Didattica della Shoàh

  • CORSO DI STORIA E DIDATTICA DELLA SHOAH

    IIIa edizione

    17-18 ottobre 2014

     

     

    Come posso trasmettere la Shoah alle generazioni del futuro?
    E come posso farlo in modo equilibrato, nel rispetto cioè della sostanza storica ma al tempo stesso tenendo a distanza la retorica e la facile demagogia?
    Infine: quali fra le molte iniziative possibili offrono i migliori benefici sul piano didattico e formativo?

     

    Per rispondere a queste domande l’Università di Bari “Aldo Moro”, per il terzo anno, istituisce venerdì 17 e sabato 18 ottobre 2014 un Corso di Storia e didattica della Shoah. Il Corso si svolge in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale per la Puglia, la FLC CGIL Puglia e la Fondazione Casa Rossa di Alberobello.
    La responsabilità scientifica è a cura della Prof.ssa Francesca R. Recchia Luciani (Docente di Filosofie contemporanee, Dpt. FLESS-UniBA) il Corso si avvale dei contributi didattici del Prof. Antonio Brusa (Commissione didattica INSMLI- Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, docente di Didattica della storia, Dpt. FLESS-UniBA) e dei Dott. Pino Bruno (Giornalista e Direttore Responsabile presso Tom's Hardware Italia), Elena Musci (Docente a contratto di Educazione al patrimonio-Università della Basilicata), Sergio Chiaffarata (Presidente dell’Associazione del Centro Studi Normanno-Svevi) e Raffaele Pellegrino (Ricercatore IPSAIC Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia meridionale). La visita alla Casa Rossa di Alberobello sarà guidata dal Prof. Francesco Terzulli (Dirigente scolastico Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “Pacinotti” di Taranto, Fondazione Casa Rossa).

     

    Il Corso dell’Università di Bari “Aldo Moro” è uno dei sedici organizzati negli stessi giorni dalla Rete Universitaria per il Giorno della Memoria in altrettanti atenei del Paese e in due atenei europei, in Polonia e in Croazia, con il patrocinio del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, delle Ambasciate d’Israele, di Polonia e di Croazia in Italia e dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

     

    Qui trovate il programma completo e la scheda di adesione

     

  • Gli immaginari del genocidio ebraico. Nella società e nella scuola.

    Autore: Raffaele Pellegrino

    La ritualizzazione banalizzante unita a una pedagogia dell'orrore fine a se stessa violano sempre più pesantemente la memoria della Shoah che, ad ogni gennaio, diventa un cartello pubblicitario di strumentalizzazione politico-mediatica della nostra società.

    Il volume Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico (a cura di F. R. Recchia Luciani e C. Vercelli, il nuovo melangolo, Genova 2016, con contributi dei curatori stessi, Bellei, Brusa, Di Castro, Gaetani, Garofalo, Loiacono, Maida, Mattucci, Pirazzoli, Schwarz) si rivela così il punto di inizio e di sviluppo di quella sete di critica razionale, sempre più necessaria ai nostri giorni.

    Recchia Luciani fa proprio il monito di Primo Levi "di arginare tale deriva riduttivistica, semplificante e stereotipizzante della comprensione immaginativa ed empatica" della Shoah”, consapevole che la missione diventa sempre più gravosa e delicata con il passare degli anni. Ciò non significa eliminare l'elemento emozionale e patico, che, come la filosofa stessa ammette, "è indubbiamente rilevante ed efficace, nell’ambito dell’apprendimento, ad inaugurare un sapere attraverso lo stimolo di una curiosità motivante". Ma significa sottolineare che "esso non può e non deve surrogare alla conoscenza profonda e verace della verità fattuale e storica che solo un processo cognitivo analitico-razionale può indurre". Decostruire i prodotti dell' "industria della memoria" significa alloraraccogliere la sfida di risalire alla codifica degli strumenti per conoscere la storia". In breve, si tratta di scrutare, definire genealogicamente il termine "pop".


    Pop e Kitsch, grigiore e banalità

    Dunque occuparsi di pop Shoah, sottolinea Vercelli, "è un tentativo, in prima approssimazione, di muoversi verso l’identificazione di un complesso di fenomeni sociali, non facilmente definibili perché tra di loro molto articolati e quindi differenziati, ma che hanno immediatamente a che fare con la fruizione pubblica dell’evento storico maggiormente periodizzante nella storia del secolo appena trascorso". La contemporaneità (pop) ha risolto l'annosa questione di Auschwitz come indicibile, irrappresentabile, torcendola a merce spettacolarizzata dell'homo consumens, virandola a "kitsch", nota Vercelli, quando egli sposta efficacemente questo termine dall'ambito economico-commerciale alla sfera storico-sociale: "il kitsch non indica solo una modalità di rapportarsi agli oggetti, e di fruirne concretamente, ma anche il bisogno di credere nelle illusioni di una falsa autenticità. Non a caso viene accostato alla medietà del vivere quotidiano e, in immediato riflesso, ai suoi aspetti più mediocri". L'uomo-kitsch, aggiunge ancora Vercelli, è "colui che al contenuto preferisce l’involucro e all’etica della responsabilità sostituisce un atteggiamento estetizzante, basato sulla ripetizione di ciò che reputava come il sempre identico ad un qualche calco originario, ritenuto immodificabile".   

    Ciò richiama la mediocrità, la banalità del male della Arendt, propria dei carnefici, il grigiore dell'uomo di Levi, comune e strutturale, latente o manifesto, nell'animo di ciascuno di noi, già evocati nell’Introduzione. Infatti, il messaggio del dramma del trauma, sostiene il sociologo Alexander, rivisitato efficacemente da Schwarz, è che il male è dentro di noi, e dentro ogni società, dunque se siamo tutti vittime e carnefici, prosegue Alexander, allora non esiste più un pubblico che possa distanziarsi in modo legittimo dalla sofferenza collettiva, e da qui, osserva Schwarz, emerge l'etica dei “moral universals, ovvero dei valori morali universali che condizionerebbero il modo in cui guardiamo il mondo attuale", "consentendo l’affermarsi di ideali e valori incentrati sulla difesa dei diritti umani, attraverso la drammatizzazione della Shoah stessa, sottratta sempre più al suo contesto storico originario e ricollocata in un quadro che consente – e anzi impone – continui parallelismi, analogie,confronti con l’attualità".

    Allora la domanda sulla Pop Shoah, perché è un interrogativo, un guardarsi intorno e dentro alla luce della storia, è una lotta mai sopita contro la degenerazione della memoria in kitsch-Shoah, sradicata dal suo tempo e dai suoi luoghi. Riflettere sulla Pop Shoah, nell'epoca della post-modernità, afferma Bellei a partire da Lipovetskty, permette di definire la stessa cultura pop, intesa come "la ricerca dell’anticonformismo attraverso la fruizione di conformismi identitari pronti per essere indossati. La velocità è essenziale, essa è il riflesso dell’impossibilità di soddisfare un desiderio svincolato dal contesto biologico. Il segreto di questo paradosso è la sua autoreferenzialità".

    Ciò significa che le stesse categorie usate in passato per riflettere sulla Shoah devono essere rivisitate, tanto che la stessa operazione arendtianadi "indugiare sugli orrori", ammonisce Recchia Luciani, da essere metodo ermeneutico conoscitivo rischia invece, oggi,"di divenire una prassi estetizzante del tuttoautoreferenziale”, priva di ogni significato,aperta al rischio della deformazione, spianando la strada alle derive di "liturgia" della memoria da un lato e negazionistiche dall'altro.


    Il cappottino rosso

    Un esempio efficace degli effetti incontrollati dell'incontro tra cultura pop e male assoluto è rappresentato dal cappottino rosso visto dallo sguardo di Schindler, e, dunque, dall'immagine in senso lato, nota Garofalo, il quale ricordando la Sontag e la Woolf, afferma che "tutte le immagini delle vittime rappresentano una sorta di retorica basata sul fatto che esse reiterano, semplificano, scuotono, creano l’illusione del consenso, evocando una ipotetica esperienza di condivisione". Reiterare, semplificare e scuotere sono le tre operazioni mediatiche proprie delle "temibili agenzie informativo-formative che gestiscono la conoscenza storica diffusa" il cui antidoto risiede nella funzione educativo-formativa della scuola, sottolinea Brusa, che si occupa qui di Didattica della storia della Shoah.

    D'altronde, non è affatto azzardato definire la società contemporanea come una società divoratrice insaziabile di immagini, tanto che Mattucci sottolinea che essa "è sospinta da una compulsione a consumare immagini che possono divenire surrogati dell’esperienza diretta, arrivando persino a esercitare uno strapotere nella determinazione di quel che esigiamo dalla realtà. C’è il rischio che dietro la pretesa di mostrare il mondo ci sia l’intento di nasconderlo. Le immagini senza una narrazione che le supporti e ne ricerchi il senso rischiano di perdere di vista nessi e contesto".

    Il mercato mediatico trova terreno fertile di coltura nel progressivo, inarrestabile deserto della scomparsa dei testimoni sopravvissuti, quasi tentando di riproporre ossessivamente i prodotti culturali di massa che esso stesso crea, per una sorta di coazione a ripetere, tanto che, osserva acutamente Gaetani, "la trasmissione codificata della tragedia non punta a raccontare un campo di concentramento, quanto un set cinematografico. Quando, infatti, si portano le scolaresche in Polonia nei cosiddetti viaggi della memoria scegliendo come periodo di partenza gennaio o febbraio, mesi in cui il tempo è potenzialmente inclemente, sembra che non si faccia altro che cercare di inseguire la percezione del luogo per come essa è stata trasmessa dal cinema. Visitare Auschwitz in primavera, infatti, produce uno strano effetto alienante, perché la macabra bellezza dei salici che si susseguono alle betulle, che circondano il luogo in cui sono state uccise migliaia e migliaia di persone, a un certo punto, non ha più interessato nessuno, non è stata più descritta, non è stata reputata cinematograficamente e drammaticamente efficace".
        
    I testimoni

    È una questione delicata, verificata sul campo, come emerge dalle interviste della Di Castro, lei stessa ebrea di terza generazione (cioè nata tra gli anni Sessanta e Ottanta), ai suoi coetanei, quando "nel parlare di Shoah con i non ebrei, comune a tutti gli intervistati è la sensazione che nel troppo rumore delle Giornate della memoria, la reale portata di quel passato resti, in qualche modo, inascoltata, banalizzata, travisata, se non addirittura rimpicciolita".

    Un vero viaggio della memoria, ammonisce giustamente Maida, "è prima di tutto un rapporto tra storia e autobiografia, è un punto di intersezione tra il passato, che contiene tutti i fatti e gli eventi, el a scelta che ognuno di noi opera selezionandone alcuni, che riteniamo essenziali, per cercare di rispondere alle domande che abbiamo nel nostro presente", anzi, riflettendo sulla stessa nozione di "viaggio della memoria", sarebbe più giusto parlare, come suggerisce David Bidussa,di "viaggi di memoria", "perché la memoria non è un soggetto, ma un oggetto. Proprio per questo un viaggio della/di memoria ha bisogno, prima di tutto, della/di storia". Parlare di viaggio di memoria significa inevitabilmente e immediatamente parlare di luoghi della memoria, tematica che affronta Pirazzoli, individuando subito una "sfocatura", potremmo dire, nella percezione della storia, "nella rappresentazione offerta alla cultura di massa".Auschwitz è diventato una metonimia, afferma la studiosa, cioè un campo per indicare l’intero sistema concentrazionario e il suo "prodotto", e questo ha generato l'effetto di descriverlo nella sua articolazione "di campo di prigionia (Auschwitz I), di eliminazione (II– Birkenau) e di lavoro (III – Monowitz), ma allo stesso tempo ha accentrato l’attenzione, facendo scivolare in secondo piano, nella percezione dei non specialisti, la distinzione fondamentale tra Konzentrationslager e Vernichtungslager, campi di concentramentoe campi di sterminio", esempio lampante di come anche i luoghi vivano il trauma della frattura tra realtà storica e rappresentazione di massa.

    L'eccesso pop a cui giunge la Shoah si rivela quello di non essere più studiata, ricordata, raccontata storicamente, ma, capovolgendo i poli del tempo, viene ad essere essa stessa "sussunta nel dominio dello spettacolo generalizzato e della comunicazione virale", per usare un'efficace espressione di Recchia Luciani, la quale definisce la posta in gioco di tutto il volume: "nel caso della Shoah questa lacerazione tra quel che è stato e quel che è, ma anche tra il vero e il falso, tra storia e fiction, nonché l’incommensurabilità consustanziale di queste contrapposizioni, segnala uno spazio vuoto in cui porsi la domanda radicale relativa ai margini di sconfinamento e contiguità tra cultura e barbarie, così spesso molto più affini di quanto non siamo disposti ad ammettere", la stessa lacerazione su cui si interroga Loiacono, quando, desiderosa di capire "il divario esistente tra la Anne Frank reale e l’Anne di cui portiamo avanti la memoria", ritiene indispensabile "attuare un’operazione di decostruzione del prodotto Anne Frank creato dalla cultura di massa, e di ricostruzione e ristoricizzazione della sua figura, quanto meno per trarre dalla effettiva conoscenza della sua storia e del suo diario gli elementi utili alla cognizione della Shoah in quanto evento storico".  

    a domanda "Pop Shoah?" diventa allora un sussulto del presente di fronte alla responsabilità consapevole del passato a cui la storia ci chiama ogni giorno.


    Come uscire dalla ritualità scolastica *

    Si tratterebbe di avviare un lavoro di formazione sulla memoria continuo e coerente, laddove l’abitudine delle scuole è di disperderlo in tante “monadi memoriali”, ognuna pensata come a sé stante; ognuna pensata come momento decisivo per condurre gli allievi verso quelle “assunzioni morali” che costituiscono in realtà il grado elementare e “meno colto” del rapporto fra storia e memoria. La recente legge di riforma dell’insegnamento (107/2015), più comunemente conosciuta come “La buona scuola”, contiene un dispositivo che consente questa programmazione di lungo periodo. Nel discutibile gergo ministeriale si tratta del PTOF . E’ lo strumento che consente al docente di armonizzare in un percorso pluriennale l’insieme delle attività didattiche, disciplinari e no (e quindi anche le ricorrenze memoriali). Al momento attuale, il curricolo degli studi storici è organizzato in due quinquenni. Il primo è a cavallo fra la primaria e la secondaria di primo grado; il secondo mette insieme biennio e triennio. Dieci giornate per ciclo, specificatamente destinate al lavoro di formazione della coscienza storica degli allievi, non sono poche (soprattutto se viste in un’ottica interdisciplinare). Esse permettono di dislocare, in un tempo disteso e sufficiente, istanze formative che l’insegnante solitamente concentra affannosamente nel fatidico 27 gennaio, per riprenderle, a mo’ di contrappasso didattico, il successivo 10 febbraio. E per ricominciare l’anno successivo.
    E’ questa ripetizione che genera quel senso di ritualità opprimente e vuota, denunciata dalla gran parte degli insegnanti. Per liberarsene, occorre costruire un progetto, nel quale le singole giornate si succedono come momenti di crescita, e non come ricorrenze.  Cosa inserire in questi momenti? E’ proprio quella ricchezza dell’ “oggetto Shoah”, così come si è andata costruendo nel corso di questi settant’anni, a fornire il serbatoio inesauribile al quale attingere. Ci sono storie personali (di vittime, di salvati, di giusti e di carnefici); politiche di sterminio da ricostruire e capire; vicende di lungo periodo, come quella dell’antisemitismo; contesti di comparativi; storie sociali e culturali, come quella della violenza. E tutto questo può essere studiato confrontando opinioni di storici, lavorando su fonti le più disparate, osservandone il modo con il quale tali conoscenze vengono rielaborate (o negate) nei media e come quei fatti vengono usati dalla politica. Lo sterminio degli ebrei ha generato un contenitore di storie e di problemi che possono essere “spalmati” nel tempo, secondo una progressione di complessità individuata dal docente, aprendo ogni volta nuovi scenari da esplorare.
    Si potrebbe, in questo modo, costruire una didattica della Shoah cognitivamente solida. Una progressione finalmente basata sull’incremento conoscitivo, e non più legata (solo) alla preoccupazione di “correggere le storture dei media” (vera fatica di Tantalo); o di non turbare le sensibilità infantili; o di calibrare la vista di immagini forti. Consigli di buon senso, e da seguire, ma che richiamano allo storico quelle “ricette di Zia Rosalia” che Lucien Febvre denunciava come tipiche di una metodologia non ancora adeguata al rigore richiesto dall’approccio scientifico. Ci si potrebbe avviare verso un progetto di training di lungo respiro, nel quale l’allievo si cimenta con problemi sempre più complessi e profondi, che lo portano, da una parte, ad una conoscenza progressivamente più ricca di ciò che accadde settant’anni fa, ma dall’altra, alla consapevolezza sempre più nitida della pluralità dei soggetti, che in tempi diversi, hanno collaborato per produrre quelle immagini - la bambina col cappotto rosso, il bambino di Varsavia, il vagone piombato – con le quali la nostra società ricuce in continuazione il proprio legame con la tragedia dello sterminio, rinverdendo, ogni volta, la speranza che non si ripeta.
    *Il brano che segue è tratto dall’articolo di Antonio Brusa (pp. 44 s)

  • Il ghetto di Varsavia. Giornata di studio

     

    Lunedì 3 novembre la città di Ferrara sarà sede di un’importante giornata di studio aperta a tutta la cittadinanza sul ghetto di Varsavia, frutto della collaborazione avviata già da alcuni anni tra l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e il Mémorial de la Shoah di Parigi.

    Una lectio magistralis (lunedì 3 novembre ore 17.00 presso l'aula magna della Facoltà di economia) del Prof. Georges Bensoussan, storico e responsabile editoriale del Mémorial de la Shoah  di Parigi e la proiezione (lunedì 3 novembre ore 21- Sala Boldini) di “A Film Unfinished” della regista israeliana Yael Hersonski, rarissimo documentario con filmati di epoca nazista proprio sul ghetto,  saranno i momenti cardine di questa iniziativa (si veda il programma nei dettagli), realizzata grazie alla partecipazione del MEIS – Museo Nazionale dell’ebraismo italiano, con cui di recente la prestigiosa istituzione francese ha siglato un accordo di cooperazione culturale, con l’Istituto di Storia contemporanea di Ferrara e con il  Pitigliani Kolno’a Festival di Roma, e con il patrocinio di Comune, Provincia,  Università degli Studi e  Comunità Ebraica di Ferrara

  • Il Negazionismo di Stato

    Bari 17 ottobre

     

    Autore: Marcello Flores


    Ecco perché è sbagliato fare una legge sui negazionismi


    L’approvazione sembra unanime, al di là di qualsiasi larga intesa. Tutti applaudono alla modifica dell’articolo di una legge del 1975, che commina fino a tre anni di carcere per chi fa apologia di crimini quali il genocidio e così via. In questo clima stranamente euforico, vedo con preoccupazione che non ci sia nessuno che inviti alla prudenza.

    Da storici e insegnanti di storia, penso dovremmo esprimere il desiderio che si possa mettere un bel due allo studente che dice castronerie, tipo negare la Shoàh, senza il timore che, all’uscita dalla scuola, due carabinieri lo portino in galera. Nessuna tregua nella lotta al razzismo e alle bestialità negazioniste. Ma un po’ d’attenzione quando si propongono le leggi la dobbiamo pretendere, nonostante i tempi di crisi e la spettacolarizzazione dei funerali di Priebke.

    Per questo, HL ripropone un articolo che Marcello Flores, presidente del Comitato scientifico dell’Insmli (la rete degli Istituti della Resistenza), ha pubblicato sul “Corriere della sera” il 26 febbraio del 2012,  in occasione della presentazione della proposta di legge che ieri è stata approvata dalla Commissione Giustizia del Senato.

     

     

    Nel 2007 la protesta degli storici

    Nel 2007 circa duecento storici italiani si mobilitarono contro il disegno di legge Mastella che intendeva punire la negazione della Shoah, seguendo una decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea che si muoveva nella stessa direzione. La legge venne riformulata evitando ogni riferimento al negazionismo e inasprendo le pene per chi diffonde idee razziste.

     

    La proposta di legge attuale

    Nel 2012 era stato presentato un ddl che riproponeva la questione della negazione della Shoah e dei genocidi e che adesso, nella nuova legislatura, è stato ripresentato come primi firmatari da Silvana Amati del PD e da Lucio Malan del PDL, e firmato da cento deputati di ogni gruppo, compreso il M5S, con l’esclusione della Lega. L’Agenzia di stampa ASCA, nel dare la notizia, sostiene che il ddl si prefigge “di punire le nuove forme di negazionismo dell'Olocausto e dei crimini contro l'umanità, perpetrate anche attraverso i nuovi media” e così ha ribadito in più occasioni la Senatrice Amati.

     

    Il testo

    Prima di riprendere il tema assai serio e complesso delle leggi antinegazioniste – su cui in Francia vi è da anni una battaglia della maggior parte degli storici e che anche in Italia ha visto questa categoria esprimersi in modo nettamente contrario – bisognerebbe leggere per esteso cosa propone il ddl di ''Modifica all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654” ora riproposto. Si tratta, infatti, di un nuovo comma che punisce “con la reclusione fino a tre anni chiunque, con comportamenti idonei a turbare l’ordine pubblico o che costituiscano minaccia, offesa o ingiuria, fa apologia dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232, e dei crimini definiti dall’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945, ovvero nega la realtà, la dimensione o il carattere genocida degli stessi.”

     

    Un testo ambiguo

    Si tratta di un testo – diversamente dalle leggi antinegazioniste di Germania, Francia e altri paesi – che è ambiguo come la maggior parte delle nostre leggi, soggette sempre a una battaglia di interpretazioni che permette sovente disparità anche grande di giudizi e comportamenti dentro la stessa magistratura. A parte il rapporto (necessario?) tra il turbamento dell’ordine pubblico o l’offesa con l’apologia di reati (tra cui, l’art.7 dello statuto della Corte che prevede anche la tortura, reato ancora esistente nel nostro ordinamento!) che già rientrano in quelli esistenti e relativi al razzismo, la “negazione” riguarderebbe la realtà, la dimensione o il carattere genocida.

     

    Chi riconosce il genocidio?

    Quali sono i genocidi riconosciuti come tali? Esiste un dibattito che dura da decenni e che vede divisi giuristi e storici: come bisognerà comportarsi? Per Srebrenica, una corte internazionale ha stabilito trattarsi di genocidio (con contraddizioni palesi riguardo alla responsabilità dei serbi) ma molti giuristi ritengono fosse solo un crimine contro l’umanità. La Cambogia lo è stato o no? Il genocidio degli armeni (al di là della definizione) ha riguardato un milione o un milione e mezzo di persone? E i crimini di guerra e contro l’umanità che nessun tribunale ha stabilito tali o sanzionato – i crimini del Gulag; i crimini del regio esercito italiano prima dell’8 settembre 1943 in Africa, nei Balcani, in Russia; i crimini che hanno costellato il XX secolo quasi in ogni luogo e sotto ogni ideologia – saranno presi in considerazione? E verso chi scatterà la denuncia, verso tifosi razzisti, verso ignoranti che ripetono stereotipi menzogneri e fasulli, verso docenti che fanno studiare Mein Kampf, verso siti neonazisti e razzisti di cui è pieno il web?

     

    Una legge troppo ampia

    Il ddl prevederebbe anche, secondo l’agenzia ASCA, la pena non solo per l’apologia o la negazione, ma anche per la “minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra''. Anche in questo caso fanno testo soltanto le decisioni dei tribunali? Cosa facciamo dei libri non solo che negano i genocidi (non solo la Shoah, ma anche gli scritti negazionisti sulla Cambogia o sul Rwanda, ad esempio, che hanno visto in prima fila personalità come Noam Chomsky e altri “democratici”) ma che li ignorano (e quindi minimizzano) come una gran parte dei libri di storia contemporanea?
    Nel congresso degli studiosi di genocidio  che si tenne a Buenos Aires nel 2011 questo tema fu affrontato a lungo e con posizioni diverse e contraddittorie; e anche nel congresso successivo, che si aprirà il 19 giugno a Siena vi saranno almeno due panel destinati a discutere, con punti di vista divergenti, queste “leggi della memoria” e l’atteggiamento degli stati nei loro confronti.


    A cosa serve mandare in galera un negazionista?

    La questione, a mio avviso, si pone molto semplicemente: una legge simile favorisce la diminuzione degli atteggiamenti razzisti che sono spesso presenti nei discorsi negazionisti e minimizzanti? Assolutamente no, perché sarà usata – forse – in pochi casi esemplari che daranno risonanza e rischieranno di far passare per vittime o eroi della libertà di espressione coloro che li avranno pronunciati. Ma nello stesso tempo segneranno un pericoloso passo verso l’idea di verità storiche di stato, stabilite per legge e garantite dalla magistratura, invece che dal dibattito aperto, dalla formazione di una coscienza collettiva civile e storica e dall’educazione permanente.

     

    Che cosa si potrebbe fare, e non si fa

    Se il Parlamento si impegnasse davvero a compiere alcuni passi per rendere più facile raggiungere gli obiettivi che si prefigge con questo ddl (l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento e la creazione, come richiestoci da tempo dalle istituzioni internazionali, di una agenzia indipendente sui diritti umani, affondata in extremis da forze trasversali nell’ultima legislatura; programmi educativi e formativi efficaci; produzione di film, spettacoli e programmi TV in cui la storia sia degnamente rappresentata, mentre si chiude ad esempio “La Storia siamo noi”) questo vorrebbe dire chiamare a raccolta la società civile in una battaglia che solo essa può riuscire a vincere in nome di tutti. Non è la minaccia di una repressione che difficilmente ci sarà (e che rischia di essere pericolosa per la libertà d’espressione e di ricerca) a risolvere un problema di cultura, di educazione, di coscienza.

    I deputati e senatori, forse, invece di tacitare le proprie coscienze in una unanimistica approvazione di un testo ambiguo, poco applicabile e pericoloso, dovrebbero chiedersi come mai le leggi esistenti contro la propagazione e l’apologia di odio razziale sono da noi così platealmente ignorate e perché molto spesso la magistratura ne ignori l’applicazione o trovi difficile eseguirla.
    Il razzismo si sconfigge con l’educazione e la cultura; e con le leggi che già esistono e sono purtroppo raramente utilizzate.

    (Nel testo si cita questo convegno, tenutosi presso l’università  di Siena: il X congresso della International Association of Genocide Scholars(IAGS). Il tema del congresso è The Aftermath of Genocide: Victims and Perpetrators, Representations and Interpretations  (Le conseguenze dei genocidi: vittime e carnefici, rappresentazioni e interpretazioni). Ha visto la presenza di oltre duecento studiosi da ogni parte del mondo. E’ intervenuto Adama Dieng, Special Advisor per le Nazioni Uniti per la prevenzioni del genocidio mentre le lezioni magistrali sono state tenute dallo storico Jay Winter e da Nur Kholis, Commissario per i diritti umani in Indonesia).

     

  • Lo sguardo degli assassini. Le fotografie dell’"Album di Auschwitz"

    di Antonio Prampolini

    Indice

    1. Rileggere l’Album di Auschwitz
    2. L’Album e il suo contesto
    2.1 La fonte
    2.2 Il luogo
    2.3 Il contesto storico
    3. Le fotografie: realtà e messe in scena
    3.1 I ritratti e le storie di vita
    3.2 La rapina degli oggetti personali
    3.3 La selezione dei deportati
    3.4 Gli internati
    3.5 Le camere a gas
    3.6 La violenza nascosta
    4. Sitografia

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 1Fig.1: Rilegatura originale dell’Album di Auschwitz Fonte1. Rileggere l'Album di Auschwitz

    L'Album di Auschwitz, o Album di Lilly Jacob, dal nome della sopravvissuta che lo ha scoperto, è, ad oggi, l'unica prova visiva del processo di selezione degli ebrei, destinati in gran parte alle camere a gas, in quel lager. Le fotografie che contiene, quasi duecento, scattate da membri delle SS, vengono utilizzate frequentemente per mostrare Auschwitz e la “Soluzione Finale” della questione ebraica messa in atto dai nazisti nel corso della Seconda guerra mondiale1.

    Queste immagini, però, sono state spesso utilizzate nei musei, nei documentari e nelle pubblicazioni senza essere sottoposte ad un’attenta analisi e ad una interpretazione critica della collezione, e alcune fotografie dell’album sono diventate iconiche nonostante non mostrino la realtà di come venivano gestiti i trasporti degli ebrei quando arrivavano ad Auschwitz.

    In una recente pubblicazione, gli storici della Shoah, Tal Bruttmann, Christoph Kreutzmüller e Stefan Hördler, ne hanno fatto oggetto di uno studio approfondito partendo dal presupposto che l’album non è un documento oggettivo e neutrale ma è, innanzitutto, il frutto di un progetto di propaganda interna della dirigenza nazista per dimostrare le capacità operative delle SS durante la deportazione degli ebrei dall'Ungheria nella primavera–estate del 19442. Qui lo utilizzeremo come guida per un approccio critico alla fonte.

    Come ha giustamente osservato Paul Salmons, curatore di una recente mostra fotografica sulle vittime di Auschwitz, nelle immagini dell’album «non c’è nulla di clandestino. Quello che viene mostrato è lo sguardo dell’assassino. Quando vediamo la gente arrivare o essere selezionata, vediamo quello che ci vogliono far vedere: un processo efficiente, qualcosa di cui vanno fieri»3.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 2Fig.2: Una pagina dell’"Album di Auschwitz" Fonte2. L’Album e il suo contesto

    2.1 La fonte

    L’Album di Auschwitz è una documentazione fotografica delle operazioni di selezione degli ebrei ungheresi deportati a Birkenau – Auschwitz II nei mesi di maggio e di giugno del 1944. Era intitolato Reinsediamento degli ebrei dall'Ungheria (Umsiedlung der Juden aus Ungarn). Fu scoperto nel campo di concentramento di Dora-Mittelbau, in Germania, da una deportata, Lilly Jacob: un ritrovamento del tutto casuale, dal momento che in nazisti lo avevano abbandonato fuggendo all’arrivo dell’esercito americano nell’aprile del 19454.

    L’album è una collezione di 193 fotografie suddivise in capitoli che corrispondono alle diverse attività svolte dalle SS all’arrivo degli ebrei nello scalo ferroviario del lager (Judenrampe)5.

    In realtà, conteneva più fotografie. Tuttavia, prima di essere donato nel 1980 allo Yad Vashem (il museo dell'Olocausto in Israele), alcune di esse furono cedute ai sopravvissuti che vi riconoscevano parenti e amici. Le immagini furono scattate dai fotografi del servizio di identificazione dei deportati (Erkennungsdienst). Non si conoscono con certezza gli autori delle fotografie. Si pensa che fossero Bernhard Walter e Ernst Hoffmann, due SS che erano rispettivamente direttore e vicedirettore dell'Erkennungsdienst. Ma è possibile che anche il direttore del campo, Rudolf Höss, abbia scattato personalmente alcune delle fotografie dell’album. Non si conosce, inoltre, chi ha composto l’album, scegliendo le immagini e organizzandole in capitoli, e a chi era destinato.

    Quando parliamo dell'Album di Auschwitz, lo facciamo al singolare. Tuttavia, anche se ne possediamo una sola copia, ci sono testimonianze che indicano che ne furono realizzate diverse. Innanzitutto, Bernhard Walter non poteva decidere autonomamente di scattare le fotografie, poiché era solo un sottufficiale, e, in quanto tale, gli era proibito fotografare qualsiasi cosa avesse a che fare con la Soluzione Finale. Questa restrizione poteva essere revocata solo dal comandante del lager, Rudolf Höss, o da autorità superiori.

    Le immagini fornite dall’album e l’impegno che aveva richiesto la sua realizzazione rivelano ancora la sua importanza al fine di documentare il successo della deportazione e dello sterminio di decine di migliaia di ebrei ungheresi. L'album doveva essere davvero qualcosa di straordinario. Per questo è molto probabile che non sia stato realizzato in un unico esemplare.

    L’album si concentra esclusivamente sulle attività (Operation Höss) che hanno consentito ad Auschwitz-Birkenau la gestione di un afflusso senza precedenti di ebrei e dei loro beni personali. Ciò è dimostrato sia dai soggetti delle fotografie, che dal modo in cui è stato organizzato l'album, teso a evidenziare le capacità delle SS di controllare l’arrivo di grandi masse di ebrei, ridotte a merce da scaricare dai treni e smistare, e di regolare il trasporto di ingenti quantità di materiali da immagazzinare nei capienti depositi del lager. L’album non ritrae le camere a gas e i forni crematori; le persone a cui era destinato, i vertici del regime nazista, sapevano già tutto del loro funzionamento e non avevano bisogno di immagini.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 3Fig.3: Planimetria del campo di Auschwitz II (Birkenau) Fonte2.2 Il luogo

    Auschwitz è stato il più grande dei lager in cui gli ebrei furono deportati e sterminati. Situato all’estremità occidentale della città polacca di Oświęcim (Auschwitz in lingua tedesca), nella parte della Polonia annessa alla Germania nazista (“Terzo Reich”), il complesso comprendeva diversi campi. Tra questi, i principali erano: il campo di concentramento di Auschwitz I, il campo di sterminio e di concentramento di Birkenau - Auschwitz II, il campo di concentramento di Monowitz – Auschwitz III6. Il campo di Birkenau - Auschwitz II fu completato nell'ottobre del 1941 e fu attivo dal marzo 1942 fino al novembre 1944. Era costituito da oltre una dozzina di settori, separati da recinti di filo spinato elettrificato e, come ad Auschwitz I, pattugliati dalle SS.

    All’inizio dell’estate 1944, funzionavano cinque centri crematori. Ognuno di questi era costituito da tre parti: uno spogliatoio, una grande camera a gas e un'area che conteneva i forni crematori. La maggior parte dei deportati erano ebrei destinati ad essere eliminati. Solo una piccola percentuale fu selezionata per il lavoro nel campo stesso, per la produzione di munizioni nei campi satellite, o per gli “esperimenti medici” del dottor Josef Mengele e del suo staff. Nella primavera e nell’estate del 1944, il tasso di sterminio aumentò notevolmente con la deportazione nel campo degli ebrei ungheresi e del ghetto di Lodz in Polonia.

    Le fotografie che compongono l’Album di Auschwitz sono state scattate quasi esclusivamente in quello che era il “centro di sterminio” del campo di Birkenau - Auschwitz II. Questo comprendeva diverse strutture, e tra queste: lo scalo ferroviario (Judenrampe - Rampa degli ebrei) dove venivano “scaricati” i deportati dai vagoni; i depositi dei beni sottratti ai deportati; le strade di accesso alle camere a gas con i forni crematori e al campo di prigionia. Su questa rampa, tra il maggio e il giugno del 1944, arrivarono oltre 400 mila ebrei ungheresi, in gran parte subito sterminati nelle camere a gas.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 4Fig.4: ebrei ungheresi arrestati a Budapest dalla polizia nel 1944. Fonte2.3 Il contesto storico

    Nel corso degli anni Trenta, dopo la salita al potere di Hitler (30 gennaio 1933), l’Ungheria, governata da un regime autoritario per molti aspetti simile a quello nazista, si era avvicinata sempre di più alla Germania nella speranza di poter recuperare i territori che aveva perso in seguito alla sconfitta nella Prima guerra mondiale. Speranza che si concretizzò negli anni dal 1938 al 1941. Con i nuovi territori la popolazione ebraica che viveva nella “Grande Ungheria” raggiunse i 725.000 abitanti, esclusi i circa 100.000 ebrei che si erano convertiti al cristianesimo ma che erano ancora considerati dal punto di vista razziale “ebrei”. Circa la metà della popolazione ebraica ungherese viveva a Budapest e faceva parte di una classe media che comprendeva molti professionisti7.

    Nel marzo 1938 l’Ungheria iniziò ad emanare leggi razziali antiebraiche sempre più dure e restrittive che limitavano la partecipazione degli ebrei alle attività economiche-professionali, e che imponevano agli uomini in età di servizio militare lo svolgimento di pesanti lavori che ne minavano gravemente la salute. La condizione degli ebrei peggiorò ulteriormente quando l’Ungheria, che era alleata della Germania nella guerra contro l’Unione Sovietica, cercò di sganciarsi progressivamente dall’alleanza dopo la sconfitta dell’esercito tedesco a Stalingrado (31 gennaio 1943 - resa del feldmaresciallo Paulus). La risposta di Hitler fu un controllo sempre più coercitivo sul governo ungherese fino ad arrivare all’occupazione militare dell’Ungheria nel marzo del 1944.

    Le forze di occupazione tedesche erano accompagnate da unità speciali a cui era stato affidato il compito di attuare anche in Ungheria la "Soluzione Finale". Ulteriori decreti antiebraici furono approvati in grande fretta. Agli ebrei fu imposto di indossare la “stella gialla” e di vivere reclusi nei ghetti. Tra il 15 maggio e il 9 luglio, con la collaborazione attiva della polizia ungherese, i tedeschi caricarono sui treni circa 430.000 ebrei con destinazione principale Auschwitz8.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 10Fig.5: composizione di foto tratte dall’Album di Auschwitz Fonte3. Le fotografie: realtà e messe in scena

    3.1 I ritratti e le storie di vita

    L’Album di Auschwitz contiene foto che ritraggono, al momento del loro arrivo, gli ebrei ungheresi ancora nei loro abiti civili e insieme alle loro famiglie: prima delle selezioni e dell’eventuale internamento, quando i deportati indosseranno le divise del lager e le loro teste verranno rasate. Si tratta di immagini che, se osservate attentamente, permettono di individuare (o ipotizzare) le classi sociali di appartenenza dei deportati: alta o media borghesia, popolo minuto. Molti provenivano da Budapest dove viveva una numerosa comunità ebraica ricca e colta, formata da professionisti, come medici, avvocati e ingegneri. Il sito The Jewish Community of Budapest offre l'opportunità di andare oltre alla serialità e all’anonimato delle fotografie prodotte dai nazisti (dove gli ebrei non erano persone ma merci da gestire), permettendo di associare idealmente i ritratti dei deportati alle loro storie di vita e di scoprire la loro umanità9.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 5Fig.6: donne al lavoro per immagazzinare i beni sottratti ai deportati Fonte3.2 La rapina degli oggetti personali

    All’arrivo, i deportati erano subito privati dei loro oggetti personali. Questi venivano trasportati mediante camion in appositi magazzini che i detenuti chiamavano “Canada” (la terra dell’abbondanza). Erano beni così ingenti, che il “Canada II” di Birkenau richiese 1.000 detenuti aggiuntivi per occuparsi dei bagagli sottratti ai deportati. Per la maggior parte vi lavoravano donne ebree, che registravano, smistavano ed esaminavano gli oggetti di valore. Oro e metalli preziosi venivano inviati alla Reichsbank; gli indumenti e le scarpe erano destinati principalmente alla popolazione tedesca. Gli uomini delle SS del campo tenevano per sé le merci deperibili.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 6Fig.7: foto dell’Album di Auschwitz: inizio delle operazioni di selezione Fonte3.3 La selezione dei deportati

    Le operazioni di selezione dei deportati, che decidevano il loro destino (camere a gas o internamento) venivano svolte in una area lunga 800 metri e larga 40, separata dal campo di prigionia, il cui centro era lo scalo ferroviario (Judenrampe); ed è qui che hanno lavorato i fotografi dell’album, seguendo i gruppi di persone che venivano inviate alla registrazione per l’internamento o alle camere a gas. Le fasi della selezione costituiscono pertanto il nucleo dell'album e fanno riferimento non ad uno ma a più trasporti di ebrei dall’Ungheria.

    Le selezioni avvenivano subito dopo l'arrivo. Gli ebrei erano divisi in due gruppi: “adatti al lavoro” e “inabili al lavoro”. Dapprima le SS e gli internati assegnati alla Judenrampe disponevano i deportati in due file: in una fila gli uomini e i ragazzi più grandi, nell’altra le donne e i bambini. I membri della stessa famiglia venivano separati con la forza gli uni dagli altri. La selezione veniva effettuata dai medici o da altro personale delle SS i quali giudicavano “idonee al lavoro” le persone non anziane e che all’apparenza erano sane e forti. Queste persone, in parte, erano poi assegnate alle diverse sezioni del campo come nuovi internati.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 7Fig.8: gli ebrei ungheresi internati nel lager Fonte3.4 Gli internati

    Quelli che erano considerati “idonei al lavoro” dovevano sottoporsi a una serie di procedure umilianti. Per prima cosa la “disinfezione”: uomini e donne insieme, denudati e rasati, venivano “sanificati” in una area denominata “Nuova Sauna” (Neue Sauna). Poi venivano tatuati sull’avambraccio sinistro con il numero di serie del campo, che serviva come registrazione, e vestiti con le divise degli internati. Tutti gli internati erano alloggiati in baracche non riscaldate, non avevano quasi accesso all’acqua pulita e quindi soffrivano costantemente di scarsa igiene e della mancanza di indumenti puliti e caldi. Le razioni alimentari erano spesso limitate ad una tazza di zuppa e ad una magra razione di pane al giorno. In queste condizioni le malattie si diffondevano molto rapidamente. E così migliaia di prigionieri morirono per i lavori forzati, le malattie e la fame.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 8Fig.9: donne, vecchi e bambini in attesa di entrare nelle camere a gas Fonte3.5 Le camere a gas

    Gli “inabili al lavoro” venivano portati direttamente dalla Judenrampe ai crematori, dove erano obbligati a spogliarsi e a entrare nelle camere a gas. Per evitare il panico, veniva detto loro che dovevano farsi una doccia all’interno di quelle camere stagne. Erano necessari fino a 15 minuti prima che morissero, soffocati in modo atroce. Poi i detenuti del commando speciale (Sonderkommando) rimuovevano i cadaveri e li incenerivano. All'inizio dell'estate del 1944, ad Auschwitz-Birkenau erano in funzione cinque centri crematori. Ognuno era costituito da tre parti: uno spogliatoio, una grande camera a gas e un'area che conteneva i forni crematori. In questi, in un solo giorno potevano essere uccise e incenerite complessivamente fino a 8.000 persone.

    Le fotografie dell'Album di Auschwitz (che non inquadrano le camere a gas) mostrano uomini, donne e bambini in un boschetto vicino all'ingresso del Crematorio IV. Stanno aspettando davanti all'edificio dove verranno uccisi. Sono in attesa, ignari della loro sorte.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 9Fig.10: composizione di foto tratte dall’Album di Auschwitz Fonte3.6 La violenza nascosta

    In queste fotografie non appaiono guardie armate con cani lupo in atteggiamento aggressivo, e i deportati si comportano in apparenza come masse docili pronte ad eseguire gli ordini delle SS. Ma questa era una messa in scena. Lo capiamo dal fatto che la grande maggioranza dei trasporti arrivava di notte e non di giorno, mentre gli arrivi ritratti nell’album avvengono di giorno. La realtà era molto diversa. I deportati, sfiniti dalle molte ore di viaggio, spesso senza cibo e acqua, scendevano terrorizzati dai vagoni merci alla luce delle fotoelettriche del lager. Le guardie intervenivano con brutalità per dividere i gruppi famigliari, formando colonne distinte di uomini, donne e bambini da avviare alle operazioni di selezione.

    Nonostante questo camuffamento della realtà, a ben guardare, nell’album ci sono fotografie che ritraggono involontariamente, ai margini della scena, guardie munite di bastoni per colpire i deportati e altre che esprimono l’odio religioso e razziale verso gli ebrei, mostrando rabbini costretti a togliersi il copricapo, persone malate e altre abbruttite dalla fatica e dalla fame. I crematori, che non vengono inquadrati, sono però presenti nelle fotografie con il loro fumo acre e maleodorante che incombe sulla Judenrampe (in alcune foto si vedono i deportati che si tappano il naso e la bocca).

    L’album testimonia anche un’altra forma di violenza, quella dei fotografi che con freddezza e cinismo ritraggono gli ultimi istanti di vita degli ebrei. Vengono infatti scattate foto di donne, vecchi e bambini, inconsapevoli del loro destino, seduti nell’erba di un prato, come se facessero un picnic, prima di entrare nelle camere a gas.

     

    4. Sitografia

    - The Auschwitz Album, Yad Vashem.

    - What is the Photograph's Context? The Auschwitz Album di Sheryl Silver Ochayon, Yad Vashem.

    - Auschwitz – Album (Auschwitz-Birkenau, 1944), Deutsches Historisches Museum.

    - Album Auschwitz. Sulla fotografia criminale nazista di Pino Bertelli.

    - The “Auschwitz Album”: Between object and historical document articolo di Tal Bruttmann, Christoph Kreutzmüller, Stefan Hördler.

    - Chambre noire. Une revisite historienne de l'album d'Auschwitz di Nicolas Mariot, 2019.

    - Das Auschwitz-Album der SS di Christoph Kreutzmüller, Spiegel Geschichte, 26/01/2020.

    - L’album d’Auschwitz, entre objet et source d’histoire, recensione di Jean-Michel Crosnier, Mémorial de la Shoah, 25/03/2021.

    - Auschwitz en images: apprendre à lire les traces laissées par les nazis di Chloé Leprince, 27/01/2023.

    - Un album d’Auschwitz. Comment les nazis ont photographié leurs crimes, un livre de Tal Bruttmann, Stefan Hördler, Christoph Kretzmüller.

    - Un album d’Auschwitz – Comment les nazis ont photographié leurs crimes.

    - How I found my Bubby in ‘The Auschwitz Album’ di Matt Lebovic, «The Times of Israel», 13/09/2019.

    - "Un album d'Auschwitz" dans les médias.

    - Auschwitz-Birkenau State Museum – History.

    - Auschwitz, Enciclopedia dell’Olocausto, USHMM.

    - Auschwitz-Birkenau, Yad Vashem.

    - Hungary in World War II, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    - The Holocaust in Hungary, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    - Le parole calde della giornata della memoria. Strumenti per studiare la storia e non per commemorarla di Antonio Brusa, «Historia Ludens».

    - La storia di Ovadia Baruch. Una testimonianza filmica della Shoah. Laboratorio didattico di Mariangela Binetti, «Historia Ludens», 31/10/2013.

    - La shoah spiegata ai ragazzidi Antonio Brusa, «Historia Ludens», 25/01/2015.

    - La normalità dello sterminio. I nazisti, gli ebrei e gli altri di Luigi Cajani, «Historia Ludens», 08/03/2015.

    - Gli immaginari del genocidio ebraico. Nella società e nella scuola di Raffaele Pellegrino, «Historia Ludens», 26/01/2016.

     


    Note

    1 Oltre all’Album di Lilly Jacob, esiste un altro album fotografico su Auschwitz realizzato dai nazisti che ritrae il “tempo libero”, le “attività sociali” delle guardie del campo e le cerimonie ufficiali in occasione delle visite delle autorità civili e militari del regime nazista (Karl Höcker Album). Sulla costruzione del lager, si veda l’articolo, con un’ampia documentazione fotografica e planimetrica,L’architettura di Auschwitz di Guido Morpurgo, in «Engramma», giugno 2023.

    2 Tal Bruttmann, Christoph Kreutzmüller, Stefan Hördler, Un album d'Auschwitz: Comment les nazis ont photographié leurs crimes, Seuil, 2023 (edito anche in inglese An Auschwitz album. How the Nazis photographed their crimes e in tedesco Die fotografische Inszenierung des Verbrechens. Ein Album aus Auschwitz).

    3 Paul Salmons ha curato una mostra dal titolo Seeing Auschwitz inaugurata contemporaneamente presso la sede delle Nazioni Unite a New York e la sede dell'UNESCO a Parigi, nel gennaio 2020. La citazione è tratta da una intervista rilasciata a «The Guardian».

    4 The Auschwitz Album, Yad Vashem.

    5 Le fotografie dell’Album di Auschwitz sono tutte visualizzabili con accesso libero e gratuito sul sito dello Yad Vashem (il museo dell'Olocausto in Israele). Accompagnate da didascalie, sono suddivise in sei capitoli che corrispondono alle diverse fasi della deportazione degli ebrei ungheresi a Birkenau – Auschwitz II: Arrivo (Arrival), Selezione (Selection), I selezionati per i lavori forzati (Selected for Slave Labor), L’assegnazione ai lavori forzati (Assignment to Slave Labor), I beni personali dei deportati e il loro trasporto nei depositi del lager (“Kanada”), Gli ultimi momenti prima delle camere a gas (Last Moments before the Gas Chambers).

    6 Auschwitz, Enciclopedia dell’Olocausto, USHMM.

    7 Hungary in World War II, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    8 The Holocaust in Hungary, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    9 Il sito The Jewish Community of Budapestcontiene interessanti profili biografici dei membri della comunità ebraica di Budapest.

  • Non c’è una fine. Camminare a Auschwitz con Piotr Cywiṅski

    Enrica Bricchetto

    Non c’è una fine. Camminare a Auschwitz con Piotr Cywiṅski

     

    Una lezione per il 27 gennaio che parta dall’oggi: è uscito il libro di Piotr Cywińsky, il direttore del sito memoriale di Auschwitz. In classe ci si può lavorare con quello che si trova in rete. Per conoscere, discutere, comprendere e rammemorare giacché “fare storia al tempo presente è una sfida”. 


     

     Intorno al libro

     

     

    Il modo in cui le informazioni circolano, rimangono e possono essere recuperate nella rete,  aiuta a costruire attività didattiche. Cliccando sul  link della scheda libro di Non è la fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz di Piotr Cywińsky, nel sito della casa editrice Bollati Boringhieri, chi avesse perso l’uscita degli articoli in tempo reale, può recuperare tutto: l’intervista che su “Repubblica” Glodek Goldkorn fa a Cywińsky,  l’analisi approfondita di Enrico Manera su Doppiozero,  le clip di Radio 1 e di Farehneit, su Radio 3 e infine  Una morale essenziale, la recensione di David Bidussa sulla “Domenica” de “Il Sole 24 ore”.  Mi sembra che sia stato già detto e scritto tutto quello che serve per decidere se  leggere o no  questo libro.  Di sicuro ce n’è abbastanza per lavorarci a scuola. 

     

    fig. 1 La scheda libro nel sito della casa editrice Bollati Boringhieri

     

     

    Con gli occhi del docente

      

    Ho pensato quindi che il libro di Cywińsky potesse essere messo al centro della mia lezione sul 27 gennaio del 2017, Giorno della Memoria. Ha un legame forte con l’oggi - parla di un’esperienza di vita e di lavoro - e, allo stesso tempo, apre molte porte sul passato. Del libro di Cywińsky ho fatto una lettura didattica che ho trasposto in un’esperienza da portare in classe.
    In questo articolo do conto  sia della progettazione sia della realizzazione della mia lezione - producendo tutti i materiali che possono servire al docente.


    Mentre leggevo il libro, da più parti ho avuto notizia - da Facebook e da un articolo su "Il Post" e su “La Stampa” del sito Yolocaust. de e, nel frattempo, è uscito il film Austerlitz  (se ne parla in questo sito). Anche questi c’entrano con la lezione sul 27 gennaio del 2017 che sto per raccontare.

     

     

    Il 27 gennaio e la narrazione storica

      

    Chi insegna storia incontra il popolo ebraico in molti momenti del suo discorso storico: quando si trattano le città e gli antichi regni intorno al 1000 a.C., quando nella Palestina romana, all’epoca di Tiberio, nasce, viene ucciso Cristo e il cristianesimo si diffonde; quando si parla della distruzione del tempio di Gerusalemme del 70 d.C. e della Diaspora, evento centrale e non facile comprendere fino in fondo per gli studenti.  Dal 135 d.C. in poi gli ebrei migrano per ogni dove e si stabiliscono in comunità con lingue e religioni diverse. Nell’occidente  cristiano gli ebrei, uniti dall’appartenenza alla comunità, dalla religione e dalla lingua, vivono a parte. Già dal IV sec. vengono emanate leggi che sanciscono a livello giuridico l’inferiorità degli ebrei e la loro marginalizzazione: non possono contrarre matrimoni con i cristiani, costruire sinagoghe troppo visibili  e possedere schiavi cristiani.  Dal 1215 il Concilio Lateranense IV prescrive che   indossino un segno distintivo  e con la peste del 1348 diventano individui pericolosi, in seguito anche oggetto di espulsioni.  Poi la Limpieza de Sangre, poi la costruzione dei ghetti, e il lungo travaglio della costruzione degli stati moderni in Europa. E ancora la diversa storia tra gli ebrei occidentali e quelli orientali, i pogrom che si intensificano soprattutto nell’Europa orientale, il passaggio dall’antigiudaismo cristiano all’antisemitismo e il progetto del sionismo fino alla politica nazista dello sterminio. Nell’affrontare queste tappe, in momenti diversi della formazione storica degli studenti, si precisa anche il lessico: dal mettere a fuoco il significato di  popolo eletto e popolo del libro, alla definizione dell’identità del popolo ebraico, alle distinzioni tra antigiudaismo, antiebraismo e antisemitismo.

     

     

    Ogni anno, il 27 gennaio

     

    fig. 2 Manifesto per il 72° anniversario della liberazione di Auschwitz

     

     Il 27 gennaio di ogni anno mi spinge a mettere a confronto le tematiche già affrontate relative al popolo ebraico con l’anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, in Italia la data della commemorazione della Shoah. Ogni anno cerco di mettere in relazione il 27 gennaio con un momento della storia dell’ebraismo e con quello che offre il dibattito pubblico. Antonio Brusa ha già riflettuto molto su come affrontare didatticamente il Giorno della Memoria, su come costruire una didattica della Shoah cognitivamente solida, basata su un incremento conoscitivo che consenta recepire in modo critico le scelte dei media su questo tema (vedi riferimenti bibliografici).  Penso che, in questo senso, l'attenzione ai contenuti storici e al loro uso pubblico vadano affrontati parallelamente.

     

    Ogni anno pubblicazioni di ricerca e  di riflessione o la  fiction (romanzi e film) propongono ai docenti nuove prospettive per tornare sul tema in modo non ripetitivo e soprattutto non soltanto commemorativo. Il partigiano Edmond di Aharon Appelfeld, per esempio, appena uscito da Guanda porta in una dimensione della Shoah molto diversa, quella dell’ebreo che reagisce, che resiste (recensione) o un film straordinario come Remember di Atom Egoyan (2016, trailer), che affronta, in modo profondo, il tema della memoria latente nelle vite di vittime e carnefici. Per il docente quindi molte sono le possibilità per tornare su un tema consueto in modo un po’ diverso e per allontanare il pericolo della Historia Magistra - un vero e proprio stereotipo che accomuna la maggior parte degli studenti ma anche degli adulti - che ripetono il mantra che bisogna conoscere per non rifare gli stessi errori. Se - come scrive David Bidussa La storia al tempo presente è una sfida, uno dei suoi momenti essenziali è “ cogliere le analogie che fanno sì che la storia faccia le rime, ma non si ripete sempre uguale, presenti dei tratti che consentano di fare delle comparazioni, o di vedere le analogie e le differenze, ma non di dare sempre la stessa risposta”. La storia serve per capire che cosa il genere umano è in grado di fare nel bene e nel male e, qualche volta anche il perchè.

     

     

    La proposta didattica

      

    L’anno scorso, in questo sito, ho recensito il romanzo di Carlo Greppi, Non restare indietro, e proprio Greppi, giovane storico dell’età contemporanea e scrittore, ha segnalato e tradotto il libro di Cywińsky, Non c’è una fine, scrivendo una bella postfazione sui viaggi della memoria. Quest’anno ho scelto una via più operativa. Il libro di Cywińsky è la risposta al perché ogni anno più di un milione di persone visitano il sito memoriale di Auschwitz e aiuta chi ci è già stato a capire di più; è un piccolo manuale per dare senso al racconto dello sterminio degli ebrei in Europa ma anche ad altri stermini, che sono venuti dopo. E’ un libro che serve per riflettere sull’aspetto umano della Shoah, intesa come azione di uomini verso uomini, genere umano verso genere umano.

     

    fig. 3 La presentazione del libro a Milano, il 13 gennaio, con autore e curatore (Articolo 21

     

     

    Metodo e strumenti

      

    Nelle mie classi gli studenti sono abituati a leggere e a lavorare sui materiali in digitale a casa, dai loro computer o soprattutto dai loro telefoni. Utilizzando il loro dispositivi, accedono al nostro ambiente di classe dove possono leggere le mie consegne e esplorare materiali, mettere e condividere i loro testi o i loro artefatti. Quasi tutti hanno scaricato sul telefono le app di Google Classroom, Google Drive, Google Doc e Presentazioni.
    Per quel che riguarda il metodo, da tempo in classe utilizzo il modello di lezione EAS (Episodi di Apprendimento Situato) messo a punto da Pier Cesare Rivoltella e sviluppato da me in ambito di didattica della storia, le cui caratteristiche si chiariranno procedendo nella lettura.

     

    Quest’anno in occasione del 27 gennaio, per la classe quarta, ho pensato di mettere insieme due esperienze: realizzare un EAS sul libro di Cywińsky e assistere a Il piacere dell’odio, che il regista e attore Marco Alotto - autore anche del testo - ha messo in scena con la compagnia Itaca teatro, composta da giovanissimi attori (teatro Astra di Torino, 23 gennaio 2017). Questo spettacolo teatrale, mostrando le forme che prende l’odio in varie esperienze di genocidi - inizia con Auschwitz, poi la Bosnia, Ruanda, Cecenia e di nuovo Auschwitz - ha richiamato il tema della responsabilità dell’individuo con una recitazione corale di grande intensità e coinvolgimento.

     

    Fig.4 La locandina dello spettacolo

     

     

    Lavorare in anticipo (a casa)

     

     La mia lezione in classe sul libro di Cywińsky è stata preceduta dalla seguente consegna:

    apri il link della scheda del libro Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz di P.Cywińsky  che trovi nel sito della casa editrice Bollati Boringhieri e:

    A. Ascolta le clip della radio;
    B. leggi l’intervista a Cywińsky su “Repubblica” del 9 gennaio 2017 e rispondi a queste domande:

    1. Chi è Cywińsky?
    2. Che lavoro fa Cywińsky?
    3. Perché per il suo lavoro sono necessarie “umiltà” e “insolenza”?
    4. Quali caratteri di autenticità - secondo Cywińsky si sono conservati a Auschwitz?
    5. Riporta la definizione di empatia che dà Cywińsky nell’intervista.
    6. Riscrivi quello che ti colpisce di più delle risposte di Cywińsky.
    7. Cerca informazioni su Glodek Goldkorn partendo da questo link.
    8. Analizza le domande di Goldkorn: ti sembra che sia d’accordo con quello che sostiene Cywińsky o no? In che parte dell’intervista emergono la personalità e la storia personale di Goldkorn?

     

    C. leggi l’articolo di E. Manera su “Doppiozero” e metti in evidenza, spiegandole con parole tue “le chiavi di ingresso” alla lettura del libro di Cywińsky proposte. Puoi farlo, creando una mappa digitale o un’infografica, in modo narrativo o in forma di elenco.

    D. Cerca i trailer dei tre film usciti quest’anno per il 27 gennaio (Austerlitz, In viaggio con Fanny, Nebbia in agosto) e scrivi, dalla sola visione del trailer, quale, secondo te, il tema di ognuno dei film e se sono opere di fiction o di non-fiction.

     

    L'attività a casa il giorno precedente alla lezione  deve essere caricata nell' ambiente Classroom. Questo significa che io posso, se voglio, iniziare la lezione avendo chiaro che cosa hanno fatto gli studenti e quali difficoltà hanno trovato. Vorrei precisare che ogni studente ha a disposizione la versione completa del lavoro da fare a casa. In realtà la sua realizzazione può avvenire a vari livelli. Alcuni vanno oltre quello che viene proposto loro. Altri adeguano le consegne ai propri stili di studio o alle loro modalità di apprendimento. Chi ha problemi di lettura può concentrarsi sulle clip radio e da lì ricava gran parte delle informazioni. Per le domande su Goldkorn, nel sito Feltrinelli c’è un’intervista che dà elementi sufficienti per capire chi è (link).

    Rispetto all’analisi di Manera - non scritta certo per adolescenti - la richiesta di mettere in evidenza le “chiavi di ingresso”, cioè gli aspetti individuati come più significativi, consente di orientarsi meglio nel testo. O ancora, questi studenti nel loro file di consegna possono dare risposte per parole chiave o in forma di schema. La fase anticipatoria dell'EAS - così viene definito il lavoro che precede la lezione - consente al docente di progettare nell’ottica della personalizzazione, necessaria in classi eterogenee come quelle attuali. Tale modalità di lavoro è facilitata dall’ambiente digitale e punta all’inclusione di tutti gli studenti nella proposta didattica.

     

     

    A scuola

      

    All'inizio della lezione il  gruppo classe era quindi  variamente informato. Avevo già guardato i loro lavori a casa,  perciò ho fatto una breve raccolta di dubbi o impressioni e poi ho preso  la parola per fare quello che nel metodo EAS  viene definito Framework. Qui il docente crea - in venti minuti - una cornice in cui include gli elementi più importanti ripresi dai materiali dati a casa e aggiunge informazioni, riflessioni e spunti per svolgere l’attività in classe.  Aver già fatto il lavoro a casa determina un coinvolgimento immediato.

     

    Ho scelto questa volta di fare una lezione narrativa, con il libro in mano sul libro. In effetti non lo faccio sempre, perché penso che anche le versioni digitali del libro siano il libro stesso: la carta o i pixel sono soltanto il supporto. In questa lezione, però, ho portato il libro. Quando lo faccio, quasi sempre qualcuno me lo  chiede  in prestito.
    Aggiungo anche che so, perché ne abbiamo già parlato, che la maggior parte dei miei studenti, come quasi tutti gli adolescenti, vorrebbero visitare Auschwitz (qualcuno lo ha già fatto) e guardano con grande interesse al periodo del fascismo e del nazismo. Conoscono anche un buon numero di film.

     

     

    Il Framework

     

     

    Fig. 5 Il portale del sito memoriale di Auschwitz

     

    Come sempre capita nel nostro lavoro  più tempo del previsto è stato occupato dalla raccolta dei dubbi sul lavoro a casa e anche sullo spettacolo. Ho comunque ascoltato e risposto.
    Essendosi  ridotto il tempo per la mia lezione,  ho deciso di proiettare una sorta di scaletta in cui avevo inserito gli aspetti di cui avrei voluto parlare, mettendo in grassetto le parole chiave. Ho capito che non avrei potuto toccare tutti quei temi e ho chiesto agli studenti di dirmi quali aspetti sembravano loro più interessanti. Ho ragionato su quelli e ho letto le parti corrispondenti del libro di Cywińsky. Questa scaletta può essere usata anche come guida per la lettura del libro o come spunto per cercare, al suo interno, i temi relativi alla Shoah.


    Ecco la scaletta:

     

    1.La foto in copertina. E’ Zeilek, ha nove anni, la foto lo ritrae appena arrivato a Auschwitz, un attimo prima di essere mandato a morte. E’ nell’Album Auschwitz  ed è il fratello di Lili Jacob che ha trovato l’Album. Oggi è il logo del museo (p.29).


    2. Il genere letterario. “ Questo libro, che mi sono impegnato a scrivere principalmente perché me l’hanno chiesto alcuni amici e che è stato scritto la sera tardi, nelle rare vacanze e talvolta nelle assenze per malattia, è una raccolta di considerazioni soggettive e di osservazioni –qualche volta molto personali sul Luogo che sommerge, del quale non si può essere all’altezza, e che non si potrà mai comprendere del tutto C’è un tono quasi di riflessione tra sé, che rende la lettura interessante e piena di porte di che si aprono, è un testo soggettivo ma ricco di informazioni storiche, traspare la preoccupazione di Cywiṅski di fornire alcune prove di quello che scrive ma anche una ricerca di approvazione. Sta facendo quello che è giusto per conservare Auschwitz (p.27).


    3. Il percorso di memoria dagli oggetti alle persone (p.29)


    4. Come avere sempre la percezione che in Auschwitz ci sono state le persone: Cywiṅski risponde personalmente a chi chiede informazioni sui propri parenti (p.35-36).


    5. Il tema dell’indifferenza umana: dove erano tutti gli uomini mentre il nazismo attuava la soluzione finale? Dove siamo noi oggi di fronte alla distruzione della città di Aleppo? Per questa ragione C. ritiene che la storia di Anne Frank abbia in sé un modello educativo sbagliato: era una vittima, non aveva chance, nessuno poteva salvarle o proteggerla, nemmeno la sua famiglia. Non è un modello in cui identificarsi (pp. 70-73). Ai giovani bisogna dare un modello attivo: siamo proprio sicuri che di fronte alle tragedie contemporanee non possiamo fare niente, un ragazzo polacco che sentiva le urla di Auschwitz poteva gettare un pezzo di pane oltre il filo spinato ?


    6. Il luoghi del crimine. Le lapidi di Treblinka, Chelmo e Sobibor e l’architettura del sito di Auschwitz, dove molto è rimasto (p. 38).
    7. Che cos’è il Museo oggi? Un museo, un memoriale, un cimitero, un sito memoriale? No, la parola per definirlo è Auschwitz: racchiude tutto. (p. 39).


    8. Archeologia del campo: la stella di David (p.42)


    9. Esiste un luogo che rappresenti l’intera Auschwitz? Auschwitz è Pars pro toto (50-51).


    10. C.osserva le ragazze e i ragazzi che entrano: rumoreggiano, chiacchierano tra loro ma escono in silenzio. Non ritiene di dover riprendere chi all’inizio sembra non rendersi conto di dove si trova. Sa che, tutti, escono diversi da come sono entrati. Sanno che entrano per vedere conoscere capire ma non sanno come escono (p.46).


    11. A Auschwitz ci sono più sopravvissuti che negli altri campi: era luogo di lavoro schiavo e centro di sterminio. Auschwitz ha una forma ancora decifrabile (p. 54)


    12. Come far comprendere oggi Auschwitz a livello simbolico. L'autore mette al centro della narrazione la struttura. La narrazione della memoria coincide con il luogo. Un luogo per molto tempo narrato dai sopravvissuti. Oggi non ci sono più ma le loro testimonianze rimangono. C’è un sostegno reciproco tra parole e il luogo. Sono un tutt’uno. Auschwitz non può rispecchiare una narrazione decisa a tavolino, un progetto educativo. Una narrazione così andrebbe oltre e Auschwitz perderebbe il suo significato universale (p.58-61).


    13. Dialogo e ed empatia: o senti il dolore o non lo senti. Punto e basta (p.68).


    14. Perché così tante persone visitano Auschwitz oggi? Perchè è un luogo di autenticità. L’autenticità è il paradigma di ogni sito memoriale e consente di vivere, non di visitare Auschwitz. Per questa ragione non devono esserci aggiunte narrative di tipo multimediale. Oggetti e strutture dicono tutto quello che si può dire. C. dunque propende per una conservazione minimalista, che mantenga quello che c’è e, pur prendendo in esame, i consigli di cambiamento che riceve, rimane fermo sul mantenimento di quello che c’è, almeno per quanto è possibile (p. 64).


    15. Il tempo ha un effetto catastrofico sul sito di Auschwitz, sui più di 150 edifici, qualcosa come 300 rovine, oltre 100000 scarpe, chilometri di recinzione di filo spinato ecc. Il restauro deve mantenere leggibile il luogo, sostituendo le parti che il tempo rovina.
    16. Passeggiare nel campo per percepirlo. Cogliere il contrasto con la vita normale che scorre incontro. Vedere la diversità delle stagioni. La passeggiata è un’esperienza di passaggio (pp.76-77).


    17. Spesso chi visita Auschwitz, soprattutto se è adolescente, domanda alla guida perché, nel percorso che va dalla Judenrampe alle camere a gas nessuno provava, almeno a scappare. Gli alleati dei nazisti erano: la famiglia e la speranza (pp.82-84 e conclusione a p. 87): tenere unite le famiglie e alimentare la speranza di essere trasferiti in campi di lavoro.


    18. Quante persone lavoravano a Auschwitz? C’erano 70.000 persone libere: soltanto 1600 furono processate dopo la guerra (89-90).


    19. Come si diventava SS (p.93).


    20. La Shoah dei bambini (pp. 98-101).


    21. Questo luogo non può essere normalizzato (pp.107-108)


    22. La responsabilità di Dio. Qui C. risponde da cattolico: “Perché l’uomo ha permesso che questo accadesse? (p.105).


    23. Di che cosa è memoria Auschwitz? La memoria “E’ la base e il compito di questo luogo”. Degli eventi, delle sofferenza, della morte, delle vittime, di tutti quelli che c’erano, dei sopravvissuti, dei carnefici e del loro odio ma anche dell’eroismo di alcuni (p.114).


    24. Perché è stato così difficile ricordare Auschwitz?Finché non sono cambiate le generazioni il senso della condivisione della colpa ha mantenuto il silenzio (p.116).

    25 Consapevolezza. “La memoria deve essere al servizio della consapevolezza e la consapevolezza deve essere costruita sulla memoria. Ed è qui che in genere il compito diventa molto più difficile. Provare a far capire ai giovani cosa significa che quasi un intero popolo è stato assassinato in Europa, e che in più si tratta del popolo che diede all’Europa cristiana le sue fondamenta, è immensamente problematico” (p.120).


    26 A Auschwitz l’Europa ha perso se stessa e le basi culturali, religiose, politiche su cui si fondava. Deve essere ripensata (p.122).


    27. Che cosa posso fare io? La responsabilità: “Oggi coloro che visitano Auschwitz provano a capire come si è arrivati a quest’inferno in terra, questo anus mundi. Maledicono chiunque non sia riuscito a fare tutto il possibile per impedire che accadesse, per opporsi. Camminando tra le recinzioni di filo spinato, si sentono vicini alle vittime. Vedendo le torrette di guardia tremano per l’empatia. A volte piangono, e non si può dubitare che le loro lacrime siano sincere. E poi tornano a casa (124).

     

     

    Il videostimolo

     

     

    fig. 6 Shoah, animazione di Giuliano Parodi. (link)

     

    In un EAS  al termine della parte del docente c’è sempre un videostimolo che  serve a introdurre elementi meno argomentativi e esplicativi,  più legati al piano emotivo.  Il videostimolo è uno stacco tra la prima e la seconda parte della lezione, predispone allo svolgimento della fase successiva.
    Per questa lezione e per questa occasione ho scelto Shoah , un video di animazione di Giuliano Parodi , che ho visto nella pagina Facebook di Enrica Ena, una collega della scuola primaria che lavora, facendo attività didattiche molto significative e profonde, con il metodo EAS ( link).

     

     

     L'attività in classe

      

    Il metodo EAS  richiede  che a questa fase, detta “operatoria”, si dedichi almeno un’ora.

    Per le classi digitali (che usano dispositivi propri o della scuola) ho previsto queste attività.

    1. Scaricate le prime pagine del libro di Cywińsky, usando l’applicazione Kindle. Leggete e individuate che cosa succede il 17 dicembre 1942. Sono tre fatti storici e simbolici. A quali considerazioni rimandano?

    2. Scrivete in poche righe alcune considerazioni sulle attività svolte fino qui.


    3. Immaginate di poter intervistare Cywińsky. Che cosa gli chiedereste?


    4. Esplorate il sito del memoriale di Auschwitz, individuare le fonti storiche o immagini del campo, sceglierne alcune e commentarle sceglierne alcune (link). Per questa attività si possono usare le seguenti app: Skitch, Thinglink.

     Se un docente decidesse di realizzare  questo EAS,  potrebbe sceglierne una da questo elenco, in base alla classe, al tempo e agli strumenti che ha. Il lavoro può essere fatto singolarmente o in piccolo gruppo. Quello che è importante è proporre un'attività realizzabile nel tempo previsto e che consenta agli studenti di aumentare le informazioni e la consapevolezza rispetto a tema tin questione.. 

     

     

    La discussione

     

     Al termine dell’attività, ho riproiettato il trailer di Austerlitz,il documentario girato con camera fissa che per un'intera giornata ha ripreso i visitatori, perlopiù giovani e per lo più distratti e rumorosi. Poi ho chiesto quanti dalla loro frequentazione dei social conoscevano il sito Yolocaust.de. (pochi). Abbiamo visitato il sito e visto i pochi fotomontaggi rimasti. 

    Ho sollecitato i loro commenti e le loro reazioni. La discussione è stata animata. Qualcuno ha osservato che il selfie si fa per ricordare dove si è stati. Ho cercato di arginare una deriva moralistica, sempre dietro l’angolo ("Io no lo farei mai!).  

     

    Questioni storiche, didattiche, di memoria

     

     Questo modello didattico, attraverso lo svolgimento delle sue parti, porta lo studente a apprendere in situazioni diverse: lavora guidato ma in autonomia a casa, a scuola ascolta il docente e si impegna  in attività di rielaborazione o creative. Infine ha uno spazio per la riflessione.

     

     Inoltre, come in questo caso, può condurre gli studenti nel vivo di un dibattito e può aiutare a capire che il giorno della Memoria non è un vuoto rituale, che parlare della Shoah interpella il nostro essere cittadini e coinvolge anche il mondo dei social che loro abitano o le loro abitudini, come fotografarsi continuamente. La Shoah è una questione di storia, di memoria e di empatia. Un’empatia che deve essere anche verso il mondo di oggi. E' un tema vivente.

     

     

    Piccola avvertenza finale

      

    L’EAS Non è la fine può essere realizzata per intero, se ne possono prendere delle parti o semplicemente modificarla.  
    Ho analizzato e approfondito il metodo EAS in ambito storico nel mio libro Fare storia con gli EAS. A lezione di Mediterraneo, Brescia, Morcelliana- Els, 2016, pp.188 dove suggerisco anche strumenti per il lavoro didattico e luoghi in cui reperire contenuti digitali.

     

      

    Riferimenti bibliografici

      

    PC. Rivoltella, Che cos’è un EAS. L’idea, il metodo, la didattica, Brescia, La Scuola, 2016
    A.Brusa, La terra di nessuno fra storia, memoria e insegnamento della storia. Didattica e non didattica della Shoah, in Popshoah, a cura di F.R. Recchia Luciani e C. Vercelli, Genova, Il Melangolo, 2016
    A. Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2011
    E. Traverso. Il passato:istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, Verona, Ombre Corte, 2006

     

     

    Siti web

     

    Memoriale Auschwitz

    Cremit(Centro di ricerva per i media, l'informazione e la tecnologia), Milano, Università Cattolica

    Deina, associazione viaggi  per i viaggi di memoria

     

  • PopShoah? Immaginari e pratiche di memoria pubblica intorno al genocidio ebraico

    Autore: Claudio Monopoli

     

    Varcata la soglia del settantesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, dieci anni dopo l’istituzione della Giornata mondiale della memoria, diventa un interrogativo imprescindibile chiedersi come insegnare la Shoah, fuori dalla retorica della celebrazione, immersi come siamo nel nuovo universo immaginario del XXI secolo. E’ l’universo dei nati dopo il 2000, pieno di immagini nuove, e in numero infinitamente superiore, di quelle che lo studente degli anni '90 poteva trovarsi ad osservare. L’origine di questo cambiamento sta nel fatto che quell’evento è divenuto oggetto di una possente industria culturale, fatta di libri, film, fiction, social media. Oggi, la Shoah è anche un insieme di immagini e concetti appartenenti alla cultura pop.

    Una ragazza si fa fotografare presso il Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa di Berlino (da un social)

     

    Come insegnare, dunque, la Shoah in questa nuova situazione? Rispondere a questo interrogativo è stato l’obiettivo della quarta edizione del Corso di Storia e Didattica della Shoah dell’Università degli Studi di Bari. “Popshoah? Immaginari e pratiche collettive intorno all’uso pubblico della memoria dello sterminio degli ebrei d’Europa” è il titolo del convegno, organizzato da Francesca Romana Recchia Luciani e Claudio Vercelli, (16 e 17 ottobre 2015), rivolto a docenti e studenti universitari.

    Il suo primo obiettivo è stato quello di delineare le modalità attraverso le quali la Shoah diventa un oggetto culturale di massa. Se prima a questo termine si associavano atmosfere di indicibilità, ora l’evento storico, proprio a causa della sua forte mediatizzazione, è diventato una metafora narrativa o, ancor di più, una semplice ambientazione per trame di libri o film. L’analisi della produzione cinematografica, proposta da Claudio Gaetani, rivela che è addirittura possibile parlare dei format “Holocaust film”, un genere le cui formule narrative sono usate anche in rappresentazioni di altro tipo, come quelle fumettistiche. Come osservato da Recchia Luciani, questa utilizzazione dell’evento storico provoca una perdita del senso del dramma stesso e crea un fertile terreno per la costruzione di ideologie revisioniste o negazioniste.

     La bambina dal cappottino rosso del film Schindler's List.

    Proiezione a cura della Comunità ebraica di Roma presso Largo 16 ottobre, 7 aprile 2013 (inizio del Yom Ha Shoah)

     

    Per un insegnamento rivolto agli studenti di oggi, cronologicamente lontani da quegli eventi, sarebbe necessaria una rappresentazione non spettacolarizzata, attraverso la quale recuperare il senso del dramma reale. Invece, la produzione filmica americana sembra orientarsi in direzione opposta. Ad esempio, l’immagine della bambina dal cappottino rosso, di Schindler’s List (ne ha parlato Damiano Garofalo), diventa un simbolo, soggetto a riprese e citazioni sul web e nelle fiction televisive, ormai privato di ogni collegamento alla tematica della Shoah. Non solo. Tale processo è stato ripetuto ed applicato anche alla figura di Anne Frank, il cui celeberrimo diario viene spesso utilizzato come testo scolastico sul tema. Oltre alla trasformazione in un “quasi-giallo” della famiglia Frank, testimoniata dalle recensioni al sito web della Casa di Anne Frank, le produzioni americane di Broadway e l’adattamento cinematografico di George Stevens, forniscono, secondo Fiorenza Loiacono, una prospettiva edulcorata della storia di Anne Frank, in cui la Shoah diviene sfondo marginale di una storia squisitamente adolescenziale, arricchita da ideologie individualistiche. Un processo di edulcorazione che si esaspera nella “carinizzazione” della figura della povera ragazza ebrea, operata dai manga giapponesi.

    "Carinizzazione" della figura di Anna Frank attraverso il manga giapponese di Megumi Sugihara e Naoko Takase

     

    Se, di fronte ad un tale panorama culturale, la costruzione negli studenti della memoria storica appare necessaria, tuttavia essa non può essere immaginata come un risultato da conseguire tramite il “rito” della celebrazione. La forma della ritualità e della consuetudine, spiega Cristiano Bellei, pone fine alle domande e moltiplica, in realtà, le banalizzazioni sul tema; così, ad esempio, per uno studente l’ “ebreo” può divenire sinonimo di “perseguitato”, al di fuori di ogni comprensione ed interrogativo circa le reali origini della persecuzione stessa.

    E’ necessario trovare e percorrere quella che Natascia Mattucci definisce la stretta strada che intercorre fra banalizzazione e sacralizzazione, per ricostruire una percezione lontana sia dai miti di indicibilità sia dalle spettacolarizzazioni. E’ un obiettivo che può essere ottenuto, se seguiamo il lavoro di Raffaella Di Castro, ascoltando le testimonianze dei parenti delle vittime della Shoah: testimoni di “secondo livello”, nati fra gli anni '60 e '80, le cui storie oscillano fra una voglia di apertura pubblica delle storie familiari e la necessità di custodirle nella dimensione privata.

    Il punto fondamentale, che occorre necessariamente tener presente per l’insegnamento della Shoah, è la “presentificazione” dell’evento storico. A partire da questo fenomeno, Claudio Vercelli invita i docenti a prendere coscienza, insieme agli studenti, sia delle costruzioni politiche operate sul concetto di Shoah, che includono anche contrapposizioni puramente dialettiche fra foibe e lager, sia dell'utilizzo decontestualizzato di immagini e concetti sul tema negli ormai diffusissimi social network. Come illustrato da Antonio Brusa, il compito del docente è quello di aiutare gli studenti a formarsi una coscienza storica. Questa è il frutto della rielaborazione delle conoscenze storiche e della memoria individuale. Non è, dunque, quello di partecipare a una celebrazione o alla custodia di una memoria pubblica. L’insegnante di storia insegna a studiare quell’oggetto, ormai lontano nel tempo, sia nella sua dimensione “verticale” di momento tragico dell’antisemitismo di lunga durata; sia in quello “orizzontale”, di contestualizzazione all’interno della politica generale di sterminio dei nazisti. Tre sono le configurazioni didattiche suggerite: l’analisi della pianificazione dall’alto del processo di sterminio; lo studio “dal basso”, dei soggetti che vi parteciparono, come vittime o oppressori o bystander; la costruzione culturale che ha accompagnato e ridefinito nel tempo questo processo.

    Osservando questo tema dal punto di vista storiografico, Guri Schwarz ritiene che, oltre alla memoria letterale, ovvero quella legata al contesto e all’unicità dell’evento, esista anche la memoria di tipo esemplare, che connette il singolo oggetto storico ad una o più idee generali. Tali memorie non solo possono coesistere, ma insieme generano anche le differenti interpretazioni storiografiche del tema, come quella che legge la Shoah come punto di arrivo dell’antisemitismo nella Storia d’Europa, o quella che considera tale evento un tassello di una più ampia storia di violenza e genocidi da collegare anche al contesto coloniale.

    Oltre ad una corretta e consapevole strutturazione dell’insegnamento in classe, occorre acquisire una piena consapevolezza dei possibili strumenti didattici. Il concetto stesso di “luogo della memoria”, ha spiegato Elena Pirazzoli, si presenta molto più ampio di come spesso viene inteso ed utilizzato. Per luogo, infatti, non si intende solo un elemento geograficamente localizzato, ma si può anche indicare una qualsiasi unità significativa, anche astratta, che rappresenta un simbolo per una comunità. Ciascun luogo di memoria può essere soggetto di “invenzione”, sia nel senso di scoperta del significato o evento storico ad esso correlato, sia nel senso di una costruzione immaginativa, quando a tale luogo vengano attribuiti significati storici, come accade a molti monumenti commemorativi. Anche i “viaggi della memoria” sono uno strumento didattico, che attraverso il tempo ha modificato usi e significati. Bruno Maida racconta le diverse fasi storiche del processo che ha reso il “viaggio della memoria”, da pratica riservata ai familiari delle vittime della Shoah, a strumento didattico. L’obiettivo di tale viaggio, suggerisce lo studioso, non deve essere la costruzione di ideologie da parte dello studente, ma l’invito ad un’acquisizione di senso di cittadinanza consapevole e partecipe.

    Foto ricordo di studenti di scuola media in occasione nel "Viaggio della memoria" del 2012

     

    L’immaginario, in conclusione, costituisce un filtro e un canale, attraverso il quale la società e gli allievi di oggi si connettono col passato tragico dello sterminio. Le conoscenze che esso veicola sono potenti e di effetto. Costituiscono da una parte un formidabile strumento di attrazione; dall’altra un altrettanto formidabile pericolo di perdere capacità di interrogarsi sugli eventi e di percepirne la drammaticità. Compito della scuola è, esattamente, tener vive le domande e costruire intelligenze capaci di farlo.

  • Un romanzo per il Giorno della Memoria (ma non solo). Non restare indietro di Carlo Greppi

    Autore: Enrica Bricchetto


    Un romanzo per il Giorno della Memoria (ma non solo). Non restare indietro di Carlo Greppi

    Se tutti i romanzi hanno una sorta di messaggio universale come fosse la battuta rivelatrice del carattere di un personaggio, Non restare indietro ha quello di cogliere il momento in cui, nella vita di un adolescente ordinario, fa irruzione un’esperienza forte, di svolta, che lo guida a mettere in  relazione presente e passato, vita e Storia. In questo romanzo, Francesco, il protagonista, acquisisce memoria storica, impara a “esserci” nella comunità dei pari e a entrare in rapporto con il mondo degli adulti. Compie un percorso di cittadinanza a tutti gli effetti. Certo, è fondamentale che la storia e la memoria con cui Francesco si confronta siano quelli della Shoah e che  il luogo, in cui si svolge un po’ più della metà della vicenda narrata, sia la scuola.


    La potenza della narrazione

    A differenza di molti romanzi che rappresentano la scuola come un mondo quasi perso in cui gli adulti non hanno più autorevolezza e gli argomenti presentati non interessano a nessuno, qui si racconta di una scuola che fa scelte forti e sa aprirsi al mondo e per questo ha studenti che si animano di fronte a proposte di senso.
    E ancora a proposito di differenze,  trasporre  in un contesto di fiction letteraria l’universo della Shoah, è una scelta importante (e coraggiosa). Ha ragione Jonathan Gottshall, quando, nelle sue riflessioni sulle potenzialità didattiche della narrazione spiega che,  attraverso la forma narrativa ­ in cui si stabilizzano le emozioni,­ passa più cultura che attraverso le forme espositive o argomentative1. Per Gottshall è sempre stato così, tuttavia, per il mondo di oggi, sembra ancora più vero.
    Questo romanzo crea un mondo possibile in cui  il lettore, in più punti, si emoziona, compiendo un’esperienza immersiva che  genera  un  apprendimento più profondo.

    Carlo Greppi, attingendo alla materia autobiografica che gli proviene dall’esperienza di educatore e dalle sue ricerche di storia2 costruisce  un soggetto originale.  Il narratore - in terza persona, focalizzato sul protagonista  -   governa un’azione narrativa che si muove su più piani: l’esperienza personale del protagonista, l’esperienza di classe di un laboratorio di didattica della storia, l’esperienza individuale e collettiva di un viaggio di memoria, direzione Auschwitz- Birkenau.

     

    Un romanzo per adolescenti, anche per adulti

    Francesco infatti  è un adolescente un po’ ribelle, in conflitto con il mondo degli adulti - genitori e professori. Non può cambiare famiglia ma è costretto a cambiare  scuola. Arriva alla Scuola di cui Non sappiamo il Nome, a gennaio. La 3C si sta preparando per il viaggio di memoria a Cracovia e  Auschwitz insieme a due giovani educatori. Ci si trova in mezzo, capisce che gli sta succedendo qualcosa di importante ma ha paura di affrontare la nuova classe e la nuova esperienza; è come paralizzato perché è in contatto continuo con le sue insicurezze, le sue paure e le conseguenze della sua condotta. Scruta i compagni, identifica i vari tipi umani: non tutti gli piacciono, anzi non  sopporta i prepotenti, ma Andrea, il suo amico di prima, lo aiuta. Il calcio è la sua  grande passione e ha un  amico, quasi fratello, Kappa, che sta nella Vecchia Scuola e fa il  writer. Francesco cerca di strappare ai genitori il permesso di uscire più sere possibile, beve qualche birra e pensa a come adattarsi a una realtà che lentamente lo mette di fronte a grandi eventi - personali e collettivi - costringendolo a fare salti di crescita.

    La scelta dell’autore di far esprimere tutti i personaggi del romanzo con un   linguaggio comune e  informale al punto giusto, che non scimmiotta la realtà,  e un alto livello di verosimiglianza dei fatti narrati, rendono questo romanzo parlante: ai giovani lettori -  ma anche a chi tutti i giorni vive nel lavoro scolastico il riflesso di una difficoltà tipica dell’età - i nostri allievi sono sempre adolescenti - e cerca, attraverso la cultura, di dare delle idee, di ampliare il punto di vista.

    Il lettore si sintonizza subito con il tempo interiore di Francesco, con le sue esitazioni e i suoi ripensamenti,  fino a comprendere che la dimensione personale della vita del giovane protagonista e le  fasi di un evento storico come la Shoah  entrano in contatto e trovano un ordine: da un lato la rabbia, l’indifferenza, un grande dolore e un cambiamento; dall’altro l’individuazione del nemico, la persecuzione, lo sterminio e la memoria.

     
    Nuove chiavi per raccontare la storia

    L’autore, Carlo Greppi, è un giovane storico della seconda guerra mondiale,   fondatore dell’associazione Deina3 che organizza viaggi  per studenti  nei luoghi di memoria in Europa e da un po’ di tempo collabora con Il tempo e la storia di Raistoria4. Ha quindi uno sguardo sulla materia storica da studioso e insieme da educatore ed è abituato a maneggiarla per farne racconto.

    Con questo romanzo, ma anche negli altri formati che utilizza, Greppi si impegna a trovare una chiave diversa, più contemporanea, per  affrontare la storia, una delle discipline oggi meno amate dagli studenti. A un’analisi più profonda si scopre che in realtà le critiche sono a come la storia è stata presentata a scuola, dove  pesa  un’eredità di mondo di ieri che non ce la fa né a cogliere le novità del dibattito storiografico né  a entrare in comunicazione con  le giovani generazioni. Queste sono grandi consumatrici di storia, nei più diversi  formati,  immerse in tante narrazioni e accedono a una molteplicità di contenuti  che la scuola non sempre accoglie e quasi mai pone in prospettiva didattica e critica.

    Posto che questa è la sfida della scuola di oggi, senza dubbio di  storici  come Carlo Greppi che, oltre alle loro ricerche, si pongano l’obiettivo di mediare i significati della storia e della memoria, c’è un gran bisogno. Nel romanzo si capisce bene quali sono i moventi che possono  spingere un adolescente verso la storia. La formazione di Francesco avviene perché incontra un’insegnante con il senso della memoria, autorevole e empatica verso i suoi allievi - la prof. che Solo A Un Certo Punto Ha il Nome -  un blocco di ragazzi di oggi, con le loro peculiarità, le loro reazioni, il loro modo di stare insieme a volte anche crudele e incurante degli altri. Una di questi, Martina, propone alla classe di fare un viaggio di memoria a Cracovia e Auschwitz. Da qui si sviluppa la seconda dimensione  narrativa  del romanzo  - la prima è la storia individuale di Francesco - che segue  la preparazione del viaggio, organizzato e seguito da due  educatori, sensibili e in sintonia con i ragazzi - Elena e Gianluca,  colti nell’immediatezza del loro lavoro.

    “Naturalmente non è una scena vera in senso stretto, ma l’abbiamo scelta perché ci permette di guardare in dettaglio quello che molti abitanti dell’Europa in guerra si sono trovati a vivere (48)”.

    Così, Elena  si rivolge agli studenti della 3C, dopo aver mostrato i primi venti minuti di Bastardi senza gloria di Q. Tarantino, quando il contadino Lapadite, sotto la pressione senza scampo di Hans Landa, colonnello delle SS,  svela, abbassando lo sguardo, di nascondere una famiglia di ebrei sotto il pavimento. Lapadite ha dovuto scegliere in fretta e Elena domanda ai ragazzi di discutere questo comportamento. Inizia da qui la terza dimensione narrativa del romanzo che si sviluppa intorno a una riflessione importante: quali posizioni può  prendere ognuno di noi di fronte a una prepotenza, a un’ingiustizia, a una discriminazione? A livello individuale - non si interviene quando una persona è maltrattata - a livello collettivo - non si interviene quando un gruppo è discriminato: è in ballo la responsabilità dei singoli. Elena aggiunge

    “è perché spesso era un attimo, decidere da che parte stare, sapendo o non sapendo quale rischio si stava correndo, cercando alibi per le proprie paure o non cercandone per potere avere coraggio”.  

    E Gianluca;

    “perché per molti, nell’Europa di allora era semplicemente troppo tardi. La palla di neve dell’intolleranza era diventata una valanga (p.48).

    Gianluca, ancora, in una lettera in risposta a Francesco, spaventato dal viaggio perché ha tante cose dentro che lo fanno stare male, scrive :

    “In questo viaggio andiamo verso il cuore nero del Novecento, uno dei punti più drammatici della storia dell’uomo. Ma lo facciamo per imparare a porci domande importanti sulla vita e su noi stessi. Sul nostro ruolo nel presente (p.123)”.

    Da questi pochi elementi forse si può capire che Non restare indietro è  un affondo narrativo  su se e come la realtà interpella  ognuno di noi, su quanto siamo pronti a capire e prendere posizione. Chi ha assistito all’ascesa del nazismo e al passaggio dalla persecuzione allo sterminio è stato spettatore, ha lasciato che le  cose avvenissero, ha abitato la zona grigia. Elena, la giovane adulta dell’associazione che accompagna la classe, spiega così il senso dell’esperienza:

    “Noi abbiamo deciso di provare a costruire con voi alcuni strumenti per vedere come, passo dopo passo, l’umanità sia potuta arrivare a Auschwitz (p. 69).

    Espressa così, l’operazione  di memoria perde  la retorica e apre a una dimensione esistenziale e di cittadinanza5.

     

    La cassetta dello storico aperta ai ragazzi

    Certo,  perché il percorso e le  emozioni di Francesco e dei suoi compagni si trasformino in conoscenza, l’autore fa aprire a Elena e Gianluca anche la cassetta degli attrezzi dello storico e fa  in modo che interroghino bene le fonti fotografiche o  si accostino alla storiografia per porre domande pertinenti.  Solo per fare un esempio del modo di procedere,  Elena, a un certo punto, chiede a tutta la classe:

    “Se in quelle circostanze gli uomini del  101 divennero assassini,  quale gruppo umano può ritenersi immune da tale rischio? (p.105)”.

    Il riferimento è a Uomini comuni di Cristopher Browning e al battaglione comandato dal maggiore Trapp che il 13 luglio 1942 ha l’ordine di arrestare gli uomini ebrei del villaggio di Jòsefòw e di sterminare tutti gli altri, donne, bambini, anziani. In un giorno 1500 ebrei vengono passati per le armi.
    Nel romanzo qua e là, Elena e Gianluca raccontano anche la cronologia dello sterminio, a partire dal ‘33.

    Attraverso i personaggi dei due giovani educatori, Greppi  propone un metodo di lavoro sulla storia che dovrebbe entrare nelle aule di scuola perché si basa sull’informazione che distingue quello che è importante da quello che lo è meno - e in questo senso alcune date sono imprescindibili - sulla riflessione comune - quello che hanno da dire gli studenti è importante e sempre punto di partenza -  sulla  relazione di fiducia tra chi  “fa lezione di storia” e chi ascolta. L’apprendimento si configura come  un processo di costruzione di senso in cui tutti devono fare la loro parte.  I giovani educatori  realizzano la mediazione dei contenuti storici anche grazie al loro stile informale, vicino ai ragazzi ma sempre portatore di un sapere adulto.

    Quando il lettore arriva alla fine l’autore gli svela strumenti e materiali che ha usato. In poche  pagine   mette insieme il piccolo apparato di letture e di film   utilizzati da Elena e Gianluca. Dopo l’emozione della lettura, si possono anche  allargare gli orizzonti culturali.
     

    Il libro e il Giorno della Memoria

    Non restare indietro esce  per il Giorno della Memoria e si rivolge alla generazione che ne è figlia a tutti gli effetti - i nati intorno al 2000 -  giacché ha percorso tutta la propria carriera scolastica sotto il cono di luce -  e di ombre - della memoria della Shoah e, nonostante questo, il più delle volte, vuole saperne di più, solo in qualche caso, dice basta, che se ne è parlato fin troppo.
    Molto è stato scritto sul significato di questa istituzione che,  per la scuola,  dopo 15 anni, rimane un’opportunità. Da un lato la concentrazione di proposte attorno al 27 gennaio  - anteprime cinematografiche ad hoc6, manifestazioni pubbliche importanti come il progetto delle Pietre d’Inciampo7, fa sentire l’evento presente e urgente.   Dall’altro la forte mediatizzazione  lo rende “oggetto di una possente industria culturale”. Libri, film, videointerviste, fiction, azioni sui social media che collegano persone e esperienze in modo assolutamente inedito, trasformano la Shoah “in un insieme di immagini e concetti appartenenti alla cultura pop8”. A questo tema è stato dedicato un recente convegno - recensito in  HL-  di cui sono usciti gli atti in questi giorni.

    Il fatto, poi, che il contatto degli adolescenti con tutto questo avvenga attraverso la rete - significa che spesso  vedono soltanto sequenze o montaggi, o  leggano frasi. Tutto fuori contesto. Questo  determina confusioni tra fonti e rielaborazioni, rende difficile distinguere i vari modi di raccontare - fiction e testimonianze - e  individuare pareri autorevoli e siti attendibili. Paradossalmente la rete rende gli adolescenti più informati di un tempo ma li disorienta9.

    Complesso è dunque il compito della scuola: intercettare i consumi degli adolescenti per portarli in  un cantiere di analisi che consenta di strutturare la conoscenza non solo dell’evento storico ma anche delle sue conseguenze. Il Giorno della Memoria aumenta di senso se diventa parte di un “Laboratorio del tempo presente” , in cui la storia accolga - per usare le parole di Antonio Brusa  che su questi temi ha più volte ragionato  anche qui, su HL - le “questioni sensibili” del mondo contemporaneo e “i fatti angoscianti del presente, e le memorie, anch’esse a volte angoscianti, dei fatti passati. Dentro questo Laboratorio potranno essere fatte rientrare le giornate commemorative che hanno il compito di studiare, non di commemorare” 10.  

    Perché il Giorno della Memoria abbia  questa prospettiva   è necessario che chi a scuola affronta il tema provi a far  emergere le conoscenze degli studenti e,  come Gottshall indirettamente  suggerisce,  analizzi  più storie di consumo dando loro la dignità che meritano. Questo per costruire un quadro con mozziconi di informazione, spesso piatti dal punto di vista cronologico e collocati in spazi irreali che fanno dire agli adulti che i giovani non sanno niente. In realtà è come se nelle teste degli  adolescenti ci fossero  tracce dell’evento Shoah, sommerse in una  dimensione  umana,  fatta di  orrore, di incredulità e di condanna che li rendono più propensi a “commemorare” in modo istintivo, attraverso la commozione di pancia piuttosto che a “studiare”. Di pancia,  come si legge nel romanzo, è anche la reazione di indifferenza  di fronte al museo di Auschwitz di alcuni adolescenti  come se il troppo parlare dell’evento o il parlarne male avesse attutito la loro sensibilità o forse, più in generale, come se il fruire continuo di contenuti violenti li avesse convinti che la violenza e il male sono solo nella finzione.  

    Un romanzo come Non restare indietro, se riesce nel suo intento, potrebbe far entrare i giovani  in un mondo in cui riconoscono come legittime le loro  domande e capiscono che, se le risposte ci sono, sono complesse e vanno cercate.

    Rimane un problema di fondo. Come un adolescente può arrivare a questo romanzo? Due sono le strade. Perché lo attrae la copertina  che ha già cominciato a girare sui social -  con un tam tam che rimbalza notizie di presentazioni nelle scuole  e primi pareri o perché glielo  passa, come speriamo, un insegnante o un genitore.


     


    Note

    1 Su questo è molto interessante il saggio Jonathan Gottshall, L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani, (Torino, 2014, ed.or. 2012).

    2 Di Carlo Greppi su tema della Shoah si veda:  L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager, Roma, 2012); La nostra Shoah. Italiani, sterminio, memoria ( Feltrinelli,"Zoom", 2015  ebook). E’ autore insieme a P.Rumiz e a D.Bidussa del Quaderno 6 della Fondazione Feltrinelli dal titolo Il passato al presente. Raccontare la storia oggi (ebook in uscita il 27 gennaio).

    3 L’associazione Deina è nata nel 2013. Organizza viaggi di memoria  per gli studenti delle scuole secondarie nei luoghi di europei di memoria Gli educatori hanno una buona formazione storica e, con i loro percorsi, sensibilizzano gli studenti a comprendere meglio il presente. Si veda il sito www.deina.it  e il volume di M. Gentili, Viaggi di memoria. Elena Bissaca e Carlo Greppi, ad esempio (Milano, 2014); E. Bissaca, B. Maida, Noi non andiamo in massa, andiamo insieme. I treni della memoria nell’esperienza italiana 2000-2015, (Milano, 2015).Giancarlo Rossi nella  trasmissione radiofonica Inviato speciale di Radio 1, sabato 16 gennaio 2016, ha presentato l’associazione. Si può ascoltare in podcast  www.inviatospeciale.it

    4 Greppi collabora con Il tempo e la storia di Raistoria (cfr. La Shoah e gli italiani , In viaggio verso Auschwitz). Il 27 gennaio 2016 è ospite dello speciale de Il tempo e la storia sul Giorno della Memoria.

    5 Cfr. E. Traverso, Memoria. La religione civile dell’Olocausto, in La fine della modernità ebraica (Milano, 2013, pp.138-160).

    6 Escono per il giorno della Memoria 2016 tre film, tutti offerti in anteprima nazionale per le scuole su tutto il territorio: Il labirinto del silenzio (Germania, 2014 di G. Ricciarelli il il 14 gennaio); Il figlio di Saul (Ungheria, 2015, di L. Nemes, il 21 gennaio); Remember (Canada/Germania 2015 di A.Egoyan  il 4 febbraio).

    7 Per il progetto generale si veda F.Floradini, Tracciare il crimine nazista, “Il Sole 24 ore” (“Domenica), 24 gennaio 2016; per avere un’idea dell’allestimento in Piemonte si veda  Pietre d'inciampo a Torino.

    8 Cfr  C. Monopoli, PopShoah? Immaginari e pratiche di memoria pubblica intorno al genocidio ebraico  pubblicato il 22 ottobre 2015 in questo sito. Si tratta del resoconto del  convegno Pop Shoah?  Immaginari del genocidio ebraico, a cura di F.Recchia Luciani e C. Vercelli (publicato da il Melangolo, Genova, 2016).

    9 Cfr. P.C. Rivoltella, Le virtù del digitale. Per un’etica dei media (Brescia, 2015)

    10 Cfr. A.Brusa, Il programma di formazione storica dall’infanzia alla secondaria di primo grado, “SIM”,  n.5, 2015, p.79; C. Heimberg, Le questioni socialmente vive e l’apprendimento della storia in
    Mundus online, n.9-10, 2010; C. Heimberg, La prima guerra mondiale tra storia e uso pubblico del passato, Novecento.org, 6 ottobre 2014.

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