fake news

  • Il castello di Calafell. La verità dello storico e quella del conta-storie

    di Antonio Brusa

    Questa è l’avventura straordinaria di un archeologo che fa uno scavo e ne scrive la storia, ma subito dopo viene un altro tipo (scrittore, giornalista, uomo di cultura, fate voi), che non ha mai messo mano a quello scavo, epperò ha capito come sono andate le cose e come vadano raccontate. E le mette in rete.

    Insomma, da buon cacciatore di bufale, ho colto il momento in cui ne viene inventata una, e ve la commento.

    Joan Santacana MestreJoan Santacana Mestre

    L’archeologo è Joan Santacana Mestre. Lavora all’Università di Barcellona. Lo conosco perché è uno dei più grandi studiosi di didattica della storia che ho avuto la fortuna di incontrare. Aggirarsi con lui, in uno dei suoi scavi, è uno dei piaceri impareggiabili che a volte mi toccano. Joan ti spiega come gli è venuto in testa l’idea di scavare in quel posto, le difficoltà incontrate e come le ha superate. Ti svela la macchina esplicativa che ha messo a disposizione dei cittadini, perché questi, afferma, hanno il diritto di entrare nello scavo e di assaporare il gusto di capirlo.

    Al principio, il castello di Calafell, una cittadina fra Barcellona e Tarragona, lui non lo voleva scavare. L’archeologia medievale era allora agli esordi, e lui era tutto preso dall’idea di riportare alla luce la cittadella che gli Iberi, una popolazione pre-romana, avevano costruito sulla costa. Ma il sindaco del tempo gli pose l’aut aut. Se vuoi il permesso di scavare i tuoi Iberi, datti da fare anche col castello. E così (per la mia grande soddisfazione di medievista), al principio degli anni ’80 ha cominciato a lavorare sulla rocca che domina il borgo, dove, fra le rovine di un castello e una piccola chiesa, non c’era altro che un cimitero abbandonato.

    Ma gli è piaciuto. E non lo nasconde, mentre mi indica i buchi di fondazione della prima costruzione altomedievale, tutta di legno, com’era di molte residenze post-carolingie. Infatti, Carlo Magno di qui dovette passare, per combattere l’emirato di Cordova, le cui terre cominciavano appena più a sud. Forse Calafell fu un avamposto musulmano, conquistato dai cristiani, come suggerirebbe il nome (Cal’af, castello), per quanto non ci siano troppe testimonianze ad avvalorare questa suggestione. Per allora, dunque, fra IX e X secolo, c’era questo castelluccio ligneo, attorniato dalle capanne dei contadini e, all’altro capo della rocca, la chiesa, minuscola ma con una cripta, oggi dedicata alla Vergine de la Cueva.

    Qui, la storia dei contadini che si ribellarono

    Il castello di CalafellIl castello di Calafell

    La pace della piccola comunità contadina viene violata nel XIII secolo da un signore che allarga la sua residenza e la trasforma in una imponente costruzione di pietra, con le feritoie per le balestre e gli annessi, fra cui una cisterna per l’acqua, i locali per la cavalleria e l’immancabile prigione. E fa fuori i contadini. Distrutte le loro abitazioni, quei poveracci si trasferiscono ai piedi della rocca, dove fondano l’abitato agricolo. La chiesa, anche quella, si ingrandisce. Una doppia navata, pitture, un campanile a vela. Un fossato divide l’area signorile da quella sacra.

    I contadini non ci stanno. Si riorganizzano. Premono contro il signore. A metà XV secolo, li vediamo che si costituiscono in una comunità che può vantare, nel 1493, il sostegno di Ferdinando il Cattolico (sì, proprio lui, il marito di Isabella, che – fra un assedio di Granada e una scoperta dell’America – trova il tempo per dare una mano a questi campesinos, giusto per impartire una lezione al signore).

    Così, entriamo nel XVI secolo. La comunità sembra prosperare e il signore pure. La chiesa si abbellisce e si dota di uno strumento prestigioso: il Communidor. Si tratta di una sorta di basso campanile quadrangolare, con quattro grandi finestre, ma senza campane. Dentro c’era una tavola con una croce. Lo avevano raccomandato al Concilio di Trento per purificare l’aria – sacra magia – infestata dai miasmi delle streghe. Ce ne dovevano essere molte, a Calafell.

    Scoppia la guerra dei Trent’anni, che in Catalogna ha uno dei fronti più violenti. Francesi, signori catalani, contadini e tercios castigliani, tutti se le danno di santa ragione. Calafell ne viene stritolata e distrutta. Si salvano alcune decine di contadini, che trovano rifugio nella provvidenziale cisterna signorile (lo sappiamo da un resoconto coevo): una via di fuga abituale, visto che probabilmente vi si nascondevano durante gli assalti dei pirati, come testimonierebbe una nave saracena, graffita sulle pareti.

    Il Communidor di CalafellIl Communidor di Calafell

    Sulla rocca restano la chiesa e le rovine del castello, fra le quali i contadini cominciano a seppellire i loro morti. Novemila ne troverà Santacana, compresi gli appestati gettati in una fossa comune e ricoperti di calce viva. Quella terra che il signore tolse loro, i contadini se la sono ripresa da morti, alla fine. La rocca diventa il cimitero del paese, fino alla guerra civile, quando i repubblicani impongono di costruire un nuovo cimitero, fuori la città, nel 1937.

    Lo scavo termina nel 1986. Ma Joan non cessa di curarne la didattica. Cartelloni, scritte, libri, libretti divulgativi. Roba che Giménez (lo chiameremo così, per brevità, il conta-storie) ha visto certamente venticinque anni dopo, nel 2011, quando visitò lo scavo. Santacana – deve aver pensato allora – non ha capito un tubo. La storia andò in un altro modo.

    La storia alternativa di Calafell

    A popolare la cittadella, ecco la versione di Giménez, erano stati gli Iberi (altro che contadini altomedievali!). Nell’VIII secolo a.C. allora? no. Troppo poco. Aggiungiamo uno zero. Ottomila anni fa. Un’antica civiltà superiore, che Giménez ci riporta alla luce, illustrando lo scavo da par suo. Ecco la strada che quegli antichi percorrevano. Si vedono i solchi delle ruote, sottolinea (purtroppo per lui, la strada è di età tardomedievale e i solchi sono causati da ruote cerchiate di ferro).

    La strada con i solchi che sale verso il castelloLa strada con i solchi che sale verso il castello

    Sulla parete si vedono delle tombe? Macché: sono delle “scale nobiliari”, per andare su in cima fra le imponenti “costruzioni di quei popoli misteriosi” (in realtà muretti a secco ottocenteschi). Ecco un “silos di grano” (è la base per una pressa da vino). Una fessura naturale nella parete rocciosa diventa una “porta trionfale”, mentre un foro prodotto dalla pioggia è il “tunnel”, doveroso di una città antica che si rispetti (purtroppo le autorità comunali hanno provveduto a sigillarlo, si lamenta). L’abside (un bell’esempio di romanico lombardo) è la “torre dell’omaggio”, accanto alla quale c’è la “torre di guardia” o – chissà perché – la “peineta” (l’alto pettine che le donne spagnole indossavano tradizionalmente), e questa sarebbe il communidor delle streghe. Le feritoie per balestre (e in età moderna per colubrine) ora sono diventate dei “simboli per l’acqua piovana”. La spianata, frutto della ripulitura del terreno da parte degli archeologi, è l’“antica piazza d’armi”, con i relativi “accessi nobiliari”.

    In un altro sito, vengono riprese le invenzioni su queste strade antiche, alcune delle quali sarebbero state costruite dagli abitanti di Atlantide, in fuga dopo il disastro. Su questo argomento, qui c’è l’intervento di Santacana.

    Senza enigmi, che storia è?

    Questa fortezza, sintetizza Giménez nel suo video, è un enigma della storia, un mistero che testimonia il sincretismo e la mescolanza delle culture della regione.

    Guardo il video con Santacana, che scuote la testa di fronte a queste assurdità, mentre ascoltiamo la musica paramedievale di sottofondo. Ci sorprende la sicurezza con la quale vengono dette e lo sfoggio degli stilemi dello storico (“probabilmente”, “approssimativamente”, “sappiamo che”, ecc). Perché non gli rispondi? gli dico. E da dove cominciare? fa lui: è evidente che non sa nulla.

    Non ne sono convinto: nel video si notano i pannelli, con le didascalie chiarissime che vi erano poste. Giménez, che si fa fotografare sullo scavo, le avrà viste. È che ha deciso che non funzionano. La civiltà misteriosa di ottomila anni fa: questo ci vuole. E, difatti, un utente (Joice5500) gli viene appresso: «non è che intendi una civiltà extraterrestre, luiz?» chiede ansioso in un commento di qualche anno fa.

    I conta-storie del XXI secolo

    Giménez è un professionista. Scrive di Maria Maddalena, moglie di Gesù e madre dei suoi figli, del santo Graal, di templari e di misteri – andini come barcellonesi – di catari, di Atlantide e della sua perduta tecnologia. Pubblica video, che, per quanto non appaiano di grandissimo successo, gli permettono di discutere con utenti di tutto il mondo, e di colpire la fantasia di qualche lettore, come testimonia un visitatore del castello, che su Tripadvisor ne riporta fedelmente alcune “scoperte”.

    Giménez non è inquadrabile in quella “ribellione degli ignoranti”, della quale parla Tom Nichols (La conoscenza e i suoi nemici, Luiss 2018). Vive, al contrario, del fenomeno della “pluralizzazione della verità”, spiegata da Daniel T. Rogers, secondo il quale anche la “verità” è diventata un oggetto di scambio, commerciale o politico. È questo il suo mestiere, come deduciamo dalla quantità di conferenze, interviste, programmi radio e televisione e libri dei quali lui stesso ci informa. Lavora nel vasto campo della “Historia ignorada”, scrive, «cercando quei fatti sconosciuti che la Storia ufficiale non suole ricordare».

    Fa parte, quindi, di quella agguerrita schiera di intellettuali che vive combattendo la “storia ufficiale”. È una pattuglia composita, all’interno della quale troviamo negazionisti, complottisti, inventori di tradizioni e scopritori di ogni genere di storie alternative, dalla scoperta dell’America, all’unificazione dell’Italia e ai veri costruttori delle Piramidi, che la consorteria degli accademici tenta – a loro dire – di occultare con ogni mezzo. È un fenomeno ben noto agli storici. Santacana, per esempio, fra le raccomandazioni per riconoscere un sito non affidabile, inserisce proprio questa: «se trovate frasi come “nessuno l’ha detto mai”, “finalmente la verità viene fuori”, passate oltre». Eppure, sono proprio queste le “verità” che tirano. Gli oltre 900 mila follower del blog di José Luis Giménez non sono tantissimi, per questo genere di siti, ma sono sufficienti per permettergli di sbarcare il lunario. Sono il suo pane. Confezionare verità che hanno mercato. In un ipotetico faccia a faccia con l’archeologo, il nostro non avrebbe alcuna difficoltà a opporgli questa sua capacità.

    Come discutere?

    Probabilmente non porta a grandi risultati discutere di documentazione e di interpretazione delle fonti, di credibilità delle cronologie. Facciamo mestieri differenti, lo storico e il conta-storie. Il problema curioso, semmai, è che questi non l’ha ancora capito. Perché prendersela con la “storiografia ufficiale”, dal momento che ha scopi così lontani dai suoi? Dal canto nostro, ciò che potremmo imputare a questi onesti scrittori, è la pochezza della fantasia. Templari, catari, santo Graal, Maria Maddalena. È il campionario sfruttatissimo e stantio di Dan Brown, questo, non il regno dell’invenzione.

    La strega Pepa BarretinesLa strega Pepa Barretines

    Per chi sa lavorare di immaginazione, Calafell è un paese di Bengodi. C’è tutto: le guerre contro gli infedeli, le razzie dei pirati saraceni, il signore cattivo, i contadini ribelli, la peste, i feroci massacri. Né mancano quei personaggi, come Carlo Magno o Ferdinando il Cattolico che, nelle fiction ben congegnate, rivestono il ruolo delle celebrità che si svelano alla fine, fra gridolini di sorpresa. E c’è, per ultimo, la strega Pepa Barretinas, della quale in paese si raccontano leggende e si porta in giro la maschera, ma che una buona base storica ce l’ha. Tra storia e invenzione si intrecciano accordi lussuosi e divertenti, a saperci lavorare.

    Sono i Giménez di questo mondo che li deprimono.

  • L'operazione Husky nel suo anniversario. Storia, memoria e fake indistruttibili.

    di Antonio Brusa

     

    Operazione HuskyLa lapide che commemora la battaglia di Gela https://www.avvenire.it/amp/agora/pagine/sbarco-in-sicilia-77-anni

    Tre anni fa, di questi giorni di luglio, cadeva il 75° anniversario dell’“Operazione Husky”, il primo vero DDay della seconda guerra mondiale, quando quasi tremila navi sbarcarono sulle coste siciliane truppe inglesi, canadesi e americane. Allora intervennero molti quotidiani a commemorare l’evento. Quest’anno, in tono minore, la tv lo ha ricordato nei giorni scorsi proiettando il film di Pif In guerra per amore (2016), e, a quanto mi risulta, solo Vincenzo Grientine ha parlato dalle pagine dell’ “Avvenire” (9 luglio 2020).

    Grienti mette in rilievo alcuni aspetti che vanno ricordati. Che la resistenza italiana non fu all’acqua di rosa (se mai furono i tedeschi che se la svignarono “brillantemente”), e che dunque quello sbarco non fu un’ “avanzata trionfale fra due ali di folla”. Al contrario, fu ostacolato da battaglie sanguinose, come quella di Gela, e macchiato da stragi. Tedesche innanzitutto (purtroppo questo Grienti non lo segnala): ben 65 episodi di violenza con 133 vittime costituiscono il prologo di quel rosario di eccidi che costellò la ritirata tedesca lungo la penisola. Ma anche americane, con civili e militari uccisi a freddo. Rosario Mangiameli, fra i tanti storici che hanno studiato l’argomento, ce ne parla diffusamente in un bel saggio apparso nel 2012.

    Fra qualche giorno cadrà l’anniversario di un episodio che non so se verrà commemorato, nemmeno nella città dove avvenne, Canicattì: forse l’unica città al mondo dove si susseguirono a stretto giro una strage tedesca (il 12) e una americana (il 14). La conosciamo solo grazie al lavoro e al coraggio di J. S. Salemi della N. Y. University.

    Quindi lode a Grienti che ritiene giusto non dimenticare. Aggiungo, però, a evitare un’eccessiva retorica, due osservazioni. La prima riguarda l’accenno all’accordo fra gli americani e Lucky Luciano, che avrebbe garantito l’appoggio della mafia agli invasori. E’ una diceria. Dura a morire, certo: ma proprio per questo non dobbiamo stancarci di ribadirlo. Nacque proprio durante gli eventi, proprio in quegli ambienti fascisti che avevano bisogno di raccontare alla popolazione perché un esercito che avrebbe dovuto immobilizzare l’invasore “sul bagnasciuga” fallì il suo compito. La mafia era una buona scusa. Riciclata e rifunzionalizzata da Michele Pantaleone nel 1962 (qualcuno ricorderà il suo Mafia e Politica), diventò un cavallo di battaglia della sinistra contro la Democrazia Cristiana e, finalmente, è diventata di dominio pubblico, al punto da fornire il pretesto narrativo al film di Pif, appunto passato in tv in questi giorni. (Su questi fatti HL è già intervenuta).

    La seconda osservazione riguarda il fatto che Grienti, presentando delle nuove ricerche su questi eventi, riporta la favola che la storiografia ufficiale ha sempre evitato di affrontare questi argomenti, giudicati spiacevoli. Anche questa è una fake, una post-verità alla quale i media indulgono volentieri. Non è vero che gli storici non se ne sono occupati e che, quindi, si tratta di una “controstoria” che viene finalmente raccontata ai ragazzi “diversamente da quanto si legge nei libri di scuola” (come se i manuali raccontassero ampiamente dell’operazione Husky).

    Sono decenni che si susseguono gli studi (italiani e americani) su questi eventi e la bibliografia è ormai abbastanza lunga. Mangiameli, nell’articolo citato sopra, spiega le ragioni per cui gli stessi testimoni prima, e poi l’opinione pubblica, ma oggi potremmo dire la storia pubblica, hanno scelto di tacere. Gli studi ci sono. Sono i media che non ne parlano. Non rovesciamo le responsabilità, per piacere.

  • La Storia in Piazza parla di storie segrete

    di Antonio Brusa

    01

     

     

     

     

     

    image 6604FonteCome ogni anno, torna La storia in Piazza, la manifestazione di storia pubblica, ideata nel 2010 da Donald Sassoon e ora diretta da Luciano Canfora. Il tema di quest’anno è la “storia segreta”. Un tema intrigante, perché ha come oggetto un costrutto cognitivo diffusissimo: “il complotto”. Come spesso succede nel discorso pubblico, questo costrutto ha perso il suo carattere squisitamente critico, per diventare uno strumento retorico. Un insulto che serve per screditare l’avversario. “La Storia in Piazza” di quest’anno ha lo scopo di mostrarne la valenza scientifica: dalla storia, alla letteratura e alle discipline Steam. Come sempre, la parte didattica e quella dedicata alle famiglie è ricchissima, e conviene farsi un viaggio nel programma per farsi venire qualche desiderio. E, se vi va, potrete richiedere di vedere il seminario sulle Fake News che ho svolto insieme con Marina Gazzini e Luigi Cajani.

    Il programma per le scuole e le famiglie de La Storia in piazza è a cura di
    Maria Fontana Amoretti con Stefania Costa, Alessandra Agresta e Anna Calcagno -
    Servizi Educativi e Culturali di Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura

    Tutte le attività sono gratuite e su prenotazione
    Prenotazioni scuole al link www.palazzoducale.genova.it/prenotazioni a partire dal 13 marzo
    Prenotazioni famiglie Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

     

     

  • Lezione 3. Falsi, stereotipi e invenzioni. Fake news e storia

    di Antonio Brusa

    Nella varia mitologia cresciuta intorno alla figura di Cristoforo Colombo, troviamo esempi che illustrano significato e differenze di tre “deformazioni” del sapere storico: il falso, lo stereotipo e l’invenzione. Il primo è il famoso “uovo di Colombo”. Tutti conoscono questa storiella, falsa per quanto di nobili origini.

    Probabilmente l’aveva inventata Giorgio Vasari, applicandola a Brunelleschi; poi Girolamo Bulzoni l’attribuì a Colombo. L’aneddoto esaltava la genialità dei due uomini del Rinascimento, di fronte a chi sminuiva la portata delle loro innovazioni, vuoi la famosa cupola, vuoi il viaggio verso occidente. La storiella dell’uovo diceva: tutti possono varcare l’oceano Atlantico, ma solo dopo che qualcuno l’ha fatto la prima volta dimostrando che si può tornare indietro. Inoltre, metteva in evidenza gli ostacoli che tanti, e in particolare i dotti di Salamanca, avevano opposto ai progetti del genovese, e l’astuzia con la quale questi li aveva messi in scacco. Questo falso diventò col tempo una storiella popolare, buona per essere raccontata anche nelle scuole, ma facilmente oggetto di ironie. La più conosciuta è di Cesare Pascarella, che, nel primo sonetto della sua Scoperta dell’America (1894), raccontò che Colombo se ne servì per convincere la gente che “ar monno c’era pure er monno novo”. Ma è divertente anche quella di Fred Buscaglione, secondo il quale Colombo persuase i dotti di Salamanca, più che con l’uovo, con la promessa (la canzone è del 1957) che sarebbe tornato dall’America portando con sé Marylin Monroe.

    01Fig. 1 Fred Buscaglione, Voglio scoprir l’America (1957) Fonte Buscaglione cantava che “Colombo sospettava che la terra fosse rotonda”. Alludeva a una seconda diceria: che i saggi fossero convinti che la terra fosse piatta, mentre lui, il genio innovatore, aveva intuito che era rotonda. Ecco il secondo esempio: la gente, nel medioevo, era terrapiattista. E questo è uno stereotipo bello e buono, che troviamo anche in qualche manuale, e che, come tutti gli stereotipi, quando uno ci crede è difficile convincerlo del contrario. Anche questa falsa conoscenza ha sangue nobile nelle vene. La creò Washington Irving nella sua “biografia romantica” (come venne definita) di Colombo, nella quale mise in evidenza, lui anticlericale, il clima oppressivo della Chiesa cattolica. Il libro, pubblicato nel 1828, ebbe subito più di cento edizioni. Andò a rafforzare il mito di un medioevo soffocato dalla superstizione religiosa e, perciò, inesorabilmente terrapiattista. Le smentite di questa credenza sono innumerevoli e ben documentate. Nel medioevo si sapeva bene che la terra fosse rotonda. Certo, le convinzioni della gente comune non ci sono note. Ma quei colti che, cedendo alle fantastiche storie raccontate da Cosma Indicopleuste – il mercante greco-romano che nel 520 d.C si avventurò nell’Oceano indiano - pensavano che la terra fosse una sorta di fazzoletto piatto, con tutta probabilità erano di meno di quelli che ne sono convinti oggi.

     

    02Fig. 2: Washington Irving passò molto tempo in Spagna, paese al quale dedicò non solo il libro su Colombo, ma anche le Cronache della conquista di Granada, città dove è celebrato con una statua. Fonte E le invenzioni?

    Queste non si contano. Ma non su Colombo, quanto a causa di Colombo. Prima di lui nessuno aveva mai raccontato di essere andato in America. È dopo che cominciò ad essere celebrato come scopritore, eroe e benefattore dell’umanità, che i concorrenti invasero la scena. Avevano iniziato gli scandinavi, già al tempo delle prime celebrazioni nel corso del 1800. Le loro pretese furono confermate dalle fonti (non dalla mappa di Vinland, un falso acquistato a suon di milioni dall’università di Yale), quanto piuttosto da cronache medievali e, soprattutto, dalle evidenze archeologiche. Forse galvanizzati da questo successo, ecco presentarsi i paraguayani, che sostengono di essere derivati anche loro dagli antichi vichinghi; gli afro-americani, che giurano che i loro antenati sbarcarono in America con le loro canoe ben prima delle navi negriere; i polinesiani, ai quali l’impresa del Kon-Tiki – la zattera con la quale Thor Heyerdahl attraversò il Pacifico nel 1947 - sembra la dimostrazione evidente delle loro pretese; i cinesi, che sventolano una carta che sarebbe stata disegnata nel 1414, prova indiscussa del fatto che conoscevano l’America decenni prima di Colombo; fino ad arrivare ai turchi, che, al dire di Recep Erdogan, avevano battuto il navigatore genovese di molti anni (l’elenco completo è molto più lungo).

     

    03Fig. 3. La carta di Mo Yi Tong, a sinistra, vorrebbe dimostrare che nel 1414 i cinesi conoscevano perfettamente non solo il continente americano, ma anche l’intero planisfero. Sulla sua base, Gavin Menzies ha scritto 1421. La Cina scopre l’America (Carocci 2003). A destra, la carta di Vinland, la cui falsità è stata definitivamente dimostrata nel 2018 da J. P. Floyd. Fonte1 Fonte2 Basate su carte falsificate professionalmente (come nel caso della mappa di Vinland) o su bufale indigeribili (come la carta disegnata dagli alieni che giustifica le pretese di Erdogan), queste sono alcune delle “invenzioni” con le quali tanti avanzano la loro pretesa di essere i fondatori della modernità: ecco, infatti, che cosa vuol dire oggi “essere gli scopritori dell’America”.

     

    Perché inventare la storia?

    Al principio degli anni ’80, due storici inglesi, Eric Hobsbawm e Terence Ranger, chiamarono a raccolta un buon numero di colleghi da tutto il mondo per rispondere a una domanda: “quanto sono antiche le tradizioni popolari”? Questa domanda aveva un risvolto politico dirompente. Infatti, in quel periodo cominciavano a pullulare movimenti indipendentisti e identitari, che sostenevano di interpretare la genuina essenza dei popoli, repressa dalle politiche dominanti. La risposta degli storici era netta: la maggior parte di queste tradizioni era inventata. A volte era falsa del tutto; a volte costruita a partire da un qualche nucleo storico. Non si salvava nulla: dal tartan e dalla cornamusa scozzesi, al sumo giapponese, alle tradizioni sioniste, agli eroi e tradizioni bretoni, provenzali, francesi e italiani, fino al limoncello e alla torta caprese. L’intera collezione di feste, simboli, racconti, abbigliamenti e alimenti che ogni nazione, e ogni località, esibiva come emblema e prova della propria identità, non affondava le radici in un’antichità ancestrale, ma era stata letteralmente costruita nell’Ottocento proprio da quella politica, che quei movimenti si proponevano di combattere, e a volte anche dopo (L’invenzione della tradizione, Einaudi 1983).

     

    04Fig. 4. Il tartan, tipo di tessuto inventato nel XIX secolo, diventato in Scozia simbolo dell’antichità delle sue tradizioni. Il limoncello e la torta caprese, presentati come tradizioni genuine della celebre isola, in realtà sono frutto dell’ingegno di albergatori e pasticcieri degli anni ’70-’80 del secolo passato. Fonte1 Fonte2Non ci sono limiti all’invenzione. Forse il caso più incredibile è quello di Anatolij Timofeevič Fomenko, del quale ci parla Marina Gazzini. Si tratta di un fisico russo che, supportato da calcoli matematici e astronomici, afferma che il Medioevo non esiste. Fu inventato da un complotto di teologi italiani che volevano occultare la potenza della nuova Roma, Mosca. Quindi, interpolarono dei secoli fra la caduta dell’Impero romano e il sorgere del principato di Kiev, antesignano appunto della santa madre Russia. E’ la “nuova cronologia”, una sorta di “nuova storia” che attrae tantissimi, disposti a credere che il Colosseo era un monumento di Costantinopoli, ricostruito a Roma dopo la sua caduta ad opera dei turchi, e più volte distrutto e ricostruito fino al 1907, data della sua versione attuale; che Pompei sarebbe stata distrutta dall’eruzione del 1631 e non del 69 d C; che Platone sarebbe vissuto nel Rinascimento, più o meno quando Poggio Bracciolini scriveva gli Annali di Tacito e che Venezia, infine, non fu fondata da gente italica, ma venne costruita dagli slavi.

     

    Disposti a credere: perché?

    Si inventano storie e si costruiscono falsi per molti motivi, scrive Marina Gazzini. La signora Casali pensa di vendere meglio il limoncello che appena inventato (al quale non sapeva nemmeno lei che nome dare), presentandolo come un liquore di antica tradizione; Gradara e Carcassonne sono convinte che, se la gente non sa che sono dei falsi clamorosi, accorrerà in massa ad ammirare il loro medioevo posticcio; Costantino Simonidis produsse il falso papiro di Eliodoro per soldi, come ha dimostrato Luciano Canfora.

    Tanti motivi: ma la gran parte delle tradizioni raccolte nel volume di Hobsbawm e Ranger venne creata a ridosso della formazione di quel “paradigma classico dell’insegnamento della storia”, del quale abbiamo parlato nelle lezioni precedenti. Ma dobbiamo notare che – proprio mentre i due storici scrivevano il loro libro – si stava attivando un secondo, poderoso, processo di invenzione di tradizione: quello che stiamo ancora vivendo. I due fenomeni si assomigliano per il fatto di situarsi in un momento di passaggio. Nel Sette-Ottocento, si transitava dalla società di ancien régime a quella moderna. Cessavano di funzionare le agenzie sociali formative (la chiesa e la comunità locale), veicoli di tradizioni che risalivano a volte al Medioevo. Uomini e donne erano precipitati di colpo in modelli sociali nuovi e inseriti in una “comunità invisibile”, quale era quella nazionale. Ecco, dunque, gli stati che avviano la loro pedagogia: attraverso la scuola (e le caserme), da una parte; attraverso la storia diffusa dall’altra. Qui si situano le tradizioni inventate. Ai giorni nostri viviamo qualcosa di simile. La nuova società della globalizzazione precipita gli umani in uno spazio e in una comunità inediti, il mondo e l’umanità. Ecco il bisogno di “sapere chi siamo”. Nascono le nuove identità, per supportare le quali è deflagrato un secondo, straordinario momento di invenzione. Se queste sono le analogie, capire le differenze è fondamentale: mentre nell’Ottocento vi era un solo grande inventore, lo Stato, ai giorni nostri gli inventori sono molti e in concorrenza. Mentre nell’Ottocento gli stati producevano storia scolastica e invenzioni, e quindi c’era una forte sintonia fra i due prodotti culturali; i giorni nostri sono caratterizzati dalla pluralità e, spesso, dalla discordanza delle storie circolanti, e quindi delle immagini del passato diffuse nella società. Questi falsi e queste invenzioni non sono affatto un problema marginale, per chi studia e insegna storia, perché sono le spie di mutamenti profondi ed epocali.

    I riflessi in classe di questi mutamenti si vedranno nella prossima lezione, sul manuale di storia.

    I racconti di Colombo, di Vinland, di Fomenko e di tanti altri si trovano in Marina Gazzini (a cura di), Il falso e la storia. Invenzioni, errori, imposture dal medioevo alla società digitale.

  • Negazionismo e fake news: un tema pluridisciplinare di Storia e di Educazione Civica, dal medioevo a oggi.

    Genova_Palazzo_ducale.jpg

    Corso di formazione a cura di Antonio Brusa
    Cosa deve fare un insegnante di storia di fronte a quella congerie di falsità che comprendiamo nel termine “Fake news”. Correggerle con la matita rossa e blu? Oppure insegnare agli allievi a muoversi in una “piazza conoscitiva” dove non mancheranno mai imbonitori e truffatori? Proveremo a capire come, in un corso rapido, in tre sole sessioni, centrate intorno a tre esempi, dal Medioevo ad oggi.

    Mercoledì 15 febbraio, h 17 - 19
    IL MEDIOEVO DEI FALSI E DEI FALSIFICATORI
    Antonio Brusa, Introduzione al corso
    Marina Gazzini, Il Medioevo dei falsi e le cronologie impossibili
    Discussione
    Conclusioni

    Mercoledì 22 febbraio, h 17 - 19
    CRISTOFORO COLOMBO: TRA INVENZIONI POPOLARI ED EPISTEMOLOGIE INDIGENE
    Antonio Brusa, Il mito di Colombo e i suoi significati
    Discussione
    Conclusioni

    Mercoledì 1 marzo, h 17 - 19
    IL NEGAZIONISMO. ISTRUZIONI DI LAVORO DIDATTICO
    Luigi Cajani, Che cos’è il negazionismo
    Antonio Brusa, Aspetti cognitivi e didattici relativi al negazionismo
    Discussione
    Luigi Cajani, Il negazionismo e le leggi memoriali
    Conclusioni

    I relatori:
    Marina Gazzini è docente associata di Storia medievale all’Università Statale di Milano
    Luigi Cajani ha insegnato Storia moderna e Didattica della storia presso l’Università La Sapienza di Roma
    Antonio Brusa ha insegnato Didattica della storia presso l’Università “Aldo Moro” di Bari

    Di fake news si fa cenno nella nuova legge sull’Educazione Civica. Presentato come un fatto tipico della comunicazione in rete, questo argomento corre il rischio di essere visto e studiato solo dal punto di vista etico/morale, come un’incidente negativo nella vita di un ideale villaggio globale, nel quale tutti dovrebbero comunicare correttamente. Le fake news, invece, sono un fatto storico profondo. Il falso, la comunicazione falsa, la rappresentazione falsa di una realtà non sono una distorsione, ma, come la guerra (fucina da sempre di fake news, basti pensare alla più celebre di tutte, quella del Cavallo di Troia), fanno parte di quel sistema complesso e mobile di relazioni umane, che è la storia.
    Dunque, così come la guerra DEVE far parte del curricolo formativo, dal momento che è parte – purtroppo - costitutiva della vicenda umana, anche di fake news si dovrebbe parlare in classe. Ma come, se vogliamo evitare moralismi o facili dietrologie? Come inserire questo argomento nei curricola in modo non episodico? Questa domanda impone la ricerca di strumenti scientifici e di strategie didattiche capaci di trasformare le fake news in oggetto di analisi e, quindi, di insegnamento.
    Il percorso che proponiamo si chiude col fenomeno del negazionismo che potremmo considerare matriciale di ogni fake news attualmente circolante. È un fenomeno/matrice, perché nella negazione del Genocidio ebraico troviamo molti fattori capaci di “generare” fake news: l’enormità del fatto da negare; l’uso di tecniche storiche per provare la verità della negazione; l’uso di tecniche retoriche per affermare la propria verità e destrutturare le smentite; la creazione di comunità di “credenti” e l’impatto che, in questa, ha la rete (e così via). Passeremo, poi, all’analisi di negazioni/falsificazioni esemplari e dei fenomeni sociali legate a queste, come le mitologie che presiedono alle credenze sulle origini delle nazioni, le falsificazioni legate al proliferare odierno di movimenti identitari e quelle tipiche dei fatti bellici o di fatti socialmente rilevanti, come le epidemie. Le notizie false, infine, hanno sempre uno scopo. E, questo scopo ha spesso risvolti politici. Dunque, le notizie false investono la società anche dal punto di vista del suo governo e della sua tenuta democratica e, perciò, la loro analisi è un fatto doveroso, nella formazione del cittadino.
    Questo studio ci porterà ogni volta a viaggiare tra passato e presente, passando da una disciplina all’altra: dalla storia, all’arte, all’italiano, alle scienze. Un reale argomento di Educazione Civica, declinato in forma disciplinare e non moralistica.

     

    Informazioni/Prenotazioni
    Consigliato per insegnanti della scuola primaria e secondaria di I e II grado
    Seminario di 3 incontri da 2h ciascuno
    Costo: 60 € (è possibile utilizzare il bonus della card docenti)
    Su prenotazione a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – tel. 010 8171642

Questo sito utilizza cookies tecnici e di terze parti per funzionalità quali la condivisione sui social network e/o la visualizzazione di media. Chiudendo questo banner, cliccando in un'area sottostante o accedendo ad un'altra pagina del sito, acconsenti all’uso dei cookie. Se non acconsenti all'utilizzo dei cookie di terze parti, alcune di queste funzionalità potrebbero essere non disponibili.