Autore: Raffaele Guazzone
Indice:
- Lumière e noi
- Né apocalittici e nemmeno integrati
- Aforismi sul cartaceo di contrabbando
- Il digitale si traveste da cartaceo
- Ciò che manca (e che tutti sappiamo)
- Impariamo da Franti?
Raffaele Guazzone ha una solida esperienza nel campo dei libri e dell’editoria. Ma è anche laureato in Lettere e, quando partono i Tfa, sente il richiamo della foresta. Lascia il suo ufficio e si iscrive. Frequenta con un piccolo gruppo di sopravvissuti alle prove di selezione il corso a Pavia, e lì l’ho incontrato. Un corso rapidissimo di didattica, giusto il tempo per conoscersi, poi, agli esami, discutiamo di tecnologie. Il suo tirocinio, infatti, si svolge in un corso Web, dove i libri sono proibiti e si usa solo il tablet. Gli ho chiesto di raccontarci della sua esperienza (A. Brusa)
Lumière e noi
Nel lontano 1895 papà Lumière – un serio uomo d'affari, con la passione per la pittura e la fotografia – osservando Auguste e Louis affaccendati a mettere a punto il loro proiettore, bollò gli sforzi con una frase passata alla storia: “il cinema è un'invenzione senza futuro”.
Se il cinema non ha cambiato il mondo, ha certo cambiato il nostro modo di raccontare; in ogni caso, la citazione dice molto del sospetto della generazione dei padri, messi al confronto con il divario tecnologico che li separa da chi pare già pronto a soppiantarli. Ma cosa succede quando, per cause interne o esterne, i genitori sono costretti a mettersi in gioco con strumenti che non padroneggiano bene quanto i loro figli?
Uso l'espressione giocare perché probabilmente – per me e per i miei coetanei – la prima vittoria contro la superiorità (e l'autorità) paterna prende i connotati di una partita di videogame. Adesso che sono passati più di 25 anni, il mio ruolo non è più quello del figlio che insegna al padre come si usa il computer, ma quello del docente che muove i primi passi in una scuola che scopre molto diversa dal modello che conosceva. Le ragioni del cambiamento hanno la stessa radice comune che separava me e mio papà mentre giocavamo a Tetris sul finire degli anni ottanta. Sul capo degli insegnanti – specie su quello dei superstiti della generazione dei miei genitori, o di quelli delle dimensioni intermedie – pesa una minaccia all'autorità e al ruolo professionale anche maggiore di quella che gravava sugli sfortunati genitori costretti a farsi umiliare davanti allo schermo del pc. Solo che questa volta non si tratta di una rivoluzione nata dal basso (si compra il computer, o la console di videogame, per assecondare desideri e capricci dei figli) ma dall'alto: ci si sottomette alla digitalizzazione dell'istruzione per assecondare le direttive ministeriali.
Né apocalittici e nemmeno integrati
Nonostante l'antifona, non voglio farne una questione generazionale, per quanto sia assolutamente evidente, anche da un punto di vista ristretto come il mio, che le maggiori resistenze all'introduzione delle nuove tecnologie – a volte ai limiti del luddismo –, vengono da insegnanti che dietro un'affezione a un modello consolidato di didattica nascondono una difficoltà nei confronti dell'informatica che si spiega anche con ragioni anagrafiche. Soprattutto, non voglio generalizzare descrivendo una scuola popolata di insegnanti che rimpiangono pennino e calamaio, incapaci di adoperare un mouse, contrapposti a pochi ipertecnologici docenti che fanno miracoli con un click, suscitando l'entusiasmo di schiere di studenti. Nella scuola, come sempre, ci sono pratiche inadeguate che vanno soppiantate da buone prassi, ci sono insegnanti che pongono resistenze e altri che cercano di interpretare il cambiamento, anche quando questo viene imposto dall'esterno.1
Superando la consueta divisione tra apocalittici e integrati, restano però dei tratti comuni a tutti gli attori di questa rivoluzione che – come tutte quelle del nostro paese, ammesso ce ne siano mai state – viene calata in modo artificiale più che rispecchiare in modo organico e graduale gli effettivi mutamenti della società, che pure ci sono, ma vanno ricondotti alla loro reale entità.2
Aforismi sul cartaceo di contrabbando
Scendendo nel dettaglio della mia esperienza di tirocinio, provo a sintetizzare una serie di paradossi nei quali mi sono imbattuto parlando con docenti, dirigenti e studenti. Pareri limitati, riduttivi, personali, al limite del luogo comune, che non vogliono in nessun modo essere una fotografia della scuola ai tempi del digitale, ma che spero facciano sorgere qualche domanda ai miei colleghi. E non solo a loro.
La tecnologia è scomoda. Gli insegnanti devono ancora affinare il loro rapporto con LIM e libri digitali, la cui consultazione effettivamente non è così agevole. Si riducono a circolare con fasci di fotocopie sotto braccio, da sottoporre agli alunni in alternativa al libro adottato. Gli alunni poi lamentano quanto sia faticoso studiare sui tablet, anche se nelle loro parole mi sembra di scorgere più la diffidenza verso la lettura in generale, e l'opinione filtrata delle famiglie. Dubito che il tempo trascorso a fissare lo schermo di un pc, magari chattando o guardando video, susciti le stesse proteste per l'affaticamento agli occhi o la stessa comprensione da parte dei genitori.
La tecnologia costa. Le LIM costano, costano i tablet, che nel caso dell'Istituto dove svolgo il tirocinio sono stati acquistati dalla scuola e ceduti in comodato d'uso agli studenti. Le scuole investono considerevoli somme nella tecnologia, ma non hanno fondi per pagare i supplenti o per delle semplici fotocopie. Che dire poi degli studenti, che per incuria o distrazione, hanno rotto il loro tablet?
La tecnologia non è al passo. I tablet in adozione sono modelli superati, e la copertura wi-fi dell'istituto non è in grado di supportare la connessione alla rete di tutti gli studenti (dei loro tablet, ma anche degli smartphone personali), diventando pressoché inutile. Se decido di fare una lezione prevedendo la necessità – mia e degli alunni – di ricorrere a internet, sono costretto a comunicarlo preventivamente ai tecnici informatici, che fanno il possibile per garantire la copertura. (Questo almeno è ciò che mi ha riferito un docente, che personalmente – pur essendo titolare di una cattedra in una classe web – non ha mai avuto bisogno di internet per spiegare in classe).
La tecnologia è usata male. I tablet, quando non vengono usati per giocare (preoccupazione più degli insegnanti che degli studenti) sono degli scomodi succedanei per i libri di testo, la LIM è per lo più usata come un proiettore per slides di Powerpoint, o come una televisione, per mostrare video e intrattenere la classe quando si fa incontenibile, riprendendo le stesse pratiche della cattiva maestra di cui sopra.
Il digitale si traveste da cartaceo
Siamo cioè di fronte a un mero cambio di supporti, dalla carta al digitale, basato su presupposti economici (il digitale costa meno alle famiglie, pesa meno negli zaini degli studenti) e incapace di sfruttare quello che è il vero potenziale messo a disposizione degli insegnanti.
L'interattività dell'e-book è identica a quella del volume tradizionale, a parte il caso di qualche editore particolarmente avveduto. In genere i libri di testo sono semplici pdf che simulano in toto la fruizione della versione cartacea, compresa l'animazione che riproduce lo sfogliare delle pagine. Gli appunti non si prendono più a margini, ma aprendo una nota; non si evidenzia più con il pennarello ma con un movimento del dito sullo schermo; gesto e procedimento però restano gli stessi, resi solo più macchinosi da una tecnologia non così immediata come si vorrebbe far credere.
La possibilità di produrre contenuti diversi, che non siano il semplice testo scritto, e di condividerli in tempo reale, agevolando così il lavoro di gruppo, non è quasi mai sfruttata ai fini didattici, così come non è sfruttata – anche per gli inconvenienti tecnici di cui sopra – la possibilità di accedere a molte più risorse rispetto a quelle contenute nel libro di testo, che dovrebbe configurarsi sempre più come ipertesto, multimediale e aperto ai contributi dell'insegnante e dell'alunno, agevolando percorsi di fruizione individuali e personalizzati, dove il piacere della scoperta utilizza la guida del docente per affrancarsi dalla direttività del manuale o di un programma rigido, con l'obiettivo – utopico, me ne rendo conto – di superarla.
Ciò che manca (e che tutti sappiamo)
A mio parere, non è semplicemente affidandosi a un nuovo supporto che si cambia la prospettiva dell'insegnamento, ma è nell'apprendere a usarlo come strumento che da un valore aggiunto, che permette di confrontarsi più rapidamente, che forniste stimoli diversi rispetto all'itinerario consueto. Qui, secondo me, che sta la vera natura del cambiamento digitale. È una rivoluzione pari a quella che ci ha fatto passare dal trasporto animale ai veicoli a combustione interna: cambiano la velocità, gli orizzonti del viaggio, ma serve una perizia sempre maggiore nel condurre il nuovo mezzo.
Ci sarebbero ancora molte cose da dire. Ci sarebbe da discutere, ad esempio, il ruolo dell'editoria – non solo di quella scolastica – nel passaggio da libro di carta a e-book; oppure quali siano le nuove competenze necessarie all'insegnante, e quanta parte vi abbia la dimestichezza con le pratiche dei nuovi media o del web 2.0; oppure come ci si debba relazionare con una tecnologia che – per quanto diffusa in modo capillare tra gli alunni – non è di per sé auto-evidente. Che non produce autonomamente nuovi contenuti, ma va stimolata grazie a un indirizzo che solo l'insegnante può dare.
Sono questioni che poste ad ogni professionista dell'insegnamento, senza demandare la soluzione del problema a un fisiologico assestamento del sistema scuola. Anche perché gli studenti, ben più reattivi di noi, dimostrano di saper interpretare lo stimolo con risultati proficui. Dal loro punto di vista, almeno.
Impariamo da Franti?
La condivisione di conoscenze in tempo reale è una pratica che tutti i ragazzi delle nostre classi già sperimentano nella loro quotidianità, sia che si tratti di postare e commentare foto o video su un social network (quanti docenti, dal canto loro, hanno competenze di montaggio audio-video, o di fotoritocco?), che di copiare durante un compito in classe. Devo dire grazie ai miei allievi, che mi hanno messo a parte dei segreti della copiatura ai tempi del web 2.0, conoscenza che mi sono dovuto formalmente impegnare a non usare contro di loro. La gamma degli espedienti è ampia. Si va dalla versione digitale del caro vecchio bigliettino (basta scattare uno screenshot della pagina del libro sul tablet, e inviarlo tramite bluetooth al cellulare) alla vera e propria creazione collettiva del compito in classe: basta uno smartphone connesso a internet, nascosto come da tradizione nell'astuccio, sotto il banco o nello zaino, e l'applicazione di messaggistica istantanea WhatsApp, un programma molto popolare che permette, fra l'altro, di costruire gruppi per conversazioni a più partecipanti. Il primo che arriva alla soluzione del problema, la manda a tutti i compagni, che dibattono brevemente (alla sintesi tipica dell'sms si somma la rapidità indispensabile per non farsi intercettare dall'insegnante) per perfezionare la risposta.
Al di là dell'aspetto deontologico (anche nella scuola di dopodomani sarà considerato poco etico copiare) siamo di fronte alla dimostrazione pratica della possibilità de
lla tecnologia di creare un'intelligenza collettiva il cui prodotto – i compiti dei singoli studenti che integrano alle proprie le risposte della comunità – è superiore alla semplice somma delle parti. Anche se applicata a fin di male, siamo di fronte a una dinamica di gruppo dal potenziale enorme, una competenza preziosissima da affinare in vista dell'ingresso nel mondo del lavoro (in quante aziende all'avanguardia la creatività e il management sono gestiti in questo modo?) a cui gli studenti sono arrivati molto prima dei loro insegnanti. Certamente i ragazzi si comportano in modo selvaggio in questo nuovo territorio. Ma perché non studiamo noi la maniera di mettere a frutto quel che già fanno, in forme tanto competenti quanto istintive e incontrollate, volte solo al raggiungimento di un beneficio immediato?
Ci sono tutti i presupposti per adottare una prospettiva di formazione che sfrutti questo “dialogo delle intelligenze”. Proviamo, perciò, a capire l'uso che i ragazzi fanno della tecnologia; impariamo da loro, per poi riappropriarci del ruolo che ci compete, insegnando a sfruttare le possibilità del mezzo per fini meno disdicevoli e autoreferenziali.
E’ ovvio che la tecnologia non sia né buona né cattiva. È utile o inutile, a seconda del contesto, di quel che le chiediamo e del fine per cui ce ne serviamo. Non risolve i problemi, li semplifica: per riuscirvi serve un po’ di quella competenza che separa studenti e insegnanti. Sento, quindi, come necessaria l’umiltà di dialogare con i ragazzi. Mi sembra indispensabile unire la loro creatività con la nostra professionalità. Serve la voglia di fare esperimenti: forse per questo piace tanto il mito di Steve Jobs. So che se ci limitiamo a imporre di spegnere i cellulari, certi che a scuola ci siano strumenti (oltre che contenuti) legittimi, e altri meno, rischiamo di passare alla storia come papà Lumière, che si vide scivolare il futuro sotto gli occhi.
(In questo momento sto proprio nella fase sperimentale: ma che cosa ne verrà fuori ve lo racconterò dopo gli esami).
Le ultime due immagini sono ricavate da Ai no gakko Cuore monogatari, il manga tratto dall’opera di Edmondo de Amicis. In questo sito lo si trova diviso in sequenze, ideali per il suo uso didattico
http://www.youtube.com/playlist%3Flist%3DPL6DC150892063B224
- Sfogliando il programma del Salone del Libro di Torino, mi imbatto – troppo tardi per organizzare la trasferta! – in un laboratorio dedicato a piattaforme online per i DSA, o in una conferenza dove studenti d'istituto tecnico, docenti e ricercatori raccontano come è possibile riscoprire i Promessi sposi grazie ai social network: http://www.salonelibro.it/programma/domenica-19/details/2884-Storie-di-bravi-filatori-e-monache-e-di-studenti-alle-prese-con-i-social-network-narrativi.html
- Largamente sopravvalutata (dal MIUR in primis) l'idea che i nativi digitali abbiano sviluppato capacità cognitive speciali e più raffinate capacità relazionali o collaborative. Si veda in proposito Laboratorio di storia 2.0, di Patrizia Valoya, in P. Bernardi, F. Monduzzi, Insegnare storia, UTET, 2012, pp. 262-263.