscriminate Destruction of Monuments, in «Emerging Civil War», giugno 2020.

    ► Magra Iliana, Peltier Elian, Méheut Constant,Far-Right Groups Push Back as Protesters Rally in Europe, in «The New York Times», 13/06/2020.

    ► Maida Desirée,Statua di Indro Montanelli imbrattata a Milano. Tutte le volte che la scultura ha creato dissensi, in «Artribune», 14/06/2020.

    Mastromarino Anna, Ancora un’altra guerra delle statue, in «la Costituzione.info», 14/06/2020.

    ► McGreevy Nora,British Protesters Throw Statue of Slave Trader Into Bristol Harbor, in «Smithsonian Magazine», 10/06/2020.

    ► Mertin Andreas,"Destroy the icons"!Zur Renaissance des politischen Ikonoklasmus, in «Magazin für Theologie und Ästhetik», 23/2003.

    ► Moffatt Ryan,Faire disparaître des statues historiques est une erreur monumentale, in «The Epoch Times», 23/06/2020.

    ► Montalto Monella Lillo e Santocchia Luca, Wu Ming 2: Decapitare statue? A volte è sacrosanto, ma l'inventiva è l'arma migliore, in «Euronews»,15/06/2020.

    ► Montanari Tomaso,Le statue controverse: in piazza o nei musei?, <volerelaluna.it>, 23/06/2020.

    ► Moos Olivier,Iconoclasme en Jihadie. Une réflexion sur les violences et destructions culturelles de l’état islamique, in «Études et Analyses», n° 35 – Décembre 2015.

    ► Musée royal de l’Armée et d’Histoire militaire,Mémoire et monuments - Dossier pédagogique.

    N

    ► NDR info,Was tun mit dem Kolonialerbe in Hamburg?, 17/06/2020.

    P

    ► Parveen Nazia, Tait Robert, Sabbagh Dan, Dodd Vikram,Tensions rise over race and heritage as more statues are attacked, in «The Guardian», 11/06/2020.

    ► Patella Giuseppe, Lo statuto dell’immagine tra icona e simulacro, in «Kainós», rivista telematica di critica filosofica.

    ► Pernice Angelo,Iconoclastia, in «Enciclopedia Italiana», 1933.

    ► Portelli Alessandro,Monumenti e movimenti nella Storia, in «Il Manifesto», 16/06/2020;Le statue della vergogna Celebrano il passato, ipotecando il presente, in «Il Manifesto», 12/06/2020.

    ► Press Association,Controversial statues could go as councils pledge reviews amid anti-racism demos, in «Evening Express», 10/06/2020.

    ► Pronczuk Monika and Zaveri Mihir,Statue of Leopold II, Belgian King Who Brutalized Congo, Is Removed in Antwerp, in «The New York Times», 09/06/2020.

    R

    Rajagopalan Shruti,How India’s Most Downtrodden Embraced the Power of Statues, in «BloombergQuint», 09/07/2020.

    ► Ranieri Daniela,Le statue non si abbattono. Ci aiutano a capire il mondo, intervista ad Alessandro Barbero, in «il Fatto Quotidiano», 19/06/2020.

    ► Rankin Jennifer,Belgium forced to reckon with Léopold's legacy and its colonial past, in «The Guardian», 12/06/2020.

    Rhoden Jack, What statues teach us about Britain’s imperial history, in «The Lincolnite», 10/07/2020.

    ► Richter Hedwig,Hol den Vorschlaghammer!, in «Spiegel Geschichte», 15/06/2020.

    ► Rios Pedro,Why the Christopher Columbus statue in Chula Vista must go, in «The San Diego Union-Tribune», 18/06/2020.

    ► Rios Von Ana,Das Denkmal zum Gedenken errichtet, Planet Wissen 26/09/2018.

    ► Riotta Gianni,Non sono monumenti storici, ma politici, in <huffingtonpost.it>, 15/06/2020.

    ► Ronchey Silvia,Iconoclastia. Il fanatismo politico che si nasconde dietro la furia teologica, in «la Repubblica», 28/02/2015.

    Rüsch Eckart,Das Denkmal zwischen Originalsubstanz und immateriellen Werten. Ein Vorschlag f¸r die Praktische Denkmalpflege, 16.11.2002.

    S

    ► Sacchini Paolo,Memorie di guerra. I monumenti ai caduti della prima guerra mondiale, in «Novecento.org», n. 7, febbraio 2017.

    ► Sartwell Crispin,Political Idolatry and Iconoclasm.Statuary and memorials are never permanent, in «Splice Today», 21/08/2017.

    ► Scego Igiaba,Cosa fare con le tracce scomode del nostro passato, in «Internazionale», 09/06/2020.

    Schwarzer Matthias, Rassismusdebatte: Wie deutsche Städte mit ihren Kolonialdenkmälern umgehen, in «RND», 12/06/2020.

    ► Senie Harriet F.Memorials And Monuments, in «Encyclopedia.com».

    Serrell Mathilde, Gare au déboulonnage mondial?, in «France Culture», 09/06/2020.

    ► Severgnini Beppe,Nessuno tolga Montanelli dai suoi Giardini, in «Corriere della Sera», 11/06/2020.

    Simkin Yevgeny, What Statues Really Mean (It’s not hard to tell the difference between a monument to George Washington and a monument to a Confederate general), in «TheBulwark», 09/07/2020.

    ► SlideShare,Violence against Art: Iconoclasms Past and Present, presentazione in forma di slide sul tema pubblicata nella piattaforma SlideShare, 14/10/2011.

    ► Sorcinelli Paolo,Suggestioni della memoria e riflessioni storiografiche,in «Storia e Futuro», n. 52, Aprile 2020.

    ► Sullivan Andrew,You Say You Want a Revolution?, in «Intelligencer», 26/06/2020.

    T

    ► Tapp Tom,Civil War Statues Should Be Removed”(Ken Burns vs Donald Trump), in <deadline.com>, 23/06/2020.

    ► Tellier Maxime,Abattre le racisme en faisant tomber des statuesdiMaxime Tellier, in «France Culture», 10/06/2020.

    ► Traverso Enzo,Tearing Down Statues Doesn’t Erase History, It Makes Us See It More Clearly, in «Jacobin», 24/06/2020.

    ► Trisciuzzi Edoardo,La memoria contro-monumentale di Horst Hoheisel, in «arte e oltre / art and beyond» (rivista trimestrale di arte contemporanea), numero 17, anno V, del 20/01/2018.

    V

    ► Varagnoli Claudio,Il culto dei monumenti, in «XXI Secolo», Treccani, 2010.

    ► Vatican NewsLe vandalisme des statues, expression d'une quête de pureté illusoire, 25/06/2020.

    ► Vaudagna Maurizio,Costruire, non distruggere, in «Il Mulino», 10/11/2017.

    ► Venturi Riccardo,Furia iconoclasta, in «Doppiozero», 11/10/2017;Anche le statue muoiono, in «Doppiozero», 18/10/2017;Altre statue cadranno (perdonate il disordine), in «Doppiozero», 12/06/2020;Goodbye Roosevelt. Vita e morte di una statua, in «Doppiozero», 05/07/2020.

    W

    ► Wikipedia,Iconoclastia;Iconoclasm;Iconoclasme;Politischer Ikonoklasmus;Monument;Removal of Confederate monuments and memorials;List of monument and memorial controversies in the United States;List of monuments and memorials removed during the George Floyd protests;Monument;Monument historiqueen France.

    Wohlrath Vanessa,Diskussion um rassistische Denkmäler und Statuen, in «NDR», 17/06/2020.

    X

    ► XXI Secolo,Il culto dei monumenti (Claudio Varagnoli), Treccani, 2010.

    Z

    ► Zimme Marc,Umstrittene Denkmäler – auch in Deutschland ein Problem?, in «MDR Aktuell», 20/06/2020.

  • La celebrazione e la rimozione. La mostra itinerante per i 100 anni dell’Aeronautica Militare Italiana

    di Antonio De Mario

    01Fig.1: Piloti e specialisti in forza all’Aeronautica Nazionale Repubblicana.Documenti che parlano chiaro

     

     Contro orde barbare pronte compiere ogni orrore quali quelle che avanzano, ritengo non debba essere risparmiata alcuna arma. Chiedo pertanto massima libertà azione per impiego gas asfissianti (…)

     

    Così recita il testo di un telegramma cifrato, il n.375 del 15 dicembre 1935, a firma del generale Rodolfo Graziani, comandante delle armate italiane in Somalia impegnate dell’attacco all’Abissinia, regione dell’Impero di Etiopia. Fra i destinatari, Pietro Badoglio, capo delle operazioni su quel fronte. Ma, come è noto dalla documentazione d’archivio disponibile, quella libertà d’azione venne autorizzata direttamente dal Capo del Governo in persona che, con telegramma 14551 A 1475, datato 12 gennaio 1936, scrisse a Graziani “Sta bene impiego gas nel caso V.E. lo ritenga necessario per supreme ragioni difesa”.

    Poco dopo, lo stesso Graziani avvisò il generale Mario Bernasconi, comandante della Brigata aerea mista in Somalia, che si stava preparando a

     

    ricacciare verso nord l’armata di Ras Destà (…) con azione che dovrà avere esito definitivo e risolutivo. Pertanto, come già verbalmente accennato a vossia, occorre che il concorso dell’aviazione sia portato al massimo della possibilità dei mezzi. Le ultime azioni compiute    hanno dimostrato quanto sia efficace l’impiego dei gas (…).1

     

    La mostra del Centenario

    A cento anni dalla sua fondazione nel 1924, l’Arma aerea d’Italia allestisce una mostra fotografica destinata a essere esposta in diverse città italiane da Roma a Firenze, Bari passando per Milano, Ferrara, Viterbo fino a Lecce, tra marzo e dicembre del 2023, nell’ambito di un ricco programma celebrativo. A Bari la mostra è stata ospitata nelle sale del Palazzo della Provincia, sul lungomare Nazario Sauro

    Alcuni pannelli, con piccoli corredi fotografici e brevi didascalie, schematizzano le tappe principali di una vicenda profondamente legata a un secolo segnato da eventi bellici di immane intensità e tutti tragicamente incistati – a vario titolo - nel nostro immaginario popolare e nazionale. Ma invano cercheremo, tra i documenti d’epoca e i preziosi cimeli esposti, qualche traccia dei documenti appena visti. Cosicché, la celebrazione sembra far rima con rimozione, a spulciare con occhio analitico fra le didascalie, redatte dai curatori della mostra, vagliate e supervisionate dall’Ufficio storico dell’Aeronautica Militare Italiana. Questa struttura, vale la pena notarlo, è quanto mai rilevante in ciascuna delle Armi italiane, corpi e specialità, perché è il vero custode delle tradizioni e dell’identità, della loro corporate reputation. Lo provano le numerose e prestigiose pubblicazioni che da questi enti promanano. Fonti sempre, giustamente, tenute in gran conto dagli storici militari.

     

    02Fig.2: Modello di bomba da lancio caricata a gas Yprite in uso durante la campagna di Etiopia del 1936.L'Etiopia, i bombardamenti, il gas.

    Sulle didascalie che accompagnano il corredo fotostorico della mostra si condensa l’attenzione del visitatore e qui si concentra un forte sapore di rimozione, soprattutto in riferimento a quelle dedicate ad anni cruciali, per l’Italia e per l’evoluzione della Regia Aeronautica.2

    Eccone una.

     

    Etiopia 1936. Quella etiope si dimostra da subito una campagna impegnativa: i reparti della Regia Aeronautica si prodigano in ricognizioni, trasporti, rifornimenti, bombardamenti in uno scenario complesso per le difficoltà ambientali e per la  vastità del territorio. La cooperazione con le truppe di terra viene sviluppata al massimo grado, ma questa lezione non sarà poi tradotta in atto nel secondo conflitto mondiale.

     

     Tutto qui.

     

     

    03Fig.3: Piloti e meccanici in posa con bomba caricata a gas tossico, durante la Campagna d’Etiopia 1936.Ricognizioni, trasporti, cooperazione con le truppe di terra: il freddo e asettico linguaggio militare e neppure il minimo accenno al fatto che fu una guerra di aggressione a una nazione indipendente che vide il ricorso a strumenti bellici espressamente vietati dalle Convenzioni internazionali come i gas asfissianti. Circa 30 tonnellate di aggressivi chimici proibiti furono complessivamente lanciate dagli apparecchi italiani nel corso di tutta la campagna, con effetti atroci non solo sulle bande combattenti ma anche sulle martoriate popolazioni civili. Che altre potenze coloniali nella stessa epoca vi abbiano fatto ricorso, salvo poi celare tutto sotto la coltre del segreto militare, non riduce la gravità dell’azione italiana.3

    Si dirà che non è una mostra celebrativa il luogo per articolate analisi storiografiche. Vero. Ma appare eccessivo ridurre quella feroce invasione a una “campagna impegnativa”. E affidare l’unico accenno critico a una “lezione che non sarà poi tradotta in atto nel secondo conflitto mondiale” pare davvero una scelta fuorviante. Inoltre, quale lezione tattica o strategica si potesse ricavare attaccando una nazione totalmente priva di una propria aviazione o di qualsivoglia difesa antiaerea degna di questo nome è davvero difficile comprendere, pur restando nell’ambito del mero dibattito storico-militare.

     

    La Spagna e gli aviatori che vennero travestiti

     

    Spagna 1936. La Spagna è un importante banco di prova per velivoli ed equipaggi che vengono inizialmente inquadrati nel “Servicio del Aviacion del Tercio”, poi Aviazione Legionaria. Purtroppo non tutte le lezioni apprese saranno adeguatamente sviluppate.4

     

    Anche in questa didascalia nessuno può pretendere l’apertura di una riflessione approfondita di politica militare. Tuttavia, andrebbe notato che in quell’occasione il governo italiano impiegò quote notevoli della forza aerea nazionale, con aviatori travestiti da “volontari” con abiti civili e documenti falsi, spedite a rinforzo del generale Francisco Franco, intento a rovesciare il legittimo governo della Repubblica di Spagna nel 1936. Cosa ci sia stato di così glorioso nell’arrivare a organizzare addirittura un finto atto di vendita di velivoli a un giornalista monarchico iberico, tale Luis Bolìn, e a far arruolare militari italiani nella Legione straniera spagnola, nota come Tercio de extranjeros, è davvero faticoso da comprendere.

    Forse andava fatto notare che, a leggere le cronache del tempo, l’adesione al franchismo fu entusiastica, a partire dal generale Giuseppe Valle, nella doppia veste di Sottosegretario al Ministero della Regia Aeronautica e Capo di Stato Maggiore della medesima, che non esitò a prendere egli stesso i comandi di uno dei primi dodici trimotori S.81, inviati in fretta e furia alle Baleari per trasportare le truppe ribelli franchiste sul suolo iberico.

    Se, dunque, teniamo presenti i fatti ricordati da questi pannelli, il tema, ricorrente nella mostra, delle “lezioni apprese e non adeguatamente sviluppate” suggerirebbe domande imbarazzanti: che cosa non ha ben sviluppato l’Italia? Il modo di fare dei colpi di stato? Come travestire i propri militari o bombardare delle città indifese?

     

    Il topos dell'"unanime ammirazione"

    In un altro pannello si cita lo scrittore Guido Mattioli:

     

    L’opera degli aviatori e dell’Aviazione italiana in Spagna, cioè dell’Aviazione Legionaria, ha già riscosso la unanime ammirazione del mondo e perfino quella dei suoi avversari.

     

    Nel leggerlo pare di udire la voce inconfondibile di Guido Notari, giornalista in forza all’Eiar e all’Istituto Luce. Il Conte Guido Mattioli Belmonte Cima, raccontano le cronache biografiche, fu un provetto pilota, eroe decorato nella Grande Guerra, “il Conte che amava volare”. Negli anni Venti diresse la nota rivista “L’aviazione”. Nel ventennio, poi, fu anche podestà di Rimini, fra il 1933 e il 1939, e durante quel periodo, nel 1938 realizzò e inaugurò l’aeroporto di Miramare.

    Quanto all’unanime ammirazione, davvero non si sa di cosa si parli: per il bombardamento di Guernica? Forse no: l’Italia vi partecipò con tre soli apparecchi Savoia Marchetti S.79. La parte più rilevante di quel modello di bombardamento terroristico di una città priva di difesa nonché di rilevanza militare, fu svolta da diciotto apparecchi Ju.52 che, con 22 tonnellate di bombe, in parte incendiarie, rasero al suolo la cittadina iberica con molte centinaia di vittime civili (1650 secondo alcune fonti). Più probabile allora che il Mattioli volesse riferirsi al bombardamento di Barcellona, compiuto dai regi velivoli il 16-18 marzo 1938, per espresso ordine di Mussolini, con 44 tonnellate di bombe, provocando tra i 600 e i 1300 morti”.5

     

    I due volti di Italo Balbo

    La Regia è, a detta degli analisti storici, il fiore all’occhiello del Regime sin dall’impresa del suo indimenticato fondatore, quell’Italo Balbo che pianificò e condusse la Crociera del Decennale: una imponente e spettacolare trasvolata atlantica condotta con ben 26 idrovolanti S.55, evento che fece epoca ed è oggi considerabile un po’ come il mito fondativo della nostra attuale AMI.

    La Mostra del Centenario gli dedica puntualmente ampio spazio, come è giusto che sia dal punto di vista storico. Ma, anche in questo caso, stonano i termini unicamente encomiastici: Balbo fu certamente un aviatore di notevole livello, capace di fondare e organizzare con moderni criteri l’Arma aerea italiana, ma fu anche uno dei più spregiudicati esponenti della gerarchia fascista, con una fama, un prestigio e un peso politico quasi pari a quello del suo Duce (il quale, peraltro, dopo l’impresa del Decennale, ne fece il governatore della Libia, allontanandolo dalla ribalta dei media internazionali: ma questa è un'altra storia).

     

    La tragedia della scelta

    Proseguendo nel cammino cronologico proposto dalla mostra, si giunge a un altro momento chiave, tra i più controversi della vicenda nazionale legata all’ultimo conflitto mondiale. Siamo ai terribili mesi della crisi finale: la guerra irrimediabilmente persa, la crisi del regime fascista culminata con le dimissioni del 25 luglio, e poi l’armistizio dell’8 settembre. Trauma nazionale, totale, trasversale e delle cui tragiche conseguenze le nostre Forze Armate furono probabilmente le principali vittime. Momenti difficilissimi da ricostruire e raccontare, nella loro complessità e nell’ampiezza delle diverse articolazioni e interpretazioni.

    Il lacerante dramma che travolse gli oltre due milioni di italiani in divisa, in quelle ore fu forte e nella mostra lo si riassume così:

     

    La regia aeronautica segue il Re e il Governo monarchico al Sud per combattere l’invasore tedesco al fianco degli Alleati e sui velivoli i fasci littori lasciano spazio alle coccarde tricolori. Una minoranza di uomini tuttavia rimane al Nord, nella repubblica Sociale Italiana dove, inquadrati nell’Aeronautica Nazionale Repubblicana, combatterono per difendere il territorio italiano martoriato dalle incursioni anglo-americane. Altri aviatori, invece impossibilitati a raggiungere i Reparti costituiti al sud, si uniscono alle formazioni partigiane.

     

    Qui la questione interpretativa si fa delicata. La consecutio degli eventi fornita dalla didascalia è corretta. Tuttavia, è arduo spiegare con la sola registrazione dei fatti il nodo storico della vicenda dell’A.N.R. (Aeronautica Nazionale Repubblicana), ovvero quel simulacro di arma aerea concesso di malavoglia dai vertici militari germanici occupanti alla Repubblica Sociale fondata da Mussolini, e operante dall’ottobre del 1943 all’aprile del 1945 alle dirette dipendenze degli stessi tedeschi.

    Fu una scelta, quella dei piloti e del personale della Regia che preferirono restare fedeli al Fascismo nella sua ultima e più feroce versione, quella di Salò, che non appare affatto risolvibile nella formula “combatterono per difendere il territorio italiano martoriato dalle incursioni anglo-americane”: proprio per il rispetto che si deve a chi si orientò secondo scienza e coscienza in ciò che andava accadendo in Italia in quei mesi, nel calderone della Seconda Guerra Mondiale.

    Forte è il sospetto che questa sia più una motivazione auto-assolutoria elaborata ex post, che l’espressione del sentimento che animò chi scelse di confermare la sua fedeltà al Fascismo e all’alleanza con la Germania nazista. Infatti, fu chiaro da subito, soprattutto ai militari, il vero volto di questa alleanza, dal momento che, con l’Operazione “Achse”, i tedeschi assunsero il pieno controllo delle regioni italiane del centro-nord e della condotta della guerra in Italia.

     

    Tutte le scelte furono giustificabili?

    Ci si domanda qui se sia corretta questa sorta di equiparazione fra chi, tra il personale della Regia, volle e poté obbedire agli ultimi ordini del Governo Badoglio che, in coerenza con le clausole armistiziali firmate a Cassibile il 3 settembre 1943, prevedevano lo spostamento di personale, mezzi e materiali presso le basi del Mezzogiorno occupate dagli Alleati; tra chi, non potendo materialmente eseguire tali ordini, successivamente si unì alle formazioni partigiane operanti al Nord; e chi invece scelse prima di mettersi a disposizione degli occupanti nazisti (diversi piloti italiani furono assorbiti nei reparti di volo della Luftwaffe operanti sul suolo italiano) e successivamente optò per farsi inquadrare nelle formazioni della A.N.R. della Repubblica Sociale Italiana.

    Questione annosa, delicata, che tocca un nervo da sempre scoperto della nostra storia recente quello della “scelta” che molti, moltissimi italiani, in divisa e no, dovettero fare nelle circostanze più drammatiche.6

    Il sentimento imperante che sembra aleggiare oggi, tra gli hangar e sulle piste di volo della nostra AMI - e la didascalia in qualche misura lo rappresenta – è che tutte le scelte furono giustificabili.

    Valgano, per meglio spiegare questo sentimento, le parole di Giulio Lazzati in un bel libro del 1965 dedicato al sacrificio degli aviatori italiani tra il 1940 e il 1945. Parlando della A.N.R. egli scrive: “Tanti morti, proprio come noi giù al Sud, anzi, peggio di noi perché i piloti della “repubblica” hanno dovuto combattere contro forze enormemente superiori e con la certezza che ormai era tutto perduto. Perché lo hanno fatto? Me lo sono chiesto pure io, ma chi di noi può scandagliare l’animo umano e spiegare il perché di certe supreme decisioni? Solo, per me, contano la spontaneità e la dirittura morale, con cui si segue una strada, non il perché della sua scelta”.7

     

    Un'asetticità solo apparente

    Queste didascalie, che inducono il visitatore a focalizzare la sua attenzione sul dramma personale degli aviatori, lo disorientano per quanto riguarda le scelte interpretative odierne dell’aeronautica: un’arma che, oggi, difende una nazione democratica, nata dalla lotta al fascismo e che, di conseguenza, sarebbe obbligata a rivedere criticamente il proprio passato.

    L’asciuttezza e l’asetticità delle didascalie, quindi, non sono un fatto tecnico. Nascondono un’interpretazione univoca del passato, fuorviante e distonica, soprattutto ove si consideri che queste occasioni pubbliche sono rivolte anche agli studenti delle scuole che, in particolare attraverso lo studio e la conoscenza delle vicende più dolorose e laceranti della storia nazionale, dovrebbero costruire la propria capacità di leggere il presente. Può davvero una mostra costruita con questi criteri contribuire a fornire un onesto e limpido bagaglio cognitivo a quanti, giovani e no, vogliano capire e sapere di più e meglio dei momenti cruciali del nostro passato?

     


    Note

    1 Questi documenti sono conservati all’Archivio Centrale dello Stato e ora in Alessandro Cova,Graziani, un generale per il regime, Roma, Newton Compton Editori, 1987.

    Data al 1884 la nascita di un primo Servizio aeronautico a Roma, con l’uso di aerostati da ricognizione. Fino a tutta la Prima guerra mondiale, l’arma aerea operò come branca del Regio Esercito. Fu poi elevata ad Arma autonoma con Regio Decreto del 28 marzo 1923, mentre il 30 agosto 1925 venne costituito il Ministero dell’Aeronautica. Dopo l’8 settembre, la Regia Aeronautica continuò a operare sotto il controllo degli Alleati in alcuni aeroporti pugliesi nella fase della cosiddetta co-belligeranza. Al centro-nord, una volta costituitasi la Repubblica Sociale Italiana, a partire dal 27 ottobre 1943 venne costituita l’Aviazione Repubblicana, dal giugno 1944 Aviazione Nazionale Repubblicana (ANR). L’attuale denominazione Aeronautica Italiana risale invece al 1946, poco dopo la nascita della Repubblica italiana.

    Fra gli storici che si sono occupati delle guerre coloniali italiane, segnalo Nicola Labanca, Oltremare storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2007; Franco Bandini, Gli italiani in Africa, Longanesi Milano, 1971; Angelo Del Boca, I gas di Mussolini, il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori Riuniti 2021. Il colonialismo nei nostri libri di testo: Cajani L., Colonialism and Decolonization in History Textbooks for Italian Upper Secondary School, in The Colonial Past in History Textbooks. Historical and Social Psychological Perspectives, (a cura di K.V. Nieuwenhuyse e J.P. Valentim), IAP, Charlotte NC, 2018; A. Desio, La decolonizzazione nei manuali di storia italiani per le scuole secondarie di secondo grado: 1990-2020, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 1/2021, pp. 159-182.

    4Cfr.http://www.icsm.it/articoli/ri/civispagnola2.html Alberto Rosselli, Breve Storia dell’aviazione legionaria in Spagna 1936-1939: “Per cercare di non urtare la suscettibilità dei governi europei favorevoli alla Repubblica, i 12 aerei, ai quali vennero cancellate tutte le insegne nazionali e i distintivi di reparto, vennero venduti, tramite un finto atto, al giornalista spagnolo Luis Bolìn. A scopo prudenziale tutti gli equipaggi italiani vennero inoltre forniti di abiti civili e documenti falsi”. Sull’apporto dell’Italia alla Guerra civile spagnola: cita qualche testo o riferimenti online.

    5Giorgio Rochat, Le guerre degli italiani, Torino, Einaudi, 2006, pp. 113-114.

    Su questo aspetto la letteratura storica è autorevole e ha dato luogo a un dibattito pubblico molto partecipato. Fa specie che non se ne trovi nemmeno l’eco in questa mostra: Claudio Pavone, Una guerra civile, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; Angelo Del Boca, La scelta, Neri Pozza Venezia, 2006. Come esempio di “letteratura dei vinti”, gli esempi sono assai precoci: Giose Rimanelli, Tiro al piccione, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1953.

    Giulio Lazzati,I soliti quattro gatti, Milano, Mursia, 1965, p. 295. Per una ricostruzione aggiornata delle vicende A.N.R. vedi Guido Garello,L’Aeronautica Nazionale Repubblicana, in “Rivisita di Storia Militare”, 20 – 21, Luglio-settembre 2015.

     

  • Ottaviano Augusto, Marco Aurelio e il suprematismo bianco

    di Daniele Boschi

    Una statua di Ottaviano Augusto e un’altra di Marco Aurelio adornano gli spazi pubblici del campus della Brown University, una delle più antiche e prestigiose università statunitensi, fondata a Providence, Rhode Island, nel 1764.

    La prima statua è una riproduzione in bronzo dell’Augusto di Prima Porta, conservato nei Musei Vaticani; la seconda è una copia della celeberrima statua equestre di Marco Aurelio, attualmente custodita nei Musei Capitolini a Roma.

    Da diversi mesi un gruppo di studenti ne chiede la rimozione in quanto simboli del colonialismo, del razzismo e del suprematismo bianco. È un altro capitolo della “guerra delle statue” che ha infuriato per diversi mesi negli Stati Uniti e della quale Historia ludens ha già dato conto in diversi articoli (l’ultimo in ordine di tempo è questo, nel quale sono richiamati quelli precedenti).

    L’Augusto di Prima PortaL’Augusto di Prima Porta. Una riproduzione in bronzo di questa statua si trova nel campus della Brown University. Un gruppo di studenti ne ha chiesto la rimozione. (Fonte)

    Decolonizzare l’università

    Gli studenti che vogliono togliere di mezzo le due statue appartengono al gruppo Decolonization at Brown (DAB). Hanno spiegato le loro ragioni in un lungo articolo pubblicato lo scorso 17 ottobre, nel quale affermano di aver preso spunto dal fatto che la Public Art Committee della Brown University aveva proposto di restaurare la statua di Augusto e di ricollocarla in prossimità di un altro monumento, lo Slavery Memorial. Una iniziativa a loro avviso poco opportuna: essi ritengono infatti che sia la statua di Augusto, sia quella dell’imperatore Marco Aurelio dovrebbero essere semplicemente rimosse.

    Quelle due statue – si legge nell’articolo – sono monumenti moderni: sono infatti copie di antiche statue romane, appositamente realizzate per essere donate all’Università da due facoltosi benefattori, i fratelli Moses Brown e Robert Hale Ives Goddard, rispettivamente nel 1906 e nel 1908.

    Ma perché i due fratelli Ives Goddard scelsero proprio quei due personaggi storici? E perché la Brown University si mostrò così orgogliosa del dono ricevuto? Secondo gli studenti del DAB, ciò si spiega con il fatto che le due statue miravano a celebrare la superiorità culturale e razziale delle élites bianche, tracciando una ideale, ma storicamente falsa, linea di continuità tra l’antica Roma e i moderni Stati Uniti, per meglio giustificare e legittimare la sottomissione dei neri, dei nativi americani e della gente di colore. Le due statue erano dunque – e sono tuttora - l’espressione di una ideologia razzista e colonialista, alla quale fanno ancora riferimento alcuni movimenti suprematisti bianchi, e che non è stata del tutto abbandonata dalla Brown University, i cui curricoli continuano ad essere incentrati sui canoni della tradizione classica e occidentale.

    Le reazioni all’interno del campus

    Quali sono state, all’interno del campus, le reazioni alle richieste del DAB?

    Dietrich Neumann, presidente della già menzionata Committee on Public Art e docente di Storia dell’Arte e dell’Architettura, ha affermato di condividere l’obiettivo perseguito dal DAB di fare i conti con l’eredità del colonialismo, ma si è detto contrario alla rimozione delle statue. Esse andrebbero a suo avviso contestualizzate ed eventualmente ricollocate.

    Tra gli studenti si è svolto un dibattito abbastanza vivace, e non privo di asprezze polemiche, del quale è rimasta un’ampia traccia sia nei commenti pubblicati sul blog, dove è apparso l’articolo già citato, sia sul “Brown Daily Herald”, il quotidiano online gestito dagli studenti del campus.

    Gli argomenti contro la rimozione

    Coloro che sono contrari alla rimozione affermano anzitutto che le due statue, come tutti i monumenti, non propongono un messaggio univoco, ma si prestano a diverse interpretazioni. Uno dei lettori del blog osserva che, probabilmente, già all’epoca in cui furono donate, le due statue non erano considerate come un simbolo della supremazia dei bianchi, ma piuttosto come un ricordo di due grandi personaggi storici. Infatti, in alcuni articoli apparsi tra il 1906 e il 1908 sulla rivista “Brown Alumni Monthly”, Augusto veniva celebrato come patrono delle arti e delle lettere, Marco Aurelio come incarnazione dell’ideale platonico del re-filosofo.

    Un altro commentatore scrive che Marco Aurelio è una figura simbolo della filosofia stoica. La sua statua, lungi dall’evocare la white supremacy, rappresenta la grinta, la razionalità, la forza d’animo, la caparbietà, l’amor fatie molte altre qualità stoiche, che possono unire le persone di qualsiasi colore, etnia, cultura o ideologia.

    Una diversa prospettiva è quella di Nidhi Bhaskar, il quale afferma che rimuovere le due statue solo per il fatto che esse non si accordano con i valori oggi dominanti, o perché creano disagio in alcuni gruppi di studenti, sarebbe un vero e proprio atto di censura, non molto differente dalla cancellazione di contenuti ritenuti problematici dai curricoli accademici. Al contrario, proprio la presenza delle due statue – opportunamente ricollocate e contestualizzate – può aiutare gli studenti a fare i conti con la complessità del passato e a confrontarsi anche con i suoi aspetti più controversi.

    In generale, coloro che si oppongono alla proposta del DAB affermano di condividere la sua battaglia contro il razzismo e a favore di una maggiore apertura alle voci, alla storia e alla cultura dei gruppi minoritari, anche attraverso l’installazione nel campus di nuove opere prodotte da artisti nativi o di colore.

    L’Augusto di Prima PortaLa statua equestre di Marco Aurelio. Anche di questa statua c’è una copia nel campus della Brown University e ne è stata chiesta la rimozione. (Fonte)

    Gli argomenti a favore della rimozione

    Sul fronte opposto, in un articolo apparso sul quotidiano del campus il 1° novembre 2020, Belinda Hu, Junaid Malik, George Noll e Hsiao Shan Peck hanno ribadito che le due statue devono essere rimosse: esse celebrano infatti la perdurante occupazione delle terre dei nativi e contribuiscono alla cancellazione della loro storia attraverso l’esaltazione della cultura bianca e occidentale.

    Gli autori dell’articolo tracciano un rapido excursus storico, ricordando che fin dal XVIII secolo le élites della nascente nazione nordamericana furono spinte ad immedesimarsi con i romani antichi per l’evidente analogia tra la costruzione di un impero come quello di Roma, basato sulla sottomissione dei popoli barbari, e l’espansione nel Nord America dei coloni europei e poi degli Stati Uniti, avvenuta a spese dei nativi. È per questo che centinaia di copie di statue romane furono portate dall’Europa negli Stati Uniti tra il XIX e il XX secolo, affinché fossero esposte nelle università, nei musei e negli spazi pubblici.

    In un altro articolo pubblicato sul “Brown Daily Herald” il 18/11/2020, Emilia Ruzicka ribatte punto per punto alle argomentazioni in favore della conservazione delle statue. In particolare, Ruzicka contesta il fatto che le due statue possano rappresentare un modello culturale, in quanto rievocherebbero la tradizione letteraria o filosofica greco-romana. Anzitutto – sostiene Ruzicka - questa tradizione tende tuttora a lasciare nell’ombra il contributo dato da altre culture, come quella mesopotamica e quella indiana, allo sviluppo della civiltà antica. Ma, in ogni caso, le due statue non raffigurano certo i due imperatori nella veste di intellettuali o di filosofi: Augusto indossa un’armatura e con la mano alzata incita i soldati alla lotta; e anche Marco Aurelio protende la mano dall’alto del suo cavallo, pronto a guidare i suoi uomini in battaglia.

    Non possiamo qui tacere il fatto che entrambe queste interpretazioni appaiono discutibili. La teoria secondo cui l’Augusto di Prima Porta avrebbe la mano alzata perché sta per parlare ai soldati prima di una battaglia è abbastanza diffusa, ma contrasta con l’autorevole interpretazione proposta da Claudio Parisi Presicce (in una lezione del 2013), secondo la quale la statua proponeva un messaggio di pace e non di guerra, come è dimostrato dalle decorazioni della corazza. Secondo Parisi Presicce l’opera originale in bronzo (della quale l’Augusto di Prima Porta era una copia) era collocata sulla sommità del mausoleo del Campo Marzio e rappresentava un Augusto già divinizzato, che con la mano alzata invitava i suoi spettatori a leggere le tavole delle sue Res gestae. Per quanto riguarda invece la statua equestre di Marco Aurelio, non può sfuggire il fatto che l’imperatore non indossa l’armatura, mentre la sua mano destra protesa è stata vista da alcuni studiosi come il segno di un gesto di clemenza.

    Ma tornando al nostro articolo, Ruzicka respinge la proposta di ricollocare o ricontestualizzare le due statue, sostenendo che questo significherebbe soltanto spostare altrove il danno che esse producono in quanto simboli del colonialismo e della supremazia dei bianchi. Certamente, conclude l’autrice dell’articolo, la rimozione delle due statue non può essere l’unica azione che l’Università intraprende per fare i conti con il proprio passato, ma sarebbe un passo importante nella giusta direzione.

    La decisione del Consiglio studentesco

    Lo Undergraduate Council of Students della Brown University, nella riunione del 4 novembre 2020, non ha aderito alla richiesta del DAB di rimuovere le due statue. Anche se il 46,4% degli studenti ha votato a favore, e soltanto il 39,3% ha votato contro, l’astensione del rimanente 14,3% ha fatto sì che nessuno dei due opposti schieramenti raggiungesse la maggioranza assoluta.

    Al momento la questione appare chiusa così, anche se non è escluso che gli studenti del gruppo Decolonization at Brown riprendano in futuro la loro battaglia contro le due statue.

    Non si può negare in effetti che il DAB abbia diverse buone frecce nel proprio arco. Il nesso tra le due statue e la politica imperialistica degli Stati Uniti al principio del ‘900 appare innegabile, così come appare evidente la funzione simbolica e ideologica che esse ambivano ad avere negli spazi dove sono collocate attualmente. Tuttavia, non si vede il motivo per il quale le statue dei due imperatori romani non possano trovare una diversa collocazione all’interno del campus, sia in quanto riproduzioni di importanti monumenti del mondo antico, certamente assai utili dal punto di vista didattico, sia in quanto testimonianze del modo in cui le élites si rapportavano al mondo classico agli inizi del XX secolo.

    L’Apollo del BelvedereL’Apollo del Belvedere. Winckelmann celebrò questa statua come la quintessenza della bellezza. (Fonte)

    Un’altra prospettiva: le statue antiche come simbolo di superiorità razziale e perfezione antropometrica

    Attualmente non risulta che vi siano state negli USA altre proteste contro la presenza di statue che raffigurano personaggi della cultura classica o del mondo antico. In Gran Bretagna si erano diffuse voci che la statua dell’imperatore Costantino a York fosse stata oggetto di critiche (lo ha riferito su HL Antonio Brusa in questo articolo). In quel caso si trattava di una statua realizzata, su commissione, da un artista contemporaneo e l’accusa nei confronti dell’imperatore era quella di non aver abolito la schiavitù.

    Ma il rapporto tra le statue antiche e il sentimento della superiorità culturale, etnica o razziale dell’Occidente sono stati esaminati negli ultimi anni anche in una diversa prospettiva. Mi riferisco in particolare a un articolo pubblicato dalla storica Sarah Bond della University of Iowa sulla rivista “Hyperallergic” il 7 giugno 2017 (un altro articolo della stessa Bond dal contenuto molto simile era già apparso sulla rivista “Forbes”).

    La Bond parte dalla constatazione che la tecnologia moderna ha ormai dimostrato in modo inconfutabile che molte statue, sculture in rilievo e sarcofagi creati dai greci e dai romani antichi erano policromi. La studiosa ricorda, a questo proposito, le ricerche dell’archeologo Vinzenz Brinkmann e la mostra itinerante Gods in color che, partendo dal Glyptothek di Monaco nel 2003, ha fatto il giro delle capitali di mezzo mondo. Ciononostante, quando si mostrano le opere dell’età classica, il bianco continua ad essere il colore dominante, tanto nei musei quanto nei libri di testo di storia dell’arte. E questo fatto contribuisce ad avallare la falsa convinzione che i Greci e i Romani antichi pensassero di essere ‘di razza bianca’. Anche videogames come Ryse: Son of Romee film come 300aiutano a perpetuare questo stereotipo vagamente razzista. In questo modo si alimentano i pregiudizi dei suprematisti bianchi e si allontanano i neri e le persone di colore dagli studi classici.

    D’altra parte, qual è l’origine degli odierni pregiudizi in favore della razza bianca e del colore bianco? Essi risalgono alla diffusione della teoria delle razze nel XVIII e XIX secolo. E a questa teoria anche la storia dell’arte e l’estetica diedero un importante contributo, soprattutto grazie alla celebre Geschichte der Kunst des Alterthums(1763), nella quale Johann Joachim Winckelmann celebrò la ‘bianchezza’ (whiteness) della statuaria classica e per questo motivo propose l’Apollo del Belvedere come la quintessenza della bellezza. La Bond cita a questo proposito la storica Nell Irvin Painter, che nella sua History of White People ha tacciato Winckelmann di eurocentrismo per il fatto che disprezzava i cinesi e i calmucchi e ha messo in evidenza che dopo di lui “il colore nella scultura cominciò ad essere sinonimo di barbarie, perché si dava per scontato che i Greci antichi, così elevati spiritualmente, fossero troppo sofisticati per colorare le loro statue”. L’associazione tra barbarie e colori e tra whiteness e civiltà era destinata a durare a lungo. Ancora oggi, prosegue la Bond, non ci rendiamo conto dell’incredibile quantità di razzismo che informava le idee di importanti studiosi dell’età antica.

    Inoltre non è certo un caso che, a partire dalla fine del XVIII secolo, i medici e gli anatomisti interessati a definire la perfetta costituzione fisica della superiore razza bianca o europea (ad esempio Pieter Camper e Mathias-Marie Duval) abbiano preso non di rado come modello le bianche statue degli antichi greci e romani, a cominciare proprio dall’Apollo del Belvedere.

    L’arciere di EginaLe statue degli antichi greci erano in genere policrome, come mostra questa ricostruzione della statua dell’arciere posto in origine sul frontone occidentale del tempio di Afaia ad Egina. (Fonte)

    La Bond conclude il suo articolo con un appello ai public historians affinché si impegnino a cambiare la narrazione ancora oggi dominante e a restituire al mondo antico i suoi colori. In che modo? Ad esempio migliorando i pannelli museali, affiancando ricostruzioni in 3D alle opere originali, oppure proiettando su di esse i raggi luminosi elaborati da computer.

    L’intervento della Bond ha suscitato un certo interesse ed è stato ripreso da diversi organi di informazione, tra i quali la rivista “National Review”, di orientamento conservatore, che ha ironizzato sulla efficacia degli interventi proposti dalla studiosa rispetto all’obiettivo di combattere il razzismo. Successivamente la Bond ha ricevuto offese e minacce di violenza, come ha riferito il quotidiano online “Inside Higher Ed” in un articolo del 19/06/2017, che riporta anche altri casi di docenti universitari che avevano dovuto subire intimidazioni più o meno gravi per aver affrontato pubblicamente questioni legate ai contrasti e ai pregiudizi etnici o razziali.

    Conclusione

    Le perduranti tensioni tra i diversi gruppi etnici, che lacerano la società statunitense, sono sfociate qualche mese fa nelle proteste del Black Lives Matter e nei violenti scontri che ad esse si sono accompagnati. Tanto l’intervento di Sarah Bond e le reazioni che ha suscitato, quanto la discussione sulle statue di Augusto e di Marco Aurelio alla Brown University mostrano come quelle stesse tensioni si riflettano anche all’interno delle Università, spingendo docenti e studenti a mettere in discussione il modo in cui il passato viene raccontato nei libri di testo e nei curricoli, o illustrato mediante statue e altri monumenti. Come storici e come insegnanti di storia non possiamo non guardare con grande interesse, e non senza qualche preoccupazione, a quello che sta accadendo dall’altra parte dell’Atlantico.

     

    SITOGRAFIA

    All roads lead to removal: replacing two statues and redefining campus space at Brown, “The Blogonian”, October 17, 2020

    Bhaskar, Nidhi, Brown should not remove statues of Roman emperors from campus. Here’s why,“Brown Daily Herald”, October 18, 2020

    Bond, Sarah E., Whitewashing Ancient Statues: Whiteness, Racism And Color In The Ancient World, “Forbes”, April 27, 2017

    Bond, Sarah E., Why We Need to Start Seeing the Classical World in Color, “Hyperallergic”, June 7, 2017

    Borris, Jack, Decolonization at Brown, Prof. Neumann present statue changes to UCS,“Brown Daily Herald”, October 28, 2020

    Borris, Jack, UCS does not officially endorse Decolonization at Brown statue initiative, “Brown Daily Herald”, November 10, 2020

    Flaherty, Colleen, Threats for What She Didn’t Say, “Inside Higher Ed”, June 19, 2017

    Hu, Belinda - Malik, Junaid – Noll, George –Peck, Hsiao Shan, The statues must go: Brown should not celebrate colonialism, “Brown Daily Herald”, November 1, 2020

    Parisi Presicce, Claudio, Augusto e la nuova età dell’oro, lezione tenuta al Palazzo delle Esposizioni a Roma, 19 dicembre 2013

    Ruzicka, Emilia, Debunking common misconceptions about removing Roman-style statues at Brown,“Brown Daily Herald”, November 18, 2020

    Timpf, Katherine, Professor: White-Marble Sculpture Contributes to ‘White Supremacy’, “National Review”, June 9, 2017

    BIBLIOGRAFIA

    Painter, Nell Irvin,The History of White People,New York, W. W. Norton & Company, 2010

  • Passato e presente negli attacchi ai monumenti sull'onda del Black Lives Matter

    di Daniele Boschi

    La statua di Albert Pike in Washington D.C. ancora in piedi sul suo piedistallo di granito, dal quale è stata rovesciata lo scorso 19 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Pike_Statue,_Washington_DC_.jpgLa statua di Albert Pike in Washington D.C. ancora in piedi sul suo piedistallo di granito, dal quale è stata rovesciata lo scorso 19 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Pike_Statue,_Washington_DC_.jpg

    Nella Judiciary Square in Washington D.C., a circa mezzo miglio dal Campidoglio, una statua di bronzo alta più di tre metri raffigurava Albert Pike, poeta, giurista, massone e ufficiale dell’esercito degli Stati Confederati durante la guerra civile americana (1861-65). Lo scorso 19 giugno un gruppo di dimostranti ha abbattuto questa statua e le ha dato fuoco, cantando “No justice, no peace, no racist police”. Negli Stati Uniti il 19 giugno, Juneteenth, è una giornata dedicata alla celebrazione dell’emancipazione dalla schiavitù e quest’anno è stata un’occasione per rinnovare le proteste contro il razzismo, divampate a seguito dell’uccisione dell’afro-americano George Floyd, avvenuta a Minneapolis lo scorso 25 maggio.   

    Quella di Albert Pike è soltanto una delle numerose statue abbattute o rimosse nelle ultime settimane sull’onda del movimento Black Lives Matter, che dagli Usa si è propagato anche al di qua dell’Atlantico. Un po’ dappertutto gli attivisti del movimento hanno preso di mira statue e monumenti che celebrano o rievocano personaggi e fatti in qualche modo collegati alla storia della schiavitù, del razzismo e del colonialismo.

    In questo articolo racconto alcuni episodi e le reazioni che hanno suscitato. In un prossimo articolo analizzerò i commenti apparsi sui quotidiani e sul web, anche alla luce delle riflessioni che da diversi anni gli storici e gli esperti di public history hanno sviluppato riguardo all’uso degli spazi pubblici per commemorare personaggi ed eventi del passato, e alle controversie che quest’uso può generare. Antonio Prampolini sta preparando una sitografia completa su questo argomento, in attesa della quale si può consultare questo elenco provvisorio.

    L’attacco alle statue dei Confederati

    Oltre alla statua di Albert Pike, molti altri monumenti che rievocano la lotta dei Confederati contro gli stati dell’Unione durante la guerra civile americana sono stati attaccati o rimossi negli USA nelle ultime settimane.

    Ad esempio, il 1° giugno una statua del generale Robert E. Lee è stata buttata giù davanti alla High School di Montgomery (Alabama) a lui intitolata. Poche ore prima, Steven Reed, primo sindaco nero della città, aveva parlato a una folla eccitata davanti alla scuola elementare dedicata a E. D. Nixon, uno dei principali organizzatori del famoso Montgomery Bus Boycott (1955-56), durante il quale gli afroamericani avevano rifiutato di usare i bus urbani. Reed aveva detto di condividere la rabbia e il desiderio di cambiamento dei propri concittadini, ma li aveva invitati alla calma. Non tutti però hanno seguito il suo consiglio e quattro persone sono state arrestate dopo l’abbattimento della statua.

    Il 10 giugno a Richmond in Virginia una folla di dimostranti ha abbattuto la statua di Jefferson Davis, presidente della Confederazione. Il giorno seguente il sindaco Levar Stoney ha commentato questo evento in un tweetcon le seguenti parole: "Jefferson Davis era un razzista e un traditore che fuggì dalla nostra città mentre le sue truppe eseguivano l’ordine di incendiarla e raderla al suolo. Non ha mai meritato di stare sopra quel piedistallo” [1].  E ha preannunciato la rimozione di altri simili monumenti.

    In molti casi sono stati, in effetti, i sindaci o altre autorità locali a ordinare lo smantellamento dei monumenti. Lo hanno fatto per manifestare la propria adesione alla protesta antirazzista, oppure per prevenire disordini o incidenti (o per entrambe le ragioni). Ad esempio, Greg Fischer, sindaco di Louisville nel Kentucky, ha fatto rimuovere la statua a cavallo di John B. Castleman, un personaggio controverso, poiché dapprima combatté nell’esercito dei Confederati, dove raggiunse il grado di maggiore, ma poi espresse ammirazione per Abramo Lincoln e si schierò contro l’esclusione degli afro-americani dai parchi cittadini. Fischer aveva tentato già l’anno scorso di arrivare alla rimozione della statua, ma senza successo; il suo operato è stato contestato da diverse associazioni locali e una controversia legale è tuttora in atto.

    L'offensiva si allarga

    Rimanendo per ora negli Stati Uniti, occorre aggiungere che l’attacco alle statue e ai monumenti si è allargato in queste ultime settimane fino a toccare anche personaggi storici di ben altro rilievo rispetto ai più o meno celebri generali e ufficiali dell’esercito confederato.

    A Portland, nell’Oregon, sono state abbattute le statue di Thomas Jefferson e di George Washington, entrambi proprietari di schiavi, come è ben noto.

    Nel Golden Gate Park di San Francisco è stata rovesciata la statua di Ulysses S. Grant, comandante dell’esercito che sconfisse i Confederati nel 1865 e poi presidente degli Stati Uniti. Grant è ritenuto colpevole di aver sposato una donna proveniente da una famiglia di proprietari di schiavi e di aver diretto personalmente il lavoro di questi schiavi in una piantagione nel Missouri. Egli stesso inoltre fu proprietario di uno schiavo, che liberò nel 1859.

    Sempre nel Golden Gate Park, insieme alla statua di Grant, è stata buttata giù anche quella di Francis Scott Key (1779-1843), l’autore dell’inno nazionale statunitense, “The Star-Spangled Banner”. L’accusa nei suoi confronti non è solo quella di aver posseduto schiavi, ma anche di aver utilizzato il suo ruolo di procuratore di distretto in Washington D.C. per ridurre al silenzio i fautori della causa abolizionista.

    Infine, il Museo di Storia Naturale di New York ha deciso di rimuovere la statua di Theodore Roosevelt, che finora troneggiava davanti all’ingresso del Museo. La statua mostra il 26° presidente degli Stati Uniti a cavallo e accanto a lui, a piedi, un nativo americano e un africano. Lo stesso pronipote del Presidente, Theodore Roosevelt IV, si è detto d’accordo con la decisione: «Il mondo non ha bisogno di statue, relitti di un’altra era, che non riflettono né le virtù della persona che intendono onorare, né i valori di uguaglianza e giustizia. Questa composizione equestre non riflette l’eredità di Theodore Roosevelt. È tempo di rimuoverla e andare avanti». Ma il presidente Donald Trump ha twittato: «Ridicolo, non fatelo!».

    "Colombo rappresenta il genocidio"

    Se l’attacco ai monumenti di personaggi più o meno illustri della storia degli USA potrebbe lasciarci abbastanza indifferenti qui in Italia, le cose stanno forse in modo un po’ diverso quando ad esser sotto tiro sono le statue dedicate al nostro Cristoforo Colombo, accusato di essere stato un colonizzatore e uno sterminatore dei nativi americani. Anche con lui se la sono presa gli attivisti del movimento Black Lives Matter nelle ultime settimane.

    Il primo episodio, riportato anche dai quotidiani italiani[2], è avvenuto a Richmond in Virginia, dove il 9 giugno, in un parco cittadino, la statua alta due metri e mezzo del navigatore genovese è stata abbattuta, bruciata e trascinata fino a un vicino laghetto, dove è stata gettata. Il piedistallo è stato imbrattato con le scritte "questa terra è dei Powhatan", il nome della popolazione nativa della Virginia, e "Colombo rappresenta il genocidio".

    Immagine 2 ColomboLa statua di Cristoforo Colombo che si ergeva presso il Minnesota State Capitol, buttata giù dai dimostranti lo scorso 10 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Christopher_Columbus_Statue_Torn_Down_at_Minnesota_State_Capitol_on_June_10,_2020.jpgStatue di Colombo sono state sfregiate, abbattute o rimosse anche a Saint Paul nel Minnesota, a Boston , a Camden nel New Jersey, a Houston nel Texas, a San Francisco e in diverse altre città. Un caso particolare è quello del Congresso della California, che ha deciso di rimuovere dalla propria sede le statue di Cristoforo Colombo e della regina Isabella di Castiglia.

    Anche se queste iniziative sono state prese sull’onda delle proteste del Black Lives Matter, in molti casi esse sono anche il risultato delle lotte portate avanti da molti anni dalle associazioni dei nativi americani. Anzi, a Saint Paul nel Minnesota è stato l’ “American Indian Movement” ad organizzare l’attacco alla statua di Colombo, dopo anni di inutili trattative con le autorità locali.

    Su un altro fronte, questi eventi hanno suscitato la reazione del “Movimento Associativo degli Italiani all’Estero” (MAIE), il cui presidente, Ricardo Merlo, è attualmente sottosegretario agli Esteri nel governo Conte. Merlo ha dichiarato che “gli attacchi alle statue di Cristoforo Colombo sono atti vili e scellerati” ed ha aggiunto che “pensare oggi di rivedere la storia è anacronistico, inutile, sbagliato”.

    Abbattimenti e rimozioni di statue in Gran Bretagna

    Come è noto, le proteste del Black Lives Matter si sono propagate dagli USA all’Europa. E anche da questa parte dell’Atlantico alcune statue, considerate come simboli del razzismo e del colonialismo, sono state abbattute o rimosse.

    Il piedistallo vuoto della statua di Edward Colston a Bristol, abbattuta lo scorso 7 giugno durante le proteste del “Black Live Matters”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Edward_Colston_-_empty_pedestal.jpgIl piedistallo vuoto della statua di Edward Colston a Bristol, abbattuta lo scorso 7 giugno durante le proteste del “Black Live Matters”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Edward_Colston_-_empty_pedestal.jpg

    Cominciamo dall’Inghilterra. Lo scorso 7 giugno a Bristol, nel corso di una manifestazione antirazzista, la statua di Edward Colston (1636-1721), membro della Royal African Company e mercante di schiavi, è stata abbattuta, trascinata per le strade della città e gettata nelle acque del porto. Il giorno seguente, l’evento è stato stigmatizzato dal portavoce del Primo ministro Boris Johnson, che ha dichiarato: “I cittadini possono fare campagne per la rimozione di una statua, ma quello che è accaduto ieri è un’azione criminale … Il Primo ministro comprende appieno l’intensità dei sentimenti, ma in questo paese risolviamo le controversie in modo democratico e se si vuole la rimozione della statua ci sono procedure democratiche che si possono seguire”.

    Invece il sindaco di Bristol Marvin Rees, primo sindaco nero del Regno Unito[3], ha mostrato comprensione per i dimostranti e ha dichiarato: “Penso che la situazione era arrivata a un punto critico e la gente sentiva che la statua doveva essere buttata giù … Non posso fingere e non fingerò che la statua di un mercante di schiavi nella città in cui sono nato e cresciuto non fosse un oltraggio per me e per le persone come me”.

    Le “procedure democratiche” sono state invece rispettate a Oxford, dove sulla scia del Black Lives Matter è ripresa la campagna per la rimozione della statua di Cecil Rhodes dalla facciata dell’Oriel College. Il movimento Rhodes Must Fall è nato nelle università del Sudafrica nel 2015 e da lì si è esteso alla Gran Bretagna. Nel 2016 l’Oriel College, pur accettando il dialogo con gli studenti, rifiutò di rimuovere la statua[4]. Ora sembra che le cose siano cambiate, dato che lo scorso 17 giugno l’organo direttivo del College ha votato a favore della rimozione della statua e per l’istituzione di una commissione che si occuperà del tema dell’eredità di Rhodes e del modo di migliorare la condizione degli studenti e dei dipendenti del College appartenenti alle minoranze etniche. 

    Un’altra statua presa di mira è stata quella del mercante di schiavi Robert Milligan (1746-1809) nella East London. Oltre tremila persone hanno firmato una petizione per la sua rimozione e lunedì 8 giugno la statua è stata ricoperta con cartelli recanti la scritta “Black Lives Matter”. Il giorno successivo la statua è stata rimossa per decisione delle autorità locali.

    Ancora più significativo è il fatto che il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha annunciato l’istituzione di una commissione che riesaminerà tutti i “landmarks” della capitale del Regno Unito. A questo proposito Kahn ha dichiarato che “le differenze all’interno della nostra capitale sono la nostra forza più grande, eppure le nostre statue, i nomi delle strade e gli spazi pubblici riflettono un’era passata. E’ una verità scomoda che la nostra nazione e la nostra città debbano una larga parte della loro ricchezza al ruolo che hanno avuto nel commercio degli schiavi e mentre questo è ben riflesso nella nostra sfera pubblica, il contributo di molte nostre comunità alla vita della capitale è stato volontariamente ignorato. Questo non può continuare”. 

    Tuttavia, come è accaduto negli Stati Uniti, anche in Inghilterra l’attacco alle statue non ha preso come bersaglio soltanto i simboli più ovvi del passato coloniale e razzista del paese. Come è stato riportato da tutti i principali media, il 7 giugno a Londra, in margine alle manifestazioni del Black Lives Matter, qualcuno ha imbrattato la statua di Winston Churchillin Parliament Square, scrivendoci sopra le parole “era un razzista”. La sera stessa, un giovane dal volto coperto avrebbe detto a un reporter della BBC di esser stato lui l’autore di quella scritta, motivando così il suo gesto: “Ho etichettato così la statua di Churchill perché lui era un razzista incallito. Ha combattuto i nazisti per proteggere il Commonwealth dall’invasione – non lo ha fatto per i neri, né per la gente di colore, né per alcun altro popolo. Lo ha fatto soltanto per il colonialismo. La gente si arrabbierà – ma io sono arrabbiato per il fatto che per tanti anni noi siamo stati oppressi”.

    Il caso del Belgio e del re Leopoldo II

    In Belgio, all’inizio di giugno, diverse statue del re Leopoldo II (1835-1909) sono state deturpate; ad Anversa una statua del monarca è stata prima vandalizzata e poi rimossa.

    La statua del re Leopoldo II del Belgio in Place du Trône a Bruxelles. Una petizione ne ha chiesto la rimozione. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leopold_II_Statue_at_Place_du_Tr%C3%B4ne_-_panoramio.jpgLa statua del re Leopoldo II del Belgio in Place du Trône a Bruxelles. Una petizione ne ha chiesto la rimozione. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leopold_II_Statue_at_Place_du_Tr%C3%B4ne_-_panoramio.jpg

    Parallelamente il movimento Reparons l’Histoire ha rivolto al comune di Bruxelles una petizione per chiedere la rimozione di tutte le statue di Leopoldo II dal territorio cittadino, a cominciare da quella sulla place du Trône.

    Come è noto, Leopoldo II ricevette nel 1885 dal Congresso di Berlino la sovranità sullo “Stato libero del Congo”, che governò e sfruttò come un suo possedimento privato fino al 1908. Nella petizione si legge questa descrizione del monarca:

    “Riconosciuto come un ‘re costruttore’ e non come un ‘re sterminatore’. Un eroe per alcuni ma anche un carnefice per un grande popolo. Nell’arco di 23 anni quest’uomo ha ucciso più di dieci milioni di congolesi, senza aver messo mai piede in Congo. Per 23 anni utilizzò il popolo congolese come un mero strumento per la produzione della gomma, un prodotto altamente richiesto a quell’epoca. Le persone che vivevano nelle regioni dove si produceva la gomma erano oppresse da un enorme carico di lavoro, a volte persino disumano”.

    La petizione, che alla data del 1° luglio era stata firmata da oltre ottantamila persone, indicava come termine ultimo per la rimozione delle statue il 30 giugno 2020, giorno in cui è caduto il sessantesimo anniversario dell’indipendenza della Repubblica Democratica del Congo. Un’altra petizione, che chiede al contrario di mantenere in piedi le statue, ha raggiunto alla stessa data oltre ventimila firme.

    Per il momento, le statue di Leopoldo II non sono state rimosse. Ma il 30 giugno, per la prima volta, il re del Belgio Filippo ha espresso il proprio rincrescimento per gli atti di violenza e le sofferenze inflitte dai belgi ai congolesi durante il periodo coloniale. Lo ha fatto con una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, nella quale ha anche riconosciuto che il dolore per queste ferite del passato è ravvivato dalle discriminazioni ancora oggi troppo presenti nella società belga.

    "La Francia non abbatterà alcuna statua"

    Per quanto riguarda la Francia, occorre anzitutto ricordare un episodio avvenuto poco prima che si scatenasse il movimento Black Lives Matter. Il 22 maggio scorso a Fort-de-France e a Schœlcher, nel dipartimento francese d’oltremare della Martinica, alcuni manifestanti hanno abbattuto due statue di Victor Schœlcher, l’uomo che scrisse il decreto col quale il governo francese abolì la schiavitù in tutte le sue colonie il 27 aprile 1848. A quanto pare, l’accusa contro Schœlcher è di aver indennizzato lautamente gli schiavisti e di aver oscurato con la sua fama i protagonisti locali della lotta contro la schiavitù.

    Successivamente, dopo l’esplosione delle proteste antirazziste a Parigi e in altre città, il Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, in un discorso pronunciato domenica 14 giugno, ha messo in guardia contro il rischio che la “nobile battaglia” contro il razzismo degeneri in “comunitarismo” e ha preso una posizione molto ferma contro gli attacchi ai monumenti. Ha dichiarato infatti che la Francia “non cancellerà alcuna traccia o nome della sua storia, non abbatterà nessuna statua”.

    Ma questo intervento non ha impedito che diversi monumenti venissero presi di mira nei giorni seguenti. Giovedì 18 giugno, a Parigi, alcuni militanti antirazzisti hanno posto un drappo nero sulla statua del generale Joseph-Simon Gallieni, eroe della prima guerra mondiale, ma anche ispiratore della dura repressione della resistenza della popolazione del Madagascar al dominio coloniale francese (quando fu governatore dell’isola dal 1896 al 1905).

    Qualche giorno dopo, le statue del filosofo illuminista Voltaire – che trasse profitti dal commercio degli schiavi – e del generale e amministratore coloniale Hubert Lyautey (1854-1934) sono state imbrattate con vernice rossa.

    Infine, sempre a Parigi, la statua di Jean-Baptiste Colbert, che si trova davanti all’Assemblea nazionale, è stata cosparsa di vernice rossa e sul suo piedistallo è apparsa la scritta “negrofobia di stato”. Come tutti sanno, Colbert fu ministro di Luigi XIV, ed ebbe un ruolo fondamentale nella riorganizzazione amministrativa, giudiziaria e soprattutto finanziaria dello Stato francese, realizzata negli anni del “Re Sole”; meno noto è il fatto che Colbert fu anche l’ispiratore del «Code Noir», un decreto emanato nel 1685 (due anni dopo la sua morte), che regolamentava la condizione degli schiavi nell’impero coloniale francese.

    James Cook "simbolo del colonialismo e del genocidio" degli aborigeni australiani

    All’altro capo del mondo, in Australia, è stato naturalmente il grande navigatore inglese James Cook (1728-1779) a divenire bersaglio di polemiche.

    Due statue di Cook sono state deturpate a Sidney e una petizione che chiede la rimozione della statua dell’esploratore inglese a Cairns ha raccolto oltre dodicimila firme.

    La petizione si apre con queste parole: “Dal 1972 la statua di James Cook in Sheridan Street si erge come simbolo del colonialismo e del genocidio. E’ uno schiaffo in faccia a tutti i nativi. Per noi rappresenta le spoliazioni, le migrazioni forzate, la schiavitù, il genocidio, il furto delle nostre terre, e la perdita della nostra cultura – insieme a molte altre cose”.

    Il Primo ministro australiano, Scott Morrison, ha difeso Cook e l’eredità del colonialismo, dicendo che l’Australia era un tempo un paese “alquanto brutale”, ma non c’era la schiavitù. Questa affermazione ha scatenato un coro di critiche: in molti hanno ricordato che la schiavitù, o quantomeno il lavoro forzato, furono praticati anche in Australia e nelle isole del Pacifico. E il Primo ministro si è visto costretto a fare marcia indietro:ha chiesto scusa e ha ammesso che i nativi australiani furono spesso trattati in modo crudele.

    Milano chiama Roma: dalla statua di Montanelli alla via dell'Amba Aradam

    Infine, echi del Black Lives Matter sono arrivati anche in Italia, e pure da noi non è mancato qualche episodio di contestazione relativo a statue e nomi di strade.

    A Milano i “Sentinelli”[4] hanno chiesto di cambiare l’intitolazione dei giardini dedicati a Indro Montanelli  e di rimuovere la statua del giornalista che si trova nello stesso parco. Con la seguente motivazione: ‘Montanelli ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale’. Qualche giorno dopo la statua è stata imbrattata  di vernice rossa e sul suo basamento sono comparse le scritte “razzista, stupratore”. Il gesto è stato rivendicato dal gruppo “Rete Studenti Milano” e dal “LuMe” (Laboratorio universitario Metropolitano). Vale la pena ricordare che la statua di Montanelli era già stata imbrattata l’8 marzo del 2019, quella volta con vernice rosa lavabile, per mano di attiviste del movimento femminista “Non Una Di Meno”.

    Il monumento a Indro Montanelli nei Giardini Pubblici a lui dedicati vicino Porta Venezia a Milano. Lo scorso 13 giugno la statua è stata imbrattata con vernice rossa. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Monumento_a_Indro_Montanelli_Giardini_Pubblici_P.ta_Venezia.jpgIl monumento a Indro Montanelli nei Giardini Pubblici a lui dedicati vicino Porta Venezia a Milano. Lo scorso 13 giugno la statua è stata imbrattata con vernice rossa. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Monumento_a_Indro_Montanelli_Giardini_Pubblici_P.ta_Venezia.jpg

    L’atto di accusa dei detrattori di Montanelli si riferisce a fatti ben noti perché raccontati più volte da lui stesso. Quando arrivò in Africa nel 1935 come comandante di compagnia del XX Battaglione Eritreo, formato da ascari, Montanelli, che aveva allora 26 anni, prese come compagna un’adolescente abissina, secondo la tradizione locale. La ragazzina si chiamava Destà. «Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi ovunque mi trovassi, in quella terra senza strade né carte topografiche»[5].

    Alla medesima volontà di “decolonizzare” gli spazi pubblici si ricollegano due episodi avvenuti a Roma. Nella notte tra il 18 e il 19 giugno alcuni attivisti della “Rete Restiamo umani” hanno affisso cartelli con i nomi di George Floyd e Bilal Ben Messaud[6] sulle targhe toponomastiche di via dell'Amba Aradam, nome di un massiccio montuoso a nord di Addis Abeba, dove nel 1936 le truppe del maresciallo Badoglio sconfissero l'esercito etiope in una cruenta battaglia, nella quale gli italiani fecero uso anche di gas asfissianti. La stessa notte al Pincio è stata imbrattata la statua del generale Antonio Baldissera, che fu a capo delle truppe italiane in Eritrea dal 1887 al 1889[7]. Anche questa seconda azione è stata rivendicata dalla “Rete Restiamo umani”, che ha spiegato le proprie ragioni in un lungo messaggio su Facebook, che si apre con queste parole:

    “Black Lives Matter: Dagli Stati Uniti alle sponde del Mediterraneo non si fermerà la protesta. In fermo sostegno alle e ai manifestanti che a partire da Minneapolis hanno riempito le piazze di decine di città del mondo per manifestare contro il razzismo strutturale e hanno deposto simboli di un passato coloniale sempre rimosso, iniziamo ora a smantellare i simboli del colonialismo nella Capitale”.

    Conclusione

    Gli attacchi alle statue e ai monumenti di personaggi storici assunti come simboli dello schiavismo, del razzismo e del colonialismo non sono una cosa nuova. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna gli abbattimenti e le rimozioni di queste ultime settimane appaiono spesso come l’esito di campagne avviate da molti anni. Il fatto nuovo è che, sfruttando l’onda delle grandi manifestazioni di protesta suscitate dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, molte statue sono state effettivamente abbattute o rimosse, a volte col plauso delle autorità locali. Inoltre il movimento ha assunto in alcuni casi un’ampiezza tale da invocare – a torto o a ragione - un profondo ripensamento del modo in cui la storia della moderna società occidentale è stata scritta e raccontata finora. Anche per questo motivo gli attacchi alle statue delle ultime settimane sono stati oggetto di molte riflessioni e commenti da parte di opinionisti, editorialisti, e anche di storici, sui quali mi soffermerò in un prossimo articolo, nel quale illustrerò anche le ragioni per cui questo argomento ha un interesse didattico: da un lato, infatti, l’insegnamento della storia non può ignorare i diversi modi in cui questa viene vissuta e raccontata nel presente; dall’altro lato, le controversie intorno ai monumenti dei grandi personaggi del passato sono un’occasione per sviluppare ricerche e dibattiti e per stimolare un approccio critico da parte degli studenti.    

    [1]Le citazioni tratte da articoli in inglese o in francese sono state tradotte in italiano da me.

    [2]Vedi ad esempio
    https://www.repubblica.it/esteri/2020/06/10/news/usa_statue_colombo_abbattute_e_vandalizzate-258873826/?ref=search

    [3]Così lo definisce il "Guardian" nell'articolo citato, precisando che Rees è il primo sindaco nero del Regno Unito eletto direttamente dai suoi concittadini.

    [4]Vedi il mio articolo del 15 luglio 2019 su “Historia ludens”.

    [5]I “Sentinelli” di Milano si autodefiniscono nel loro sito web come “un movimento informale nato tra il serio e il faceto nell’autunno del 2014 che si contrappone a tutti i soprusi, discriminazioni e violenze che colpiscono la vita di molti: dagli omosessuali ai migranti, dalle vittime di stalking alle vittime di razzismo, dalle donne ai malati desiderosi di un fine vita dignitoso”.

    [6]Informazioni e citazione tratte da
    https://www.corriere.it/esteri/20_giugno_11/proteste-statue-nessuno-tolga-montanelli-suoi-giardini-f35060ec-ab4f-11ea-ab2d-35b3b77b559f.shtml.

    [7]Migrante tunisino morto a Porto Empedocle il 20 maggio scorso mentre cercava di raggiungere terra.

    [8]Baldissera fu anche governatore della colonia Eritrea per un breve periodo nel 1896. Su di lui vedi 
    http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-baldissera_(Dizionario-Biografico)/.

Questo sito utilizza cookies tecnici e di terze parti per funzionalità quali la condivisione sui social network e/o la visualizzazione di media. Chiudendo questo banner, cliccando in un'area sottostante o accedendo ad un'altra pagina del sito, acconsenti all’uso dei cookie. Se non acconsenti all'utilizzo dei cookie di terze parti, alcune di queste funzionalità potrebbero essere non disponibili.